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Autore: Servallo Curioso    05/07/2009    0 recensioni
"L'immagine che quel ragazzo mi trasmise era quella di una bambola di porcellana. Una di quelle appoggiate alle mensole, tenute a lucido, con cui i bambini non possono giocare perché fragili. Forse lo giudicai frettolosamente, ma al primo impatto fu l'unica cosa che notai.Tremai nuovamente. Mi metteva a disagio."
Dopo la morte di sua sorella, Isaac è rimasto da solo con un padre che lavora in continuazione e una madre che non ha mai conosciuto. Eppure non si butta giù: continua a vivere cercando di superare la tristezza e la nostalgia di quel periodo. Ciò che lo sconvolge è l'arrivo di un uomo in casa sua. Privo di nome, di un passato e di emozioni, costui risulta essere messo peggio del protagonista.
Tra i due però accadrà qualcosa: Isaac è come una botte traboccante di sentimenti, l'altro è una scatola vuota.
Questa storia è piuttosto vecchia, ma ero sempre stato restio nel pubblicarla. Spero che vi piaccia.
Genere: Romantico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[H]appily ever [a]fter

Act.1 - Inizio
 
Pioveva in un modo strano quel giorno.
Cadeva una pioggia fitta e leggermente guidata dal vento. Non era forte, anche se la rete di gocce creava una specie di muro davanti a me: leggere e danzanti arrivavano al suolo, rendendomi la traversata veramente piacevole.
Con il mio banale completo di jeans e giubbotto, ed imbracciando lo sgargiante ombrello azzurro, mi decisi a tornare a casa. Mi morsi il labbro perché quella pioggia era iniziata all'improvviso, ma mi resi subito conto che non mi disturbata affatto. Amavo la pioggia, non al pari del vento ovviamente.
Tra tutti i fenomeni della natura, si può dire che il vento fosse il mio preferito. Quando da piccolo nel cortile dei miei zii materni vedevo volteggiare le foglie cadute in brevi mulinelli, mi mettevo sempre a sognare. Immaginavo di essere una foglia e di volare al vento. Crescendo, questo fenomeno naturale, rimase nella mia mente perché era il simbolo del cambiamento. Le giornate ventose, infatti, mi istigavano a fare qualcosa che rimandavo da tempo, o cambiare qualcosa. Qualsiasi.
La pioggia invece mi faceva riflettere. Erano come mille e mille frammenti del mio passato che cadevano sul mondo; occorreva solo afferrare quelli giusti ed evitare spiacevoli memorie.
Mentre con lo sguardo perso nel vuoto pensavo a questo, attento comunque ad evitare le pozze e tenendo l'ombrello nel verso giusto, sentii dei colpi di tosse. Forti. Incredibilmente forti. Per un attimo ebbi paura che l'uomo malato, ero sicuro fosse un uomo, tossisse così forte da gettar fuori i suoi polmoni.
“Ha bisogno di qualcosa?”
Per qualche strano motivo quel giorno non andavo di fretta e avvicinandomi al signore posi spontaneamente questa domanda.
L'uomo mi guardò alzando lo sguardo e spostandosi quel candido fazzoletto dalla bocca. Era sui sessanta anni, mi sentii di azzardare. Forse cinquantacinque, mi corressi subito. Aveva uno sguardo scuro e desolato, allo stesso tempo momentaneamente sorpreso per la mia domanda.
Avvolto in un soprabito che non riuscirei a definire, con un bombetta appoggiata sul capo, l'uomo mi rispose.
“Non si preoccupi” scosse la mano. Per qualche attimo rimasi immobile sul fare di andarmene. Ma vedendolo ancora tossire, mi preoccupai di averlo sulla coscienza.
Accanto a lui aveva delle borse, contenevano dei libri a quanto sembrava. Mi avvicinai ad essi e porsi l'ombrello a quel tipo che ne era sprovvisto. Ripensandoci adesso, forse non avrei agito con tanta impulsività.
“Lo prenda, l'accompagno a casa” Ci fu una pausa tra il tempo che finii la frase e quello con cui l'uomo prese quell'oggetto per ripararsi dalla pioggia. Alzandomi il cappuccio continuai. “Le porto la borsa”.
Fin da piccolo, avevo appreso che le persone in difficoltà non andavano ignorate. Mia madre si era sempre preoccupata molto di questi piccoli insegnamenti, che alle volte facevano la differenza. Afferrando quelle borse lo accompagnai a casa. Mi indicò la strada da seguire e mi ringraziò più volte. Solo alla fine iniziammo a presentarci.
