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Autore: BekySmile97    26/05/2018    0 recensioni
Chiuse gli occhi grigi, immaginando ancora una volta come si sarebbe svolta l’impresa che l’avrebbe portato dal suo drago: prima una lunga galoppata fino alle coste settentrionali della regione e, poi, un giorno in barca, giusto il tempo necessario a raggiungere una delle piccole isole dove i draghi amavano nidificare. Lì avrebbe trovato il suo compagno, che gli avrebbe subito parlato e gli avrebbe permesso di volare via con lui, tornando a Centrum Norr da eroe.
Il drago, poi, sarebbe stato bellissimo.
(...)
“Eckart, ascoltami bene” disse il padre, riportando la sua attenzione su di lui e sporgendosi dalla sedia per prendergli la mano. Era ruvida, segnata dagli anni passati a esercitarsi con la spada e a volare con il suo compagno.
“Devi fidarti di me” continuò, la voce roca che usciva come un sussurro flebile. “Non puoi partire.”
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Storie da Hydus '
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La storia partecipa al contest "The Dragon's Riders Contest - II Edition" indetto da E.Comper sul forum di efp

L’impresa

 
Eckart si era sempre chiesto come mai i primi dragon lords avessero deciso di fondare Centrum Norr proprio in quella maledetta penisola del Nord.
Da un lato le montagne, invalicabili per tutto l’autunno e l’inverno a causa della neve e pericolose da attraversare durante il periodo caldo per le continue slavine e i mostri che ne popolavano le pendici; dall’altro un’infinita pianura, brulla, gelata per gran parte del tempo, che sfociava in un mare nero, gelido, sempre in tempesta. Senza contare, poi, che il freddo era il signore indiscusso di quelle terre, tenendole sotto controllo in ogni momento e stendendo le sue mani su tutta la città, creando pizzi di brina e pericolose stalattiti di ghiaccio.
Qualche volta, quando discorreva con i suoi coetanei, nobilastri e futuri cavalieri, Eckart riusciva a dirottare i loro parlottii su questa questione, ricevendo come risposta ai suoi dubbi, però, che era ovvio che Centrum Norr fosse stata fondata lì e non in un qualsiasi altro punto di Hydrus: nessun altro territorio era così ricco di draghi, se si escludevano le piccole Isole dei Draghi di Fuoco, colonizzate dai corals. A quel punto Eckart ribatteva che non aveva senso che la capitale si trovasse isolata da tutto il resto della regione, ma gli altri liquidavano le sue parole con un gesto stizzito, quasi stessero scacciando una mosca fastidiosa che continuava a ronzar loro intorno.
Eckart, in un certo senso, era sempre stato simile una mosca.
Si agitava attorno a tutti, irritandoli, e pungeva chiunque con le sue parole.
“Quella bocca larga ti porterà più problemi che altro” gli diceva sempre la sua nutrice, tirandogli uno scappellotto ogni volta che se ne usciva con una delle sue. “Impara a stare zitto!”
Lui scrollava le spalle e continuava a sputare fuori ogni idea che gli passava per la testa, guadagnando in risposta risate nervose e occhiatacce; solo davanti alla sua famiglia e ai suoi maestri riusciva a contenersi, ben conscio di quanto le loro punizioni sapessero essere terribili. In ogni caso, la frase che gli capitava di sentire più spesso, accompagnata da smorfie di disappunto e fastidio, era sempre la stessa.
“Se solo non foste un Treue…”
Treue. Il nome di una dinastia gloriosa, antica, legata indissolubilmente ai vari regnati e al Consiglio, tanto che in certi momenti, soprattutto quando davanti a lui s’inchinavano profondamente uomini e donne che mai aveva visto, gli sembrava che fosse più importante della famiglia reale stessa. Aveva riso per giorni quando, una volta, dopo aver deliziato il malcapitato di turno con uno dei migliori motteggi del suo repertorio, quello era diventato tutto rosso, furioso come non mai, ma aveva risposto affermativamente alla sua domanda, ingoiando la bile.
“Ma, ditemi, lo stemma della vostra casata è un maiale? Chiedo solo perché ho notato che vi piace infilare il naso in mezzo al fango…”
L’unico che non sembrava essere irritato dal suo atteggiamento era Atlas, un giovane alto, muscoloso, dai lunghi capelli biondi sempre intrecciati e gli occhi verdi slavati, carichi di ansia e tristezza. Casata strana, la sua. Era ormai da generazioni che nessuno della famiglia degli Unehre aveva ereditato il dono, tanto che era caduta nel disonore ed era considerata all’unanimità come appartenente alla feccia della società: non potevano essere definiti dragon lords se erano incapaci di domare un drago.
A Eckart, però, Atlas piaceva.
Di tutti i ragazzi che aveva conosciuto, era il più sveglio, disposto a faticare come un bue e pronto a mostrare a tutti quanto quelle voci fossero solo dettate dall’invidia: infatti, la casata degli Unehre era una delle più antiche, seconda solo a quella dei Bálit (a cui appartenevano i loro sovrani) e a quella dei Treue. Oltretutto, poteva contare nelle sue fila più di un re e svariati condottieri di grande importanza.
“Ehi… Eckart. Ma mi stai ascoltando?”
Il giovane si voltò verso l’amico, che lo squadrava con aria visibilmente seccata, aprendosi in un sorriso sghembo. “Assolutamente no.”
Atlas sbuffò, alzando gli occhi chiari al cielo e strattonando per il braccio suo fratello minore.
“Winloas, ti ho detto di starmi vicino” sibilò al bambino, avvicinandosi poi al suo viso smunto su cui brillavano degli occhi ugualmente verdi. “Anche se nostro padre ti ha permesso di seguirmi, non significa che puoi fare quello che vuoi.”
“Ma lascialo tranquillo” ridacchiò Eckart, scompigliando i capelli chiari del bambino con un gesto affettuoso.
“Lasciarlo tranquillo… non sei tu quello che deve fare da balia ai suoi fratelli” borbottò l’altro, tornando a camminare sulla sabbia rossastra dell’arena e calciando tutti i sassolini che si trovavano davanti alla punta dei suoi stivali. Il fratellino lo tallonava subito dietro, alzando di tanto in tanto il viso per vedere i draghi che si preparavano ad atterrare.
Eckart, voltatosi a guardare il bimbo, sorrise, ricordandosi lo stupore e la meraviglia che aveva provato le prime volte in cui era stato ammesso nell’arena, cullato da quel grosso abbraccio di scalinate, grate e porte che si aprivano al suo interno. Tutti i draghi che l’affollavano, poi, gli avevano fatto vibrare il sangue, rendendolo desideroso di trovare il prima possibile il suo compagno.
Tornò a voltarsi verso il suo amico, dandogli una gomitata. “Che cosa volevi dirmi?”
Atlas si massaggiò il braccio sinistro con una smorfia, gettando un’occhiata preoccupata al fratellino che, spaventato da un improvviso ruggito, aveva lanciato un urletto infantile, portandosi le mani alle orecchie e piegando la bocca sottile in una smorfia a metà tra l’estasiato e il terrorizzato.
“Volevo chiederti se avevi mai pensato a come sarà il tuo drago” borbottò, riportando la sua attenzione su Eckart.
“Meraviglioso come me, non ti pare?” disse con un sorriso sornione, passandosi poi in modo teatrale una mano tra i capelli neri, arricciati e lunghi fino alle spalle, e alzando il volto al cielo con fare altezzoso.
Atlas ridacchiò, dandogli a sua volta una gomitata. “Dai… io sono serio.”
“Anch’io sono serio!” esclamò l’altro, guadagnando in tutta risposta un’occhiata divertita da parte dell’amico.
“Va bene, va bene…” continuò, fermandosi e poggiando le mani suoi fianchi con aria seccata.
