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Autore: Calia_Venustas    27/05/2018    1 recensioni
Si dice che gli Dei siano tutti morti nella grande battaglia del Ragnarǫk, ma Loki, Padre delle Menzogne e di figli mostruosi è sopravvissuto e ancora si aggira, invecchiato e stanco, per il nostro mondo. Per generosità o forse per sfuggire alla noia, decide di privarsi dell'ultima mela di Iðunn, l'unico modo di allungare ulteriormente la sua esistenza millenaria, per salvare una perfetta sconosciuta da un terribile incidente che lui stesso ha causato.
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Mpreg, Tematiche delicate
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NOTA DELL'AUTRICE: Questa storia è il risultato della mia attuale ossessione per la figura mitologica del Dio Norreno Loki, ironicamente scaturita non dal suo ruolo nell’universo Marvel ma in seguito al mio recente playthrough del nuovo God of War. Il Loki rappresentato qui però trae ispirazione da varie fonti, prima fra tutte la mitologia, e non si rifà in modo diretto al personaggio del videogioco. Non aspettatevi un Loki bello e giovane, il mio Dio degli Inganni è un sopravvissuto del Ragnarǫk, ormai vecchio e un pò burbero, ma non per questo meno brillante e screanzato di quanto fosse in gioventù. In fin dei conti, tra tutti gli Aesir e Vanir è stato lui a ridere per ultimo!
Da God of War, ho preso in prestito l’idea di esplorare il tema della famiglia in quanto il nostro caro Trickster God ne ha una alquanto peculiare ed allargata.
Non so ancora di quanti capitoli si comporrà questa storia, ma in ogni caso spero che vi piaccia e, se vi va, lasciate pure una recensione!

- Calia
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La pioggia batteva incessante sull’asfalto quando suo marito l’aveva caricata in macchina. Non era la peggior tempesta che avessero mai affrontato chiusi nella loro utilitaria ma quella sera Leandra e Steven sentivano che qualcosa sarebbe andato storto, soprattutto lei che accasciata sul sedile posteriore a stento riusciva a trattenersi dallo scoppiare in preda ai singhiozzi.

Steven schiacciò l’acceleratore e i fari gialli fendettero la pioggia, illuminando il viale alberato che separava la loro vecchia casa dalla statale. “Andrà tutto bene, Lea. Vedrai.” la rassicurò con quella sua voce calda, una voce che Leandra non avrebbe mai dimenticato né smesso di amare nonostante tutto quello che il futuro aveva in serbo per lei in quella notte così fausta.

Il tergicristalli schizzava freneticamente avanti e indietro, spalando via quelli che sembravano litri e litri di acqua.

Leandra gemette, le mani insanguinate premute contro il ventre gonfio. Credeva che sarebbe morta lì, in quel preciso istante. Non sentiva altro che dolore, tutt’intorno lo scrosciare della pioggia contro la carrozzeria era assordante e il cuore le batteva così forte nel petto da sembrare sul punto di scoppiare.

Steven distolse l’attenzione dalla strada per rivolgere uno sguardo angosciato in direzione della donna, continuando a ripetere parole di conforto. L’ospedale non era lontano e le doglie erano appena iniziate, ma la gravità della situazione era chiara ad entrambi: Leandra era solamente al settimo mese di gravidanza anche se non lo sembrava affatto.

“Gemelli!”, aveva annunciato vivacemente il dottore mostrando alla coppia una sbiadita radiografia dove a malapena si potevano distinguere due embrioni ancora tutt’altro che formati. Paura e gioia avevano assalito la giovane donna, perchè sapeva che il parto non sarebbe stato semplice, nella sua famiglia i gemelli erano cosa comune in quanto si riproponevano almeno una volta per generazione. Leandra ricordava con affetto i giorni passati a sfogliare le vecchie foto della nonna che, allora giovane, bellissima e con i capelli cotonati posava a fianco della sorella identica a lei in tutto e per tutto. Poi, ovviamente c’erano i suoi nipotini di dieci anni, figli di suo fratello Desmond, due pestiferi diavoletti fulvi e lentigginosi come solo gli irlandesi purosangue potevano essere. E i cugini di Boston, maschio e femmina, omozigoti.

Ma Leandra non si aspettava di essere la prossima Halloran a mantenere viva quella curiosa tradizione di parti gemellari. Bastava guardare una qualsiasi foto di famiglia per capire che, sebbene condividesse legalmente il loro cognome, quella donna dai capelli neri e la carnagione olivastra non fosse originaria dell’Irlanda.

Eppure, quasi a voler cementare la sua appartenenza agli Halloran, il destino le aveva inviato due bambini, notizia che ovviamente aveva deliziato l’intera famiglia e suo marito prima di ogni altro.

Anche se adesso quei gemelli prematuri la stavano uccidendo.

Annaspò sul sedile posteriore come un’annegata, aggrappandosi alla portiera mentre un’altra contrazione così violenta da scuoterla da capo a piedi le strappava un grido lancinante. Il sangue grondava copioso tra le sue gambe e giù dal sedile, impregnando la moquette dell’abitacolo.

Steven sentì l’odore metallico invadergli le narici e schiacciò l’acceleratore fino in fondo, le mani madide di sudore serrate sul volante. Avrebbero dovuto restare a casa e aspettare l’ambulanza, Lea avrebbe dovuto stare distesa e al sicuro, non venir sballottata su un sedile duro mentre il cielo riversava su di loro un nuovo diluvio universale.

Gli alberi e il guard rail erano appena visibili oltre il muro d’acqua e i fari non abbastanza potenti da illuminare più di un metro d’asfalto alla volta.

