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Autore: Adeia Di Elferas    25/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Paolo Vitelli guardava, immobile sul suo cavallo da guerra, i suoi soldati che costruivano il più in fretta possibile i ponti sul fiume.

L'Arno quel giorno sembrava volerli favorire ed era molto più tranquillo del solito. Se la fortuna li avesse assistiti ancora un po', la sua manovra diversiva avrebbe avuto successo. Era partito con ottocento armigeri, settecento balestrieri e quasi settemila fanti, diretto lì, sulla strada per Buti. Nel frattempo, però, aveva mandato una squilla a Cascina, facendo credere che il suo attacco sarebbe arrivato lì e che, in uno slancio di umanità, proponeva alla città di arrendersi in modo pacifico. Nel caso remoto in cui Cascina si fosse davvero arresa, tanto meglio. Altrimenti, sarebbe bastato come diversivo per distrarre i pisani e i veneziani e permettergli di trovare il modo e il tempo di passare l'Arno.

Il vento caldo di quell'agosto lo stava facendo sudare parecchio, eppure l'uomo teneva la schiena dritta e il viso rivolto al sole, verso i lavori che continuavano febbrili.

Tuttavia, anche se i suoi occhi a mezz'asta parevano del tutto immersi nella contemplazione che ponte che stava sorgendo a pochi metri da lui, la mente del comandante era impantanata in una serie di strane considerazioni.

Da quando il Medici aveva lasciato il campo, qualche giorno addietro, la sua testa si era messa a lavorare ancor più freneticamente dei suoi uomini. Sarebbe stato chiaro a chiunque, nel vederlo, che il Popolano era in fin di vita.

Il Riario aveva fatto di tutto per farli partire prima di sera, ma alla fine avevano addirittura dovuto rimandare di mezza giornata perché il cerusico era sicuro che spostarlo in quel momento sarebbe equivalso a ucciderlo.

Giovanni aveva protestato, ma alla fine, svenuto, era stato zitto fino al giorno dopo e così, il 18 agosto, l'avevano caricato sul carretto più stabile che avevano ed erano partiti, invocando tutti i Santi esistenti affinché permettessero loro di arrivare tutti vivi a Forlì.

Al Vitelli interessava molto poco della vita di quel fiorentino, in realtà. La sua preoccupazione era tutta legata alla politica e alle bizze che sarebbero potuto scaturire dalla morte improvvisa di quel giovane uomo.

Sapeva che la Signoria, per lo meno de facto, era fortemente influenzata da Lorenzo Medici e tutti quanti sapevano quanto questi fosse legato al fratello. Perderlo avrebbe potuto fargli imboccare strade scelte dal dolore più che dal ragionamento.

E in più Giovanni era l'anello di congiunzione con la Romagna. La Tigre di Forlì era instabile e forse perdere il marito avrebbe influenzato anche lei in modo molto pesante e magari addirittura in senso negativo per Firenze.

Insomma, per quanto al Vitelli apparisse impossibile, un solo uomo – conteso tra la moglie e il fratello – avrebbe potuto con la sua morte sbalestrare la bilancia politica d'Italia.

“Mio signore...” il suo attendente lo affianco e chinò appena il capo: “Gli uomini dicono che il ponte sarà pronto prima di sera.”

Paolo fece un respiro profondo e poi, annuendo appena, commentò: “Bene. Che si sazino a dovere, a lavoro finito. Ci attende un assedio molto impegnativo, a Buti.”

“Sì, mio signore.” rispose l'attendente, chiedendosi cosa, a parte l'ansia per l'imminente assedio, stesse rendendo tanto cupo il Vitelli.

 

Ottaviano tirò un sospiro di sollievo, quando vide finalmente all'orizzonte la cinta muraria di Forlì illuminata dal sole impietoso d'agosto. Anche se avesse dovuto affrontare l'ira della madre, almeno era arrivato a casa.

La traversata delle montagne era stata quanto di peggio potesse immaginare. Per riuscire a trasportare Giovanni avevano dovuto allungare parecchio la strada e a un certo punto si erano pure dovuti fermare, perché sembrava che il fiorentino non ce la facesse a continuare.