“Sei stato veramente gentile” iniziò così il discorso fermandosi “Il mio nome è Eduardo -il suo cognome non lo ricordo-, piacere di aver incontrato un giovane tanto disponibile” porse la sua mano con vera classe. L'ombrello teso verticalmente sopra la sua testa lo proteggeva dalla pioggia, ma a me, l'aveva fatto sembrare fino a quel momento un'entità a sé. Con un filo di esitazione, dettato dalla timidezza, ricambiai il gesto creando una debole stretta.
“Mi chiamo Isaac” dissi. Come ogni volta, durante la presentazione, mi passarono davanti agli occhi: data di nascita, indirizzo, nome ed altri dati che non avrei condiviso.
“Mi dispiace averti fatto disturbare tanto...”
“Non si preoccupi” risposi io. Quelle borse erano abbastanza pesanti.
Solitamente un gesto del genere l'avrei fatto poco volentieri. Casa sua a quanto pareva era dalla parte opposta della mia, e portare quel peso non era piacevolissimo. Ma il suo tono, il suo portamento e le sue continue scuse mi costringevano, incantandomi, a compiere ogni azione necessaria.
Abitava in un quartiere molto grazioso. Le case disposte in fila e indipendenti tra loro, rendevano l'aria più libera di quanto non fosse. I giardini perfetti, le siepi tagliate, i muri appena dipinti.
Inizialmente ammaliato da tutto ciò, tornai me stesso quando il primo pensiero critico mi passò nella testa. Odiavo tutta quella ricerca dell'esteriorità.
Mi resi conto della mia incostanza quando, giunto alla sua abitazione, mi fermai a fissare i fiori ordinati che, leggeri, dondolavano colpiti dalle gocce.
“Entra per favore. Mi farebbe piacere sdebitarmi offrendoti qualcosa” la sua voce mi fece riprendere.
“Grazie ma non ce n'è bisogno” anche se desideravo, le parole non vollero uscire. Mi persuase ad accettare e varcare l'ingresso di casa sua.
Non era molto luminosa, ma piacevolmente calda. Mi invitò ad appendere la giacca bagnata all'ingresso e così feci, trovandomi poi in un silenzioso salotto. Quell'alone di semi oscurità, sembrava abbracciare e preservare ogni cosa. Mi trovai alla fin fine in un luogo non troppo estraneo. Era quasi come entrare in una casa già conosciuta. Sedendomi sul divano porpora, davanti a quel piccolo ed ornato tavolino di legno mi accorsi della tristezza di quella casa. Ogni oggetto sembrava esserne impregnato.
L'uomo tornò subito con un vassoio dove erano posate due tazze da tè ed una brocca fumante. Non mancava neppure la zuccheriera ed i biscotti. Presi la mia tazza e evitai di dire che a me il tè non piaceva. Avevo paura di ferirlo e rendere la casa ancora più triste. Credo che comunque si rese conto che certe pratiche io non le avevo mai fatte, e mi guardò sorridente mentre tutto d'un fiato mandavo giù quella bevanda.
Non avevo la più pallida idea di cosa parlare. Davanti a un estraneo così, che avevo incrociato per strada, il numero degli argomenti che pensavo di proporre erano pari a zero. Attendendo qualche minuto, ero convinto di potermi alzare ed andarmene salutando cortesemente. Ma anche se il tempo passava, scandito dal grande orologio appeso vicino alla cupa libreria, non trovavo la forza di muovermi.
Fu in quel momento che lo vidi.
Affacciandosi da un corridoio buio, quel ragazzo si fece avanti con un passo deciso. Arrivò accanto al padrone di casa a rimase in silenzio, guardandomi. Mi costrinsi a ricambiare lo sguardo, come se fosse una sfida. In quei secondi, dentro di me si era fatta una strana idea della sua persona.
Chiuso nel suo corpo perfetto, tra le spalle larghe ed il torace possente, e mascherato dietro quel volto, liscio ed ornato da due castani occhi, scorsi un baratro. Tremai nascondendolo alla vista dei due.
Capitava a volte, come a tutti, che al primo sguardo si intuisse una particolarità di chi si aveva davanti. Un'emozione, uno stato d'animo. A me accadeva abbastanza frequentemente con gli sconosciuti. L'immagine che quel ragazzo mi trasmise: era quella di una bambola di porcellana. Una di quelle appoggiate alle mensole, tenute a lucido, con cui i bambini non possono giocare perché fragili. Forse lo giudicai frettolosamente, ma al primo impatto fu l'unica cosa che notai.
