12.
Ambush
Da
quando Pete era morto, Denise aveva
iniziato a venire in ambulatorio molto più frequentemente.
Nel giro di qualche
giorno, si era ritrovata ad essere il nuovo medico di Alexandria e la
cosa l’aveva
messa piuttosto in agitazione. Ne avevo parlato con Josie, che era
un’infermiera professionista, e avevamo convenuto che fosse
meglio lasciarle da
sole, in modo che Denise potesse sentirsi libera di
“ripassare” con Jo senza
sentire le pressioni di una terza persona che assisteva –
cioè io.
Per
questo, quella mattina, mi ritrovai
nel garage adibito a scuola assieme a Samantha e ai bambini, a vestire
nuovamente i panni di insegnante. Dovermi occupare di quei piccoletti
mi dava
la possibilità di non pensare a tutto quello che era
successo. E a quello che non
era successo. Anche se non funzionò molto bene.
«Beth,
stai bene?».
La
domanda di Sam arrivò a penetrare lo spesso strato
di pensieri che mi stava isolando dalla realtà. La sua voce
mi risvegliò come
da una dormita leggera. Non ero riuscita a capire bene cosa mi avesse
chiesto.
«Uhm?».
Lei
sembrò divertita dalla mia espressione di
smarrimento. «Ti ho chiesto se stai bene. Sono cinque minuti
buoni che fissi
quel libro, pensavo fossi caduta in uno stato catatonico».
Abbassai
lo sguardo sul libricino colorato che tenevo
in mano. Cosa stavo facendo?
Mi
strinsi nelle spalle. «Beh, il Ragno Itsy Bitsy mi
ha appassionata», scherzai, riponendolo nello scaffale
davanti al quale mi ero
incantata.
Samantha
sorrise, guardando i bambini che stavano
disegnando le avventure del ragnetto che poco prima avevo cantato
assieme a
loro. «Ci sono pennarelli e colori anche per te, se
vuoi».
Ridacchiai
e incrociai le braccia al petto, guardando
altrove con leggero imbarazzo. Sentii la sua mano che si posava sulla
mia
spalla, incontrando poi il suo sguardo preoccupato. «A parte
gli scherzi, Beth,
sei sicura che vada tutto bene? Ti vedo pensierosa».
Abbozzai
un sorriso, grattandomi una tempia. «Se ti
dicessi di sì non te la berresti, vero?».
«Non
sei molto brava a mentire, ti ho già scoperta.
Sei preoccupata per chi è andato alla cava? In tal caso
dovresti stare
tranquilla, stamattina fanno solo una prova generale», mi
ricordò.
Io
annuii, cercando di essere convincente. «Sì, lo
so.
Però sai, tutti quei vaganti… Forse è
la mia ansia inconscia che mi sta facendo
un brutto scherzo», bluffai.
Samantha
stava per rispondermi, quando uno dei bambini
richiamò la sua attenzione per farsi aiutare col proprio
disegno. Tra me e me,
sospirai di sollievo; mi sentii anche leggermente in colpa per essermi
chiusa,
di fronte alle premure di Sam. Però era tutto
così… assurdo, che non me la
sentivo di sfogarmi con qualcuno. Per evitare che la mia collega
tornasse alla
carica, iniziai a mettere a posto i giocattoli che avevano usato i
più piccoli
prima della canzone, voltandole le spalle. Con le mani impegnati e una
finta
espressione assorta, potei finalmente permettermi di far viaggiare i
pensieri.
Rick
aveva indetto quella riunione
con massima urgenza, esigendo che ci fossimo tutti. Ricordavo benissimo
la sua
espressione preoccupata ma irremovibile mentre ci raccontava di questa
cava
mineraria enorme, a qualche miglio – comunque troppo vicina
– dalla città.
L’aveva trovata quando, dopo il funerale di Reg, era uscito
assieme a Morgan
per lasciare il corpo di Pete da qualche parte nei boschi.
Deanna
– o meglio, l’ombra di quella
che era stata la leader di Alexandria – era caduta dalle
nuvole. Non ne sapeva niente,
nessuno degli abitanti si era mai accorto di niente, perché
non avevano mai
avuto nulla da cercare in quella zona. Ero riuscita a leggere
l’espressione
quasi di biasimo che aveva animato gli occhi di Rick davanti
all’ennesima
inconsapevolezza di chi era ad Alexandria dall’inizio. Ma non
ci sarebbero
stati problemi, Rick aveva un piano in mente: allontanarli e portarli a
miglia
e miglia di distanza dalla città. Lo sceriffo aveva ricevuto
un’adesione più o
meno unanime dai presenti, con qualche remora da parte di Carter, uno
degli
abitanti originari di Alexandria. Il piano sarebbe stato elaborato e
perfezionato comunque, a discapito degli scettici.
Io
avevo tentato di farmi avanti, ma
due perle azzurrissime e glaciali avevano bloccato la mia intenzione
sul
nascere, squadrandomi dall’altra parte del salotto di Deanna.
Che
razza di faccia tosta, avevo
pensato, con rabbia. Avrei voluto incazzarmi e dirgliene di ogni, ma
non avrei
potuto così, davanti a tutti. Perciò avevo
lasciato che la rabbia non logorasse
altri che me e me ne ero stata zitta.
Era
dal bacio del giorno prima che
Daryl non mi aveva più rivolto la parola. Eravamo stati
interrotti dal bussare
di Maggie, che mi era venuta a cercare per andare al funerale di Reg.
Sul
momento, mi ero concentrata per fingere che tra me e Daryl non fosse
successo
niente, mentre aprivo la porta a mia sorella, quindi non avevo avuto
modo di
dire qualcosa all’arciere. Qualunque cosa.
“Possiamo
parlarne più tardi, ti
va?”
“Va
tutto bene?”
“A
cosa pensi?”
Invece
non avevo avuto un’altra
occasione di parlare con Daryl perché, dopo il funerale, era
sparito per tutto
il pomeriggio. Si era ripresentato per cena, a casa di Rick e gli
altri, ma mi
aveva totalmente ignorata. Ed io non avevo potuto fare nulla. Il modo
in cui si
stava comportando con me, mi faceva sentire come se avessimo fatto
qualcosa di
male. La sua freddezza mi aveva totalmente paralizzata e non riuscivo a
darmi
una spiegazione. Non ero riuscita a capire perché il suo
atteggiamento, invece
di farmi infuriare e tendergli un agguato quando fosse rimasto solo, mi
aveva
resa totalmente incapace di reagire. Alla fine me ne ero andata con mia
sorella
e Glenn, dopo cena, senza cercare il minimo contatto con Daryl.