Era stato proprio il giovane Riario, però, a insistere per riprendere la marcia il prima possibile e, una volta tanto, l'aveva fatto davvero in riguardo al patrigno e al suo desiderio di rivedere la moglie e il figlio.

“Ci siamo quasi.” disse con il Medici, affiancando il carretto con il suo cavallo.

Giovanni era stato sistemato nel miglior modo possibile. Per permettergli di stare coricato, si era scelto un carro abbastanza lungo, seppur più difficile da condurre per certi sentieri, e lo si era imbottito di stracci e paglia, in modo tale che anche sui terreni impervi si potessero ridurre un po' gli scossoni che avrebbero potuto fargli male.

Il Popolano, bagnato di sudore freddo e febbricitante, molto provato dal viaggio, malgrado tutti gli accorgimenti che erano stati presi per lui, aprì appena gli occhi e sussurrò: “Facciamo presto...”

Ottaviano annuì e poi, cavalcando fino alla testa del piccolo drappello chiese al suo attendente di correre avanti e annunciare alla Contessa che erano ormai alle porte.

Mentre vedeva il soldato allontanarsi, sollevando un gran polverone, il giovane iniziò a pensare davvero a come sarebbe stato rivedere sua madre. In fondo, pensava, a lei erano arrivate buone notizie in merito al suo comportamento in battaglia. E poi lo avrebbe visto vestito da armigero, sporco per il viaggio, il viso segnato dalla fatica, i capelli tagliati, come si conveniva a un guerriero... Magari, almeno quella volta, non lo avrebbe fissato con disgusto. Pur nei suoi limiti, Ottaviano stava facendo del suo meglio per avvicinarsi almeno un po' all'ideale di figlio che aveva sua sua madre.

 

Caterina era senza fiato. Le parole di quel soldato le avevano subito fatto accelerare a mille i battiti del cuore.

Lasciò di colpo la spada che stava affilando e corse alle stalle per prendersi un cavallo. Anche se si sentiva ancora debole per la febbre, la frenesia del momento le fece dimenticare ogni fatica e acciacco.

Scelse il suo purosangue e non perse tempo a sellarlo. Cavalcando a pelo, uscì di volata dalla rocca e dalla città per andare incontro al marito.

Vedeva già la colonna di uomini in avvicinamento e poteva riconoscere i due gonfaloni che li distinguevano: il suo stemma da un lato e quello mediceo dall'altro.

Diede un forte colpo ai fianchi del suo cavallo, che, sorpreso, si mise a correre tanto veloce che la Contessa dovette aggrapparsi con tutta la sua tenacia al suo crine per non essere sbalzata via.

Quando finalmente fu abbastanza vicina da cominciare a scorgere qualche volto, riconobbe un paio dei Capitani che aveva mandato come scorta del figlio e – più di ogni altra cosa – notò l'assenza di suo marito.

Anche se, a mente fredda, non si era aspettata di vederlo cavalcare, in quel momento la logica era molto lontana dai suoi ragionamenti e il non scorgerlo in sella le fece credere che fosse morto.

Trattenendosi da qualsiasi reazione, però, i metri che ancora la dividevano da quel drappello le diedero modo di ritrovare un minimo di lucidità e a quel punto, vedendo il carro e qualcuno dai capelli corti che sembrava parlare con qualcuno che vi stava adagiato sopra, Caterina si permise di tornare a respirare.

“Giovanni!” esclamò, quando fu abbastanza vicina: “Giovanni!”

Ottaviano controllò la reazione del Medici che, sentendosi chiamare, non solo aveva spalancato gli occhi, ma aveva addirittura accennato ad alzarsi sui gomiti, salvo poi ricadere pesantemente sulla schiena, vinto dalla propria debolezza.

“Caterina...” sussurrò l'uomo, mentre le labbra carnose si sollevavano in un sorriso.

La Tigre arrivò dai suoi soldati a velocità tanto sostenuta che fece fatica a frenare il purosangue.

Mentre tutti le porgevano i suoi saluti, la donna affiancò il carretto, restando a cavallo, facendo capire a tutti di non fermarsi, in modo da poter far arrivare il fiorentino a casa il prima possibile.

