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Autore: Blakie    25/05/2018    4 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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12. Ambush

 

Da quando Pete era morto, Denise aveva iniziato a venire in ambulatorio molto più frequentemente. Nel giro di qualche giorno, si era ritrovata ad essere il nuovo medico di Alexandria e la cosa l’aveva messa piuttosto in agitazione. Ne avevo parlato con Josie, che era un’infermiera professionista, e avevamo convenuto che fosse meglio lasciarle da sole, in modo che Denise potesse sentirsi libera di “ripassare” con Jo senza sentire le pressioni di una terza persona che assisteva – cioè io.

Per questo, quella mattina, mi ritrovai nel garage adibito a scuola assieme a Samantha e ai bambini, a vestire nuovamente i panni di insegnante. Dovermi occupare di quei piccoletti mi dava la possibilità di non pensare a tutto quello che era successo. E a quello che non era successo. Anche se non funzionò molto bene.

«Beth, stai bene?».

La domanda di Sam arrivò a penetrare lo spesso strato di pensieri che mi stava isolando dalla realtà. La sua voce mi risvegliò come da una dormita leggera. Non ero riuscita a capire bene cosa mi avesse chiesto.

«Uhm?».

Lei sembrò divertita dalla mia espressione di smarrimento. «Ti ho chiesto se stai bene. Sono cinque minuti buoni che fissi quel libro, pensavo fossi caduta in uno stato catatonico».

Abbassai lo sguardo sul libricino colorato che tenevo in mano. Cosa stavo facendo?

Mi strinsi nelle spalle. «Beh, il Ragno Itsy Bitsy mi ha appassionata», scherzai, riponendolo nello scaffale davanti al quale mi ero incantata.

Samantha sorrise, guardando i bambini che stavano disegnando le avventure del ragnetto che poco prima avevo cantato assieme a loro. «Ci sono pennarelli e colori anche per te, se vuoi».

Ridacchiai e incrociai le braccia al petto, guardando altrove con leggero imbarazzo. Sentii la sua mano che si posava sulla mia spalla, incontrando poi il suo sguardo preoccupato. «A parte gli scherzi, Beth, sei sicura che vada tutto bene? Ti vedo pensierosa».

Abbozzai un sorriso, grattandomi una tempia. «Se ti dicessi di sì non te la berresti, vero?».

«Non sei molto brava a mentire, ti ho già scoperta. Sei preoccupata per chi è andato alla cava? In tal caso dovresti stare tranquilla, stamattina fanno solo una prova generale», mi ricordò.

Io annuii, cercando di essere convincente. «Sì, lo so. Però sai, tutti quei vaganti… Forse è la mia ansia inconscia che mi sta facendo un brutto scherzo», bluffai.

Samantha stava per rispondermi, quando uno dei bambini richiamò la sua attenzione per farsi aiutare col proprio disegno. Tra me e me, sospirai di sollievo; mi sentii anche leggermente in colpa per essermi chiusa, di fronte alle premure di Sam. Però era tutto così… assurdo, che non me la sentivo di sfogarmi con qualcuno. Per evitare che la mia collega tornasse alla carica, iniziai a mettere a posto i giocattoli che avevano usato i più piccoli prima della canzone, voltandole le spalle. Con le mani impegnati e una finta espressione assorta, potei finalmente permettermi di far viaggiare i pensieri.

Rick aveva indetto quella riunione con massima urgenza, esigendo che ci fossimo tutti. Ricordavo benissimo la sua espressione preoccupata ma irremovibile mentre ci raccontava di questa cava mineraria enorme, a qualche miglio – comunque troppo vicina – dalla città. L’aveva trovata quando, dopo il funerale di Reg, era uscito assieme a Morgan per lasciare il corpo di Pete da qualche parte nei boschi.

Deanna – o meglio, l’ombra di quella che era stata la leader di Alexandria – era caduta dalle nuvole. Non ne sapeva niente, nessuno degli abitanti si era mai accorto di niente, perché non avevano mai avuto nulla da cercare in quella zona. Ero riuscita a leggere l’espressione quasi di biasimo che aveva animato gli occhi di Rick davanti all’ennesima inconsapevolezza di chi era ad Alexandria dall’inizio. Ma non ci sarebbero stati problemi, Rick aveva un piano in mente: allontanarli e portarli a miglia e miglia di distanza dalla città. Lo sceriffo aveva ricevuto un’adesione più o meno unanime dai presenti, con qualche remora da parte di Carter, uno degli abitanti originari di Alexandria. Il piano sarebbe stato elaborato e perfezionato comunque, a discapito degli scettici.

Io avevo tentato di farmi avanti, ma due perle azzurrissime e glaciali avevano bloccato la mia intenzione sul nascere, squadrandomi dall’altra parte del salotto di Deanna. Che razza di faccia tosta, avevo pensato, con rabbia. Avrei voluto incazzarmi e dirgliene di ogni, ma non avrei potuto così, davanti a tutti. Perciò avevo lasciato che la rabbia non logorasse altri che me e me ne ero stata zitta.

Era dal bacio del giorno prima che Daryl non mi aveva più rivolto la parola. Eravamo stati interrotti dal bussare di Maggie, che mi era venuta a cercare per andare al funerale di Reg. Sul momento, mi ero concentrata per fingere che tra me e Daryl non fosse successo niente, mentre aprivo la porta a mia sorella, quindi non avevo avuto modo di dire qualcosa all’arciere. Qualunque cosa.

“Possiamo parlarne più tardi, ti va?”

“Va tutto bene?”

“A cosa pensi?”

Invece non avevo avuto un’altra occasione di parlare con Daryl perché, dopo il funerale, era sparito per tutto il pomeriggio. Si era ripresentato per cena, a casa di Rick e gli altri, ma mi aveva totalmente ignorata. Ed io non avevo potuto fare nulla. Il modo in cui si stava comportando con me, mi faceva sentire come se avessimo fatto qualcosa di male. La sua freddezza mi aveva totalmente paralizzata e non riuscivo a darmi una spiegazione. Non ero riuscita a capire perché il suo atteggiamento, invece di farmi infuriare e tendergli un agguato quando fosse rimasto solo, mi aveva resa totalmente incapace di reagire. Alla fine me ne ero andata con mia sorella e Glenn, dopo cena, senza cercare il minimo contatto con Daryl.

