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Autore: Enchalott    26/05/2018    7 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pedine
 
Le grigie torri di Jarlath si stagliavano protese e contratte ad artiglio contro il cielo greve, come una mano cadaverica. Il lamento funebre del vento del Nord risuonava tra i pinnacoli pietrosi, simili a gigantesche dita spezzate, trasportando la neve perenne nei cortili della fortezza e sui tetti spioventi delle abitazioni, incollate alle pendici del dirupo che costituiva la capitale.
Solo la guglia più svettante era immune alla tormenta, avvolta in una fluorescenza verde simile a nebbia di palude, che la isolava dal furore della natura di quel luogo inospitale. Una terra fatta di scelte estreme, condannata al gelo perpetuo nell’angolo più remoto del mondo. Un inferno senza fiamme e senza aspettative.
Anthos era seduto di traverso sul trono ligneo, adagiato sul cuscino di pelliccia candida, le gambe avvolte dagli stivali bianchi e appoggiate sul bracciolo. Rigirava nervosamente tra le dita il Medaglione d’oro bianco, saggiando la gibbosità sfaccettata delle tre pietre; l’altra mano sosteneva il mento, puntato in direzione della sottile finestra ad arco.
Gli occhi dal taglio orientale erano persi nel nulla oltre il vetro. I suoi pensieri volavano come i fiocchi leggeri e vorticavano oltre la contingenza, estraniandolo dalla realtà. Una sottile ruga verticale gli attraversava la fronte, indicando uno stato di concentrazione assoluta: era presente, ma non lo era, il petto muscoloso che si alzava e si abbassava ritmicamente sotto la stoffa azzurra della blusa scollata. Un lungo mantello del colore del latte, agganciato alle spalle da fibbie d’argento, scendeva a terra drappeggiato, lasciando esposta a sinistra la spada, chiusa nel fodero lavorato. Superflua. La cingeva al fianco perché era il principe, non perché gli fosse utile. La sua arma era la magia. Una magia arcana e pericolosa, che gli scorreva nelle vene insieme all’antica eredità del sangue.
Il rigore della stanza non lo toccava, anche se il respiro leggero saliva in lente volute al soffitto decorato. Il freddo era la sua vita e la sua vita era quel freddo. Un’esistenza misteriosamente sortita e difesa, ora minacciata da ineluttabili segnali di rovina.
Le sue labbra si contrassero in una smorfia.
La Profezia si era espressa. Aveva compreso quella lingua dimenticata e oscura, tramite la quale aveva inteso che era giunto il tempo. Una parte del suo io si era rivoltata rabbiosa nell’odio inveterato legato al suo retaggio; un’altra aveva tratto un sospiro di sollievo. Gli era stata concessa una possibilità. Una sola. La partita era iniziata e la posta in gioco era la sopravvivenza, ma non si trattava di quella del Nord. Di Iomhar non gli sarebbe importato nulla, se non fosse stato così ancorato a quel futuro che non aveva scelto.
Era stata una folata di quel maledetto vento, insolitamente aromatico, a risvegliare in lui l’istinto che tutto stesse per compiersi. Era salito sulla torre proibita, che il popolo chiamava poeticamente Leu-Mòr, dimora della luna; aveva concentrato il potere, attirando i refoli di sfuggente aria morbida tra le mani. Sui suoi palmi aperti si erano depositati minuscoli granelli di sabbia rossa: la terra calda e abbagliante di Elestorya. Il segno.
 
Il suo sguardo severo si posò sull’affresco quasi dissolto che spiccava sulla parete di fronte: una fanciulla bionda e voluttuosa, con gli abiti fluttuanti nella tempesta, alzava in atto minaccioso la mano e da essa si sprigionava un chiarore azzurro e letale. Il tempo aveva cancellato il viso della donna, rendendola ancora più misteriosa e terrificante. Davanti a lei, un uomo inginocchiato si premeva la destra sul cuore, la testa piegata in segno di sconfitta, i capelli castani sparsi sulle spalle. Il colore si era ossidato e dal viso abbassato pareva che scendessero lacrime di sangue: il personaggio era irriconoscibile, ma i secoli avevano risparmiato un particolare. Al collo portava il Medaglione con le tre pietre.