Quando guardò oltre il bordo di legno del carretto, per un istante quasi stentò a riconoscere l'uomo che amava. Il viso era scavato dal dolore e i corti ricci incollati alla fronte e ai lati del viso, la barba vecchia di qualche giorno un po' arruffata, il corpo inerme, celato quasi del tutto da un sottilissimo lenzuolo, che lo faceva apparire più simile a un cadavere che ad altro.

“Giovanni...” sussurrò Caterina, mentre il suo stallone si adeguava al ritmo cadenzato della processione.

Il Medici, il respiro che si faceva più veloce, la guardò e per un istante parve riprendersi del tutto, anche se, quando parlò, dalla sua voce sottile si poteva intuire tutto il suo patimento: “Caterina...”

La donna si sporse un po', fino ad allungare una mano e sfiorargli la fronte. Lo trovò caldo e sudato. Avrebbe voluto soffermarsi di più su di lui, dargli un bacio, dirgli che gli era mancato, ma il suo lato pragmatico, che si accendeva quasi sempre nei momenti di maggiore crisi, la pungolò e la convinse a essere efficiente, piuttosto che sentimentale.

“Avanti!” disse, rivolgendosi ai soldati: “Aumentiamo il ritmo di marcia al massimo! Mio marito ha bisogno di stendersi su un letto! Gli servirà del ghiaccio e...”

Non seppe come concludere la frase, dato che nemmeno lei sapeva davvero come affrontare quella situazione. Aveva allertato il suo medico e, nei giorni infiniti che avevano separato l'annuncio dall'arrivo di Giovanni, aveva richiamato in Forlì altri esperti e cerusici che si dicevano abili nel trattare la gotta e i mali ad essi correlati.

Era convinta che, una volta in città, almeno uno di loro avrebbe saputo gestire quella catastrofe.

Il Medici avrebbe voluto che sua moglie si mettesse accanto a lui sul carretto, che gli parlasse e lo sfiorasse con le sue mani. Il tocco leggero con cui gli aveva accarezzato la fronte gli aveva aperto il cuore e avrebbe voluto di più.

Tuttavia, la conosceva anche troppo bene e si fidava ciecamente di lei. Se aveva tutta quella fretta, di certo aveva in mente qualcosa e lui le si affidava senza alcuna riserva.

 

L'attesa si stava facendo quasi insopportabile. Francesco Gonzaga non sopportava più il caldo, ma non poteva nemmeno spalancare la finestra. Con la fortuna che aveva in quegli ultimi tempi, se si fosse azzardato a fare una cosa del genere, minimo gli sarebbe rimasta la maniglia in mano e avrebbe poi dovuto risarcire personalmente il messo veneziano per quel danno.

Sbuffò e si guardò la punta degli stivali. Poi fissò le pareti affrescate. Restò colpito dalla ricchezza del palazzo in cui l'avevano voluto ricevere e si trovò a pensare che il Doge aveva una longa manu molto più potente di quanto non si potesse credere.

Quando finalmente l'uomo di Venezia si riaffacciò sulla porta e gli fece segno di avvicinarsi, il Marchese si morse l'interno della guancia e, imponendosi di apparire serio e affidabile, fece quel che veniva invitato a fare.

L'uomo di Barbarigo lo fece sedere comodo davanti alla sua scrivania e poi gli si sistemò davanti, fissandolo quasi assorto. Congiunse la punta delle dita e poi sospirò.

Al Gonzaga quell'atteggiamento non piaceva per niente. Il naso lungo dell'intermediario vibrava in modo spiacevole e i suoi occhi tradivano una certa ostilità.

“Il Doge ha risposto alla vostra domanda giusto questa mattina.” disse l'uomo, freddo: “E la sua risposta è: no.”

Francesco sentì la terra mancargli sotto ai piedi. Ormai si era bruciato la condotta con Milano, o, almeno, così temeva. Si era dichiarato molto scontento di come il Duca Sforza stesse gestendo il suo incarico, lamentandosi di molte cose. La realtà era che il Moro gli aveva imposto la cessione di alcune piazzeforti, e il Marchese non voleva piegare il capo a quell'ordine mascherato da amichevole richiesta.