“Magari ha solo bisogno di tempo,” avevo pensato. “Forse domani gli sarà passata.”

Avevo cercato di rimanere positiva, di escludere la possibilità che Daryl fosse caduto nelle sue vecchie abitudini e che stesse cercando di allontanarmi di nuovo. Forse aveva solo bisogno di tempo per accettare quello che aveva provato, accettare che le cose tra noi erano cambiate e che eravamo arrivati ad un bivio.

E invece no. 

La prova generale della missione progettata da Rick aveva offerto a Daryl la scusa perfetta per evitarmi anche il giorno successivo. C’erano state lamiere da radunare, posti di blocco da organizzare, squadre da coordinare e strategie da decidere a tavolino: tutto questo, Daryl l’aveva usato come escamotage per fuggire da discorsi che non voleva fare con me, togliendomi la parola ed il saluto. Ed io non riuscivo a capire. Non volevo fargli chissà quali discorsi, sentirmi promettere amore eterno o altre scemenze simili. Volevo solo che non scappasse così, come il vigliacco che stava dimostrando di essere.

«Stronzo», sputai tra i denti, a voce bassa. L’irritazione scaturita da quei ricordi mi graffiava nel petto e affiorava sulla mia pelle con piccole scosse che quasi mi sembrava di percepire. Quindi, sì, ero preoccupata per la cava, ma, soprattutto, era stata l’indifferenza di Daryl a far calare a picco il mio umore. E a farmi incazzare, dopo il tiro che mi aveva fatto quella mattina…

I miei pensieri vennero interrotti dal grido che udii e che arrivava dalla strada. Scattai in piedi nel silenzio che era calato in garage ed incontrai lo sguardo di terrore di Samantha.

«Maestra, chi ha urlato?», mugugnò Jacob, che era più vicino a me, nascondendosi dietro alla mia gamba.

«Jake, vai vicino alla maestra Sammie», sussurrai, invitando il bambino a raggiungere il gruppetto che si era radunato attorno alla mia collega. Con lentezza, mi avvicinai alla porta laterale del garage, guardando oltre la finestrella in vetro per capire cosa stesse succedendo in strada. Ad un primo sguardo, sembrò tutto tranquillo. Poi, vidi una persona – che non era dei nostri – trascinare per i capelli una delle amiche della signora Neudermayer. Lo stomaco mi si rivoltò, quando quella bestia calò un machete sulla donna, tagliandole la gola.

Mi venne istintivo, con uno scatto, appiattirmi contro il muro e distogliere lo sguardo da quella scena orribile.

«Beth?», domandò Samantha a bassa voce, senza riuscire a nascondere il panico.

Corsi all’attaccapanni per indossare con gesti veloci la cintura alla quale erano appese la fondina con la pistola di Noah e il fodero col coltello. Anche se Rick aveva caldamente consigliato di essere sempre armati, da quando era successo il casino con Pete, non me l’ero sentita di indossare delle armi mentre avevo dei bambini attorno.

«Sono arrivati i mostri?», sentii mugolare Grace, la voce spaventata.

Mi parai davanti ai bambini, parlando piano ma cercando di mantenere un tono controllato. «Ascoltatemi. Adesso faremo il gioco del silenzio, ma difficile: dovete tutti seguire la maestra Sammie e nascondervi con lei nella stanzina della lavanderia. Starete un po’ stretti, ma fate finta di essere amici del ragnetto Itsy Bitsy, okay? Piccolini come lui».

I bambini mi guardarono un po’ incerti, così come Sam. Aveva capito che non sarei andata con loro, ma cercò di mantenere il controllo per non trasmettere panico ai piccoli.

«Forza, bambini», proferì a bassa voce. «Tutti in fila e in silenzio».

Mentre i nostri piccoli allievi si rintanavano uno ad uno dietro la porta del piccolo stanzino adiacente, Sam mi si avvicinò, non riuscendo a celare il terrore e la paura che esprimevano il suo sguardo.

«Beth, vieni anche tu. Ti prego, non posso lasciare che-».

«Sam, ascoltami. Devi chiuderti lì e aspettare che venga a liberarvi io, okay? C’è la nostra gente che sta morendo, là fuori. Hai il coltello con te?».

«Sì, ma tu-».

«Io non posso lasciare che chi ci sta attaccando entri qui dentro e ne esca vivo. Non se poi andrà ad ammazzare qualcun altro dei nostri amici. Vi proteggerò, non puoi fare niente per impedirmelo», sussurrai, con decisione. Provò a dire qualcos’altro, ma non glielo consentii. «Forza, nasconditi adesso e chiuditi dentro. Vai!».

Con riluttanza, mi ascoltò. Mi lanciò un ultimo sguardo tormentato, prima di raggiungere i bambini e far scattare la serratura. Io sospirai di sollievo, contenta che almeno loro fossero al sicuro. Non sapevo come stesse mia sorella, o gli altri della mia famiglia che erano rimasti tra le mura. Non sapevo nemmeno se quello che avevo elaborato fosse un buon piano, ma dovevo provarci.

Mentre mi assicuravo personalmente che la porta fosse ben chiusa, sentii un rumore fortissimo e continuo di clacson squarciare l'aria.

«Merda», sibilai, raggiungendo la porta e facendo scattare nuovamente la serratura per riaprirla. Cosa diavolo stava succedendo? Proprio mentre i più forti di noi erano fuori dalle mura...

Respirai profondamente per non farmi prendere dal panico e mi piazzai al centro della stanza, prendendo la pistola dalla fondina e puntandola contro la porta. Raccolsi tutte le mie forze per non farmi vincere dalla paura anche se, all’improvviso, era diventato veramente difficile respirare regolarmente.

Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto Daryl quella sera in cui gli chiesi se mi avrebbe insegnato ad usare le armi.

«Lo sai che sarai costretta ad uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere umani».

Alla fine, quello che aveva prospettato l’arciere si stava per avverare, come la più inevitabile delle verità. Ma era una verità che dovevo affrontare, se volevo proteggere la mia famiglia. Era arrivato il momento di difendere le persone che amavo, la mia città, anche se farlo avrebbe significato uccidere.