“Magari
ha solo bisogno di tempo,”
avevo pensato. “Forse domani gli sarà
passata.”
Avevo
cercato di rimanere positiva,
di escludere la possibilità che Daryl fosse caduto nelle sue
vecchie abitudini
e che stesse cercando di allontanarmi di nuovo. Forse aveva solo
bisogno di
tempo per accettare quello che aveva provato, accettare che le cose tra
noi
erano cambiate e che eravamo arrivati ad un bivio.
E
invece no.
La
prova generale della missione
progettata da Rick aveva offerto a Daryl la scusa perfetta per evitarmi
anche
il giorno successivo. C’erano state lamiere da radunare,
posti di blocco da
organizzare, squadre da coordinare e strategie da decidere a tavolino:
tutto
questo, Daryl l’aveva usato come escamotage per fuggire da
discorsi che non
voleva fare con me, togliendomi la parola ed il saluto. Ed io non
riuscivo a
capire. Non volevo fargli chissà quali discorsi, sentirmi
promettere amore
eterno o altre scemenze simili. Volevo solo che non scappasse
così, come il
vigliacco che stava dimostrando di essere.
«Stronzo»,
sputai tra i denti, a voce bassa.
L’irritazione scaturita da quei ricordi mi graffiava nel
petto e affiorava
sulla mia pelle con piccole scosse che quasi mi sembrava di percepire.
Quindi,
sì, ero preoccupata per la cava, ma, soprattutto, era stata
l’indifferenza di
Daryl a far calare a picco il mio umore. E a farmi incazzare, dopo il
tiro che
mi aveva fatto quella mattina…
I
miei pensieri vennero interrotti dal
grido che udii e che arrivava dalla strada. Scattai in piedi nel
silenzio che
era calato in garage ed incontrai lo sguardo di terrore di Samantha.
«Maestra,
chi ha urlato?», mugugnò Jacob, che era
più
vicino a me, nascondendosi dietro alla mia gamba.
«Jake,
vai vicino alla maestra Sammie», sussurrai,
invitando il bambino a raggiungere il gruppetto che si era radunato
attorno alla
mia collega. Con lentezza, mi avvicinai alla porta laterale del garage,
guardando oltre la finestrella in vetro per capire cosa stesse
succedendo in
strada. Ad un primo sguardo, sembrò tutto tranquillo. Poi,
vidi una persona –
che non era dei nostri – trascinare per i capelli una delle
amiche della
signora Neudermayer. Lo stomaco mi si rivoltò, quando quella
bestia calò un
machete sulla donna, tagliandole la gola.
Mi
venne istintivo, con uno scatto, appiattirmi contro
il muro e distogliere lo sguardo da quella scena orribile.
«Beth?»,
domandò Samantha a bassa voce, senza riuscire
a nascondere il panico.
Corsi
all’attaccapanni per indossare con gesti veloci
la cintura alla quale erano appese la fondina con la pistola di Noah e
il
fodero col coltello. Anche se Rick aveva caldamente consigliato di
essere
sempre armati, da quando era successo il casino con Pete, non me
l’ero sentita
di indossare delle armi mentre avevo dei bambini attorno.
«Sono
arrivati i mostri?», sentii mugolare Grace, la
voce spaventata.
Mi
parai davanti ai bambini, parlando
piano ma cercando di mantenere un tono controllato. «Ascoltatemi.
Adesso faremo il gioco
del silenzio, ma difficile: dovete tutti seguire la maestra Sammie e
nascondervi con lei nella stanzina della lavanderia. Starete un
po’ stretti, ma
fate finta di essere amici del ragnetto Itsy Bitsy, okay? Piccolini
come lui».
I
bambini mi guardarono un po’ incerti, così come
Sam.
Aveva capito che non sarei andata con loro, ma cercò di
mantenere il controllo
per non trasmettere panico ai piccoli.
«Forza,
bambini», proferì a bassa voce. «Tutti
in fila
e in silenzio».
Mentre
i nostri piccoli allievi si rintanavano uno ad
uno dietro la porta del piccolo stanzino adiacente, Sam mi si
avvicinò, non
riuscendo a celare il terrore e la paura che esprimevano il suo
sguardo.
«Beth,
vieni anche tu. Ti prego, non posso lasciare
che-».
«Sam,
ascoltami. Devi chiuderti lì e aspettare che
venga a liberarvi io, okay? C’è la nostra gente
che sta morendo, là fuori. Hai
il coltello con te?».
«Sì,
ma tu-».
«Io
non posso lasciare che chi ci sta attaccando entri
qui dentro e ne esca vivo. Non se poi andrà ad ammazzare
qualcun altro dei
nostri amici. Vi proteggerò, non puoi fare niente per
impedirmelo», sussurrai,
con decisione. Provò a dire qualcos’altro, ma non
glielo consentii. «Forza,
nasconditi adesso e chiuditi dentro. Vai!».
Con
riluttanza, mi ascoltò. Mi lanciò un
ultimo sguardo tormentato, prima di raggiungere i bambini e far
scattare la
serratura. Io sospirai di sollievo, contenta che almeno loro fossero al
sicuro.
Non sapevo come stesse mia sorella, o gli altri della mia famiglia che
erano
rimasti tra le mura. Non sapevo nemmeno se quello che avevo elaborato
fosse un
buon piano, ma dovevo provarci.
Mentre
mi assicuravo personalmente che la
porta fosse ben chiusa, sentii un rumore fortissimo e continuo di
clacson
squarciare l'aria.
«Merda»,
sibilai, raggiungendo la porta e facendo
scattare nuovamente la serratura per riaprirla. Cosa diavolo stava
succedendo? Proprio
mentre i più forti di noi erano fuori dalle mura...
Respirai
profondamente per non farmi prendere dal
panico e mi piazzai al centro della stanza, prendendo la pistola dalla
fondina
e puntandola contro la porta. Raccolsi tutte le mie forze per non farmi
vincere
dalla paura anche se, all’improvviso, era diventato veramente
difficile
respirare regolarmente.
Mi
tornò in mente ciò che mi aveva detto Daryl
quella
sera in cui gli chiesi se mi avrebbe insegnato ad usare le armi.
«Lo
sai che sarai costretta ad
uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere
umani».
Alla
fine, quello che aveva prospettato l’arciere si
stava per avverare, come la più inevitabile delle
verità. Ma era una verità che
dovevo affrontare, se volevo proteggere la mia famiglia. Era arrivato
il
momento di difendere le persone che amavo, la mia città,
anche se farlo avrebbe
significato uccidere.