Di contro, anche lo Sforza si era detto scontento di lui e di come aveva mal organizzato i suoi soldati, per non parlare la sua dubbia vicinanza a Guidobaldo da Montefeltro e la sua intromissione negli affari dei della Mirandola.

Insomma, da ambo le parti si sentiva odore di fallimento e così il mantovano aveva cercato riparo tra le gonne del Doge, che, però, a quel che pareva non aveva più alcuna intenzione di accollarselo.

“Bene... Molto bene...” borbottò Francesco, alzandosi quasi a fatica: “Allora dite al Doge... Dite al Doge...”

Il veneziano temeva quasi di vedere il Marchese cadere vittima di un colpo apoplettico proprio davanti ai suoi occhi, tanto che si alzò in fretta e gli porse un braccio per sorreggersi.

Il Gonzaga stava pensando a come avrebbe reagito sua moglie Isabella, nel sentirlo tanto incapace.

Perché era certo che sua moglie avesse spie in ogni dove. Forse perfino quel lussuoso palazzo ne era zeppo. Se la vedeva, a ridere di lui nel suo studiolo, circondata da letterati e giovani cantanti...

Se la vedeva, a ridere di lui, della sua pochezza, della sua palese inettitudine, mentre si consolava tra le braccia di qualcuno molto più bello e capace di lui...

“State bene?” chiese il veneziano, scuotendo appena la spalla del suo ospite.

Con un'espressione un po' assente, Francesco annuì e poi soffiò: “Dite al Doge che per un po' non potrà farmi avere messaggi. Ho deciso di partire in pellegrinaggio... Andrò a Loreto. A Loreto, sì...”

L'altro lo aiutò a uscire dal salone e lo fece poi accompagnare da un servo fino alla porta. Il Marchese di Mantova, a suo avviso, era completamente impazzito e, nello scrivere al Doge, quella sera, non perse occasione di sottolineare come, in quel pellegrinaggio a Loreto, si potesse vedere tutta la disperazione di un uomo ormai al capolinea, un uomo ormai molto diverso dall'eroe di Fornovo su cui tutta l'Italia aveva fantasticato per anni.

 

Portare il Medici nella rocca e tenere lontani i curiosi molesti non fu facile. Caterina si prodigò di persona a provvedere che tutto si facesse in fretta e bene, lasciandosi aiutare solo dalla figlia e da un paio di domestiche.

Per prima cosa, benché volesse stare da sola con il marito, lo fece visitare dai vari dottori che, bene o male, imbastirono una sorta di trattamento e diedero se non altro un immediato sollievo al dolore di Giovanni con impacchi e unguenti – di cui molti arrivavano direttamente dal laboratorio della Tigre – e tante rassicurazioni.

Caterina, subito dopo aver affidato il marito alle cure sapienti di quegli uomini, tornò dai soldati che avevano scortato il Medici fino a lì.

“Raccontatemi tutto...” disse a uno.

Questi, che in realtà era Ottaviano, invece di risponderle la fissò. Spazientita dal silenzio, la donna, che stava guardando altrove, sollevò gli occhi verso di lui e per un momento restò di sasso.

Non aveva riconosciuto suo figlio. Aveva i capelli tagliati, il volto sporco di polvere e, vestito a quel modo, sembrava un altro.

Nel lampo che attraversò gli occhi verdi della madre, il giovane si rese conto della sua improvvisa consapevolezza e ne ebbe paura.

“Vieni con me.” gli disse lei, cominciando a camminare a marce forzate verso la sala delle letture.

Rimasti soli, gli si parò davanti e gli chiese, a denti stretti: “Che accidenti ci fai qui?”

“Messer Medici stava male e...” cominciò Ottaviano, ma la madre sollevò una mano e gli ripeté la domanda, intimandogli di non usare scuse.

“Volevo andarmene dal campo e ho colto l'occasione di farlo.” confessò il Riario, abbassando il capo e preparandosi alla sua sfuriata.