«È meglio se tieni le braccia così». La voce di Daryl tornò dal passato, portandomi alla mente i nostri giorni insieme durante gli allenamenti. Pensarlo alle mie spalle, che mi correggeva e mi consigliava, come se fosse lì con me, mi aiutò a fare un respiro profondo e mantenere la calma. Dovevo fare ciò che andava fatto e ci sarei riuscita.

Devi essere sicura di te. Devi difendere Samantha e i bambini. Devi rimanere in vita, così quando Daryl tornerà –

I miei pensieri vennero bruscamente interrotti quando la porta del garage si spalancò e sulla soglia apparvero un uomo e una donna. Il cuore mi balzò in gola, bloccandomi il respiro. Lui era alto, massiccio e biondo; lei era bassa, tozza e scarmigliata. Il mio cervello ci mise mezzo secondo a registrare e elaborare i loro volti; mezzo secondo dopo, consapevole che fossero miei nemici, aggiustai il tiro, premetti il grilletto e colpii l’uomo in piena fronte.

Crollò a terra, morto. Incredula, abbassai lo sguardo sul cadavere che era scivolato sul pavimento. Ci ero riuscita davvero e mi sembrava impossibile. Nonostante il cuore che mi batteva all’impazzata e l’adrenalina che mi scorreva nelle vene, riuscii ugualmente a leggere la sorpresa e il terrore che si dipinsero sul volto della donna. Il suo viso era sporco e una “W” era incisa sulla sua fronte, notai, puntandola con la pistola e caricando il secondo colpo.

Riuscii a sentirla ringhiare, prima che scappasse e scomparisse dalla mia vista.

«Merda!», esclamai questa volta, scattando nella direzione verso cui era sparita.

Uscita dalla porta, mi guardai intorno, ma non c’era nessuno. La cosa più logica fu pensare che si fosse nascosta dietro al garage o che stesse girando attorno la casa per nascondersi dalla mia vista e guadagnare tempo. Alzai nuovamente le braccia e puntai la pistola davanti a me, iniziando ad avanzare verso destra per andare nel retro del garage. Girai l’angolo col cuore in gola ed il colpo pronto, ma non c’era nessuno. Abbassai la pistola e avanzai nell’erba, cercando di non fare rumore e strisciando contro la parete laterale del garage.

Mi sporsi con la testa oltre l’angolo, ma la via era libera. Non riuscivo a trovarla.

Feci appena in tempo a muovere un passo per tornare indietro, che la donna si avventò su di me con violenza, strappandomi un urlo di sorpresa. Caddi con la schiena sul manto erboso, l’aria che mi sgusciò fuori dai polmoni a causa dell’impatto improvviso col terreno. La prima cosa che mi venne istintiva fare, fu cercare la pistola che, per la sorpresa, avevo lasciato cadere. Non si trovava lontana da noi, ma la donna, che gravava su di me con tutto il suo peso, mi impediva di allungarmi e riappropriarmi della mia arma.

Ero stata presa talmente tanto alla sprovvista che, inizialmente, cercai di concentrare tutte le mie forze per non venire sopraffatta. Non riuscivo a pensare lucidamente ad un modo per renderla inoffensiva e riappropriarmi della pistola. I pensieri andavano troppo veloce, la mia visuale era offuscata e l’unico punto fermo al quale riuscivo a prestare attenzione era la “W”, incisa sulla fronte della sconosciuta come un macabro tatuaggio. Anche quell'uomo ce l'ha... fanno parte di qualche strana setta?

Provai, con difficoltà, a ignorare il panico che mi stava assalendo, scacciando via la sensazione di essere in trappola. Raccolsi tutta le forze che avevo per resistere alla mia nemica, che stava cercando di immobilizzarmi per poter calare su di me il pugnale che aveva sfilato dalla cintura. 

Nonostante fosse una donna di mezza età – forse un po’ più giovane di Carol – la sua stazza le dava molta più forza di quel che mi sarei aspettata. I suoi occhi folli erano piantati nei miei e brillavano, in contrasto con lo sporco della sua faccia. I muscoli delle mie braccia bruciavano per lo sforzo che stavo facendo nel cercare di respingerla, bloccando il polso della mano che stringeva il pugnale con entrambe le mie.  La lama era vicinissima al mio occhio sinistro, se non fossi riuscita a fare qualcosa, per me sarebbe finita. 

Iniziai a dibattere le gambe il più possibile, spingendo col ginocchio sinistro verso di me, per liberarlo dalla morsa delle gambe della donna - a cavalcioni su di me. Era un osso duro, più per il suo peso che per le sue abilità di combattimento. Quando le braccia iniziarono a tremarmi, un senso di urgenza mi strinse lo stomaco ed un nuovo slancio di determinazione mi scosse. 

Affondai le unghie nella pelle della donna, raccogliendo tutte le forze per strattonarle il polso e far scontrare il suo pugno chiuso contro la sua guancia, per distrarla. Nello stesso istante, mi voltai verso destra, dove col braccio libero si stava sostenendo a lato della mia testa. Mi allungai a fatica per morderla, cercando di ignorare quanto fosse sporca la sua pelle. 

Grazie a quella manovra dolorosa, mentre si lasciava sfuggire un ringhio di dolore che ben poco aveva di umano, riuscii a sbilanciarla con uno strattone e trascinarla contro il terreno, a sinistra rispetto il mio corpo. Approfittai del suo sbilanciamento per liberare una gamba e disarcionarla da me, facendola crollare sull'erba. Le mie mani erano ancora strette attorno al suo pugno; ma non avevo calcolato la sua mano libera, che mi assestò uno schiaffo in pieno viso. Nonostante il dolore, che mi disorientò per un secondo, cercai di rimanere lucida per contrastare la forza del suo corpo. Se solo fossi riuscita a sfilare il coltello dal fodero, avrei potuto mettere fine a tutto quello. Era quello, il mio obiettivo finale.