«È
meglio se tieni le braccia così».
La voce di Daryl tornò
dal passato, portandomi alla mente i nostri giorni insieme durante gli
allenamenti. Pensarlo alle mie spalle, che mi correggeva e mi
consigliava, come
se fosse lì con me, mi aiutò a fare un respiro
profondo e mantenere la calma.
Dovevo fare ciò che andava fatto e ci sarei riuscita.
Devi
essere sicura di
te. Devi difendere Samantha e i bambini. Devi rimanere in vita,
così quando
Daryl tornerà –
I
miei pensieri vennero bruscamente
interrotti quando la porta del garage si spalancò e sulla
soglia apparvero un
uomo e una donna. Il cuore mi balzò in gola, bloccandomi il
respiro. Lui era
alto, massiccio e biondo; lei era bassa, tozza e
scarmigliata. Il mio
cervello ci mise mezzo secondo a registrare e elaborare i loro volti;
mezzo
secondo dopo, consapevole che fossero miei nemici, aggiustai il tiro,
premetti
il grilletto e colpii l’uomo in piena fronte.
Crollò
a terra, morto. Incredula, abbassai
lo sguardo sul cadavere che era scivolato sul pavimento. Ci ero
riuscita
davvero e mi sembrava impossibile. Nonostante il cuore che mi batteva
all’impazzata e l’adrenalina che mi scorreva nelle
vene, riuscii ugualmente a
leggere la sorpresa e il terrore che si dipinsero sul volto della
donna. Il suo
viso era sporco e una “W” era incisa sulla sua
fronte, notai, puntandola con la
pistola e caricando il secondo colpo.
Riuscii
a sentirla ringhiare, prima che
scappasse e scomparisse dalla mia vista.
«Merda!»,
esclamai questa volta, scattando nella
direzione verso cui era sparita.
Uscita
dalla
porta, mi guardai intorno, ma non c’era nessuno. La cosa
più logica fu pensare
che si fosse nascosta dietro al garage o che stesse girando attorno la
casa per
nascondersi dalla mia vista e guadagnare tempo. Alzai nuovamente le
braccia e
puntai la pistola davanti a me, iniziando ad avanzare verso destra per
andare
nel retro del garage. Girai l’angolo col cuore in gola ed il
colpo pronto, ma
non c’era nessuno. Abbassai la pistola e avanzai
nell’erba, cercando di non
fare rumore e strisciando contro la parete laterale del garage.
Mi
sporsi
con la testa oltre l’angolo, ma la via era libera. Non
riuscivo a trovarla.
Feci
appena in tempo a muovere un passo per tornare indietro, che la donna si
avventò
su di me con violenza, strappandomi
un urlo di sorpresa. Caddi con la schiena sul manto erboso,
l’aria che mi sgusciò
fuori dai polmoni a causa dell’impatto improvviso col
terreno. La prima cosa
che mi venne istintiva fare, fu cercare la pistola che, per la
sorpresa, avevo
lasciato cadere. Non si trovava lontana da noi, ma la donna,
che gravava
su di me con tutto il suo peso, mi impediva di allungarmi e
riappropriarmi
della mia arma.
Ero
stata presa talmente tanto alla sprovvista che, inizialmente, cercai di
concentrare tutte le mie forze per non venire sopraffatta. Non riuscivo
a
pensare lucidamente ad un modo per renderla inoffensiva e
riappropriarmi della
pistola. I pensieri andavano
troppo
veloce, la mia visuale era offuscata e l’unico punto fermo al
quale riuscivo a
prestare attenzione era la “W”, incisa sulla fronte
della sconosciuta come un
macabro tatuaggio.
Anche quell'uomo ce l'ha... fanno parte di qualche strana
setta?
Provai,
con difficoltà, a ignorare il
panico che mi stava assalendo, scacciando via la sensazione di essere
in
trappola. Raccolsi tutta le forze che avevo per resistere alla mia
nemica, che
stava cercando di immobilizzarmi per poter calare su di me il pugnale
che aveva
sfilato dalla cintura.
Nonostante
fosse una donna di mezza età –
forse un po’ più giovane di Carol – la
sua stazza le dava molta più forza di
quel che mi sarei aspettata. I suoi occhi folli erano piantati nei miei
e
brillavano, in contrasto con lo sporco della sua faccia. I muscoli
delle
mie braccia bruciavano per lo sforzo
che stavo facendo nel cercare di respingerla, bloccando il polso della
mano che
stringeva il pugnale con entrambe le mie. La lama era
vicinissima al mio
occhio sinistro, se non fossi riuscita a fare qualcosa, per me sarebbe
finita.
Iniziai
a dibattere le gambe il più
possibile, spingendo col ginocchio sinistro verso di me, per liberarlo
dalla
morsa delle gambe della donna - a cavalcioni su di me. Era un
osso
duro, più per il suo peso che per le
sue abilità di combattimento. Quando le braccia
iniziarono a tremarmi, un
senso di urgenza mi strinse lo stomaco ed un nuovo slancio di
determinazione mi
scosse.
Affondai
le unghie nella pelle della
donna, raccogliendo tutte le forze per strattonarle il polso e far
scontrare il
suo pugno chiuso contro la sua guancia, per distrarla. Nello
stesso
istante, mi voltai verso destra,
dove col braccio libero si stava sostenendo a lato
della mia testa. Mi allungai a
fatica per morderla, cercando di ignorare quanto fosse sporca la sua
pelle.
Grazie
a quella manovra dolorosa, mentre
si lasciava sfuggire un ringhio di dolore che ben poco aveva di umano,
riuscii
a sbilanciarla con uno strattone e trascinarla contro il terreno, a
sinistra
rispetto il mio corpo. Approfittai del suo sbilanciamento per liberare
una
gamba e disarcionarla da me, facendola crollare sull'erba. Le mie mani
erano
ancora strette attorno al suo pugno; ma non avevo calcolato la sua mano
libera,
che mi assestò uno schiaffo in pieno viso. Nonostante il
dolore, che mi
disorientò per un secondo, cercai di rimanere lucida per
contrastare la forza
del suo corpo. Se solo
fossi
riuscita a
sfilare il coltello dal fodero, avrei potuto mettere fine a tutto quello.
Era
quello,
il mio obiettivo finale.