La Tigre, però, non era sorpresa di quella spiegazione e, per quanto furente verso quel figlio che si era di nuovo capace di vanificare in un soffio tutti i suoi sforzi, si concentrò su un altro dettaglio della questione.

“Da quanti giorni sta così?” chiese.

Ottaviano cominciò a fare due calcoli, ma poi, quando si specchiò di nuovo nello sguardo della Contessa, non poté evitare di essere del tutto franco: “Parecchio. Ha cominciato a non star bene fin dal suo arrivo, e dopo la battaglia di Cascina è peggiorato e basta...”

“Ti eri accorto del pericolo che correva?” domandò la donna, piatta.

Il Riario schiuse le labbra e poi, dopo essersi grattato un momento i capelli corti sulla nuca, ammise: “Lo temevo, sì.”

“E perché non me l'hai fatto sapere?” continuò lei.

“Perché...” Ottaviano aveva le mani che tremavano.

Improvvisamente tutta la virilità data dal suo abbigliamento militare e l'apparente maturità comparse sul suo viso sparirono, lasciando il posto al bambino spaventato.

Quasi piagnucolando, il giovane uomo sussurrò: “Io non volevo che mi lasciasse solo, perché avevo paura e allora ho pensato che...”

Prima che finisse il suo discorso, Caterina gli diede un forte schiaffo sulla guancia ruvida di barba scura e gli disse, perentoria: “Se dovesse morire, sappi che ti riterrò responsabile anche di questo.”

Ottaviano scoppiò a piangere e sua madre, disgustata da quella debolezza che il figlio stava di nuovo mettendo in mostra, lo lasciò al suo destino, tornando verso la sua camera.

Mentre aspettavano che i medici facessero il loro lavoro, dopo che la Contessa aveva dato la suddetta breve udienza agli uomini che avevano scortato suo marito fino a Forlì, la Sforza e Bianca erano rimaste nel corridoio, appena fuori dalla stanza.

Di quando in quando, per quanto la Contessa fosse certa che i dottori stessero usando ogni possibile riguardo, si sentiva il Popolano gridare di dolore.

Quando capitava, Caterina guardava preoccupata verso la porta, quasi tentata di entrare e impedire a chicchessia di tormentare ancora suo marito, salvo poi dirsi che doveva stare calma e avere fiducia, Bianca, invece, tratteneva un gemito e abbassava lo sguardo, le mani strette l'una nell'altra, in una posa di apprensione che, la Tigre se ne accorse quasi per caso, ricordava un po' la mimica che era stata propria anche di sua nonna Lucrezia.

“Andrà tutto bene.” disse a un certo punto la Leonessa, più per convincere se stessa, che non per tranquillizzare la figlia.

“Non possiamo saperlo.” ribatté Bianca, con una secchezza che contrastava molto con i suoi occhi lucidi e le sue dita contratte.

Colta dal bisogno improvviso di darsi forza, Caterina le si avvicinò e la strinse a sé in un abbraccio, che colse di sorpresa la ragazza: “Ti prego, almeno tu dimmi che andrà tutto bene...” le sussurrò la madre.

A quel punto Bianca non seppe più mantenere la maschera di forza che aveva cercato di indossare e, cominciando a piangere, le disse: “Andrà tutto bene...”

I dottori uscirono dalla camera di Giovanni dopo qualche ora, assicurando alla Contessa che il marito era abbastanza stabile. Le dissero di raggiungerlo, perché l'uomo chiedeva di lei di continuo e poi le chiesero a chi riferire i dettami per le medicazioni e le cure delle prossime ore.

“Dite tutto a mia figlia.” fece Caterina, senza esitazione: “Mi riferirà tutto lei...”

 

“Adesso che quello sgorbio di Machiavelli è diventato Segretario della Signoria si crede un Dio in Terra!” sbottò Lorenzo Medici, stringendo il morso e il pugno: “Quell'arrogante! Quel...”

“Mio signore, un messaggio.” uno dei servi del palazzo aveva fatto capolino nel salone, senza nemmeno annunciarsi.

Semiramide, che stava sulla poltrona accanto a quella del marito, scrutò per un istante il viso del Popolano e, nel vedere come non avesse nemmeno distolto lo sguardo dal camino spento, decise di prendere di persona la missiva appena arrivata.