Tremai nuovamente. Mi metteva a disagio.
Non potevo negare comunque, che quell'individuo aveva il suo fascino. Quasi involontariamente, mi spostai verso di lui, strisciando sul morbido divano.
“Ha bisogno di qualcosa?” Chiese solennemente all'uomo che si era accomodato sulla poltrona a sorseggiare il tè. Lui rispose di no con la testa, ma poi lo invitò a presentarsi. Quasi con uno sguardo penitente, quella creatura si avvicinò a me. Dovetti alzarmi.
“Il mio nome è Hito, piacere di conoscerti” avevo appena allungato la mia mano quando la prese e la strinse. Fu Freddo e delicato come la carezza di un pupazzo. Da un uomo del genere mi sarei aspettato una presa forte. Artefatto. Aveva un modo di parlare e agire artefatto.
“Isaac, piacere mio” provai ad essere più formale possibile, ma quella sensazione non riuscivo a togliermela di dosso. Finito quel momento, me ne tornai a casa.

L'autunno procedeva abbastanza bene. La scuola dava i suoi problemi, eppure nulla di più rispetto al solito. Quando sentii il campanello suonare stavo finendo una ricerca. Rimasi qualche attimo ad aspettare, ma sentendo la casa vuota mi mossi per aprire.
Era triste, eppure quella casa era ancora vuota. Emanava nel suo insieme qualcosa di poco differente dalla casa di quel signore che qualche tempo prima avevo riaccompagnato a casa. Quell'appartamento era malinconico.
Mi incupii leggermente, mentre afferravo la maniglia. Né chiesi nulla, né guardai dallo spioncino. Aprii e basta. Fu quella la seconda volta.
Sul fare del pomeriggio, quel ragazzo tanto apparentemente forte quanto internamente fragile si era presentato alla mia soglia.
“Che succede?” ero sul punto di dire. Non posso affermare che avesse un'espressione sconvolta o trasmettesse qualcosa di particolare. Il suo volto era impassibile, privo di informazioni da darmi. Mi comunicò un immenso vuoto; un vuoto che finì per divorarmi.
Ogni volta che torno a pensarci finisco con il domandarmi di che colore sia il vuoto. Non so rispondermi. Ma in quel momento sono sicuro di averlo notato. Un colore che non trasmette alcun sentimento. Esiste veramente?

Apatia.

Con un volto finto mi porse una lettera. Io dovevo ancora riprendermi da quel vuoto. Non ero mai entrato in contatto con una persona così. Senza neppure conoscerlo, già sapevo che non era normale. Non era un pregiudizio o un pensiero di quelli che si fanno a volte. Lo sentivo dentro di me, sentivo che quel vuoto era anormale. Mi fece paura per un attimo continuare a pensare.
Presi la busta e scoprii che conteneva una lettera scritta a mano.
“Vieni dentro” facendolo accomodare in sala, sui miei vecchi divani, chiesi se aveva bisogno di qualcosa. Il suo 'no' di risposta mi parve stranamente forzato.
Era una lettera di Eduardo. Quel signore mi stupì. Le cose che lessi però, mi colpirono in maniera maggiore. Stavo forse sognando? Uno di quei sogni che si fanno durante il sonno profondo? Non me ne resi conto.
Piegandola risi forzatamente. “E' uno scherzo?” chiesi. Frasi come “te lo cedo” o “forse riuscirà ad amarti” mi facevano pensare ad uno scherzo di pessimo gusto o alla lettera di un pazzo.
Seduto sul divano che gli avevo indicato, Hito, mi rispose un 'No' secco.
“Non capisco”
“Il signor Eduardo, mi ha riferito che d'ora in poi dovrò rendere conto a lei. Ha detto che è riuscito solo in metà del suo esperimento e che ha notato dentro di lei i colori che servirebbero”
Pensai fossero entrambi pazzi. Mi balenò l'idea di fuggire, ma contro una persona così sarei andato poco lontano. Mi resi conto solo in fondo che mi aveva dato del 'lei'.
“Colori? Rendere conto?” chiesi ancora tentando di ragionare.
“Il signor Edward mi aveva avvertito che forse lei sarebbe stato confuso. Così mi ha ordinato di spiegarle tutto”
Tutto questo era solo l'inizio di una lungo storia.