L’impatto fu terribile.

Il cofano s’accartocciò come cartone mentre l’auto si capovolgeva e i vetri esplodevano. L’acqua invase l’abitacolo, mischiandosi al sangue. Le ruote posteriori giravano ancora quando il cuore di Steven smise di battere, il bel volto lentigginoso fracassato contro lo sportello, schegge di vetro che gli affondavano negli occhi e nel collo. L’airbag non aveva fatto altro che peggiorare le cose.

Leandra giaceva scomposta sul sedile anteriore, riversa su un fianco e schiacciata dal ventre sproporzionatamente gonfio, una gamba maciullata tra le lamiere, gli occhi sbarrati alla flebile luce della luna, il volto cereo fradicio di pioggia.

A pochi passi dalla carcassa ritorta dell’auto, qualcosa si mosse sull’asfalto. Scuotendo la grande testa cornuta, il cervo bruno che era appena stato investito si alzò vacillando sulle zampe, apparentemente illeso. L’animale scrollò la pelliccia grondante e anziché fuggire nella foresta esitò un momento, come se stesse ponderando sul da farsi. Tutt'intorno regnava un silenzio surreale rotto soltanto dallo scrosciare della pioggia e il ritmico beep dei sistemi di sicurezza del veicolo distrutto.

Alla fievole luce dei fari ancora accesi, la forma del cervo sembrò svanire e ricomporsi nella foschia assumendo le fattezze di qualcosa di quasi umano. L’essere avanzò verso l’auto, volgendo la testa ancora sormontata da grandi corna per scrutare oltre il parabrezza. L’oscurità volteggiava attorno a lui, avvolgendo la figura in una cappa di ombre liquide che sembravano espandersi e contrarsi all’unisono col suo respiro.

Gettò appena uno sguardo all’uomo morto seduto al posto di guida prima di strappare la portiera anteriore dal resto della carrozzeria senza alcuno sforzo e allungarsi all’interno per raggiungere la donna.

Tese una mano dalle unghie incrostate di terra per posarla sul suo ventre gravido, incurante del sangue. Sentì qualcosa muoversi sotto la pelle arroventata, ma non avrebbe saputo dire se si trattasse dei gemelli o degli ultimi spasmi della donna morente. Si avvicinò ancora, scavalcando le ginocchia di Leandra per prendere posto al suo fianco nell’abitacolo capovolto, ispezionando il suo corpo come un animale avrebbe fatto con una carcassa, fiutando i capelli neri madidi di sudore e affondando le dita nella carne.

Era nel fiore degli anni, sana, florida, perfetta per generare figli forti e sani. Tracciò l’ovale del suo volto con l’indice, ponderando sul da farsi. La donna respirava ancora, ma non avrebbe continuato a farlo ancora per molto vista la rapidità con cui perdeva sangue. Era soltanto colpa sua se era ridotta in quello stato, ma a lui non importava molto della vita degli umani, a differenza di altri suoi simili, non gli trovava poi così interessanti. Ma se c’era qualcuno per cui l’essere dalle lunghe corna provava un minimo di empatia, quel qualcuno era sicuramente una femmina gravida.

Non importava che fosse una mortale, un’orsa o un mostro, se portava in grembo una vita, come lui stesso aveva fatto ormai molti secoli orsono, Loki non poteva restare indifferente.

Sollevò il capo della donna con delicatezza, frugando nelle tasche del suo pastrano fatto di ombre e foglie morte alla ricerca dell’ultima mela di Iðunn in suo possesso. Un solo morso era sufficiente a tenere in vita quelli come lui per centinaia e centinaia di anni, ma un mortale doveva consumarla intera per trarne un qualche beneficio.

Odino diceva sempre che la fibra di cui sono fatti gli uomini non è la stessa degli Dei, eppure anche il Padre di Tutto era morto, proprio come gli altri, come muoiono gli uomini. E, a differenza di quanto dicevano le leggende, non era stato per causa sua.

Tornò a guardare la donna tra le sue braccia e la sentì tremare, scossa dall’anemia e dalle contrazioni. I gemelli non sembravano curarsi del fatto che la loro madre stesse per morire e il Padre delle Menzogne gli avrebbe accontentati.

Anche se questo significava rinunciare agli ultimi secoli che gli restavano da vivere su Midgar, perchè i meleti di Iðunn erano tutti andati distrutti all’arrivo del Fimbulvetr, l’implacabile inverno che precedette la fine di tutte le cose.

Loki addentò la mela gialla ed avvizzita, ultima della sua specie, e cominciò a masticare senza inghiottire. Un morso alla volta, divorò il frutto fino al torsolo assaporandone la dolcezza sulla lingua. Poi, con le guance piene di polpa sminuzzata attirò il volto della mortale verso di sé, premendo con decisione le labbra screpolate contro quelle ormai esangui della donna e iniziò a spingere il cibo con la lingua come avrebbe fatto un uccello che rigurgita insetti e briciole di pane direttamente nelle gole dei propri pulcini affamati.

Rise di sé stesso nello scoprirsi a chiudere gli occhi e a godersi quel contatto così umano. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva baciato qualcuno? La mortale stava a poco a poco riacquistando calore, i bocconi di mela che le scendevano lentamente giù per la gola mentre il Padre delle Menzogne tornava a concentrarsi sul ventre della donna, tastandolo con entrambe le mani con l’abilità di un dottore. Quello che scoprì non gli piacque affatto, ma non c’era più tempo da perdere. I gemelli dovevano nascere, oppure l’ultima mela incantata degli Aesir sarebbe andata sprecata.

   
 
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