Avevo pensato di ribaltare le posizioni e bloccarla come lei aveva fatto con me, ma con la ferrea resistenza che stava opponendo mi fu impossibile. Troppo impegnata a mantenere la presa sulla sua mano armata, mi ritrovai improvvisamente l'altra stretta attorno il mio collo, come le spire di un serpente. L’improvvisa mancanza d’aria mi lasciò spiazzata e diventò difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua presa che mi stava bloccando la respirazione.

Dovevo afferrare il coltello a tutti i costi, lo sapevo, eppure cominciavo a sentire le forze abbandonarmi. In un ultimo, disperato tentativo, riaffondai le unghie nei suoi polsi il più profondamente possibile, graffiandolo. Mentre lei grugniva dal dolore ed io cercavo di ignorare il mio, con uno slancio disperato e rabbioso, sfilai velocemente il coltello dal fodero. Con un singulto, le affondai la lama nello stomaco, come un pezzo di burro.

I suoi occhi verdi si spalancarono, così come la sua bocca, incatenandomi in uno sguardo incredulo che non avrei mai dimenticato. Senza riuscire a guardare da un’altra parte, cercai di regolarizzare il respiro e impedirmi di svenire mentre la sua mano allentava la presa attorno al mio collo. Anche la mano che stringeva il pugnale iniziò lentamente ad abbassarsi. Presa da un impulso che non avevo mai sentito prima dentro di me, rigirai la lama nella ferita, cercando di andare più a fondo per lacerarle il più possibile le viscere. Ricambiai lo sguardo della selvaggia con orrore, come se quella mano che la stava uccidendo non fosse mia.

Ero terrorizzata da ciò che stavo facendo, ma l’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento e, allo stesso modo, sentivo che non mi sarei fermata per nessuna ragione al mondo. Ero molto più consapevole e lucida di quanto mi sarei mai aspettata, pensandomi in una situazione del genere. Avevo già ucciso altri esseri umani, in verità: avevo spinto O'Donnell nella tromba dell'ascensore e lasciato che Gorman venisse divorato da Joan, al Grady Memorial. Ma accoltellare qualcuno con le mie mani o sparargli in fronte era tutta un'altra cosa.

Mi scostai da lei, togliendole il pugnale di mano e gettandolo alle mie spalle.

 

«Siete g-già tutti... tutti morti», gorgogliò la donna, cogliendomi di sorpresa. La osservai sconvolta, mentre un rivolo di sangue le colava dalle labbra, giù per il mento.

Cosa significa?

 
Seduta sull'erba, disorientata, le voltai le spalle quando capii che non sarei riuscita a guardarla un secondo di più. Raccolsi le ginocchia al petto e mi presi la testa tra le mani, cercando di respirare profondamente. Mi imposi di mettere in ordine i pensieri: va tutto bene, sei viva, hai protetto Samantha e i bambini, se non li avessi uccisi quei due avrebbero fatto del male alle persone a te care, sei capace di difendere le persone. È tutto finito. Potrai rivedere Daryl.

Daryl…

Dopo due giorni interi, mi ero stufata di giocare al gioco del silenzio. O meglio, mi ero stancata di subirlo da Daryl. La sera prima della prova generale, Rick aveva organizzato un incontro tra i vari gruppi per ripassare l’itinerario. La riunione aveva avuto luogo a casa di Deanna ed ero riuscita a partecipare semplicemente perché ero stata a cena da Maggie e Glenn – ottenendo così la scusa perfetta per intrufolarmi. Ero sinceramente curiosa di sapere a che punto erano arrivati, ma ancora di più avevo sperato di riuscire a mettere alle strette Daryl.

Dopo la riunione, molti di noi si erano fermati a scambiare due parole e a fare compagnia a Deanna; l’arciere, invece, si era dileguato immediatamente. Senza dare troppo nell’occhio, avevo deciso di seguirlo; con una certa sorpresa, mi ero resa conto molto presto che non si stava dirigendo verso casa, bensì verso il laghetto.

Quando si era appoggiato alla staccionata sulla riva e si era acceso una sigaretta, mi ero fermata ad osservarlo, restandomene in disparte. Nonostante la rabbia per il suo comportamento, mi era venuto spontaneo chiedermi – con una certa preoccupazione – che cosa gli stesse passando per la testa, tanto era assorto il suo sguardo. Forse voleva semplicemente rimanere solo?

«Vuoi stare lì a fissarmi ancora per molto?».

Quando la sua voce aveva spezzato il silenzio ed il flusso delle mie elucubrazioni, l’imbarazzo per essere stata colta con le mani nella marmellata mi aveva paralizzata per un secondo. Poi, all’istante, era subentrata la rabbia.

«Ti disgusta così tanto parlarmi che, piuttosto, preferisci essere pedinato per tutta Alexandria e fare finta di niente?», avevo ribattuto, con una risata amara e il tono ostile.

L’unica risposta di cui mi aveva degnata, tra una sbuffata di fumo e l’altra, era stato uno schiocco di lingua sprezzante. Mi dava le spalle, ma ero riuscita a immaginare benissimo la sua espressione: ci avevo impiegato un secondo a perdere le staffe. Con qualche ampia falcata, spinta dall’esasperazione dovuta a quei due giorni di silenzio, lo avevo raggiunto, parandomi davanti a lui.

«Si può sapere cosa stai cercando di fare?!».

«I cazzi miei», aveva risposto prontamente Daryl, con tono di ovvietà.

«Sai benissimo che non mi riferisco a questo», avevo insistito, avvicinando il viso al suo per guardarlo negli occhi. Lui aveva spostato lo sguardo altrove.

 «Mi hai seccato, ragazzina», aveva risposto, lapidario, prima di scansarsi e provare ad allontanarsi da me.

In un attimo, avevo allungato la mano per afferrargli la manica della giacca di pelle per trattenerlo e mi ero fatta sotto al suo volto con frustrazione.

«Non puoi ignorarmi per sempre, lo sai?!».

«Ti stai facendo dei viaggi con la testa, tu», aveva borbottato, sprezzante. La cosa peggiore era stata sentirmi davvero una stupida, nonostante fossi consapevole di essere nel giusto. Era stato capace di farmi sentire così, ma nemmeno lui sembrava credere a ciò che stava dicendo.

«Cristo, Daryl, non farmi ridere! Non mi guardi neanche in faccia!».