“Capisco che per la tua limitata mente sia fin troppo difficile pensare a un altro essere magnifico quanto me, quindi ti grazierò donandoti una mera e insignificante descrizione.”
“Grazie, mio signore” scherzò Atlas, inchinandosi fino a sfiorare con il naso la terra rossa dell’arena proprio mentre un drago atterrava vicino a loro, alzando la sabbia. Eckart iniziò a ridere a crepapelle mentre il suo amico si alzava di scatto, tossendo, il viso pallido sporco di terra e segnato da qualche lacrima che era iniziata a cadere involontariamente; non smise nemmeno quando l’altro, con le orecchie rosse a causa dell’imbarazzo, tentò di pulirsi il volto con la manica sgualcita della sua giubba, spostando la sabbia fin dentro ai suoi capelli biondi.
Eckart gli diede un fazzoletto, continuando a sghignazzare.
“Se il tuo drago sarà imbranato quanto te, i Bálit avranno guadagnato un ottimo cavaliere.”
Atlas gli lanciò un’occhiataccia, ridandogli il fazzoletto. “Disse quello che l’altro giorno ha mancato la porta.”
“Non ho mancato la porta!”
L’amico alzò gli occhi al cielo con aria teatrale. “Perdonatemi, mio signore. Avete ragione voi: si dice andare a sbattere contro il muro come un idiota.”
Eckart alzò le mani, abbassando lo sguardo sulla punta dei suoi stivali. “E va bene, per questa volta te lo concedo: se i Bálit avranno noi come loro cavalieri, Centrum Norr avrà vita breve.”
Atlas ridacchiò, alzando poi lo sguardo su un grosso drago dalle scaglie vermiglie, il muso affilato e privo di corna, che si era appena sollevato in volo, volteggiando leggero nell’aria.
“Comunque, io vorrei che fosse una femmina” disse, tornando al discorso iniziale. “Dalle scaglie verdi sul dorso e bianche sul ventre, come i colori della mia casata.”
Vedendo l’aria estasiata dell’amico, perso nelle sue fantasticherie di gloria e felicità eterna con gli occhi che brillavano per l’eccitazione, a Eckart spuntò un sorriso sulle labbra; anche lui, ogni volta che pensava al suo futuro, si perdeva in lunghi sogni, immaginando se stesso come il più grande cavaliere che avesse mai solcato i cieli di Hydrus.
“Non troppo grande, sia chiaro” precisò l’altro, continuando a pensare al suo compagno. “E dallo sguardo dorato, sveglio… oh, Ekcart, non vedo l’ora di vederlo.”
L’amico sorrise. “Anch’io.”
Chiuse gli occhi grigi, immaginando ancora una volta come si sarebbe svolta l’impresa che l’avrebbe portato dal suo drago: prima una lunga galoppata fino alle coste settentrionali della regione e, poi, un giorno in barca, giusto il tempo necessario a raggiungere una delle piccole isole dove i draghi amavano nidificare. Lì avrebbe trovato il suo compagno, che gli avrebbe subito parlato e gli avrebbe permesso di volare via con lui, tornando a Centrum Norr da eroe.
Il drago, poi, sarebbe stato bellissimo.
Dalle grandi ali bianche, delicate come la carta di riso, le cui piume sfumavano verso un grigio sempre più intenso spostandosi dal dorso fino al ventre; il muso largo, con una serie di corna nere simili a pezzi d’ossidiana, e grandi occhi azzurri, glaciali quanto quelli di un mostro del Nord possono essere.
Atlas lo riscosse dalle sue fantasticherie, afferrandolo per le spalle.
“Tempo una luna e partiremo. Miei Dei, non vedo l’ora” disse, continuando a sorridere eccitato. “Quando tornerò con il mio drago saranno tutti così fieri e finalmente potrò dire… WINLOAS!”
Eckart sobbalzò davanti a quell’improvviso urlo, spostando poi il suo sguardo sul bambino. Winloas camminava con il naso puntato verso l’alto, troppo affascinato dal volo dei draghi per rendersi conto di quello che accadeva intorno a lui; sentendo il richiamo del fratello, però, abbassò giusto in tempo la testa per andare a sbattere contro un altro ragazzino che, invece, camminava con passo svelto attraverso l’arena, lo sguardo perso in chissà quali pensieri.
Eckart sentì distintamente il tonk che fecero le loro teste nel momento in cui si scontrarono.
Ridacchiando sotto i baffi, seguì con lo sguardo la corsa di Atlas che, col volto contratto in una smorfia di terrore, raggiunse il fratello e lo costrinse a inchinarsi davanti all’altro, strattonandolo verso il basso e dandogli uno scappellotto per fargli abbassare la testa. Li raggiunse con calma, continuando a sogghignare.
“Buongiorno, mio piccolo signore” disse quando fu vicino a loro, inchinandosi davanti all’altro ragazzino, che aveva iniziato a ridere massaggiandosi con una mano il capo.
“Ciao, Eckart!” esclamò quello, voltandosi verso di lui.
“Perdonate il fratello del mio amico, mio piccolo signore” continuò il giovane, abbassandosi sulle ginocchia al livello dell’altro. “Non è abituato a passeggiare nell’arena, e quindi gira sempre con il naso all’insù.”
“Non importa” borbottò il ragazzino, lanciando un’occhiata curiosa a Winloas.
“Me lo puoi presentare?” aggiunse sottovoce, indicando il bimbo ancora inchinato davanti a lui.
Eckart sorrise, scompigliando la folta massa di capelli scuri dell’altro e voltandosi verso i suoi due amici, rimasti immobili e in silenzio.
“Mio piccolo signore, questi sono Atlas, il maggiore della casata degli Unehre, e Winloas, il minore” disse, indicando prima l’uno e poi l’altro, che finalmente alzarono il capo per osservare il ragazzino in piedi davanti a loro.
“Vogliate scusarmi, mio signore” bisbigliò Winloas, arrossendo fino alla punta delle orecchie. “Sono stato sbadato e non avevo alcuna intenzione di colpirvi.”
Il ragazzino lo liquidò con un gesto della mano, tornando a ridacchiare. “Non importa. Spero di potervi rivedere presto, Winloas.”
Il bambino annuì vigorosamente, incapace di rispondere, mentre suo fratello tratteneva a stento un’espressione stupita.
“Mio piccolo signore” disse Eckart, riportando l’attenzione dell’altro su di sé. “So che non dovrei chiedervelo, ma come mai girate per l’arena tutto da solo?”
Il ragazzino sbuffò, gonfiando le guance. “È colpa di tuo padre. Ha convocato tutti i maestri, compreso il mio, che mi ha detto di stare buono ad aspettarlo, ma io mi annoiavo.”
Eckart aggrottò le sopracciglia, perplesso. Suo padre, nonostante fosse un importante cavaliere, non veniva mai nell’arena: infatti, aveva liberato il suo drago tanti anni prima, in seguito a una battaglia in cui erano rimasti entrambi gravemente feriti. L’animale era volato via, andando a cercare riparo nelle sue isole natali, e non era mai più tornato, lasciando il suo compagno umano solo, un cavaliere zoppicante e con un braccio amputato fino al gomito.
“Forse, mio piccolo signore…” disse, passandosi con fare nervoso una mano tra i capelli. “… sarebbe meglio andare a vedere che cosa sta accadendo, non credete?”
L’altro annuì, girandosi poi verso i due Unehre. “A presto, allora!”
Entrambi si inchinarono, sillabando un “Arrivederci, mio principe”, e poi si alzarono, dirigendosi verso l’uscita dell’arena in tutta fretta. Eckart sghignazzò nel vedere Atlas inciampare nei propri piedi, annaspando per qualche secondo alla ricerca dell’equilibrio.
“Eckart, andiamo?”
Il giovane tornò a guardare il principe, che già aveva mosso qualche passo verso l’interno dell’arena, e annuì, seguendolo.
“Che gli Dei mi aiutino” pensò, varcando un piccolo arco di pietra scura.
Sentiva crescere dentro di sé un grumo d’ansia: se suo padre era andato a conferire con i maestri, piuttosto che decidere di convocarli lui stesso nel suo palazzo, la situazione era ben grave.
 