Ringraziò il servo e poi, prima di aprirla, si rimise seduta. La chiusura era informale e, appena iniziò a leggere, capì che a scriverla era stato un loro conoscente che si trovava in quei giorni al campo di Pisa.

'Non penso d'esser l'uomo adatto a dirvelo, ma volevo mettervi al corrente, anche s'io credo che già sappiate, che vostro fratello, messer Giovanni – lesse nella mente l'Appiani, stringendo gli occhi sempre di più a ogni parola – s'è trovato in grandi ambasce, dovendo lasciar l'esercito e tornossi in gran carriera a Forlì.'

La lettera proseguiva dicendo che nessuno sapeva che avesse di preciso, anche se qualcuno aveva imputato il suo male al bere e al mangiare smisurato, Paolo Vitelli, prima di partire in missione, aveva annunciato formalmente che il fiorentino aveva dovuto lasciare il campo per via della malattia di famiglia.

“Che dice di così importante?” chiese Lorenzo, guardando di sottecchi la moglie che, nel giro di pochi istanti, pareva aver perso ogni vitalità.

La donna fu indecisa se mediare la notizia o lasciare che il marito l'apprendesse da sé. I suoi occhi corsero di nuovo alla parte in cui il loro conoscente assicurava 'lo cerusico fè il caso pericoloso di morte' e a quel punto uno stretto nodo le chiuse la gola e così, incapace di parlare, non le restò che porgere la lettera a Lorenzo.

Questi, perplesso per la reazione della moglie, afferrò di malagrazia la missiva e poi, dopo nemmeno un minuto, si fece rosso in viso e si alzò d'improvviso, cominciando a gridare improperi e maledizioni, quasi tutte rivolte alla Tigre di Forlì.

Semiramide assistette impotente a quella sceneggiata, così triste e disperata per aver saputo che il suo adorato cognato versava in condizioni tanto gravi da non riuscire nemmeno a provare fastidio per l'irruenza del marito.

“A Forlì! Fino a Forlì!” ululò Lorenzo, strappando la lettera in mille pezzettini: “Quella cagna! Non è riuscita a ucciderlo in guerra e lo vuole ammazzare facendogli attraversare le montagne! Quella strega! Quella...”

Semiramide disconnesse le orecchie dal cervello. Voleva pensare e sentire il marito paragonare la Sforza a una donna di strada non l'avrebbe certo aiutata.

“Forse dovremmo mandargli qualche dottore di Firenze, forse...” cominciò a dire.

Lorenzo, benché in parte assordato dai suoi stessi sproloqui, sentì quella mezza frase e così si tacque di colpo. Si chinò verso la moglie e la guardò in cagnesco per qualche istante.

Alla fine, il viso trasfigurato dalla rabbia, sibilò: “Giovanni ha tradito la mia fiducia e il mio affetto.” respirò un paio di volte, visibilmente in affanno, e poi concluse: “Vuole morire tra le braccia della sua sgualdrina? Non glielo impedirò.”

Semiramide, per la prima volta da tempo immemorabile, non riuscì a sopportare le parole del marito e, non volendoselo più vedere davanti, lo spintonò, scostandolo da sé. Si alzò dalla poltrona e, senza voltarsi indietro, lasciò il salone.

Chiese che la cena le venisse portata in camera, quella sera, e prima di coricarsi, scrisse una lettera a un paio di medici noti di Firenze, promettendo loro una paga degna di tal nome, se fossero subito corsi in Romagna, in aiuto a suo cognato.

 

Dopo un primo momento in cui Caterina si era chinata su di lui, posando le labbra sulle sue e lasciando che dopo tanto tempo finalmente entrambi sentissero di nuovo la viva presenza dell'altro, Giovanni aveva fatto un sospiro e le aveva chiesto: “Puoi portare qui nostro figlio?”

La donna aveva annuito ed era uscita di nuovo per prendere Ludovico. Le pareva che il marito stesse già un po' meglio, decisamente meno dolorante, finalmente in un letto comodo e con tutti i tofi infiammati coperti o di ghiaccio o di unguenti.