Si era scostato bruscamente da me, liberandosi il braccio dalla mia mano.

«Non fare la voce grossa con me», mi aveva avvisato, con tono severo. O meglio, quasi... minaccioso. Come quella volta, davanti al capanno. 

Nonostante la mia rabbia, le sue parole avevano avuto effetto; avevo fatto un respiro profondo e cercato di ricompormi, senza però abbandonare il risentimento.

«E tu non prendermi per il culo come stai facendo con te stesso», avevo replicato, abbassando leggermente i toni.

«Come, scusa?».

«Hai sentito bene. Fingi di non avermi baciata – a dirlo ad alta voce, mi ero sentita arrossire – e poi hai preso nuovamente le distanze; non mi rivolgi più la parola, mentre solo due giorni fa sei stato di un premuroso nei miei confronti... Hai fatto una cosa meravigliosa per me. Per aiutarmi. Ti sei preoccupato per me, quando mi hai vista scossa per quello che era successo con Pete. Mentre adesso sembra che, per te, io non sia nessuno. Questo non si chiama prenderci per il culo?».

Daryl era rimasto totalmente muto, di fronte al mio sfogo. I suoi occhi, due specchi cupi e illeggibili, mi avevano scrutato senza tradire alcuna emozione.  Lo avevo capito subito che non aveva nessuna intenzione di parlare, commentare quello che avevo detto.

«Sono stanca, Daryl. Ogni volta mi illudo che abbiamo fatto un passo avanti, ogni volta tu scappi e mi allontani. E perché? Perché è la strada più facile e ti manca il coraggio di parlarne da adulti».

Non aveva aspettato nemmeno che finissi di parlare: si era fatto avanti a muso duro, incenerendomi con lo sguardo a due centimetri di distanza dal mio volto. 

«Ascoltami bene, ragazzina», aveva proferito, in tono basso e roco. Infuriato. «Io non scappo da niente e da nessuno, ficcatelo bene in testa. E non venirmi a dare lezione su come ci si comporta da adulti, quando tu stai facendo tutti questi capricci semplicemente perché non hai tutte le cazzo di attenzioni che vuoi. Questo mondo di merda non gira attorno alla Principessa Greene e alle sue stronzate sentimentali, renditene conto».

Era stato un duro colpo, quello. Mi aveva ferita, tanto; le sue parole taglienti mi avevano fatto più male di uno schiaffo ben assestato e avevo sentito gli occhi farsi subito lucidi. E forse se ne era reso conto anche lui, ma non gli avevo dato modo di dire nulla.

Con lo stesso tono basso e la voce che tremava incontrollata, avevo sibilato, sostenendo il suo sguardo: «io, almeno, non sono terrorizzata da quelle stronzate sentimentali. A differenza tua».

Non credevo che ci sarei mai riuscita, ma dopo quella frase lapidaria gli avevo voltato le spalle e me ne ero andata. Mi ero concessa di piangere solo quando fui sicura che non mi avrebbe visto. Non mi aveva mai fatta sentire così umiliata e denigrata; come se fossi ancora la stupida ragazzina che si era tagliata i polsi alla fattoria. Una seccatura con la quale avere a che fare, che si era costruita enormi aspettative per un semplice bacio, come l’ultima delle ingenue.

Quella notte avevo dormito malissimo, un po’ per la preoccupazione del giorno dopo, un po’ per il litigio con Daryl; nonostante ciò, la mattina dopo mi ero comunque svegliata in tempo per salutare Glenn e gli altri che sarebbero partiti in missione. Ero ancora arrabbiata con l’arciere, tuttavia mi ero ripromessa di soffocare il risentimento e cercare di salutarlo civilmente, una volta incontrato al cancello. La missione che stavano per andare a svolgere, nonostante fosse un collaudo, non era priva di rischi: era bastato questo – senza perdermi troppo in paranoie – a dissuadermi dall’ignorare Daryl. 

Arrivata al cancello, avevo notato subito la sua assenza. Mi ero avvicinata a Rick, teso e concentrato, per chiedergli dove fosse finito Dixon. La sua espressione, a quella domanda, era diventata strana, quasi confusa.

«Daryl è partito stamattina presto. Voleva fare una ricognizione e controllare come sono messi gli autoarticolati che bloccano i vaganti, giù alla cava».

Era stata come una secchiata d’acqua gelida in piena faccia. Se n’era andato senza dirmi niente, semplicemente perché avevamo litigato. Odiavamo gli addii, ma ero sempre andata a salutarlo prima di una missione. Quella mattina avrebbero fatto una prova, ma avrebbero avuto comunque a che fare con una cava mineraria piena zeppa di vaganti. E se qualcosa fosse andato storto e non ci fossimo rivisti mai più? Non ci aveva pensato, a questo?

Il peso che aveva gravato sul petto in quei momenti, si trascinò fuori dai ricordi e mi sorprese lì, mentre ero ancora raggomitolata a terra, riportandomi alla realtà. Non dovevo permettere a quei pensieri di distrarmi, non in un momento del genere: solo perché ero riuscita a… sconfiggere due di loro, non significava certo che il pericolo fosse passato.

Stringendo le labbra, guardai la donna stesa a terra, al mio fianco: i suoi occhi erano chiusi, il suo corpo immobile tra i fili d’erba alti, che si muovevano appena sfiorati dal vento. Era morta.

Respirai profondamente e le affondai il coltello nella tempia, per evitare che si risvegliasse. Leggermente riluttante, pulii la lama dal sangue alla bell’e meglio, utilizzando la maglia che indossava. Mi alzai e cercai la pistola che avevo perso poco prima. La trovai a pochi passi dal cadavere della donna e la raccolsi, fermandomi un attimo ad osservare la “N” che Daryl aveva sapientemente inciso sulla guancetta, seguendone gli intagli nel legno. Sospirai, riponendola nella fondina e ritornai dentro al garage, per assicurarmi che non fosse successo nulla a Samantha e ai bambini; erano ancora tutti stipati nella lavanderia, smarriti e spaventati, ma per lo meno stavano bene.

Dissi a Samantha che sarei andata a cercare mia sorella e le ordinai di bloccare la porta del garage con la libreria, in modo da non far stipare nuovamente i bambini dentro a quello stanzino stretto. Lei non mosse nessuna replica, cercando di mostrarsi forte.