Avevo
pensato di ribaltare le posizioni e
bloccarla come lei aveva fatto con me, ma con la ferrea resistenza che
stava
opponendo mi fu impossibile. Troppo impegnata a mantenere la presa
sulla sua
mano armata, mi ritrovai improvvisamente l'altra stretta attorno il mio
collo,
come
le spire di
un serpente. L’improvvisa mancanza d’aria mi
lasciò spiazzata e diventò
difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua presa che mi
stava
bloccando la respirazione.
Dovevo
afferrare il coltello a tutti i
costi, lo sapevo, eppure cominciavo a sentire le forze abbandonarmi. In
un
ultimo, disperato tentativo, riaffondai le unghie nei suoi polsi il
più
profondamente possibile, graffiandolo. Mentre lei grugniva dal dolore
ed io
cercavo di ignorare il mio, con uno slancio disperato e rabbioso,
sfilai
velocemente il coltello dal fodero. Con un singulto,
le affondai la lama
nello stomaco, come un pezzo di burro.
I
suoi occhi verdi si spalancarono, così
come la sua bocca, incatenandomi in uno sguardo incredulo che non avrei
mai
dimenticato. Senza riuscire a guardare da un’altra parte,
cercai di
regolarizzare il respiro e impedirmi di svenire mentre la sua mano
allentava la
presa attorno al mio collo. Anche la mano che stringeva il pugnale
iniziò
lentamente ad abbassarsi. Presa da un impulso che non avevo mai sentito
prima
dentro di me, rigirai la lama nella ferita, cercando di andare
più a fondo per
lacerarle il più possibile le viscere. Ricambiai lo sguardo
della selvaggia con
orrore, come se quella mano che la stava uccidendo non fosse mia.
Ero
terrorizzata da ciò che stavo facendo,
ma l’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento e,
allo stesso modo,
sentivo che non mi sarei fermata per nessuna ragione al mondo. Ero
molto più
consapevole e lucida di quanto mi sarei mai aspettata, pensandomi in
una
situazione del genere. Avevo già ucciso altri esseri umani,
in verità: avevo
spinto O'Donnell nella tromba dell'ascensore e lasciato che
Gorman venisse
divorato da Joan, al Grady Memorial. Ma accoltellare qualcuno con le
mie mani o
sparargli in fronte era tutta un'altra cosa.
Mi
scostai
da lei, togliendole il pugnale di mano e gettandolo alle mie spalle.
«Siete g-già tutti... tutti morti»,
gorgogliò la donna, cogliendomi di sorpresa. La osservai
sconvolta, mentre un
rivolo di sangue le colava dalle labbra, giù per il mento.
Cosa significa?
Seduta sull'erba, disorientata, le voltai le spalle quando capii che
non sarei
riuscita a guardarla un secondo di più. Raccolsi le
ginocchia al petto e mi
presi la testa tra le mani, cercando di respirare profondamente. Mi
imposi di
mettere in ordine i pensieri: va tutto bene, sei viva, hai
protetto Samantha
e i bambini, se non li avessi uccisi quei due avrebbero fatto
del male
alle persone a te care, sei capace di difendere le persone.
È tutto finito.
Potrai rivedere Daryl.
Daryl…
Dopo
due giorni interi,
mi ero stufata di giocare al gioco del silenzio. O meglio, mi ero
stancata di
subirlo da Daryl. La sera prima della prova generale, Rick aveva
organizzato un
incontro tra i vari gruppi per ripassare l’itinerario. La
riunione aveva avuto
luogo a casa di Deanna ed ero riuscita a partecipare semplicemente
perché ero
stata a cena da Maggie e Glenn – ottenendo così la
scusa perfetta per
intrufolarmi. Ero sinceramente curiosa di sapere a che punto erano
arrivati, ma
ancora di più avevo sperato di riuscire a mettere alle
strette Daryl.
Dopo
la riunione, molti
di noi si erano fermati a scambiare due parole e a fare compagnia a
Deanna;
l’arciere, invece, si era dileguato immediatamente. Senza
dare troppo
nell’occhio, avevo deciso di seguirlo; con una certa
sorpresa, mi ero resa
conto molto presto che non si stava dirigendo verso casa,
bensì verso il
laghetto.
Quando
si era appoggiato
alla staccionata sulla riva e si era acceso una sigaretta, mi ero
fermata ad
osservarlo, restandomene in disparte. Nonostante la rabbia per il suo
comportamento, mi era venuto spontaneo chiedermi – con una
certa preoccupazione
– che cosa gli stesse passando per la testa, tanto era
assorto il suo sguardo.
Forse voleva semplicemente rimanere solo?
«Vuoi
stare lì a fissarmi ancora per
molto?».
Quando
la sua voce aveva
spezzato il silenzio ed il flusso delle mie elucubrazioni,
l’imbarazzo per
essere stata colta con le mani nella marmellata mi aveva paralizzata
per un
secondo. Poi, all’istante, era subentrata la rabbia.
«Ti
disgusta così tanto parlarmi
che, piuttosto, preferisci essere pedinato per tutta Alexandria e fare
finta di
niente?», avevo ribattuto, con una risata amara e il tono
ostile.
L’unica
risposta di cui
mi aveva degnata, tra una sbuffata di fumo e l’altra, era
stato uno schiocco di
lingua sprezzante. Mi dava le spalle, ma ero riuscita a immaginare
benissimo la
sua espressione: ci avevo impiegato un secondo a perdere le staffe. Con
qualche
ampia falcata, spinta dall’esasperazione dovuta a quei due
giorni di silenzio,
lo avevo raggiunto, parandomi davanti a lui.
«Si
può sapere cosa stai cercando di
fare?!».
«I
cazzi miei», aveva risposto
prontamente Daryl, con tono di ovvietà.
«Sai
benissimo che non mi riferisco
a questo», avevo insistito, avvicinando il viso al suo per
guardarlo negli occhi.
Lui aveva spostato lo sguardo altrove.
«Mi
hai seccato, ragazzina»,
aveva risposto, lapidario, prima di scansarsi e provare ad allontanarsi
da me.
In
un attimo, avevo
allungato la mano per afferrargli la manica della giacca di pelle per
trattenerlo e mi ero fatta sotto al suo volto con frustrazione.
«Non
puoi ignorarmi per sempre, lo
sai?!».
«Ti
stai facendo dei viaggi con la
testa, tu», aveva borbottato, sprezzante. La cosa
peggiore era stata sentirmi
davvero una stupida, nonostante fossi consapevole di essere nel giusto.
Era
stato capace di farmi sentire così, ma nemmeno lui sembrava
credere a ciò che
stava dicendo.
«Cristo,
Daryl, non farmi ridere!
Non mi guardi neanche in faccia!».