~
 
Se dall’esterno l’arena poteva apparire piccola, l’interno sorprendeva sempre tutti i visitatori aprendosi in quelli che sembravano un’infinità di corridoi che si attorcigliavano l’uno sull’altro, scivolando nelle viscere della costruzione. Eckart si era perso svariate volte in quei meandri, soprattutto durante i primi giorni, quando ancora l’eccitazione per aver iniziato gli studi che l’avrebbero portato a domare un drago sovrastava tutto il resto, confondendolo e portandolo a svoltare da una parte piuttosto che da un’altra, con il risultato di portarlo a vagare per qualche ora nei corridoi, alla ricerca della strada corretta; una volta era addirittura finito nell’area riservata ai draghi della famiglia reale, in cui aveva scorto, accoccolato in un angolo a sonnecchiare, un enorme esemplare albino, compagno dell’attuale re. Era rimasto per qualche secondo a bocca aperta, giusto il tempo necessario a uno scudiero per vederlo e trascinarlo fuori di peso.
Ormai, però, aveva imparato a orientarsi perfettamente in quel dedalo di vie, tanto che alcune strade avrebbe saputo percorrerle a occhi chiusi. L’ala dove lo stava conducendo il principe, però, non era una di quelle che era solito frequentare.
“Visto?” gli disse il ragazzino, strattonandogli la manica quando, giunti nel luogo dove gli era stato detto di rimanere, videro uscire da una delle tante porte di legno un nutrito gruppo di maestri, tutti indaffarati a parlare l’uno con l’altro.
Eckart annuì, spingendo poi con delicatezza il ragazzino verso un uomo con una tunica color porpora che, impallidito improvvisamente, continuava a girare la testa in ogni direzione, alla ricerca del suo alunno, ignorando le domande che gli erano poste dai compagni.
“A presto” borbottò il principe al giovane, correndo incontro al suo maestro che, visibilmente sollevato, alzò lo sguardo al cielo come per ringraziare gli antichi Dei.
Anche Eckart sussurrò un saluto, dirigendosi poi verso la stanza da cui erano usciti gli ultimi uomini, il cuore che gli martellava in gola. Bussò sullo stipite della porta, aspettando in silenzio che il padre, seduto su una poltrona ricoperta da un drappo verde, gli permettesse di entrare. La stanza, ricolma di libri buttati alla rinfusa sui ripiani che tappezzavano i muri, sembrava incombere su di lui.
L’uomo alzò il suo sguardo sul figlio, gli occhi azzurri sorpresi, e gli fece cenno di farsi avanti.
“Come hai saputo della mia presenza qui?” gli chiese, indicandogli una sedia su cui il giovane si andò a sedere.
Eckart scrollò le spalle, abbassando lo sguardo sul tappeto rosso che copriva il pavimento di pietra.
“Il principe” disse, continuando a seguire i fili dell’intreccio. Sentiva bruciare lo sguardo del padre su di sé, ma non riusciva ad alzare lo sguardo, terrorizzato dall’idea di trovarci dentro solo rimprovero e delusione.
L’uomo sospirò, massaggiandosi con la mano destra le tempie.
“Andrò dritto al punto, Eckart: non puoi partire. Non riuscirai mai a domare un drago.”
Il giovane alzò la testa di scatto, osservando il padre con gli occhi grigi spalancati. L’altro era lì, il viso piegato in una smorfia dolorosa e l’unica grossa mano impiegata a torturare una delle due trecce in cui era stata raccolta la sua folta barba nera, lo sguardo che saettava da un punto all’altro della stanza, incapace di rimanere fermo sul figlio.
Eckart sentì la sua bocca diventare improvvisamente secca.
“Scusatemi?” chiese socchiudendo appena le labbra, la flebile speranza di aver capito male che albergava in lui.
L’uomo si decise ad alzare lo sguardo sul figlio, lanciandogli un’occhiata carica di dolore. “Non riuscirai mai a domare un drago.”
“Che assurdità” ribatté lui, sorridendo amaro. “Perché non dovrei riuscirci? Sono un Treue, e i Treue domano sempre i loro draghi.”
L’altro scosse la testa, chiudendo gli occhi e passandosi la mano sulla faccia con un gesto stanco, doloroso. Eckart notò che, diversamente dal solito, le occhiaie che adombravano lo sguardo del padre sembravano di gran lunga più profonde, il viso pallido e scavato.
“Non sarebbe dovuta andare così…” mormorò l’uomo, sospirando ancora una volta.
Eckart continuò a guardarlo, l’ansia che gli aveva preso la gola, serrandogliela in una morsa così dolorosa che gli veniva difficile respirare. Non riusciva a pensare ad alcun motivo per cui non sarebbe dovuto partire: sua madre aveva spesso affermato che lui non potesse imbarcarsi in quell’impresa, spiegandogli che sarebbe stato troppo pericoloso affrontare un drago, ma il giovane aveva sempre liquidato quei discorsi come le normali preoccupazioni di una donna terrorizzata dall’idea di poter perdere il suo primogenito.
“Eckart, ascoltami bene” disse il padre, riportando la sua attenzione su di lui e sporgendosi dalla sedia per prendergli la mano. Era ruvida, segnata dagli anni in passati a esercitarsi con la spada e a volare con il suo compagno.
“Devi fidarti di me” continuò, la voce roca che usciva come un sussurro flebile. “Non puoi partire.”
Il ragazzo ritirò di scatto la mano, alzandosi in piedi e iniziando a girare per la stanza come un animale in trappola. Su di lui incombevano tutti quei libri pieni di polvere, soffocandolo.
“Nonostante mi riteniate tale, non sono un’incapace” sibilò, appoggiandosi a uno scaffale e guardando il padre con odio. “I maestri mi ritengono pronto.”
“Ti ritenevano pronto perché non sapevano la verità!” esclamò l’altro, sbattendo un pugno sulla sua gamba. “Non vogliono più che tu parta.”
Eckart rimase in silenzio, cristallizzato nella sua posizione. Quasi non si accorse di aver sussurrato un’altra domanda.
“E perché, di grazia?”
Il padre alzò gli occhi su di lui, lo sguardo di un azzurro gelido e vuoto.
“Perché non sei un Treue.”
Silenzio.
Per qualche secondo Eckart non sentì altro. Solo un profondo, lunghissimo e terribile silenzio; non udiva nemmeno il suo respiro e il battito del suo cuore. Era come se il mondo si fosse improvvisamente fermato.
Come in un sogno, vide suo padre alzarsi in piedi e prenderlo per le spalle, trascinandolo di peso fino alla sedia di legno su cui si trovava prima; seguì gli ordini impartiti dal corpo dell’altro come una delle bambole di pezza con cui giocava sua sorella più piccola, quella che ancora camminava male, aggrappandosi a qualsiasi cosa trovasse sul suo percorso pur di stare in piedi. Un pensiero lo colpì con forza, facendolo inorridire.
“Non è tua sorella.”
L’uomo in piedi davanti a lui, intanto, aveva iniziato ad accarezzargli i capelli, piangendo in silenzio. Alzò i suoi occhi grigi sul padre, guardandolo vacuo, e scostò la mano con delicatezza.
“Voi non siete mio padre” disse semplicemente, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
L’altro si inginocchiò davanti a lui, afferrandogli il mento e costringendolo a guardarlo negli occhi.
“Non dire stupidaggini” sibilò, le lacrime che ancora continuavano a scivolare sul suo volto, andando a infilarsi nella barba. “Io sono tuo padre. L’uomo che ti ha generato non è degno di essere chiamato tale, visto che ti ha abbandonato senza neanche un rimorso.”
Il giovane distolse lo sguardo, ricevendo in tutta risposta uno strattone da parte dell’uomo.
“Guardami negli occhi.”
Eckart rialzò il suo sguardo sul volto dell’altro. “Lui chi era?”
“Un mio compagno” rispose l’altro, scandendo bene ogni parola. “Un nobilastro che aveva violato una serva, da cui poi sei nato tu. Lui è morto tentando di domare un drago, lei di parto.”
“Ed è per questo che affermate che non sarò mai in grado di farcela?” chiese con un sibilo, allontanando con un gesto stizzito la mano dell’altro e rialzandosi in piedi, il cervello che aveva rincominciato a lavorare, elaborando tutte le informazioni che gli erano state date.
Non era un nobile, ma un bastardo.
Un ragazzino senza un nome che sognava di essere ciò che non poteva diventare.
“Non possiamo rischiare… a tua madre si spezzerebbe il cuore se ti accadesse qualcosa” disse l’uomo che, tiratosi nuovamente in piedi, si era andato a buttare sulla poltrona su cui si trovava all’inizio. L’unica mano rimasta gli copriva gli occhi, nascondendo le lacrime.
A Eckart quasi venne da ridere. “Cosa vi importa di me? Sono solo un piccolo bastardo, dopo tutto, come quei cagnolini che avete affogato la scorsa estate.”
“Tu sei mio figlio” replicò l’altro, tornando a guardarlo con quei suoi enormi occhi gelidi. Al giovane sembrarono così fuori posto quelle piccole sfere d’acqua salata, cristallizzate tra le ciglia.
“E cosa direte al mondo quando si saprà che non sono partito per domare il mio drago, eh?” continuò Eckart, sordo alle parole dell’uomo. “Che non mi avete permesso di partire perché avevate paura che morissi? Direte a tutti chi sono?”
L’uomo fece per aprir bocca, ma il giovane lo bloccò con le sue parole. “Con che faccia potrò camminare in mezzo all’arena, sapendo di trovarmi in un luogo a cui non appartengo? Sarebbe più onorevole anche per voi lasciarmi andare e vedermi morire nell’impresa, piuttosto che dire la verità.”
L’altro si alzò, andando a posizionarsi davanti a lui, fronteggiandolo. Erano alti uguali.
“Cosa ne sai tu del disonore?” sibilò, stringendo gli occhi a una fessura. “Cosa ne sai?”
Il volto di Eckart si aprì in un sorriso amaro, gli occhi grigi che guardavano quello che era stato suo padre con compassione.
“Mi avete appena detto che ne sono il frutto, non ricordate?”
L’uomo rimase in silenzio, non sapendo come rispondere, mentre il giovane si scostava da lui, dirigendosi verso la porta. Per qualche minuto continuò a risuonare il rumore dei suoi passi, finché, poi, si persero nei meandri dell’arena, inghiottiti dai suoni che provenivano dall’esterno.
 