«Io vado. Se dovesse succedere qualcosa, ritornate subito nella lavanderia», mi raccomandai, prima di schizzare fuori dal garage. Con la pistola ben salda tra le mani, mi mossi contro i muri delle varie abitazioni, cercando di non farmi vedere. Le strade erano disseminate di cadaveri di cittadini di Alexandria, orribilmente mutilati o marchiati con quella “W” maledetta sulla fronte. Mentre percorrevo una laterale del vialone principale, girato un angolo mi ritrovai la pistola di Rosita puntata in faccia: la abbassò subito, con un sospiro e notai che alle sue spalle c’era Aaron.

«Beth! Stai bene?», domandò a voce bassa il reclutatore, posandomi una mano sulla spalla. Aspettò che mi avvicinassi, prima di sfiorarmi sotto la guancia sinistra. «Cosa ti è successo? Sei ferita».

Passai una mano sulla guancia interessata e trovai del sangue tra le dita. La donna doveva avermi ferito di striscio, quando l’avevo trascinata a terra; dopotutto, la lama era stata vicinissima al mio viso. Ero stata fortunata a non farmi di peggio. «Nulla di importante, sono stata presa di striscio quando mi sono azzuffata con una di loro. Ero a scuola con Samantha quand’è successo, le ho detto di chiudersi dentro coi bambini e dobbiamo recuperarli al più presto. Avete visto Maggie?».

«L’ho vista andare da Deanna, questa mattina, ma con questo caos dubito che siano rimaste lì», intervenne Rosita.

«Potrei provare a vedere», dissi, muovendo un passo.

«Dobbiamo stare uniti, adesso. Tua sorella sa cavarsela, ci verremo incontro a vicenda», replicò la ragazza, sfiorandomi un braccio per invitarmi a restare.

«Tutti i selvaggi che abbiamo visto hanno asce o coltelli, sicuramente tutti gli spari che si sono sentiti sono della nostra gente», sottolineò Aaron. «Sono sicuro che la maggior parte delle persone che sono entrate sono già state fermate».

Annuii, riluttante. «Allora andiamo a fermare quelle rimaste».

Continuammo ad avanzare in quella fila di case, uccidendo altre quattro persone, fino alla via principale. Lì, infatti, avvenne proprio quello che aveva prospettato Rosita: trovammo mia sorella intenta a neutralizzare uno di quelli, che stava facendo a pezzi uno dei nostri; o meglio, che stava facendo a pezzi il suo cadavere.

«Maggie!», la chiamai, correndole incontro.

Lei si voltò verso di me, afflosciando le spalle. «Beth! Stai bene», esclamò, piena di sollievo. Intercettai il suo sguardo quando anche lei notò il taglio sotto l’occhio sinistro. «Che hai-».

Alzai gli occhi al cielo con un mezzo sorriso. «Sono stata affettata di striscio, non è niente», la interruppi, sbrigativa. «Hai visto qualcun altro di noi?».

«Carol, mi ha dato questa», rispose, mostrandomi la pistola, «e poi c’è Spencer fuori dalle mura, a proteggere Deanna».

«Noi prima abbiamo portato Holly in infermeria, è stata ferita gravemente. L’abbiamo lasciata con Denise e Josie; ci sono anche Tara e Eugene», ci fece il resoconto Aaron, incupendosi.

«Penso che la maggior parte di loro siano morti, di sicuro la situazione è più tranquilla di prima», valutò Maggie, guardandosi intorno.

Mi rivolsi a lei, posandole una mano sul braccio. «Volevo solo assicurarmi che stessi bene. Devo tornare a scuola da Samantha: le ho detto di nascondersi con i bambini e aspettarmi. Quando avete finito con la ricognizione venite ad avvisarci».

«Ci sono da recuperare anche Deanna e Spencer, trovare Carol e gli altri. Inoltre, dobbiamo impedire a chi non è stato colpito alla testa di risvegliarsi», elencò Maggie, cercando di ordinare i pensieri in tutto quel caos. Le strade della città erano un disastro e, sinceramente, in quel momento non volevo pensare a quanti di noi avessero perso la vita.

Tornai alla scuola assieme ad Aaron, che aveva insistito per accompagnarmi. Ci muovemmo con cautela per i viali, ma la situazione sembrava davvero essere tornata alla normalità, se si ignoravano i corpi e le pozze di sangue sparse in alcuni punti dell’asfalto. Avevamo quasi raggiunto il garage, quando percepii Aaron bloccarsi dietro di me, chinarsi su un corpo e raccogliere qualcosa. Vidi il suo volto sbiancare nel giro di un attimo. Si accasciò contro gli scalini della casa che aveva di fronte, uno zaino stretto tra le mani.

«Aaron!», esclamai, allarmata, avvicinandomi a lui.

Non mi rispose, scavando nello zaino e pescando qualcosa che aveva una forma quadrata. Erano… fotografie? Fotografie di Alexandria, mi resi conto, quando iniziò a guardarne una dopo l’altra.

«Cosa ci fanno queste, qui?», domandai confusa, guardandolo.

Aaron inspirò a vuoto. «L’ho perso io, questo zaino», mormorò, fissando la foto della recinzione che stringeva nella mano tremante. Poi si voltò e puntò gli occhi pieni di tormento nei miei. «Sono arrivati qui per colpa mia».

***

Il reclutatore ripeté lo stesso, qualche ora dopo, davanti ad altri abitanti di Alexandria, come in una confessione di pubblica piazza. Lo disse anche davanti a Michonne e a Rick, che era tornato di corsa con un’enorme orda di vaganti alle spalle. Ci raccontò che, per un imprevisto, avevano dovuto mettere subito in pratica il piano, senza prove generali. Altro imprevisto, il clacson – che scoprii poi essere quello di un camion che gli invasori avevano fatto schiantare vicino alla torre di vedetta, fuori dalle mura – aveva attirato metà della mandria della cava verso Alexandria. Rick aveva perso i contatti con Glenn e Nicholas, pur rassicurandoci che mio cognato sarebbe tornato; Michonne disse a Maggie che, nel caso, Glenn le avrebbe mandato un segnale quando possibile. Rick riprese la parola, aggiungendo che la squadra composta da Daryl, Abraham e Sasha era munita di mezzi e che sarebbero riusciti ad allontanare buona parte dell’orda che non era uscita dal tracciato.