“Il signor Edward è un alchimista” mentre iniziava a parlare, con un tono completamente insensibile, io mi convinsi che erano folli. L'alchimia non esisteva. “Un giorno, decise di creare un essere umano perfetto. Prese un corpo e un'anima per compiere un rituale. Ci mise molto tempo e ci vollero svariati esperimenti.”
Sicuramente ora dirà che è nato così, mi dissi tra me e me.
“Io sono nato così”
Tremai, ormai lo facevo spesso.
“Mi ha detto che dopo di me si fermò, non aveva più le forze di andare oltre. Ma io sono imperfetto. Io non sono capace di provare sentimenti”
Incredulo alle sue parole, non riuscii a distogliere lo sguardo. Ignorando il suo bell'aspetto, mi concentrai su una voce sommessa. Singhiozzi.
Qualcuno stava piangendo. Se davvero non provava sentimenti di chi era quella voce? Dalla bambola immobile che era, la mia mente lo inquadrò ora solo come un bambino che aveva bisogno di aiuto. Mi fido troppo facilmente, anche se tutto è sorretto da una inverosimile storia. Quando quella sensazione svanì, mi resi conto che era calato il silenzio. Non solo. Mancava qualcosa.
“Cioè. Non ti aspetterai che ti creda?”
“Il signor Edward ha detto che lei avrebbe potuto aiutarmi”
“Non darmi del lei” mi infastidiva quando lo diceva.
“Come volete”
“Neppure del Voi. Tu. Semplicemente del tu.” Lo trovai veramente folle. Un turbine di emozioni contrastanti avvolse il mio cuore.
“Tu puoi aiutarmi. Per favore” sembrava una macchina; non mi lasciò neppure il tempo di comprendere le sue parole “Il mio creatore mi ha consigliato di dire 'per favore' o 'ti prego'. Perché era più probabile che tu accettassi”
Rimasi in silenzio. Era davvero impedito in certe cose, o fingeva maledettamente bene. “Non devi dirmelo però” lo rimproverai. “Per far si che funzioni, devi dire semplicemente 'per favore' o cose così, senza aggiungere che qualcuno te l'ha consigliato. Perde il suo effetto”
Ci pensò un pochino. Corrugò la fronte solamente un poco. “Scusa” passarono alcuni secondi. Nel silenzio ne contai cinque.
“Ti prego” Sospirò poi. Come se si volesse correggere.
“Ma no. Non va bene. Ormai che hai rivelato chi te l'ha consigliato, non fa più lo stesso effetto”
“C'è un modo allora per convincere qualcuno?” tradussi in curiosità il bagliore che per pochi attimi pervase il suo sguardo.
“Potresti inchinarti e dire 'sommo padrone la prego di aiutarmi' forse potresti farcela” Non lo prendevo sul serio. Stavo scherzando anche se improvvisai un tono serio.
Persi ogni sicurezza, quando si alzò e fece quello che gli avevo appena detto. Si inchinò e pronunciò quella frase senza esitare. Sollevandomi dal morbido schienale del divano mi spaventai. Per un secondo ci credetti. Un secondo abbastanza lungo da far crollare tutto il castello di certezza che mi ero creato attorno. Dov'erano le mie ragioni ora?
“Alzati. Stavo scherzando!” lo rimproverai ancora. Si scusò. Non era vero che non provava emozioni. Nei suoi 'scusa' c'era tristezza e nei suoi 'ti prego' c'era una specie di vera sottomissione. Quelle sfumature apparentemente impercettibili io riuscivo a notarle. Erano piccole, troppo leggere. Come un sasso gettato nell'oceano. Ma erano una base.
Ancora ora mi chiedo se al posto mio ci fosse stato un altro. Cosa avrebbe fatto? Se uno al posto mio non avesse scorto quell'anima disperata che cadeva nel vuoto senza toccare mai il fondo, come si sarebbe comportato? Posso dire, adesso, che fu una fortuna che io fossi io e non un altro.
“Dov'è il signor Edward?” Chiesi.
“Ha detto se ne sarebbe andato” rispose subito.
“Ho la casa momentaneamente libera... puoi dormire da me” La casa era veramente libera e senza rendermene conto stavo facendo una cosa che tutti avrebbero considerato una pazzia.
A quel tempo avevo una vita piuttosto indipendente. Potevo fare, approssimativamente, quel che volevo. Mio padre lavorava fuori, mia Madre era scappata quando ero piccolo e mia sorella era morta. La casa piangeva al posto mio ogni giorno. Con lui, pensai, mi sarebbe sembrato di vivere di nuovo con qualcuno. Un modo egoistico per sentirmi vicino a una famiglia.