~
 
Eckart era rimasto in attesa.
Non avrebbe potuto far altro se non aspettare. Dopo quel primo scatto di rabbia, che l’aveva portato a trascorrere più di una notte rintanato nelle viscere dell’arena, ben conscio del fatto che non sarebbe mai più potuto tornare in quel luogo che aveva sempre associato a casa sua, era subentrata solo una grossa tristezza. Aveva ripensato alla sua famiglia, quella da cui non riusciva a staccarsi, ricordando i giochi fatti con i fratelli e gli abbracci dati alla piccola sorella, l’ultima dei Treue, dai grandi occhi azzurri e i capelli castani raccolti in delle trecce sempre spettinate. Si era ricordato di come aveva calcato le strade di Centum Norr e i corridoi del palazzo reale, segretamente orgoglioso della sua casata e del fatto che fosse lui il maggiore, quello che le avrebbe dato la maggior gloria negli anni a venire.
E ora era tutto finito.
Se fosse tornato a casa, accettando di non partecipare all’impresa, sarebbe stato ricoperto dal disonore, sia se il padre avesse deciso di rivelare le sue origini, sia se non l’avesse fatto: preferiva partire e morire davanti a un drago, nel disperato tentativo di domarlo, piuttosto che vivere per gli anni a venire come un reietto, incapace di mostrarsi al mondo. Lui non era forte come Atlas e non sarebbe mai sopravvissuto a una cosa del genere.
Quando, alla fine, i maestri l’avevano acciuffato dal ventre dell’arena, nascosto in una delle tante sale riservate alla memoria di antichi e grandi cavalieri, gli avevano proibito di partire; gli avevano anche ordinato di tornare immediatamente dalla sua famiglia e, davanti alle sue proteste, si erano decisi a rinchiuderlo in uno studiolo, dove avrebbe dovuto aspettare l’arrivo del padre. Eckart si era mostrato quindi mansueto, profondamente contrito, ma, nel momento in cui l’avevano lasciato solo, aveva scassinato la porta ed era tornato a nascondersi nelle viscere dell’arena.
Solo dopo diversi giorni era riuscito a mettersi in contatto con Atlas, sorprendendolo mentre vagava tra i corridoi alla ricerca del fratello più piccolo.
“Atlas” aveva bisbigliato, nascosto tra le ombre create da un arco.
L’amico era sobbalzato e si era girato, raggiungendolo.
“Ma cosa… cosa è successo?” gli aveva chiesto, gli occhi verdi che scrutavano il suo volto con aria preoccupata. “A corte sembrano essere tutti impazziti, tra tuo padre che non esce più di casa e il Consiglio che si rinchiude a deliberare per delle ore su questioni oscure… perché ti stai nascondendo?”
“Non posso spiegartelo” gli aveva risposto, scuotendo la testa. “Non ora.”
Atlas l’aveva guardato, mangiucchiandosi il labbro inferiore con aria nervosa.
“Ho intenzione di partire tra due giorni” aveva continuato il giovane, lanciando un’occhiata veloce al corridoio, sicuro di aver sentito dei passi in avvicinamento. “Vado a domare il mio drago. Se vuoi seguirmi, tra due giorni, all’alba, sarò sugli spalti dell’arena.”
Detto questo era scappato, tornando a nascondersi
Ora, seduto sugli gradoni dell’arena, pregava gli Dei che Atlas avesse deciso di partire con lui. I primi raggi del sole avevano iniziato a illuminare quella che si preannunciava essere una fredda giornata primaverile, il cielo di un azzurro intenso, limpido, sopra di lui, la sabbia rossa e compatta dell’arena sotto. Quando finalmente l’amico comparve a testa bassa, una sacca sulla schiena e una spada sul fianco, soffocò a stento un grido di gioia, alzandosi in piedi di scatto.
“Vieni con me” gli disse semplicemente Eckart, infilandosi in un corridoio che si apriva vicino a dove si era seduto.
Non gli servì voltarsi per capire se l’amico l’avesse seguito o meno: sentiva dietro di sé lo scalpiccio dei suoi passi, che cercavano si stargli dietro.
“Non potresti rallentare?” gli chiese Atlas, mentre intanto lui aveva imboccato l’ennesima svolta, entrando in un corridoio in pietra uguale agli altri.
Continuò a camminare spedito fino a quando l’altro lo afferrò per il braccio con un grugnito, trattenendo quella che stata ormai diventando una corsa.
“Perché così tanta fretta?” chiese, la fronte imperlata dal sudore.
Eckart provò a liberarsi dalla presa, ma Atlas lo trattenne.
“Non ci muoviamo da qui finché non mi spieghi cosa ti è preso.”
I due ragazzi rimasero in silenzio a guardarsi. Eckart non poteva spiegargli tutto, non ora, altrimenti non sarebbero più riusciti a partire, a scappare via da quella maledetta città, ma sapeva anche che, se non gli avesse detto nulla, l’amico non l’avrebbe lasciato procedere.
“Ora non posso.”
Atlas continuò a guardarlo, gli occhi verdi seri e preoccupati che non si staccavano dal volto dell’altro.
“Ti prego, non ora.”