Il fondale del dipinto era scuro e non si distingueva nulla, né il cielo né il paesaggio né l’occasione. Solo una falce scarlatta di luna risaltava in disparte.
Anthos richiamò dall’io profondo il potere, che gli obbedì sotto forma di un minuscolo globo di luce verde; con un gesto lieve dell’indice lo scagliò contro il muro dipinto, che esplose in una fumosa pioggia di calcinacci. Quando la caligine si diradò, le immagini campeggiarono al loro posto prive di danno, resistenti a qualsiasi sortilegio.
«Alcune divinità si ritengono maestre d’umorismo» commentò tra i denti, gli occhi che scintillavano di rabbia e di frustrazione.
Un movimento dell’aria lo fece voltare verso la pesante porta di legno borchiato, che si era aperta di una spanna, proiettando un sottile cono di chiarore. Una figura ammantata e tenebrosa avanzò, scivolando senza rumore sul pavimento consunto.
«Urien» ringhiò al nuovo venuto.
«Perdonate l’incomodo, altezza. Il nostro emissario è rientrato da Erinna.»
«Ebbene?»
«Non ha rinvenuto informazioni sulla Profezia. All’evidenza il luogo in cui è custodita l’altra metà non è di facile individuazione.»
«È stato scelto per la missione guidata dalla principessa?»
«Dolente, mio signore…»
Anthos aggrottò la fronte, fremendo di collera e si raddrizzò sullo scranno, fissando sul buio interlocutore uno sguardo disumano.
«Uccidilo.»
 

 
L’alba bianca irruppe spavalda, scavalcando le montagne color cannella, ammantate d’azzurro notturno, costringendo le ombre del mattino ad allungarsi sonnacchiose sulla sabbia che attendeva il tocco amorevole del sole del mattino.
L’antica città di Erinna ricevette il primo raggio, rispondendo con il baluginare rosso fuoco delle tegole d’argilla, con lo sventolio cremisi dei drappi issati alle finestre, con l’accendersi delle maestose mura amaranto, dalle quali pendevano grappoli di fiori gialli e avorio, preziosi come gioielli sul corpo di una sposa.
Adara si sporse alla finestra, lasciandosi invadere dall’aroma inebriante della sua terra, che avrebbe lasciato entro poche ore. Si riempì gli occhi dei colori caldi del Sud, che da quel giorno le sarebbero mancati come l’ossigeno, per tenerli con sé, per non dimenticare che Elestorya l’avrebbe attesa, certa della fiducia accordatale.
Si ripromise di essere salda come le antiche montagne e tenace come il vasto deserto che scorgeva dalla sua stanza: forte come quelle rocce possenti, che sfidavano il tempo. Persistente come la sabbia, che si infilava cocciuta nei più sottili interstizi durante le tempeste.
Non aveva paura, anche se avevano tentato di spaventarla fin dalla più tenera età con le leggende e le superstizioni, che parlavano di apocalittiche profezie o annunciavano vendicative reincarnazioni divine. Erano fantasie popolari, che trovavano appiglio nelle serate intorno al fuoco, dove le anziane sacerdotesse di anydri intrattenevano vecchi e bambini con la narrazione dei miti più arcaici, terrorizzandoli e popolando le loro notti di incubi impalpabili.
La sua spada invece era reale: la lama affilata non era un’illusione. Portava difesa e offesa con onore e non avrebbe incontrato le ombre, quando fosse stata sfoderata per svolgere il compito per cui era stata forgiata. Si trattava di raggiungere il Nord e di chiedere udienza al principe Anthos: magico e misterioso secondo le indiscrezioni, ma pur sempre un uomo di carne e sangue. In fondo, era curiosa di conoscerlo.