Lo accompagnai nella camera di mio padre rimasta tale e quale a come l'aveva lasciata.
“Puoi dormire qui. Ma non toccare o muovere nulla” sarebbe tornato nel weekend, e per giorno avrei inventato una scusa. Se Poi si lamentava del letto sfatto potevo sempre dire che ci ero stato io. Tornando indietro, lungo il corridoio, scorsi camera di Sarah. La rividi lì, seduta a gambe incrociate sul letto a sfogliare un libro. Con il suo fare diretto ma contenuto mi avrebbe detto di chiudere la porta. Sentii il bisogno di farlo anche rendendomi conto che stavo sognando. Non riuscivo ad abituarmici. Era sicuramente per quel motivo, che volevo di nuovo qualcuno dentro la casa.
Quando mi voltai verso di lui, avendo ancora nel campo visivo quella porta, sentii il mio petto comprimersi e le lacrime salire agli occhi senza però uscire. Quando accadono cose di una certa gravità, ciò che si prova all'inizio è come la punta di un iceberg. La sofferenza reale arriva solo dopo, nelle piccole cose quotidiane. Il senso di abbandono e mancanza; la consapevolezza di non poter tornare indietro sono bestie che si rivelano in un secondo momento. A me avvenne quel giorno a più di un anno di distanza.
In un drammatico istante presi realmente coscienza della morte di mia sorella.
Non so come mi guardò lui. Ero debole e indifeso dopo aver preso finalmente le redini della situazione. Mi sentivo come dopo aver scoperchiato un tombino che puzza. Dopo averlo aperto la vampata è veramente terribile, ma piano piano l'odore svanisce mischiandosi all'aria esterna.

Prendersi cura di una persona è molto difficile. Hito era quasi auto sufficiente, ma in relazioni con la società aveva un 'non classificato'. Mi chiedevo spesso, in quei giorni, come potessi sperare di aiutarlo. Io che non riuscivo neppure a tenere viva una pianta.
I fine settimana dovevo dormire con lui. Mio padre tornava la sera tardi e io la usavo come scusa per nascondere Hito nel mio letto. Mio padre non sarebbe mai entrato in camera mia nel cuore della notte a vedere, e poi era molto stanco. Per questo motivo dovetti abituarmi al pensiero di condividere il mio piccolo letto con un uomo. La Mattina poi, visto che lui si alzava tardi, inventavo una scusa del tipo “Sai, questo amico è venuto stamani a chiamarmi”e ci credeva.
La Notte, però, mi svegliavo parecchie volte. Ogni volta mi prendeva paura. Appurata la sua inoffensività, e la sua completa obbedienza, non riuscivo comunque a fare sogni tranquilli. Non avevo mai dormito con un estraneo nello stesso letto.
Ah. Poi c'era la storia che non aveva bisogno di dormire. Non dormiva mai, sembrava che stesse nel letto solo per farmi un piacere e rimaneva tutta la notte a guardarmi o guardare il soffitto. Mi metteva in soggezione. Nell'intimità dei miei sogni temevo potesse rubarmi qualcosa. Non qualcosa di materiale, ma qualcosa di mio. Uno dei miei tanti 'colori'. E' stupido a pensarci bene. Ma non potevo fare a meno di sospettarlo. Così, ogni volta che mi svegliavo di notte, mi giravo verso di lui in modo serio.
“Hai bisogno di qualcosa?” oppure “E' successo qualcosa?” lo chiedeva sempre.
Violando il mio mondo così era riuscito a toccarmi in profondità. Dopo un iniziale disagio tornavo a dormire vedendolo come un cane da guardia. Era un essere umano al pari degli altri. Me ne convinsi nel dormi-veglia di una sera. Appoggiato al cuscino, dandogli le spalle, sentii il ritmo dei suoi battiti.
Faceva anche attività fisica, o meglio, era portato a farla. Per questo motivo quando non sapevo cosa fargli fare lo mandavo a compiere qualche lavoro manuale per la casa o semplicemente a correre per il cortile. Lui non faceva assolutamente nulla altrimenti. Attendeva solo una mia richiesta o un mio ordine. Mi sentivo sempre un po' in colpa a fargli fare queste cose.

Io non ero uno psicologo o qualcuno che era esperto nel settore. Per aiutarlo feci quel che potevo. Stargli dietro, mostrare a lui come funzionavano alcune cose. Il Perché di alcuni comportamenti. Mi rubata tempo. Tenermi occupato evitava di farmi pensare alla solitudine della casa.