L’amico rimase in silenzio a guardarlo per qualche altro secondo. Alla fine abbandonò la presa sul braccio e tornò a camminare lungo il corridoio, precedendolo in silenzio. Non disse neppure una parola quando raggiunsero le stalle, i vari scomparti in pietra e la paglia che usciva da ogni angolo, e montarono su i due cavalli che Eckart aveva preparato la notte precedente, troppo agitato anche solo per provare a dormire. Cavalcarono in silenzio anche attraverso le strade acciottolate di Centrum Norr, i primi abitanti della città che spalancavano le imposte e iniziavano ad affollarsi sul selciato, e pure in mezzo alla pianura, che sarebbe stata totalmente immersa nel silenzio se non fosse stato per il continuo battere degli zoccoli dei cavalli sul terreno ancora gelato, dove spuntavano solo pochi ciuffi di primule, piccole stelle di un giallo pallido in quella distesa d’erba secca e spenta.
I ragazzi si fermarono solo quando il sole raggiunse lo zenit. Lì, immobili in mezzo al nulla, smontarono entrambi da cavallo, afferrando le briglie e iniziando a procedere a piedi, così da sgranchirsi le gambe.
“Ora potresti anche raccontarmi tutto.”
Eckart si voltò verso l’amico, che aveva alzato il volto al cielo, inspirando a pieni polmoni, gli occhi chiusi e le labbra piegate in un sorriso. Il giovane rimase in silenzio, non riuscendo a trovare le parole giuste per cominciare.  
“O forse anche no” sospirò Atlas, il sorriso subito spentosi per far spazio a un’espressione preoccupata.
“È… è difficile” mormorò l’altro, torcendosi le mani e lasciando vagare lo sguardo lungo la pianura che si stendeva davanti a loro. Si trovavano in mezzo al nulla.
“Più difficile che scappare da Cetrum Norr?”
Eckart tornò a guardare l’amico, che lo squadrava con un sorrisetto a metà strada tra il divertito e l’infastidito. Con un gesto distratto, lasciò scorrere le sue dita sul ricamo delle insegne della casata dei Treue che ornava il mantello, un drago rampante dorato inserito in una losanga dal campo a scacchi rosso e grigio.
“No… in un certo senso, non è difficile” continuò, calciando un sassolino. “Ho solo paura che tu decida di tornare indietro.”
Atlas sollevò il sopracciglio destro, perplesso, e gli fece cenno di andare avanti.
“Mi è stato proibito di partire” disse fermandosi, la bocca impastata e le parole che non volevano uscire. “Non sono un Treue.”
L’amico rimase in silenzio, non sapendo bene come interpretare le parole dall’altro. Se non fosse stato per il tono con cui aveva pronunciato l’ultima frase, si sarebbe messo a ridere, certo che l’amico gli stesse giocando solo un brutto tiro; ma, quelle poche parole erano scivolate fuori dalla bocca dell’altro a fatica, sussurrate appena. Gli occhi grigi dell’altro, oltretutto, lo osservavano seri, contornati da due profonde occhiaie violacee.
“Non guardarmi in quel modo” riprese Eckart. “Non mi sto burlando di te. Quella che ritenevo essere la mia famiglia non è altro che una massa di persone con cui non ho alcun legame di sangue, che mi ha tenuto con sé per pietà. Non sono un Treue, e non importa quanto io sia certo di avere ereditato il dono: se non lo sono, non sarò mai in grado di domare un drago.”
Atlas aggrottò le sopracciglia, socchiudendo appena gli occhi.
“E qual è la tua vera famiglia?” chiese, smettendo quell’inutile ricerca di quali fossero le parole giuste da pronunciare. Sapeva bene che a Eckart non servivano vuote formule di dispiacere o comprensione.
“Un nobile che è morto mentre tentava di domare il suo drago” rispose l’altro, scrollando le spalle. “Non so il suo nome, né mi interessa conoscerlo.”
Entrambi rimasero in silenzio, i cavalli vicino a loro che avevano iniziato a brucare l’erba e il vento che sibilava lungo la pianura, facendo ondeggiare gli steli come un verde mare in tempesta.
“Se desideri tornare a Centrum Norr, fai pure” concluse Eckart, avvicinandosi al suo animale ed estraendo dalla saccoccia il suo misero pranzo, composto da un pezzo di carne secca e una mela. “Non posso trattenerti dal farlo.”
Atlas si avvicinò a lui e l’afferrò per le spalle, costringendolo a guardarlo negli occhi verdi.
“Perché mai dovrei tornare indietro?” disse semplicemente, sorridendo appena. “Non mi interessa che tu non sia un Treue: non potrei mai abbandonarti.”
Fu come se il grosso nodo d’ansia che si era bloccato nel suo petto, all’altezza della bocca dello stomaco, si fosse sciolto sotto il tocco abile di un ladro, lasciandolo finalmente respirare a pieni polmoni. Per un attimo, aveva creduto che sarebbe rimasto solo, abbandonato da tutti.
“Grazie” mormorò Eckart, stringendo anche lui una spalla all’amico. “Grazie.”
L’altro scrollò la testa, quasi a dire che non aveva fatto nulla di particolare, e poi gli sfilò di mano la mela, dandogli un morso e tornando verso il suo cavallo.
“Buona” borbottò, montando sull’animale. “Dove lei hai rubate?”
Eckart ridacchiò. “Erano state lasciate per i cavalli.”
“Questi animali mangiano roba migliore di quella che mi viene servita normalmente a pranzo” sentenziò l’altro. A Eckart, che nel mentre era montato di nuovo a cavallo, non sfuggì il velo di tristezza che, per un attimo, gli aveva coperto la voce.
“Andiamo?” chiese poi all’altro, che rispose con un cenno affermativo.
Spronarono i cavalli e ripartirono.
 