Si
era scostato bruscamente da me,
liberandosi il braccio dalla mia mano.
«Non
fare la voce grossa con me», mi
aveva avvisato, con tono severo. O meglio, quasi... minaccioso. Come
quella
volta, davanti al capanno.
Nonostante
la mia rabbia, le sue
parole avevano avuto effetto; avevo fatto un respiro profondo e cercato
di
ricompormi, senza però abbandonare il risentimento.
«E
tu non prendermi per il culo come
stai facendo con te stesso», avevo replicato, abbassando
leggermente i toni.
«Come,
scusa?».
«Hai
sentito bene. Fingi di non
avermi baciata – a dirlo ad alta voce, mi ero sentita
arrossire – e poi hai
preso nuovamente le distanze; non mi rivolgi più la parola,
mentre solo due
giorni fa sei stato di un premuroso nei miei confronti... Hai fatto una
cosa meravigliosa
per me. Per aiutarmi. Ti sei preoccupato per me, quando mi hai vista
scossa per
quello che era successo con Pete. Mentre adesso sembra che, per te, io
non sia
nessuno. Questo non si chiama prenderci per il culo?».
Daryl
era rimasto totalmente muto,
di fronte al mio sfogo. I suoi occhi, due specchi cupi e illeggibili,
mi
avevano scrutato senza tradire alcuna emozione. Lo avevo
capito subito
che non aveva nessuna intenzione di parlare, commentare quello che
avevo detto.
«Sono stanca,
Daryl. Ogni volta
mi illudo che abbiamo fatto un passo avanti, ogni volta tu scappi e mi
allontani. E perché? Perché è la
strada più facile e ti manca il coraggio di
parlarne da adulti».
Non
aveva aspettato nemmeno che
finissi di parlare: si era fatto avanti a muso duro, incenerendomi con
lo
sguardo a due centimetri di distanza dal mio volto.
«Ascoltami
bene, ragazzina», aveva
proferito, in tono basso e roco. Infuriato. «Io non scappo da
niente e da
nessuno, ficcatelo bene in testa. E non venirmi a dare lezione su come
ci si
comporta da adulti, quando tu stai
facendo tutti questi capricci semplicemente perché non hai
tutte le cazzo di
attenzioni che vuoi. Questo mondo di merda non gira attorno alla
Principessa
Greene e alle sue stronzate sentimentali, renditene conto».
Era
stato un duro colpo, quello. Mi
aveva ferita, tanto; le sue parole taglienti mi avevano fatto
più male di uno
schiaffo ben assestato e avevo sentito gli occhi farsi subito lucidi. E
forse
se ne era reso conto anche lui, ma non gli avevo dato modo di dire
nulla.
Con
lo stesso tono basso e la voce
che tremava incontrollata, avevo sibilato, sostenendo il suo sguardo:
«io,
almeno, non sono terrorizzata da quelle stronzate sentimentali. A
differenza
tua».
Non
credevo che ci sarei mai riuscita,
ma dopo quella frase lapidaria gli avevo voltato le spalle e me ne ero
andata.
Mi ero concessa di piangere solo quando fui sicura che non mi avrebbe
visto.
Non mi aveva mai fatta sentire così umiliata e denigrata;
come se fossi ancora
la stupida ragazzina che si era tagliata i polsi alla fattoria. Una
seccatura
con la quale avere a che fare, che si era costruita enormi aspettative
per un
semplice bacio, come l’ultima delle ingenue.
Quella
notte
avevo dormito malissimo, un po’ per la preoccupazione del
giorno dopo, un po’
per il litigio con Daryl; nonostante ciò, la mattina dopo mi
ero comunque
svegliata in tempo per salutare Glenn e gli altri che sarebbero partiti
in
missione. Ero ancora arrabbiata con l’arciere, tuttavia mi
ero ripromessa di
soffocare il risentimento e cercare di salutarlo civilmente, una volta
incontrato al cancello. La missione che stavano per andare a svolgere,
nonostante fosse un collaudo, non era priva di rischi: era bastato
questo –
senza perdermi troppo in paranoie – a dissuadermi
dall’ignorare Daryl.
Arrivata
al
cancello, avevo notato subito la sua assenza. Mi ero avvicinata a Rick,
teso e
concentrato, per chiedergli dove fosse finito Dixon. La sua
espressione, a
quella domanda, era diventata strana, quasi confusa.
«Daryl
è partito stamattina presto.
Voleva fare una ricognizione e controllare come sono messi gli
autoarticolati
che bloccano i vaganti, giù alla cava».
Era
stata
come una secchiata d’acqua gelida in piena faccia. Se
n’era andato senza dirmi niente,
semplicemente perché avevamo litigato. Odiavamo gli addii,
ma ero sempre
andata a salutarlo prima di una missione.
Quella mattina avrebbero
fatto una prova, ma avrebbero avuto comunque a che fare con una cava
mineraria
piena zeppa di vaganti. E se qualcosa fosse andato storto e non ci
fossimo
rivisti mai più? Non ci aveva pensato, a questo?
Il
peso che aveva gravato
sul petto in quei momenti, si trascinò fuori dai ricordi e
mi sorprese lì,
mentre ero ancora raggomitolata a terra, riportandomi alla
realtà. Non dovevo
permettere a quei pensieri di distrarmi, non in un momento del genere:
solo
perché ero riuscita a… sconfiggere due di loro,
non significava certo che il
pericolo fosse passato.
Stringendo
le labbra, guardai la donna stesa a terra,
al mio fianco: i suoi occhi erano chiusi, il suo corpo immobile tra i
fili
d’erba alti, che si muovevano appena sfiorati dal vento. Era
morta.
Respirai
profondamente e le affondai il coltello nella
tempia, per evitare che si risvegliasse. Leggermente riluttante, pulii
la lama
dal sangue alla bell’e meglio, utilizzando la maglia che
indossava. Mi alzai e
cercai la pistola che avevo perso poco prima. La trovai a pochi passi
dal
cadavere della donna e la raccolsi, fermandomi un attimo ad osservare
la “N”
che Daryl aveva sapientemente inciso sulla guancetta, seguendone gli
intagli
nel legno. Sospirai, riponendola nella fondina e ritornai dentro al
garage, per
assicurarmi che non fosse successo nulla a Samantha e ai bambini; erano
ancora
tutti stipati nella lavanderia, smarriti e spaventati, ma per lo meno
stavano
bene.
Dissi
a Samantha che sarei andata a cercare mia
sorella e le ordinai di bloccare la porta del garage con la libreria,
in modo
da non far stipare nuovamente i bambini dentro a quello stanzino
stretto. Lei
non mosse nessuna replica, cercando di mostrarsi forte.