Una parte della Profezia era custodita a Jarlath, capitale di Iomhar, l’altra l’avrebbe salvaguardata di persona fino al compimento del viaggio: avrebbero dovuto confrontarle per capire cosa stesse succedendo. Se il reggente si fosse rivelato dotato come si raccontava, avrebbe certo interpretato gli antichi scritti nel modo corretto, confermando o smentendo la versione fornita da Dionissa. A quel punto avrebbero deciso di comune accordo come agire per scongiurare la fatidica fine del mondo. O convenuto che si trattava soltanto di vecchie storie polverose, prive di significato. In ambo i casi, avrebbe domandato al principe una cura per la sorella e su quell’argomento sarebbe stata molto meno indulgente. Si rabbuiò.
Quando Nissa si era ammalata e nessuno dei medici più rinomati di Elestorya era stato in grado di fornire una diagnosi, Adara aveva inviato ad Anthos una missiva, ma non aveva mai ottenuto risposta. I motivi potevano essere molteplici, ma l’assenza di riscontro si sarebbe risolta con quell’incontro a quattr’occhi. Era davvero così potente nella magia o era un bluff?
Rientrò nella stanza, chiudendo i veli delicati della bifora e si guardò allo specchio. Gli occhi erano castani come quelli di sua madre, scuri e caldi, resi intensi dalle folte ciglia. I lunghi capelli bruni erano intrecciati con nastri che replicavano il colore delle fiamme e ricadevano lucidi sulle spalle e sulla schiena sensuale. Portava una fascia rossa incrociata sul collo, che le vestiva il petto e la parte superiore delle braccia in un abile giro di stoffe; sui fianchi era appoggiata una lunga gonna dello stesso colore, sorretta da una cintura di cuoio e dotata di due alti spacchi laterali, che le permettevano di montare a cavallo. Da essa pendevano altre fettucce colorate, ricamate con perline di vetro luccicanti, e il gancio metallico destinato alla spada. Ai piedi calzava morbidi stivali nocciola, dotati di tacco e legacci sovrapposti, nei quali era contenuto un pugnale a stiletto. L’abito di foggia elestoryana le lasciava leggermente scoperto l’ombelico: intorno ad esso risaltava in bistro scuro una falce di luna crescente.
Anzi, il Crescente.
Il tatuaggio le era stato imposto appena nata, quando la notte che aveva accolto il suo primo respiro aveva inviato un segno inequivocabile. Sua madre, ancora sfinita dal parto, aveva convocato dal deserto le sacerdotesse Kalah, che avevano eseguito un rituale vecchio di millenni, tramandato segretamente di madre in figlia. Dionissa le aveva riferito che, appena ultimata la cerimonia, la luna era tornata al suo colore naturale.
Adara sospirò e nascose quello che per lei era solo un grazioso disegno.
Si riscosse per un leggero bussare alla porta. Al suo consenso la regina Eudiya fece il suo ingresso, tendendo le braccia.
«Mamma!» esclamò, priva del protocollo formale che aveva mantenuto durante la proclamazione a Campionessa del Regno.
«Piccola mia» sospirò la sovrana, stringendola al petto «Non mi sarei mai accontentata del saluto ufficiale alla tua partenza.»
«Ci sono notizie di mio padre?»
«Ho inviato un messo per comunicargli la notizia del tuo viaggio, ma è troppo presto per una risposta.»
La ragazza si rannuvolò. Erano settimane che il reggente di Elestorya mancava dalla capitale, impegnato nel deserto in un’impresa che si collocava a metà tra l’ambasceria e la spedizione militare. Un evento inconsueto lo aveva portato lontano dal palazzo.
«Gli Aethalas!» sbottò irritata «Ribellarsi accampando infamanti accuse sui diritti di reggenza, quando da anni mio padre siede sul trono con equanimità e saggezza! C’è qualcosa di terribilmente losco in tutto questo!»