~
 
I primi giorni di viaggio Eckart aveva temuto che il Consiglio avrebbe mandato loro incontro un qualche cavaliere, ma nessun drago aveva oscurato il sole durante il cammino. Inizialmente si era stupito che nessuno li avesse inseguiti, ma col passare del tempo si era reso conto che era logico che ciò non fosse accaduto: perché mai qualcuno avrebbe dovuto curarsi di rincorrere un bastardo e l’erede di una casata in rovina? Nessuno credeva che sarebbero mai riusciti a portare a termine quell’impresa, quindi non era necessario sprecare forze per riportarli indietro.
Proprio per questo motivo non tirò alcun sospiro di sollievo quando, finalmente, raggiunsero il piccolo villaggio di pescatori in cui avrebbero dovuto trovare qualcuno disposto a traghettarli fino a una qualsiasi delle isole vicine. Chiamarlo villaggio, in realtà, era più un complimento che altro: sette case, un’osteria e altrettante barche costituivano la misera visione che si parò ai loro occhi quando lo raggiunsero, trottando sulla strada fangosa che spaccava in due l’agglomerato.
Eckart, smontato da cavallo, rimase fermo per qualche minuto a osservare prima il mare, che si apriva davanti a lui come un blocco nero di schiuma ribollente, il vento che gli schiaffeggiava il viso, e poi l’insegna dell’osteria, che dondolava su un braccio metallico arrugginito e reso bianco dalla salsedine.
Al drago affamato.
“Entriamo?” gli chiese Atlas, nonostante non avessero alcuna alternativa.
Il giovane annuì e spalancò la porta, il legno umido e marcio che premeva sulle sue dita, ed entrò nell’osteria, in cui erano presenti solo un paio di uomini, seduti al bancone e intenti a giocare a carte con l’oste. Non si girarono nemmeno per vedere chi fosse entrato, ed Eckart, non sapendo bene cosa fare, rimase immobile davanti alla porta, Atlas ritto in piedi dietro di lui.
“Se siete in cerca di un passaggio, non lo troverete” borbottò l’oste, alzando finalmente il suo sguardo acquoso sui nuovi arrivati e gettando le carte davanti a lui. Tre assi e una donna di picche.
“Se siete qui per far altro… non saprei. Qui non viene mai nessuno per far altro.”
Eckart si avvicinò al bancone, le suole degli stivali che ticchettavano sul legno del pavimento.
“Perché?” chiese, sedendosi davanti al bancone vicino agli altri avventori, che lo squadravano con gli occhi socchiusi. Atlas, dopo un momento di esitazione, lo seguì, chiudendo la porta alle sue spalle.
“Il mare è cattivo, i draghi rabbiosi” rispose l’uomo sbrigativo, abbandonando definitivamente il gioco per iniziare a trafficare con qualcosa sotto il bancone.
Eckart fece una smorfia di disappunto. “Ma noi dobbiamo raggiungere le isole.”
L’uomo alzò le spalle, servendo dei boccali di birra ai due avventori, che avevano iniziato a seguire la discussione incuriositi, bisbigliando talvolta qualcosa l’uno nell’orecchio dell’altro.
“Buon per voi” borbottò l’altro, grattandosi le basette bianche che incorniciavano il suo volto rugoso. “Noi non dobbiamo raggiungerle.”
Eckart stava per ribattere ancora, pronto a spiegare quanto fosse importante per loro riuscire a sbarcare il prima possibile su un’isola, una qualsiasi, ma Atlas lo interruppe, afferrandogli la manica della casacca e avvicinandolo a sé.
“Se non vogliono accompagnarci, la tua parlantina servirà a ben poco” gli sussurrò nell’orecchio.
Eckart tornò a guardare l’oste, che aveva iniziato a scrutarli con curiosità.
“Vorremmo mangiare qualcosa, allora. O, visto che voi non volete, ci è impedito anche questo?” chiese tagliente, cercando di non pensare a quanto quella situazione fosse assurda. Sperduti nel mezzo del nulla e con nessuno disposto ad aiutarli, nemmeno coloro che dovevano farlo.
L’uomo accennò un sorriso e sparì attraverso una porta alle sue spalle, lasciandoli soli con i due altri uomini.
“Venite da Centrum Norr?” chiese quello seduto vicino al giovane, aprendosi in un sorriso sdentato che, probabilmente, nella sua mente sarebbe dovuto solo sembrare rassicurante, ma che invece, unito alle cicatrici che solcavano il suo viso giallastro, risultava solo grottesco.
Eckart annuì, strofinandosi il naso con la mano.
“Solo chi viene dalla capitale è così pazzo da voler raggiungere le isole” aggiunse l’uomo, continuando a sorridere. “Nessuno, però, ci ha avvertito del vostro arrivo.”
Al giovane sembrò che il terreno sprofondasse sotto i suoi piedi. Non si erano premurati di seguirli non tanto perché non erano interessati alla loro sorte, ma perché sapevano perfettamente che, arrivati in quello spunto di villaggio sulla costa, nessuno avrebbe mai voluto accompagnarli; solo una direttiva del Consiglio avrebbe spinto quegli uomini a prendere il mare per raggiungere le isole. I ragionamenti di Eckart, però, furono interrotti dalla voce di Atlas, per una volta sicura e senza alcuna sfumatura di timore.
“Come non vi hanno avvertito?”
L’uomo davanti a lui alzò un sopracciglio, perplesso, e scrollò le spalle, mentre Eckart, timoroso di tradirsi, si era messo a osservare con aria annoiata l’ambiente.
“Non siamo stati avvertiti” ripeté l’avventore, aggrottando la fronte come per cercare di ricordarsi qualcosa.
Atlas ridacchiò, tornando alla carica. “Ma ciò non è possibile.”
“Sarebbe difficile dimenticarsi di un ordine del Consiglio” replicò l’uomo, voltandosi poi verso l’oste, che era comparso dalla porta tenendo in mano due piatti fumanti. “Nessun cavaliere è arrivato negli scorsi giorni, vero?”
Il vecchio annuì, posizionando davanti ai giovani delle scodelle in cui galleggiavano dei pezzi di pesce e pane raffermo, nonché delle erbe dall’odore sconosciuto.
“E io vi ripeto che ciò non è possibile” replicò Atlas, continuando a sorridere affabile. “Non avete ancora riconosciuto chi avete davanti?”
I tre uomini si guardarono l’un l’altro, perplessi, scuotendo la testa.
“Costui è il primogenito della casata dei Treue, figlio dell’attuale consigliere del re. Le insegne che porta sul suo mantello parlano più che chiaro” continuò solenne il ragazzo, indicando l’amico, il drago dorato ben evidente sul suo petto. “A questo punto, dovrebbe esservi ovvio il motivo della nostra perplessità davanti alle vostre affermazioni.”
L’oste spalancò gli occhi, aprendo la bocca per ribattere qualcosa, ma non riuscì a trovare alcuna parola, rimanendo fermo a boccheggiare come un pesce appena tirato fuori d’acqua. I due avventori, invece, si scambiarono uno sguardo preoccupato, sbiancando in volto.
Atlas, intanto, intinse il cucchiaio nel piatto, iniziando a mangiare con tutta tranquillità; Eckart lo imitò subito, ben conscio che, se si fosse soffermato ancora per qualche attimo sui volti di quegli uomini, sarebbe scoppiato a ridere loro in faccia.
“Ottima la zuppa, vero?” chiese all’amico quando finì di mangiare, gli uomini che ancora si squadravano l’un l’altro, senza sapere cosa fare.
“Concordo” confermò Atlas, tornado poi a rivolgersi all’oste. “Quindi? Siete davvero così certi che nessuno vi abbia informato del nostro arrivo?”
L’uomo afferrò entrambi i piatti, impilandoli. “Potrebbero esserci stati dei problemi, effettivamente…”
“È vero” affermò l’avventore che fino a quel momento era rimasto in silenzio, facendo udire per la prima volta la sua voce profonda. “L’ultimo cavaliere venuto fin qui portava dei messaggi, ma potrebbe averne persi alcuni dopo essere caduto in acqua.”
I due ragazzi guardarono il gruppo con aria perplessa.
“Aveva alzato un po’ il gomito” si affrettò a specificare l’oste. “Per fortuna Ahti si trovava con lui, altrimenti non credo sarebbe riuscito a tornare a Centrum Norr.”
“Ahti?” chiese Eckart, aggrottando le sopracciglia.
L’avventore più silenzioso si alzò, avvicinandosi a loro e inchinandosi. “È il mio nome, mio signore.”
“E, ditemi…” disse il giovane, squadrandolo attentamente. “Sareste disposto ad accompagnarci su un’isola?”
L’uomo alzò lo sguardo, incrociando i suoi occhi chiari con quelli grigi del ragazzo. La pelle abbronzata del volto si arricciò in seguito a un sorriso composto da ben pochi denti.
“Certo, mio signore. Per un Treue questo e altro.”
 
