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Autore: Rei_    01/06/2018    3 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Si svegliò confuso, con un suono ovattato dentro le orecchie che gli impediva di sentire chiaramente.
Sapeva solo che era giorno, perché il sole implacabile, incurante di tutto ciò che stava accanendo, splendeva dietro la finestra immacolata, promettendo una giornata che non sarebbe stata felice per il giovane uomo che, in quel momento, stringeva tra le dita una lettera tutta spiegazzata e bagnata di lacrime.
Attorno a lui c’erano tante persone, tutte con l’espressione in faccia di chi vorrebbe essere cieco per non vedere il mondo.
«Hanno trovato morto il segretario a Piazza del Gesù. Si è suicidato». Il silenzio venne ripristinato l’istante dopo, tanto che sembrava che nessuno avesse davvero parlato. Invece era tutto reale.
Ci furono poche e confuse voci di chi cercava in qualche modo di giustificare ciò che era ingiustificabile. Si aspettavano una qualche sua reazione, anche solo una condivisione al loro dolore, ma Michele non riusciva a mostrare assolutamente niente mentre stringeva tra le mani le ultime parole di Riccardo Marchesi che solo lui conosceva. Aveva bisogno di pensare.
 
 
*
 
 
Quel giorno aveva addosso la sua camicia a pois gialli. A lui non sarebbe piaciuta, lui che aveva avuto sempre quello stile serio, da ricco. Ma a Thomas non importava, non gli era mai importato cosa gli altri pensassero. Ogni mattina pensava alla sorella quando si vestiva, a come ogni giorno potesse trasformare l’amarezza per la sua definitiva assenza in forza, incorporando dentro di sé la gioia e
l’energia che lei non poteva più avere. In questo caso, però, quella magica trasformazione non si sarebbe potuta ripetere.
Thomas osservava la bara scoperta in silenzio. Dentro vi era un corpo smagrito e pallido, che anche da morto sembrava mostrare un certo contegno da signore. Accanto a lui sfilavano deputati e senatori di basso rango, tutte persone che fingevano di piangere. Sì, molti potevano solo fingere, perché il vero Marchesi non l’avevano conosciuto.
Erano solo ragazzi quando avevano iniziato a combattere, loro due da soli contro quel mondo malvagio che gli aveva rubato la loro aula, il loro spazio. Se solo avessero lasciato stare quella volta, forse avrebbero scelto un futuro migliore per entrambi. Niente doveri o dolori, solo una brillante carriera universitaria e la politica fatta solo come passione, non come principio essenziale di vita.
Invece avevano insistito. Avevano creato un mondo loro due da soli, arrivando addirittura al governo dopo tutti quegli anni.
Ancora non credeva che Marchesi lo avesse fatto davvero. Doveva esserci uno sbaglio, qualcuno lo aveva ammazzato, non poteva assolutamente essersi suicidato. Lui, che non si era fermato dopo aver ricevuto un pugno di ferro in faccia, che era riuscito a superare la morte di Francesco, che aveva speso ogni attimo della sua vita per la causa.
Il volto, privo di vita, era in qualche modo sereno. La bara era di legno lucido, circondata da fiori di varia natura e colore. Le persone andavano e venivano, stringendo e baciando lui e Pasqui. Il capogruppo rispondeva alle condoglianze in automatico, con una maschera di freddezza aristocratica addosso.
«Penso che metà di quei fiori lui li avrebbe bruciati, per quanto puzzano di ipocrisia» commentò, una volta che la sfilata finì e rimasero loro due da soli.
Marcello non rispose, ma iniziò a camminare silenziosamente per la stanza, con passi brevi e pesanti.
Poi, all’improvviso, afferrò tutti i mazzi variopinti che gli capitavano a tiro e li scaraventò negli angoli della stanza, facendoli a pezzi.
Thomas lo lasciò fare per un po’ prima di raggiungerlo. Per fermarlo dovette usare entrambe le braccia per quanto l’altro fosse fuori controllo.
«Marcè, basta».
Il capogruppo era livido, grondante di rabbia. Sudava e tremava, con gli occhi fiammeggianti dal desiderio di distruggere ogni cosa.
«Se n’è andato. Mi ha lasciato da solo, quel bastardo!»
Thomas venne scansato via con rabbia. Restò da solo insieme al morto, che così agghindato e con quello sguardo sereno addosso sembrava potesse ancora prenderlo in giro, come ai tempi dell’università.
 