«Io
vado. Se dovesse succedere
qualcosa, ritornate subito nella lavanderia», mi raccomandai,
prima di
schizzare fuori dal garage. Con la pistola ben salda tra le mani, mi
mossi
contro i muri delle varie abitazioni, cercando di non farmi vedere. Le
strade
erano disseminate di cadaveri di cittadini di Alexandria, orribilmente
mutilati
o marchiati con quella “W” maledetta sulla fronte.
Mentre percorrevo una
laterale del vialone principale, girato un angolo mi ritrovai la
pistola di
Rosita puntata in faccia: la abbassò subito, con un sospiro
e notai che alle
sue spalle c’era Aaron.
«Beth!
Stai bene?», domandò a voce
bassa il reclutatore, posandomi una mano sulla spalla.
Aspettò che mi
avvicinassi, prima di sfiorarmi sotto la guancia sinistra.
«Cosa ti è successo?
Sei ferita».
Passai
una mano sulla guancia
interessata e trovai del sangue tra le dita. La donna doveva avermi
ferito di
striscio, quando l’avevo trascinata a terra; dopotutto, la
lama era stata vicinissima
al mio viso. Ero stata fortunata a non farmi di peggio.
«Nulla di importante,
sono stata presa di striscio quando mi sono azzuffata con una di loro.
Ero a scuola
con Samantha quand’è successo, le ho detto di
chiudersi dentro coi bambini e dobbiamo
recuperarli al più presto. Avete visto Maggie?».
«L’ho
vista andare da Deanna, questa
mattina, ma con questo caos dubito che siano rimaste
lì», intervenne Rosita.
«Potrei
provare a vedere», dissi,
muovendo un passo.
«Dobbiamo
stare uniti, adesso. Tua
sorella sa cavarsela, ci verremo incontro a vicenda»,
replicò la ragazza,
sfiorandomi un braccio per invitarmi a restare.
«Tutti
i selvaggi che abbiamo visto hanno
asce o coltelli, sicuramente
tutti gli spari che si sono sentiti sono della nostra gente»,
sottolineò Aaron.
«Sono sicuro che la maggior parte delle persone che sono
entrate sono già state
fermate».
Annuii,
riluttante. «Allora andiamo
a fermare quelle rimaste».
Continuammo
ad avanzare in quella
fila di case, uccidendo altre quattro persone, fino alla via
principale. Lì,
infatti, avvenne proprio quello che aveva prospettato Rosita: trovammo
mia
sorella intenta a neutralizzare uno di quelli, che stava facendo a
pezzi uno
dei nostri; o meglio, che stava facendo a pezzi il suo cadavere.
«Maggie!»,
la chiamai, correndole
incontro.
Lei
si voltò verso di me,
afflosciando le spalle. «Beth! Stai bene»,
esclamò, piena di sollievo. Intercettai
il suo sguardo quando anche lei notò il taglio sotto
l’occhio sinistro. «Che
hai-».
Alzai
gli occhi al cielo con un
mezzo sorriso. «Sono stata affettata di striscio, non
è niente», la interruppi,
sbrigativa. «Hai visto qualcun altro di noi?».
«Carol,
mi ha dato questa», rispose,
mostrandomi la pistola, «e poi c’è
Spencer fuori dalle mura, a proteggere
Deanna».
«Noi
prima abbiamo portato Holly in infermeria, è
stata ferita gravemente. L’abbiamo lasciata con Denise e
Josie; ci sono anche
Tara e Eugene», ci fece il resoconto Aaron, incupendosi.
«Penso
che la maggior parte di loro siano
morti, di sicuro la situazione è più tranquilla
di prima»,
valutò Maggie, guardandosi intorno.
Mi
rivolsi a lei, posandole una mano sul braccio. «Volevo
solo assicurarmi che stessi bene. Devo tornare a scuola da Samantha: le
ho detto
di nascondersi con i bambini e aspettarmi. Quando avete finito con la
ricognizione
venite ad avvisarci».
«Ci
sono da recuperare anche Deanna e Spencer, trovare
Carol e gli altri. Inoltre, dobbiamo impedire a chi non è
stato colpito alla
testa di risvegliarsi», elencò Maggie, cercando di
ordinare i pensieri in tutto
quel caos. Le strade della città erano un disastro e,
sinceramente, in quel
momento non volevo pensare a quanti di noi avessero perso la vita.
Tornai
alla scuola assieme ad Aaron, che aveva insistito
per accompagnarmi. Ci muovemmo con cautela per i viali, ma la
situazione
sembrava davvero essere tornata alla normalità, se si
ignoravano i corpi e le
pozze di sangue sparse in alcuni punti dell’asfalto. Avevamo
quasi raggiunto il
garage, quando percepii Aaron bloccarsi dietro di me, chinarsi su un
corpo e
raccogliere qualcosa. Vidi il suo volto sbiancare nel giro di un
attimo. Si
accasciò contro gli scalini della casa che aveva di fronte,
uno zaino stretto
tra le mani.
«Aaron!»,
esclamai, allarmata, avvicinandomi a lui.
Non mi rispose, scavando nello zaino e pescando qualcosa
che aveva una forma quadrata. Erano… fotografie? Fotografie
di Alexandria, mi
resi conto, quando iniziò a guardarne una dopo
l’altra.
«Cosa
ci fanno queste, qui?», domandai confusa, guardandolo.
Aaron
inspirò a vuoto. «L’ho perso io, questo
zaino»,
mormorò, fissando la foto della recinzione che stringeva
nella mano tremante. Poi
si voltò e puntò gli occhi pieni di tormento nei
miei. «Sono arrivati qui per
colpa mia».
***
Il
reclutatore ripeté lo stesso, qualche ora dopo,
davanti ad altri abitanti di Alexandria, come in una confessione di
pubblica piazza.
Lo disse anche davanti a Michonne e a Rick, che era tornato di corsa
con un’enorme
orda di vaganti alle spalle. Ci raccontò che, per un
imprevisto, avevano dovuto
mettere subito in pratica il piano, senza prove generali. Altro
imprevisto, il
clacson – che scoprii poi essere quello di un camion che gli
invasori avevano
fatto schiantare vicino alla torre di vedetta, fuori dalle mura
– aveva
attirato metà della mandria della cava verso Alexandria.