Per la febbre gli aveva fatto dare un estratto di salice, e per il momento sembrava funzionare abbastanza bene, anche se la debolezza che l'uomo aveva in corpo era tale da impedirgli praticamente qualsiasi movimento.

Il Medici sorrise, come se tutto fosse risolto, quando vide il figlio. La Sforza glielo mise accanto, stando attenta a metterlo in modo che lui potesse vederlo, ma che non ne fosse infastidito. L'uomo, infatti, era tanto malconcio che pareva che ogni minimo tocco potesse farlo saltare sul posto dal male.

“Com'è cresciuto...” sussurrò il Popolano, guardando verso il figlio, che ricambiava lo sguardo con una faccia concentrata e seria.

“Sì, è cresciuto molto...” convenne Caterina, sedendosi su uno sgabello accanto al letto.

Giovanni deglutì e tossì un momento. La moglie aveva notato che il fiorentino aveva le gambe molto gonfie e che, dopo poche parole, faceva fatica a respirare. La gotta, le era chiaro, doveva avergli causato qualche altro male. Il modo in cui sembrava affamato d'aria era molto diverso dal respiro rapido e superficiale scatenato dal dolore.

I due restarono per un bel po', mentre scendeva la sera, a guardare quasi del tutto in silenzio il piccolo, che aveva quasi cinque mesi, e solo dopo che il bambino si fu addormentato, tornarono a parlare.

“Come sta?” chiese Giovanni, indicando con lo sguardo Ludovico.

“È agitato come sempre. O, almeno, lo è quando sta con le balie. Con Bianca è più tranquillo e con me è sempre com'è adesso.” spiegò la Sforza, che cominciava a sentire di nuovo i suoi dolori febbrili darle la scossa alle ossa.

Malgrado ciò, però, non voleva cedere. Doveva mostrarsi forte e in forma a suo marito e dargli sicurezza. Se avesse saputo che non stava bene, sarebbe stato solo un pensiero in più.

“Gli piace stare con noi.” commentò a voce bassa il Medici, distendendo un po' il collo all'indietro e prendendo un respiro fondo, come se cercasse più aria.

La Tigre si disse d'accordo e subito dopo il fiorentino le chiese notizie degli altri figli. La donna allora gli raccontò dei progressi di Galeazzo, di cui il Popolano si disse molto felice, degli studi di Sforzino e sorvolò sull'isolamento sempre più marcato di Cesare. Decantò le qualità e i progressi di Bianca e poi, con un velo di mestizia, lo mise anche al corrente delle ultime novità su Bernardino che, da quando lo aveva saputo infermo, era diventato intrattabile e, spesso e volentieri, finiva ad attaccar briga con dei bambini della città. Su di lui, Giovanni disse solo che ci voleva pazienza, ma alla moglie non sfuggì una breve smorfia di preoccupazione.

Caterina annuì e fu sul punto di chiedergli se volesse essere lasciato tranquillo, per dormire. Di certo, nel tragitto, doveva essere riuscito a riposare molto poco.

E invece Giovanni l'anticipò: “Leggimi qualcosa.” le disse.

“Non sei stanco?” chiese lei, occhieggiando verso la finestra che lasciava filtrare la luce tersa della luna di quel finale d'agosto.

“No. La tua voce mi è mancata. Mi è mancato tutto di te. Ti prego...” deglutì e tossì di nuovo, con una smorfia di dolore e ribadì: “Leggimi qualcosa.”

A quel punto, sentendolo tanto accorato, la Sforza cedette: “Cosa preferisci?”

“Scegli tu.” la invogliò lui.

La Contessa si alzò, accese qualche candela e poi scelse con cura un tomo che aveva la costa quasi rovinata per le volte che era stato aperto.

Scegliendo una pagina a caso, si coricò accanto al marito, tenendo il figlio tra di loro e, mentre le labbra del marito si distendevano di nuovo in un sorriso, con voce bassa iniziò a leggere: “Quaeris, quot mihi basiationes tuae, Lesbia, sint satis superque? Quam magnus numerus Lybissae harenae,,,”

 

   
 
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