A sentire parlare di Daryl, mi si rivoltarono le viscere dall’angoscia. Erano solo in tre a condurre una mandria di vaganti e chi lo sapeva quando sarebbero riusciti a tornare? Scacciai quel pensiero, voltandomi verso mia sorella: la sua espressione era il perfetto riflesso della mia. Per lo meno, Daryl era con persone affidabili, a differenza di Glenn che era sparito assieme a Nicholas. Poi, scorsi con lo sguardo, uno dopo l’altro, tutti i volti che mi circondavano: erano emaciati, sfiniti. L’attacco di quegli stranieri era durato un’oretta, quella mattina, eppure ci era voluta buona parte del pomeriggio per raccogliere tutti i cadaveri, pulire le strade, andare di casa in casa per cercare i sopravvissuti.

Per fortuna, non era successo nulla né a Samantha, né ai bambini; purtroppo, però, tre di loro avevano perso chi il padre, chi la madre. Nemmeno Holly ce l’aveva fatta e Scott – che aveva partecipato al piano, in squadra con Michonne – non si era ancora svegliato, a causa di una ferita alla gamba che si era procurato e che si era infettata. Senza contare altre vittime, trovate durante la ricognizione. Nonostante le perdite, però, eravamo comunque riusciti a difendere Alexandria, proteggendo più vite possibili.

Volevo solo andare a casa farmi una doccia e stendermi, dopo una giornata del genere. Proposi a mia sorella di andare da lei per farle compagnia – nessuna di noi aveva bisogno di stare da sola; lei mi disse di andare pure a casa sua e che sarebbe tornata per cena. Di fronte al mio sguardo perplesso, mi disse che doveva andare da Deanna per finire di parlare di alcuni progetti sui raccolti. Mi sembrò strano, ma non indagai ulteriormente: forse, pensai, voleva semplicemente distrarsi dal pensiero di avere Glenn là fuori, disperso chissà dove.

Maggie tornò poco dopo il tramonto, con la faccia sconvolta e i vestiti sudici; i pantaloni erano intrisi di melma, che formava delle incrostature sui suoi scarponi. Dopo essermi fatta la doccia, mi ero messa sul divano a leggere qualcosa, per cercare di non pensare a Daryl. Mi alzai da lì con uno scatto e le corsi incontro.

Le posai le mani sulle spalle. «Gesù! Cosa ti è successo?», esclamai, guardandola da capo a piedi con gli occhi fuori dalle orbite.

Lei mi rivolse un mezzo sorriso stanco; notai che aveva gli occhi arrossati. «Mi sono comportata da sorella irresponsabile». Il suo sorriso ironico svanì dalle labbra e gli occhi le si riempirono di lacrime. «…E da madre irresponsabile».  

A quelle parole sussultai, il cuore che iniziò a battermi furiosamente nel petto. Ho capito bene? «Maggie…».

Affondò il volto nelle mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo dopo l’altro. Doveva essere stata una giornata particolarmente dura, per lei. Senza che potessi farci niente e cercando di arginare l’entusiasmo dovuto a quella che, ormai, era la realtà, un sorriso intenerito mi incurvò le labbra.

«Vai a farti una doccia, ne parliamo dopo», la invitai, circondandole le spalle con un braccio e accompagnandola davanti alla porta del bagno. Maggie si asciugò le lacrime, strofinando gli occhi contro il braccio. Sparì per una buona mezz’ora e, quando tornò, fu palese che fosse più lucida, pulita e rilassata. Incrociai le gambe sul divano e la invitai a raggiungermi, tamburellando le dita sul cuscino e sorridendole.

Accennò un sorriso e mi raggiunse, sedendosi al mio fianco e appoggiando il braccio sinistro sullo schienale del divano, rivolta verso di me.

«Quindi, cosa stavi dicendo poco fa?», le chiesi impaziente, sorridendo sorniona.

Per quanto fosse in pena per tutta quella situazione, i suoi occhi non poterono fare a meno che accendersi di emozione. «Vuoi la conferma ufficiale?», domandò sorridendo, alzando gli occhi al cielo.

«Assolutamente sì!».

«Beth Greene, presto sarai zia. Contenta?».

In tutta risposta, mi sbilanciai verso di lei, stritolandola in un abbraccio. «No, super-contenta! Oddio, non ci credo. Ma ne sei sicura? Da quanto lo sai? Perché non me lo hai detto prima?».

Maggie, ridendo, cercò di dileguarsi dalle mie spire. «Vuoi soffocarmi, per caso? Lo sappiamo relativamente da poco. Non so perché ci ho messo tanto a dirtelo», disse, in tono di scuse. «Volevo che fosse una bella sorpresa per tutti, ma ultimamente sono capitati solo casini e ho preferito aspettare un momento più tranquillo. È per questo che Glenn non ha voluto che andassi con lui, sai?». Dalla gioia iniziale, la sua voce si abbassò gradualmente, così come il suo umore. Ed il mio. «Dove sei stata, prima?», domandai, seria.

«Ho provato ad uscire dalle mura per andare a cercare Glenn. Aaron mi ha intercettata nell’armeria e ha insistito per venire con me. Mi ha detto che conosceva una via alternativa per uscire, senza calarmi dalle mura. Siamo passati per le fogne, ma quando siamo arrivati all’imboccatura del sistema fognario, ho capito che saremmo stati in pericolo comunque. Dovevo capirlo già lì sotto, quando ho rischiato di essere morsa da un vagante che era più fango che carne», concluse, arrabbiata con se stessa.

«Non essere così dura con te stessa, è andata bene», replicai, posandole una mano sulla spalla.

«Sì, ma non avrei dovuto farlo. Così come non avrei dovuto lasciare andare Glenn da solo».

«Maggie, sono certa che Glenn stia bene. Sa quello che fa; se non ti ha ancora mandato un segnale, è perché non gli è stato possibile. Ma succederà presto. Io sono contenta che tu sia rimasta qui, avete fatto la scelta giusta».