Rick aveva perso i
contatti con Glenn e Nicholas, pur rassicurandoci che mio cognato
sarebbe
tornato; Michonne disse a Maggie che, nel caso, Glenn le avrebbe
mandato un
segnale quando possibile. Rick riprese la parola, aggiungendo che la
squadra
composta da Daryl, Abraham e Sasha era munita di mezzi e che sarebbero
riusciti
ad allontanare buona parte dell’orda che non era uscita dal
tracciato.
A
sentire parlare di Daryl, mi si rivoltarono le
viscere dall’angoscia. Erano solo in tre a condurre una
mandria di vaganti e
chi lo sapeva quando sarebbero riusciti a tornare? Scacciai quel
pensiero,
voltandomi verso mia sorella: la sua espressione era il perfetto
riflesso della
mia. Per lo meno, Daryl era con persone affidabili, a differenza di
Glenn che
era sparito assieme a Nicholas. Poi, scorsi con lo sguardo, uno dopo
l’altro,
tutti i volti che mi circondavano: erano emaciati, sfiniti.
L’attacco di quegli
stranieri era durato un’oretta, quella mattina, eppure ci era
voluta buona
parte del pomeriggio per raccogliere tutti i cadaveri, pulire le
strade, andare
di casa in casa per cercare i sopravvissuti.
Per
fortuna, non era successo nulla né a Samantha, né
ai
bambini; purtroppo, però, tre di loro avevano perso chi il
padre, chi la madre.
Nemmeno Holly ce l’aveva fatta e Scott – che aveva
partecipato al piano, in squadra
con Michonne – non si era ancora svegliato, a causa di una ferita
alla gamba che si
era procurato e che si era infettata. Senza contare altre vittime,
trovate
durante la ricognizione. Nonostante le perdite, però,
eravamo comunque riusciti
a difendere Alexandria, proteggendo più vite possibili.
Volevo
solo andare a casa farmi una doccia e stendermi,
dopo una giornata del genere. Proposi a mia sorella di andare da lei
per farle
compagnia – nessuna di noi aveva bisogno di stare da sola;
lei mi disse di
andare pure a casa sua e che sarebbe tornata per cena. Di fronte al mio
sguardo
perplesso, mi disse che doveva andare da Deanna per finire di parlare di alcuni progetti sui
raccolti.
Mi sembrò strano, ma non indagai ulteriormente: forse,
pensai, voleva
semplicemente distrarsi dal pensiero di avere Glenn là
fuori, disperso chissà
dove.
Maggie
tornò poco dopo il tramonto, con la faccia
sconvolta e i vestiti sudici; i pantaloni erano intrisi di melma, che
formava
delle incrostature sui suoi scarponi. Dopo essermi fatta la doccia, mi
ero
messa sul divano a leggere qualcosa, per cercare di non pensare a
Daryl. Mi
alzai da lì con uno scatto e le corsi incontro.
Le
posai le mani sulle spalle. «Gesù! Cosa ti
è
successo?», esclamai, guardandola da capo a piedi con gli
occhi fuori dalle
orbite.
Lei
mi rivolse un mezzo sorriso stanco; notai che
aveva gli occhi arrossati. «Mi sono comportata da sorella
irresponsabile». Il
suo sorriso ironico svanì dalle labbra e gli occhi le si
riempirono di lacrime.
«…E da madre irresponsabile».
A
quelle parole sussultai, il cuore che iniziò a battermi
furiosamente nel petto. Ho capito bene?
«Maggie…».
Affondò
il volto nelle mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo
dopo l’altro. Doveva essere stata una giornata
particolarmente dura, per lei. Senza
che potessi farci niente e cercando di arginare l’entusiasmo
dovuto a quella
che, ormai, era la realtà, un sorriso intenerito mi
incurvò le labbra.
«Vai
a farti una doccia, ne parliamo dopo», la
invitai, circondandole le spalle con un braccio e accompagnandola
davanti alla
porta del bagno. Maggie si asciugò le lacrime, strofinando
gli occhi contro il
braccio. Sparì per una buona mezz’ora e, quando
tornò, fu palese che fosse più
lucida, pulita e rilassata. Incrociai le gambe sul divano e la invitai
a
raggiungermi, tamburellando le dita sul cuscino e sorridendole.
Accennò
un sorriso e mi raggiunse, sedendosi al mio
fianco e appoggiando il braccio sinistro sullo schienale del divano,
rivolta
verso di me.
«Quindi,
cosa stavi dicendo poco fa?», le chiesi
impaziente, sorridendo sorniona.
Per
quanto fosse in pena per tutta quella situazione,
i suoi occhi non poterono fare a meno che accendersi di emozione.
«Vuoi la conferma
ufficiale?», domandò sorridendo, alzando gli occhi
al cielo.
«Assolutamente
sì!».
«Beth
Greene, presto sarai zia. Contenta?».
In
tutta risposta, mi sbilanciai verso di lei,
stritolandola in un abbraccio. «No, super-contenta! Oddio,
non ci credo. Ma ne
sei sicura? Da quanto lo sai? Perché non me lo hai detto
prima?».
Maggie,
ridendo, cercò di dileguarsi dalle mie spire.
«Vuoi
soffocarmi, per caso? Lo sappiamo relativamente da poco. Non so
perché ci ho
messo tanto a dirtelo», disse, in tono di scuse.
«Volevo che fosse una bella
sorpresa per tutti, ma ultimamente sono capitati solo casini e ho
preferito
aspettare un momento più tranquillo. È per questo
che Glenn non ha voluto che andassi
con lui, sai?». Dalla gioia iniziale, la sua voce si
abbassò gradualmente, così
come il suo umore. Ed il mio. «Dove sei stata,
prima?», domandai, seria.
«Ho
provato ad uscire dalle mura per andare a cercare
Glenn. Aaron mi ha intercettata nell’armeria e ha insistito
per venire con me.
Mi ha detto che conosceva una via alternativa per uscire, senza calarmi
dalle
mura. Siamo passati per le fogne, ma quando siamo arrivati
all’imboccatura del
sistema fognario, ho capito che saremmo stati in pericolo comunque.
Dovevo
capirlo già lì sotto, quando ho rischiato di
essere morsa da un vagante che era
più fango che carne», concluse, arrabbiata con se
stessa.
«Non
essere così dura con te stessa, è andata
bene»,
replicai, posandole una mano sulla spalla.
«Sì,
ma non avrei dovuto farlo. Così come non avrei dovuto
lasciare andare Glenn da solo».
«Maggie,
sono certa che Glenn stia bene. Sa quello che
fa; se non ti ha ancora mandato un segnale, è
perché non gli è stato possibile.