La regina strinse la mano della figlia nel tentativo di placarne il disappunto.
«Adara, il re è andato laggiù proprio per capire che cosa sia accaduto. Gli Aethalas sono sempre stati devoti e corretti, alleati preziosi. Tuo padre tornerà dopo aver riconquistato la loro fiducia e scoperto che cosa li ha portati a minacciare l’integrità di Elestorya.»
Aethalas. I Guardiani del Mare. Un nome insolito per chi viveva ai margini delle dune, circondato da terre aride e rocciose. Forse era un riferimento al mare di sabbia salata, anydri, esteso e vibrante di miraggi, che costituiva gran parte del Regno del Sud. C’era sicuramente di mezzo quell’invadente Profezia nell’etimologia del luogo!
L’unico oceano effettivo era il Pelopi, che costituiva il confine con il Nord ed era infido, pericoloso e solcato dai pirati: nessuno sceglieva di attraversarlo, se non per stretta necessità. Pochi superavano le sue onde, mai indenni.
Adara pensò al lungo viaggio che l’attendeva. Le sarebbe piaciuto riabbracciare il padre prima di assentarsi. La sua presenza le infondeva fiducia, come quando da bambina le insegnava a cavalcare e a impugnare la spada.
Eudiya sospirò. Non era lì solo per un arrivederci.
«C’è qualcosa che devi sapere, Adara. Il mio discorso, ne sono certa, ti metterà di malumore, ma come tua madre e tua regina ti chiedo di ascoltarmi fino in fondo.»
 

 
«Dionissa…»
La principessa udì il sussurro nel dormiveglia e si sollevò sui cuscini, scostando le cortine di leggera organza azzurra, che celavano il suo riposo agli sguardi altrui.
L’alba filtrava tenue attraverso la finestra, segno che l’impero dei sogni era destinato a svanire di lì a qualche istante. Trattenne il fiato, incerta se la voce che aveva sentito fosse il frutto del suo torpore oppure reale.
La risposta avanzò verso di lei in due occhi ardenti, che avevano il colore dell’acciaio brunito e la osservavano a rispettosa distanza.
«Aska Rei! Ma come…?»
Il giovane piegò il ginocchio e si inchinò, abbassando il capo. I lunghi capelli neri gli scivolarono sugli omeri, ombreggiando il volto abbronzato. Il pugno chiuso, appoggiato a terra, si strinse tenace. La lunga spada sigillata nel fodero gemmato tintinnò a contatto con il pavimento di pietra.
«Sei impazzito?! Se ti trovassero nelle mie stanze, per giunta armato, ti rinchiuderebbero nelle segrete, buttando via la chiave! Sempre che la tua testa venga risparmiata! Come hai fatto a entrare? Dov’è Toula?»
Il comandante della Guardia Reale piegò la bocca in un sorriso scaltro e mostrò tra le dita un ago sottile, intriso di una sostanza rossa vischiosa. Un potente narcotico ricavato dalle bacche del deserto.
«Sta bene. Non si è accorta di nulla. Sono un professionista.»
Dionissa sospirò difronte a tanta spudoratezza, alzandosi. La testa prese a girarle per lo sforzo improvviso: si aggrappò ai drappi che scendevano dal baldacchino nel tentativo di non scivolare a terra. Aska Rei scattò in piedi e si precipitò a sorreggerla, prendendola tra le braccia con ben poca deferenza; lei si aggrappò alla stoffa chiara della sua casacca, lasciandosi cingere dalla stretta salda. Sollevò il viso, incontrando il suo sguardo carico di apprensione e gli sfiorò una guancia.
Lui si abbassò e raggiunse le sue labbra con il bacio appassionato che aveva faticato a contenere sin da quando aveva messo piede in quella stanza. La sentì rispondere con la stessa intensità, nonostante la fiacchezza dovuta alla malattia.
«Rei, sei sempre il solito. Non hai paura di niente, neppure di un eventuale contagio.»