~
 
L’isola, da lontano, era parsa ad Eckart come tutte le altre.
Brulla, con pochi alberi spogli che saettavano verso il cielo, stagliandosi sopra un mare scuro e ribollente, che sballottolava la barca su cui si trovavano quasi fosse un piccolo guscio di noce. A quella visione si era chiesto come fosse possibile che dei draghi, creature definite dalla tradizione come sagge, avessero eletto a loro dimora un luogo simile, dove sembrava che ogni altra forma di vita fosse morta.
“Dovrete fare in fretta: vi aspetterò solo fino al calare del sole” urlò Ahti, sovrastando l’ululare del vento e avvicinando il più possibile la piccola barca alla costa, un ammasso di sabbia nera che scivolava in quel gruppo di alberi spogli che Eckart aveva visto da lontano. Pini, il tronco scuro e i rami secchi, gli aghi di un verde cupo.
Il marinaio, intanto, aveva ordinato ad Altas di buttare l’ancora, avvicinandosi poi alla piccola vela triangolare per ammainarla. Quando la barca si era finalmente stabilizzata, rimanendo ferma a ondeggiare, Ahti si era avvicinato alla piccola scialuppa legata al fianco destro.
“Dobbiamo raggiungere l’isola solo con quella?” chiese Eckart allibito, osservando con gli occhi spalancati le condizioni del piccolo scafo sollevato appena sopra il pelo dell’acqua, il fondo a cui erano attaccate alghe e piccoli molluschi.
“Ovvio” rispose l’uomo, afferrando i due remi per guardarli con attenzione. Evidentemente soddisfatto delle loro condizioni, li allungò ad Atlas, che li afferrò riluttante, cercando di capire come mai li stesse affidando proprio a lui.
“Mai voi verrete con noi, vero?” chiese Eckart, lanciando un’occhiata preoccupata al mare. Le onde s’infrangevano sulla costa con violenza, battendola con scrosci ripetuti.
“No” rispose l’uomo, le labbra secche strette in una linea dura. “Devo rimanere a badare alla barca. Cercate solo di non sfasciarmi la scialuppa nel tentativo di approdare.”
Detto questo, fece cenno ai due giovani di calarsi nello scafo, lo sguardo che non ammetteva repliche di alcun tipo. Eckart, imprecando sottovoce, saltò dentro per primo, maledicendo il cattivo tempo che continuava a far oscillare la scialuppa, subito seguito da Atlas, che si lasciò cadere rumorosamente all’interno.
“E se non riuscissimo a farcela prima del tramonto?” chiese Eckart al marinaio, che intanto si stava preparando a calare la barchetta.
Ahti, però, non diede loro alcuna riposta, abbandonandoli alla furia delle onde.
Atlas iniziò subito a remare, cercando di contrastare la corrente che tentava di spingerli verso il largo, mentre Eckart muoveva il timone, nel tentativo di farli procedere dritti. Schizzi di spuma, sollevati dal movimento della barca, continuavano a colpire loro la faccia e gli abiti, infradiciandoli.
“Che qualcuno ci aiuti” pensò Eckart, mentre i cavalloni, ora, li trascinavano in avanti, portandoli verso la spiaggia nera.
L’impatto fu inevitabile, ma non distruttivo come avevano temuto: la scialuppa coprì la poca distanza che li separava dall’isola trasportata dalle onde che continuavano ad abbattersi sul bagnasciuga, senza però andare a schiantarsi sulla sabbia; al contrario, quando il fondale risultò essere fin troppo basso, si incagliò, costringendoli a calarsi in acqua per spingerla fino a riva.
Fermata la scialuppa, i due ragazzi si buttarono a terra, esausti.
“Almeno torneremo a Centrum Norr a cavallo di un drago” borbottò Altas, tirandosi su e passando una mano tra i capelli biondi umidi, così da togliere la sabbia che si era attaccata.
Eckart annuì, alzandosi in piedi e provando anche lui a scuotere via tutti quei granelli fastidiosi; visto, però, che tutti i suoi abiti risultavano umidi, se non addirittura fradici come nel caso dei calzoni, i suoi tentativi erano del tutto inutili.
“Oh, al diavolo” borbottò tra i denti, avviandosi verso il bosco. “Andiamo.”
Atlas gli corse subito dietro, sguainando la spada. La pineta si apriva davanti a loro, talmente silenziosa da sembrare morta: alcuni alberi, i tronchi neri e i rami morti, svettavano verso il cielo affiancati da compagni che parevano essere ancora vivi solo per miracolo, visto quanti pochi aghi puntellavano ancora i loro rami. Anche il terriccio su cui camminavano era scuro, molle, senza che un filo d’erba vi crescesse sopra. Solo qualche rovo, di tanto in tanto, spezzava la monotonia del paesaggio.
“Secondo te…” bisbigliò dopo un po’ di tempo Atlas all’amico, che continuava a procedere attraverso i pini con passi leggeri, cercando di fare il minimo rumore. “… come possono dei draghi vivere in posto come questo?”
Eckart scrollò le spalle. “Non lo so.”
“È tutto così… così morto” continuò l’altro, la voce che gli tremava appena a causa della paura e la spada sempre sguainata, pronta a calare contro qualsiasi possibile minaccia.
“Hai ragione” bisbigliò l’amico, fermandosi improvvisamente e voltandosi verso l’amico, tutti i muscoli tesi. Questo fece per aprire bocca, ma Eckart si portò un dito alle labbra, intimandogli di fare silenzio: sentiva, poco lontano, un rumore sommesso, come di un russare continuo e ritmato. In un primo momento, l’aveva associato alla risacca delle onde, che ancora riusciva a sentire in lontananza, ma un improvviso sbuffò, più forte degli altri, l’aveva messo sugli attenti.
Fece cenno con la mano a Atlas di seguirlo, avvicinandosi a un folto cespuglio di sterpi che si intrecciava tra i tronchi di due pini, ostruendo la visuale.
Il più silenziosamente possibile, Eckart si aprì un passaggio nel mezzo, ignorando i graffi che gli procuravano le spine. Solo quando giunse dall’altra parte, scostando l’ultimo gruppo di rami, si fermò, trattenendo il respiro.
Davanti a lui, accoccolato su se stesso in mezzo a una piccola radura d’erba secca e gialla, stava un drago: il muso allungato, in cui due grosse nari si dilatavano ritmicamente, era coperto da tante piccole squame di un azzurro cupo, tendente al grigio nella zona vicino alle due corna che sormontavano il capo, di un nero lucido e ricurve nella porzione terminale, dove si andava a disegnare una sorta di grosso uncino. Il dorso, su cui le squame creavano una delicata membrana azzurrina, si abbassava e alzava, scandendo il tempo; la lunga coda, infine, era arrotolata lungo il corpo, nascondendo le ali, chiuse.
“Oh, Dei…” pensò Eckart, incapace di muovere un muscolo. Sentiva, proprio dietro di lui, il respiro pesante dell’amico, anch’esso congelato dal terrore.
Eckart fece scivolare lentamente la gamba destra all’indietro, cercando di guadagnare nuovamente la magra protezione offertagli dal cespuglio, ma si bloccò nuovamente nel sentire provenire, alla sua sinistra, un nuovo fruscio. Qualcosa si stava avvicinando alla radura.
Udì distintamente Atlas borbottare un “Miei Dei, non un altro drago”, il tono che aveva assunto una sfumatura disperata. Immaginava perfettamente l’espressione dell’amico, le pupille degli occhi verdi dilatate dal terrore e il corpo tremante.
Eckart spalancò gli occhi, guardando fare il suo ingresso nella radura un’altra creatura.
“Beh, almeno non è un drago” pensò deglutendo, mentre quello che riconobbe essere un basilisco scivolava con misurata lentezza verso l’altro animale, ancora dormiente.
Le scaglie nere e lucide, il muso allungato da cui, di tanto in tanto, spuntava fuori una lingua biforcuta, gli occhi gialli, dalla pupilla allungata e lo sguardo cattivo, e il corpo lungo, così lungo da sembrare quasi infinito, spaventarono Eckart ben più di quanto avesse fatto il drago. Per fortuna, però, il basilisco in quel momento sembrava essere di gran lunga più interessato all’animale verso cui stava scivolando.