Una mattina uscii come al solito per dirigermi a scuola. Era un freddo novembre. Tra le persone che aspettavano il pullman incrociai una mia vecchia compagna di scuola.
“Ciao Isaac!” esclamò. Io Ricambiai.
Tra un discorso e l'altro notavo che aveva una faccia pensosa, come se si tratteneva nel dire qualcosa. Sputò fuori tutto in un momento di silenzio tra noi.
“Senti... ho saputo di Sarah. Mi dispiace molto”
Non era il massimo. Qualcuno aveva detto anche di meglio ma apprezzai il gesto. Anche se era passato un anno, usciva sempre qualcuno che ne era appena venuto a conoscenza. Mi chiese anche come stavo. Le risposi che era passata.
Giunto il periodo natalizio, mi sentii soddisfatto di vedere Hito abbastanza migliorato. La sua curiosità era crescente, e anche se non provava nessuna soddisfazione nello scoprire le cose, continuava a chiedere. Mi stancava ma allo stesso tempo mi rendeva fiero di me.
Le strade in quel periodo sono sempre addobbate al massimo. Luci, suoni, persone che passano. Tutto fa sembrare anche la mia piccola città un luogo caotico. Faceva buio presto e decisi che stare in casa era noioso. Iniziò a muoversi dentro di me una strana idea e verso l'ora di cena mi avvicinai alla sua figura di spalle.
“Hito. Che ne dici di uscire?”
Lui mi guardò e rispose “Come desideri”
Mettendomi una giacca e vestendolo con qualcosa che durante quella convivenza eravamo riusciti a comprare, scendemmo lungo il viale. L'atmosfera era sognante e suggestiva, ma lui rimase lo stesso. Ci mettemmo uno di fianco all'altro e camminammo a lungo. Era abbastanza noioso. Lui non parlava molto e i suoi discorsi erano oggettivi. Non rideva, non si offendeva, non aveva malizia. Era come portare a spasso una statua. Mangiammo due pezzettini di pizza e io bevvi qualcosa. Giacché lui aveva un aspetto adulto, poteva anche comprare qualche alcolico. A me non piacevano, ma feci un'eccezione. Sperai che bevendo un poco l'uscita sarebbe diventata più sopportabile. Lui invece rimase sobrio.
Bevvi una cosa molto leggera, quella meno costosa, e mi ripugnò a tal punto che non cambiò nulla.
Decisi a questo punto, di ravvivare la serata in un altro modo. Volevo farmi una risata alle spalle delle agente che c'era là attorno, che mi passava vicino. Io sono sempre stato il tipo da queste cose. Avvicinandomi a Hito, mi strinsi al suo grande e solido braccio. Posai il volto su di lui e continuammo a passeggiare. Era un conforto, mi rilassava. Ma fin da subito lo sguardo di tutti cadde su noi due. Lui impassibile non si rese conto del perché e continuò a camminare. Io come una ragazzina, mi strusciavo al suo corpo. Trattenni le risate a stento. Tutti quelli sguardi che mi cadevano addosso, anzi, ci cadevano addosso. Avevo una gran voglia di ridere in mezzo a tutti. Mi divertiva davvero vedere come bastava poco ad attirare la loro attenzione. Lo feci solo perché eravamo arrivati in un quartiere dove non conoscevo nessuno, e pregai di non incrociare degli amici o parenti.
Passeggiando, lo portai in una strada deserta. Il lampioni illuminavano discretamente i bordi del marciapiede sul quale ci sedemmo. Io ero stanco, lui no. Avevo voglia di dire qualcosa come “è stato divertente no? Far finta di stare assieme. La gente si scandalizza per poco. Chissà poi che discorsi faranno” ma non lo feci. Lui non si era divertito, lui non provava quel genere di emozioni.
“Perché ci guardavano tutti?” domandò ad un certo punto, interrompendo il canto delle cicale.
Io mi voltai verso di lui. “Perché eravamo due uomini”
“Non capisco. C'erano tanti uomini assieme lungo la strada”
“Noi però eravamo abbracciati”
Sembrò collegare le cose, ma non era così. “E' una cosa brutta?”
“C'è chi la vede in questo modo”
“E tu?”