Ma succederà presto. Io sono contenta che tu sia rimasta
qui, avete fatto la
scelta giusta».
Lei
mi osservò in silenzio per qualche istante, forse cercando
di convincersi a credere a quello che le avevo detto. Il suo sguardo
era
tormentato, lontano dal mio, ma forse aveva iniziato a capire che, alla
fine,
potevo aver ragione. Fece un respiro profondo, poi aggiunse,
guardandomi con
aria colpevole: «Sai, ho dovuto dire ad Aaron
perché volevo fermarmi. Quindi,
tecnicamente, lo ha saputo prima lui di te. Mi dispiace, Beth. Sono una
sorella
pessima».
Sminuii
la faccenda con un gesto della mano. «Non dire
sciocchezze, dopo quello che hai passato è un miracolo che
tu sia riuscita a
tornare indietro per dirmelo».
Si
voltò verso di me, con un’espressione
finto-scandalizzata.
«Devi proprio rincarare la dose?!»,
esclamò, dandomi un leggero colpo sul
braccio.
Mi
scappò da ridere e, per un solo istante, mi
sembrò
di essere nuovamente a casa, nella fattoria in Georgia, a stuzzicarci
come due
sorelle normali. Poi pensai a nostro padre e a quanto sarebbe stato
felice nel
sapere che sarebbe diventato nonno. Una parte delle speranze che avevo
confessato all’arciere sotto a quel portico in mezzo al
bosco, era diventata
realtà. Avrei voluto condividere quella gioia con
papà; e con Daryl.
Stavo
per parlare di papà a Maggie, quando lei mi
anticipò. «Sei preoccupata perché
nemmeno Daryl è tornato?».
Mia
sorella mi scrutava, in pensiero e mi domandai che
faccia cupa doveva essermi venuta e come
diavolo ha fatto a capire che stavo pensando proprio a lui?
«Più
che altro, incazzata», replicai, stringendomi
nelle spalle e sorridendo senza allegria. «È
partito prima per evitarmi, perché
ieri sera abbiamo avuto una… discussione.
Ma lui è fatto così, quindi non ha nemmeno senso
parlarne», tagliai corto.
Maggie
aggrottò le sopracciglia. «Avete litigato? Come
mai?».
Nello
stesso istante, capii di aver detto troppo e mi
maledissi mentalmente. Sentii le guance andarmi in fiamme e presi a
torturare l’orlo
dei jeans, poggiando il mento sulle ginocchia piegate.
«Niente di grave,
davvero. Spero solo che torni presto, così potrò
presentargli il conto per
essere sparito senza dire nulla».
Mia
sorella, dopo qualche attimo di silenzio, si sporse
verso di me per darmi una carezza sulla testa. Alzai lo sguardo nel suo
e vidi sul
suo volto un’espressione intenerita. «Siete proprio
carini voi due, lo sai?
Comunque stai tranquilla, Bethy. Daryl tornerà sicuramente e
potrai fargli tutte
le ramanzine che vuoi. Anche se, a quel punto, credo che quasi quasi
rimpiangerà
l’orda di vaganti».
Ignorai
l’imbarazzo per il suo commento affettuoso e
scoppiai a ridere. «Non sai quanto hai ragione!».
Maggie
si diede una pacca sulle gambe con entrambe le
mani e si alzò in piedi. Mi allungò una mano per
invitarmi a prenderla con la
mia. «Mentre tornavo indietro, ho notato che qualcuno ha
aggiunto i nomi di
Glenn e Nicholas al memoriale. Li voglio cancellare, mi
aiuti?».
Nonostante
quello che mi aveva appena detto, mia
sorella aveva un sorriso che le piegava le labbra fini. E una nuova
determinazione nel suo sguardo che, irrimediabilmente,
contagiò anche me. Mi
alzai in piedi e le sorrisi a mia volta, prendendole la mano.
«Assolutamente».
Note
autrice.
Questo
capitolo è stato dannatamente impegnativo da
scrivere. Non solo perché è lunghissimo
(perdonatemi), ma anche perché sapevo
dall’inizio cosa sarebbe dovuto succedere, eppure
è stato ugualmente difficoltoso
metterlo nero su bianco. Intanto ho avuto un mezzo blocco dello
scrittore
(=leggasi, TWD mi ha talmente deluso nell’ultima stagione che
ci è andata di
mezzo pure la stesura di questa ff);
e poi, mi sono bloccata
quando è stato il momento di scrivere la scena di lotta tra
Beth e la tizia dei
Wolves. L’ho
scritta e riscritta, non sono del tutto
soddisfatta del risultato, ma sono contenta di essermela lasciata alle
spalle e
ad essere arrivata alla fine del capitolo ahahah!
Anche
questa volta sono stata in dubbio sul tagliare
il capitolo/lasciarlo così, ma ho preferito
“togliermi il pensiero” subito;
anche perché questa parte della sesta stagione non
è il massimo. Ho deciso di
adottare il metodo “flashback” delle scritte in
corsivo, per richiamare gli spezzoni
della prima puntata in bianco e nero, che alternano scene passate alle
scene
presenti. Ho usato questo escamotage per riuscire ad inserire anche
Daryl e quello
che è successo dopo il bacio dello scorso capitolo. Mi
dispiace se non c’è
stato molto Daryl in questo, ma vi assicuro che nel prossimo capitolo
sarà moooooolto
più presente! E c’è in particolare una
scena
super fluffy che muoio
dalla voglia di farvi leggere,
quindi portate pazienza :P
Spero
che l’aver cambiato il carattere semplifichi la
lettura – mi ero stufata del Tahoma,
viva il Segoe! :P
– e che la nuova impaginazione del titolo vi piaccia! E
ovviamente
spero che vi sia piaciuto anche il capitolo, nonostante la lunghezza e
la scena
di combattimento pessima. Brrr.
Ringrazio
psichedelia95, Heihei
e vannagio che hanno
commentato lo scorso capitolo; e,
come sempre, chi legge, aggiunge ai preferiti/seguiti/da ricordare
questa storia.
Significa molto per me <3
Anche
per questo giro, è tutto. Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie
EDIT: come al solito devo avere qualche problema col carattere e la formattazione, giustamente >:| mi ha cambiato il carattere e l'ha rimpicciolito, spero si legga bene comunque! *sigh*
EDIT#2: il ragnetto a cui si fa riferimento a inizio capitolo è Itsy Bitsy, protagonista di una filastrocca molto popolare nei paesi anglofoni. Sarò scema ma mi fa una tenerezza unica ahaha https://www.youtube.com/watch?v=w_lCi8U49mY