Fu un attimo.
Eckart non udì più nulla.
Sull’isola calò un silenzio completo: non sentiva più l’ansimare terrorizzato di Atlas, né i sibili del basilisco in avvicinamento, e neppure i fischi del vento. Riusciva solo a concentrarsi sul grande occhio azzurro, glaciale, che si era spalancato davanti a lui e che lo osservava attentamente, la pupilla allungata di un nero profondo.
Il drago si era svegliato.
Il resto, accadde così in fretta che il giovane, per un momento, si chiese se quel contatto intimo che aveva sentito fosse stato solo il frutto della sua immaginazione.
Il drago di voltò di scatto, lanciando una fiammata azzurrina verso l’altro mostro, che scartò con il muso a sinistra, non riuscendo a evitarla del tutto. Un intenso odore di carne bruciata raggiunse le narici di Eckart, così come lo strido disperato del basilisco s’infilò nelle sue orecchie, squassandole. Il drago, nel frattempo, si era alzato completamente, mostrando tutta la sua mole, e si era avvicinato all’altra creatura, che ci contorceva, continuando a stridere. Bastò solo un’altra fiammata, questa volta bianca, per concludere le sofferenze del mostro, e un morso per far sparire la testa dentro le fauci azzurre del rettile.
Eckart udì nettamente lo scricchiolio delle ossa che venivano triturate.
Quando il drago tornò a voltarsi verso di lui, il muso rosso del sangue del basilisco e gli occhi ancor più gelidi, spietati, la paura prese il sopravvento. Le gambe scattarono in automatico, iniziando a ripercorrere la strada fatta all’andata, seguite a poca distanza da quelle dell’amico. Terrorizzati, continuarono a correre nella foresta a lungo, senza mai fermarsi. Sentivano solo i loro respiri affannati, pesanti, e il rombare del sangue, che veniva continuamente pompato nelle loro gambe stanche.
E sarebbero andati avanti così fino alla spiaggia, se Eckart non fosse inciampato in una radice, rovinando a terra e graffiandosi il volto.
Atlas si fermò di fianco a lui, avvicinandosi per aiutarlo ad alzarsi, quando un possente ruggito lo congelò sul posto. Entrambi spostarono il loro sguardo in avanti, la spiaggia a pochi passi, dove il drago era appena atterrato, chiudendo le grandi ali dalla membrana sottile, su cui s’intrecciavano in arabeschi il grigio e l’azzurro.
“Scappa” disse ad Atlas, cercando di alzarsi in piedi. La caviglia, però, gli pulsava, costringendolo a rimanere a terra.
La risposta dell’amico lo colpì come un pugno.
“No.”
Con lentezza, vide Atlas mettersi in piedi davanti a lui, sguainando la spada contro il mostro, che li osservava con il muso inclinato di lato. Per un attimo, Eckart si convinse che il drago li avrebbe lasciati in pace.
Solo un attimo.
Poi il mostro si avvicinò, sradicando al suo passaggio un pino, e raggiunse i due ragazzi, mostrando le zanne in quello che sembrava un sogghigno divertito. Con un colpo di coda, lanciò in aria Atlas, facendolo volare contro il tronco sradicato di un albero vicino.
Eckart seguì la traiettoria del corpo dell’amico con il fiato sospeso.
Il rumore secco, di carne lacerata, che seguì l’impatto, non lasciò alcun dubbio su quello che era appena successo. Dal ventre di Atlas, riverso sul tronco, usciva un ramo intriso di sangue e interiora. Incurante del drago, che continuava osservare la scena con una curiosità morbosa, Eckart iniziò a trascinarsi verso l’amico, puntellandosi sui gomiti.
Lo raggiunse a fatica, pregando gli Dei di permettergli almeno di arrivare da lui, non pensando alle fitte di dolore, né al fatto che il drago avrebbe potuto porre fine alla sua vita in qualsiasi istante. Erano alla sua mercé.
“Atlas…” sussurrò, afferrandogli la testa con dolcezza e guardandolo negli occhi verdi, coperti da una patina di lacrime.
“Brutta storia, eh?” borbottò l’altro, un grumo di sangue che uscì dalla sua bocca mentre pronunciava quella piccola frase.
Furono le sue ultime parole.
Gli verdi persero ogni luce, iniziando a guardare nel vuoto, ed Eckart rimase lì, fermo, con le lacrime che gli solcavano il volto. Un improvviso coro di voci iniziò a rimbombargli nella testa, costringendolo a voltarsi verso la creatura, che ancora li osservava.
“Perché piangi, umano?”
Il giovane si pulì il volto con una manica della casacca, sostenendo lo sguardo del drago.
“Perché l’hai ucciso?” chiese laconico, la bocca secca.
“Non avrebbe dovuto minacciarmi.”
Eckart strinse gli occhi grigi.
“Sei il degno drago di un bastardo” disse, voltandosi poi a guardare ancora una volta l’amico. Gli chiuse gli occhi con un gesto delicato e poi posò un bacio sulla sua fronte, quasi come gli stesse augurando di fare un buon sonno.
“Bastardo?” chiesero le voci, tonalità diverse che si intrecciavano tra loro in perfetta armonia.
Eckart annuì solamente, incapace di pensare ad altro che al suo amico.
Per colpa sua, Atlas era morto.
Non esisteva più.
Si lasciò scivolare con la schiena sul tronco, fianco a fianco dell’amico, gli occhi chiusi e il desiderio profondo di morire anche lui che l’aveva afferrato.
“Debole, semmai” continuarono le voci nella sua testa, il drago che sbuffava irritato. “Alzati e vieni da me: ti porto via da qui.”
Il ragazzo guardò l’animale con scarso interesse. Andarsene? E dove? Avrebbe potuto viaggiare per secoli, coprendo miglia e miglia per raggiungere luoghi nascosti e mai esplorati, ma niente avrebbe cambiato la realtà: per colpa sua, Atlas era morto.
Il drago si avvicinò, continuando a sbuffare e far crollare gli alberi più deboli al suo passaggio; strofinò il muso contro il corpo del ragazzo, costringendolo ad alzare lo sguardo.
“Ho ucciso Atlas” sussurrò il giovane, perdendosi negli occhi glaciali dell’altro. “Non c’è alcun luogo in cui possa vivere.”
“Falso” disse il drago. “C’è l’Oltre.”
Eckart rimase a guardarlo.
Sospirò, alzando poi gli occhi verso il cielo cupo, da cui erano iniziate a cadere delle deboli gocce di pioggia, che picchiettavano sul terreno attorno a loro.
“L’Oltre?” chiese, una sfumatura divertita nella sua voce. Quella terra spoglia, barbara, sarebbe riuscita a cancellare la sua colpa?
“L’Oltre e la solitudine del cielo” conclusero le voci, il drago che faceva saettare la coda avanti e indietro, frustando i tronchi degli alberi.
Eckart guardò le nuvole, cumuli neri che si rincorrevano in mezzo al cielo.
“Meravigliosa straziante bellezza del creato divino” sussurrarono le voci, solleticandogli la mente. “Te la mostrerò.”
Il giovane tornò a osservare l’animale, perdendosi in quelle due pozze gelide che erano i suoi occhi. Poteva l’immensità del cielo salvarlo?
“E sia.” 



Angolo Autrice:

Mi sembra sia passata una vita dall'ultima volta che ho partecipato a un contest del forum e sono contenta di esermi in parte "riscattata" riuscendo a consegnare la storia (nella prima edizione mi ero dovuta ritirare).
Comunque, come dice già il titolo, dovevo scrivere una storia riuardante dei cavalieri dei draghi e, oltretutto, utilizzare una serie di elementi / prompt presenti in dei pacchetti; in particolare, avevo:
- impresa
- basilisco
- il protagonista deve essere adottato
Da una parte, quello che ho scritto non mi dispiace (era da tanto che non mi lasciavo prendere da una OS), dall'altra trovo la conclusione un po' tirata, nel senso che avrei potuto scrivere molto di più; non avendo il tempo, però, mi sono dovuta fermare. 
Anyway, come al solito, ogni commento, consiglio o insulto è ben accetto! 

BekySmile97

 
  
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