«Qualunque cosa venga da te, la accetto» replicò lui, facendola sorridere “E poi a ben considerare sarei già da mesi preda della tua stessa patologia. Invece l’unico male che mi affligge è la consapevolezza che ti dovrò lasciare, sapendoti in pericolo di vita.»
«Non morirò prima di averti rivisto, amore mio. Ti chiedo di partire senza indugio, di non preoccuparti per me. Desidero che tu ti occupi di Adara. È così coraggiosa, così decisa, ma così giovane. Porta un peso maggiore di quello che riesce a scorgere, non è solo il fardello del destino del nostro mondo a pesarle addosso. Mia sorella non mi ha creduto quando le ho spiegato che il suo non sarà un semplice viaggio al Nord. Dovrà appoggiare i piedi sulle orme del fato. È troppo concreta, troppo fiduciosa. Invece io percepisco l’oscurità tallonarla con crudele insistenza. Tutto ciò è stato predetto e programmato da millenni, la voce della Profezia sta calando inesorabile e Adara è il perno del sentiero crudele tracciato dagli dei.»
«Sarò al suo fianco» rispose l’ufficiale, scostandosi piano dalla fanciulla che gli aveva rubato il cuore «La difenderò anche da se stessa se necessario.»
«Di te si fida, sei il suo mentore, riesci a prenderla per il verso giusto sin da quando era una bambina. Ti ascolterà. Non chiedo altro.»
Aska Rei sorrise, gli occhi che luccicavano d’amore nelle iridi verde oliva di Dionissa. Le sollevò il mento con l’indice e la baciò di nuovo, passandole le dita tra i riccioli castano ramati, stringendo forte il suo corpo sottile, smagrito dalla malattia e avvolto in trasparenti veli sovrapposti.
Un amore dirompente e tenuto segreto, sebbene fosse diritto della principessa scegliere il suo sposo al di là del rango e della posizione. Il giovane comandante interpretava alla perfezione il ruolo del duro e dell’impenitente, ma per lui esisteva solo il sorriso della giovane donna che stava tenendo tra le braccia.
«Quanto ancora dovrò aspettare il tuo sì, Dionissa?»
Lei lo fissò con gli occhi lucidi.
«Non posso sposarti ora, Rei. Gli dei sanno quanto lo vorrei. Ma i due Regni sono in pericolo. Mio padre è lontano da Erinna e se la mia infermità dovesse strapparmi dal mondo anzitempo…»
Lui corrugò la fronte e fece per protestare, ma lei lo fermò con garbo.
«Non posso chiederti di legarti a me, sarebbe un atto di egoismo verso di te, verso Elestorya, verso i miei genitori e verso Adara, che ha bisogno del tuo supporto.»
“Gli dèi! Mi sono consumato la voce a furia di pregarli per la tua guarigione, invece al loro sguardo non siamo che inutili pedine!»
«Non dire così» lo rimproverò dolcemente la sacerdotessa.
«Allora pronuncerò ben altro!» riprese Rei con decisione «Io li invoco come testimoni nel fulgore rosato dell’aurora di questa mattina e davanti ad essi giuro che sarò tuo marito, anche senza la cerimonia richiesta dalle tradizioni umane!»
Trasse il pugnale ricurvo dalla cintura di seta e si passò la lama sul palmo, versando il proprio sangue sulla fiamma oscillante della lampada a olio.
Dionissa lo osservò sbigottita e bevve quelle parole, che suonavano come acqua viva: l’uomo che amava le stava promettendo un futuro di cui non era certa, ma che desiderava con tutta se stessa. Un futuro che presto avrebbe imboccato la direzione indicata dalle contorte lettere della Profezia. Annuì, impugnando a sua volta l’arma.
«E io giuro davanti ad essi che sarò tua moglie, dall’alba di oggi per tutte quelle che il sole ci concederà. Questa è la celebrazione.»
   
 
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