Mi Grattai la guancia con un dito. “Non la trovo una cosa brutta, è una cosa diversa dalla norma” Non continuai. Sapevo perfettamente che fare dei moralismi con lui non aveva senso. Volevo dirgli che l'intolleranza era una cosa brutta, che occorreva avere rispetto, ma mi frenai. Non aveva una personalità con cui confrontarsi.
Riprese la parola. “Perché due uomini dovrebbero abbracciarsi?”
“Perché si vogliono bene o si amano. Sia che venga inteso come un amore fraterno tra amici o parenti, o un amore più classico come in una coppia”
“E noi ci amiamo?” Lo chiese senza un tono particolare, ma mi stupì lo stesso. Non so in quale senso lo intendesse però.
“L'amore è un'emozione” lo interruppi. Così, dopo averci pensato ripropose la domanda sotto un'altra forma.
“E tu mi ami?”
Arrossi leggermente, per l'imbarazzo di una domanda del genere. “No. L'amore è un'emozione molto importante”
Forse, un individuo normale si sarebbe offeso ad una risposta così. Lui, invece, sembrò non preoccuparsene e continuò.
“Allora perché andavamo abbracciati?”
“Era per vedere le reazioni degli altri. Stavamo fingendo” Ripensandoci quella frase in quel contesto era nettamente sbagliata. Fingere presuppone l'avere un 'sé stesso' da nascondere dietro una maschera momentanea. Hito non aveva un 'sé stesso' quindi era impossibilitato a fingere.
Parlammo ancora un po'. Poi decisi che era giunto il momento di tornare a casa. Stando con lui, quella sera la mia mente iniziò a muoversi. Mi tornò alla memoria un momento lontano, relativamente lontano.

Mia sorella aveva una figura molto fragile e contenuta, uno sguardo trasparente e dei lunghi capelli neri. Era veramente bella. Il mio nero, dei capelli, non è paragonabile al suo corvino. I suoi occhi azzurri valevano almeno il doppio dei miei tendenti al grigio.
La cosa veramente toccante di lei, era quella grazia, quell'eleganza che accompagnava ogni sua azione. Anche se, come ho già detto, aveva un carattere schietto.
Con i ragazzi non ha mai avuto problemi. Per la nostra casa passavano centinaia di fidanzati. Erano tutti passeggeri, duravano pochissimo. Il più incostante dei due ero comunque io. Nessuno poteva battermi, e per questo per me era ancora più difficile fidanzarmi, giacché cambiavo troppo rapidamente gusti.
Era sempre molto gentile con me, si preoccupava sempre di ciò che mi accadeva. Ripensandoci, mi viene da piangere. La sua figura che come un'ombra calava nella mia stanza di notte ed entrava nel mio letto abbracciandomi forte, è qualcosa di indimenticabile. Aveva un sesto senso per i miei sentimenti. Ogni volta ero un po' giù, anche se non lo davo a vedere, la notte veniva a farmi visita. Poi con calma mi stringeva a sé e tornavo felice qualsiasi cosa era accaduta.
Un giorno di aprile tornò a casa con delle buste. Naturalmente la casa era vuota, ed io con una t-shirt le chiesi cosa aveva comprato.
“Un regalo” rispose con aria severa. “E' per te!” Posando sul tavolo quelle borse di plastica, estrasse vari oggetti. Lì guardai stupito.
“Allora: un libro perché so che ti piace leggere”
“A me non piace leggere!” la rimproverai.
“Fa bene, quindi ti piacerà!” Rispose come se fosse un mio obbligo “E Una Piantina grassa”
Guardai quella piantina minuscola e verde. Fu una splendida idea.
“Ti sfido, se riesci a tenerla viva per almeno un anno, poi ti aiuto a convincere babbo per un cane!” Era da tanto che ne volevo uno. A lei non piacevano molto, ma sarebbe disposta a tenerlo per accontentarmi. In quei momenti la vedevo più come una madre che come una sorella. Una Madre che non avevo mai avuto veramente.
Una sfida eh? Pensai subito che l'avrei vinta. Una Piantina non poteva creare così tanti problemi. Così mi misi a curarla in tutti i particolari. Aveva anche un nome. Cresceva benissimo, si gonfiava e ad un certo punto mi preoccupai che non entrasse più nel vaso.
Fu il suo ultimo regalo.

Con poca attenzione, osservai i giorni passare e arrivò il natale. Quell'anno andai un paio di giorni a casa di parenti fuori città per festeggiare. Facemmo un cenone e cose simili. Hito era a casa, da solo.