Lei mi osservò in silenzio per qualche istante, forse cercando di convincersi a credere a quello che le avevo detto. Il suo sguardo era tormentato, lontano dal mio, ma forse aveva iniziato a capire che, alla fine, potevo aver ragione. Fece un respiro profondo, poi aggiunse, guardandomi con aria colpevole: «Sai, ho dovuto dire ad Aaron perché volevo fermarmi. Quindi, tecnicamente, lo ha saputo prima lui di te. Mi dispiace, Beth. Sono una sorella pessima».

Sminuii la faccenda con un gesto della mano. «Non dire sciocchezze, dopo quello che hai passato è un miracolo che tu sia riuscita a tornare indietro per dirmelo».

Si voltò verso di me, con un’espressione finto-scandalizzata. «Devi proprio rincarare la dose?!», esclamò, dandomi un leggero colpo sul braccio.

Mi scappò da ridere e, per un solo istante, mi sembrò di essere nuovamente a casa, nella fattoria in Georgia, a stuzzicarci come due sorelle normali. Poi pensai a nostro padre e a quanto sarebbe stato felice nel sapere che sarebbe diventato nonno. Una parte delle speranze che avevo confessato all’arciere sotto a quel portico in mezzo al bosco, era diventata realtà. Avrei voluto condividere quella gioia con papà; e con Daryl.

Stavo per parlare di papà a Maggie, quando lei mi anticipò. «Sei preoccupata perché nemmeno Daryl è tornato?».

Mia sorella mi scrutava, in pensiero e mi domandai che faccia cupa doveva essermi venuta e come diavolo ha fatto a capire che stavo pensando proprio a lui?

«Più che altro, incazzata», replicai, stringendomi nelle spalle e sorridendo senza allegria. «È partito prima per evitarmi, perché ieri sera abbiamo avuto una… discussione. Ma lui è fatto così, quindi non ha nemmeno senso parlarne», tagliai corto.

Maggie aggrottò le sopracciglia. «Avete litigato? Come mai?».

Nello stesso istante, capii di aver detto troppo e mi maledissi mentalmente. Sentii le guance andarmi in fiamme e presi a torturare l’orlo dei jeans, poggiando il mento sulle ginocchia piegate. «Niente di grave, davvero. Spero solo che torni presto, così potrò presentargli il conto per essere sparito senza dire nulla».

Mia sorella, dopo qualche attimo di silenzio, si sporse verso di me per darmi una carezza sulla testa. Alzai lo sguardo nel suo e vidi sul suo volto un’espressione intenerita. «Siete proprio carini voi due, lo sai? Comunque stai tranquilla, Bethy. Daryl tornerà sicuramente e potrai fargli tutte le ramanzine che vuoi. Anche se, a quel punto, credo che quasi quasi rimpiangerà l’orda di vaganti».

Ignorai l’imbarazzo per il suo commento affettuoso e scoppiai a ridere. «Non sai quanto hai ragione!».

Maggie si diede una pacca sulle gambe con entrambe le mani e si alzò in piedi. Mi allungò una mano per invitarmi a prenderla con la mia. «Mentre tornavo indietro, ho notato che qualcuno ha aggiunto i nomi di Glenn e Nicholas al memoriale. Li voglio cancellare, mi aiuti?».

Nonostante quello che mi aveva appena detto, mia sorella aveva un sorriso che le piegava le labbra fini. E una nuova determinazione nel suo sguardo che, irrimediabilmente, contagiò anche me. Mi alzai in piedi e le sorrisi a mia volta, prendendole la mano.

«Assolutamente».

 

 

 

Note autrice.

Questo capitolo è stato dannatamente impegnativo da scrivere. Non solo perché è lunghissimo (perdonatemi), ma anche perché sapevo dall’inizio cosa sarebbe dovuto succedere, eppure è stato ugualmente difficoltoso metterlo nero su bianco. Intanto ho avuto un mezzo blocco dello scrittore (=leggasi, TWD mi ha talmente deluso nell’ultima stagione che ci è andata di mezzo pure la stesura di questa ff); e poi, mi sono bloccata quando è stato il momento di scrivere la scena di lotta tra Beth e la tizia dei Wolves. L’ho scritta e riscritta, non sono del tutto soddisfatta del risultato, ma sono contenta di essermela lasciata alle spalle e ad essere arrivata alla fine del capitolo ahahah!

Anche questa volta sono stata in dubbio sul tagliare il capitolo/lasciarlo così, ma ho preferito “togliermi il pensiero” subito; anche perché questa parte della sesta stagione non è il massimo. Ho deciso di adottare il metodo “flashback” delle scritte in corsivo, per richiamare gli spezzoni della prima puntata in bianco e nero, che alternano scene passate alle scene presenti. Ho usato questo escamotage per riuscire ad inserire anche Daryl e quello che è successo dopo il bacio dello scorso capitolo. Mi dispiace se non c’è stato molto Daryl in questo, ma vi assicuro che nel prossimo capitolo sarà moooooolto più presente! E c’è in particolare una scena super fluffy che muoio dalla voglia di farvi leggere, quindi portate pazienza :P

Spero che l’aver cambiato il carattere semplifichi la lettura – mi ero stufata del Tahoma, viva il Segoe! :P – e che la nuova impaginazione del titolo vi piaccia! E ovviamente spero che vi sia piaciuto anche il capitolo, nonostante la lunghezza e la scena di combattimento pessima. Brrr.

Ringrazio psichedelia95, Heihei e vannagio che hanno commentato lo scorso capitolo; e, come sempre, chi legge, aggiunge ai preferiti/seguiti/da ricordare questa storia. Significa molto per me <3

Anche per questo giro, è tutto. Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie



EDIT: come al solito devo avere qualche problema col carattere e la formattazione, giustamente >:| mi ha cambiato il carattere e l'ha rimpicciolito, spero si legga bene comunque! *sigh*
EDIT#2: il ragnetto a cui si fa riferimento a inizio capitolo è Itsy Bitsy, protagonista di una filastrocca molto popolare nei paesi anglofoni. Sarò scema ma mi fa una tenerezza unica ahaha https://www.youtube.com/watch?v=w_lCi8U49mY

   
 
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