Nel tempo che era passato aveva anche lavorato un po'. Data la sua natura non poteva certamente lavorare in modo normale, si sarebbe fatto scoprire. Per questo fece un servizio di assistenza per le persone cieche. Erano soprattutto anziani. Lui non doveva far altro che attendere una chiamata, dove gli veniva data una lista di cose e andarle a comprare. Faceva, quindi, la spesa per conto loro. Era un lavoro un po' così. Non doveva però relazionarsi con nessuno che non fosse la commessa. Fu la prima idea che ebbi e racimolò qualcosa. Nei momenti in cui non era a casa, e correndo andava verso il supermercato, mi sentivo di nuovo oppresso dal silenzio.
Con quel poco che guadagnava poteva comprarsi qualcosa, sotto mio consiglio ovviamente.
Al nostro ritorno a casa, mio padre, scappò subito. Disse di avere un'importante impegno lavorativo o una cosa così. Io dentro di me sapevo, però, che anche lui si sentiva schiacciato dalla malinconia della casa.
Stavo rimuginando sotto le mie calde coperte da solo, mentre Hito era nell'altra camera. Ragionavo su cosa fare a capodanno o cose frivole così. La mia mente era leggera. Mi girai un po' di volta, e quando andai a lanciare un'occhiata alla porta socchiusa notai qualcosa di strano. Da quando ero tornato, il pomeriggio, lui sembrava strano. Non volli chiedere nulla, sapendo che non avrebbe saputo formulare una risposta. In cuor mio speravo sentisse una qualche emozione.
Era lì, sul limite della camera a guardarmi con aria sconfortata.
“Che succede?” Chiesi alzandomi a sedere sul bordo del letto. Ero mezzo addormentato e probabilmente tenevo anche un pessimo aspetto.
“Posso dormire con te?” per una qualche strana ragione a quella domanda ripresi perfettamente coscienza.
“Cosa?” avevo paura di aver inteso male.
Lui abbassò lo sguardo. Io sentii di nuovo quel pianto sommesso. “Non è importante”
“Per favore ripetilo”
Esitò ancora, così con lo sguardo glielo imposi come se fosse un ordine.
“Chiedevo se... potevo dormire con te” No. Non avevo sentito male.
Ero leggermente perplesso, e vedendomi probabilmente si sentì di dover spiegare questa mossa azzardata. “Perché?”
“Da solo non riesco a stare tranquillo”
Cos'era quella frase? Forse un principio con cui lui avrebbe iniziato a sentire il mondo dei colori. Forse un'illusione. Mi convinsi che la casa lo aveva spaventato con i suoi lamenti. E feci spazio nel piccolo letto. Nel silenzio che si andava a creare lui mi fece una domanda che ricordo chiaramente.
“Non sono stato bene”
“Perché?” Domandai quasi preoccupato.
“Quando mi hanno chiamato per la spesa, era come se qualcuno mi ordinasse di non uscire. Come se mi tirassero le gambe” Ascoltai in silenzio, stringendomi involontariamente a lui per il freddo. “Ho avuto una malattia che non conosco. Ogni volta che sentivo una voce dalla strada, o un rumore, mi affacciavo nella tua stanza sperando che eri tu”
Ora comprendo meglio la sua paura. Per una persona che non ha mai provato una cosa come la solitudine, la tristezza o la paura, anche un semplice accenno scatena un'enorme preoccupazione.
“Più volte sentivo la tua voce che mi ordinava di venirti a trovare. Ma sapevo che non era vero, anche se una volta arrivai fino in fondo alle scale. Era un ordine molto forte, ma non veniva da te”
Una volta mia sorella mi disse, che si sarebbe sentita realizzata quando fosse diventata indispensabile per qualcuno. Lo disse anche a me. 'Quando per qualcuno diventi importante, è la cosa più bella'. In quell'istante, nel letto d'inverno capii le sue parole. Con la mente le rivolsi una frase commossa, sperando che potesse sentirmi. Sono diventato abbastanza importante per qualcuno al punto tale da risvegliarlo da un sonno privo di emozioni. Mi voltai verso quel forte ragazzo che stava nel mio letto.
“Che malattia era, Isaac?” Chiese con uno sguardo cupo.
“Nessuna malattia. Hai provato la Solitudine” risposi, carezzandoli la testa. Passando la mano tra i suoi morbidissimi e corti capelli castani o biondi.
Non vorrei avere un ricordo sbagliato, ma sono quasi certo che quella notte dormimmo abbracciati. O, in ogni modo, molto vicini.
   
 
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