 
*
 
 
Era ancora un ragazzino quando l’aveva visto la prima volta a quella manifestazione di Roma. La sua prima impressione non era stata granché positiva: un pischello molto benestante, che ostentava la propria ricchezza e che alla sua giovane età era già destinato a diventare il braccio destro di Goffredo Ranieri.
Eppure, con il tempo erano diventati amici. Perché Riccardo era molto più di ciò che poteva apparire e proprio Francesco, il suo migliore amico, era stato il primo ad accorgersene.
Fino ad allora, Marcello aveva sempre pensato di essere stato lui a stargli accanto come un’ombra, a salvarlo dopo la morte di Francesco, ad allontanarlo dal mondo della droga e a cercare in quella speranza di vendetta un barlume di senso per ogni cosa brutta che quell’uomo aveva vissuto. Non si era mai accorto che, invece, era stato Riccardo a stargli sempre accanto, a non lasciarlo mai da solo.
Solo lui aveva visto la sua sofferenza oltre quella maschera di freddezza che si era sempre ostinato ad indossare, anche alla morte di Francesco. Solo lui ne era sempre stato attento, e aveva saputo guarirla con la sua semplice vicinanza.
Era stato Riccardo a salvare lui, quella volta. Erano partiti assieme, e ad ogni giorno trascorso in terre straniere avevano riguadagnato atomi di vita. Avevano pianto in due stanze separate, salvo poi ritrovarsi insieme, con gli occhi asciutti per andare avanti. E lo avevano fatto senza gioia, senza consolazioni, spinti solo da una flebile volontà senza oggetto. Solo così erano riusciti ad andare avanti nel tempo. Quella piccola volontà non sarebbe bastata anche per altro, come per farsi una famiglia, innamorarsi, andare in vacanza o costruirsi dei progetti di vita. No, tutte quelle cose non sarebbero mai esistite per loro.
Marcello tornò a casa sua, trovando la sua stanza ordinatissima come la aveva sempre tenuta. Fu con un senso di profonda liberazione che iniziò a distruggere tutte le cose che gli capitavano a tiro, a lanciarle più lontano che poteva, a spiaccicarle sotto le suole fino a ridurle in poltiglia.
Perché ora Riccardo se n’era andato, portandosi via anche quella piccola volontà, quel soffio di vita che avevano guadagnato insieme. Ora niente aveva più senso, niente meritava di averlo.
 
 
*
 
 
Nicolò misurava a grandi passi la casa dove ormai era rimasto da solo. Aveva provato ad andare in ospedale, ma Michele aveva chiesto agli infermieri di tenere tutti fuori. Lo capiva, anche se avrebbe preferito stargli accanto per non lasciarlo solo con il proprio dolore. Il suicidio di Riccardo Marchesi aveva lasciato tutti sconvolti. Tg e giornali erano già impegnati a reti unificate a fare un quadro delle possibili cause di quel gesto estremo e a ricordare quella grande vita “spesa con generosità per la lotta contro il neofascismo”.
L’ultima volta che aveva parlato con lui era stato sul tetto del palazzo. Marchesi lo aveva provocato e lui aveva reagito aggredendolo. Ma c’era di più.
Ricordando quella conversazione, Nicolò era sicuro che quell’uomo avesse notato la sua presenza costante su quel tetto e ci fosse andato di proposito, aspettandosi di incontrarlo. Poi lo aveva provocato, tirando fuori con frasi mirate tutta la sua rabbia e il suo rimorso.
Ripensandoci ora, con ciò che nel frattempo era accaduto, non riusciva a capirne il motivo. Voleva che gli facesse male? Forse quell’avviso di garanzia aveva la sua parte in tutta quella storia. Intanto, Chiarelli era stato cacciato dal partito, Giorgio se n’era andato, molti altri stavano per seguire il suo esempio e Nicolò era rimasto con in mano il cerino, come se ora toccasse a lui continuare la battaglia, quando invece era il primo che desiderava scappare.
Aveva iniziato a fare politica seguendo Giorgio, lasciandosi contagiare dalla sua passione, da quel sorriso che l’uomo non si toglieva mai, anche davanti a sfide impossibili. Nessuno avrebbe mai scommesso che loro due sarebbero entrati in Parlamento e loro ci erano riusciti come per dispetto, creando quella bellissima illusione che tutto era per davvero a portata di mano se si metteva sul piatto passione e impegno.
Ora che Giorgio aveva abbandonato, però, anche quell’illusione si era rotta. La verità era che il suo amico aveva ragione: ogni cosa che aveva detto era vera. Anche Nico era rimasto schifato dall’atteggiamento dei suoi colleghi. Anche lui avrebbe voluto essere al posto di Giorgio, per poter insultare tutti e poi andarsene. Invece era ancora il capogruppo, e ora il suo dovere gli imponeva di rimanere e farsi carico di ogni grana.
Ma come poteva lui, da solo, rimettere in piedi un partito allo sbando, quando non era neanche capace di stare vicino a Michele? Perché il vero Nicolò non si sarebbe lasciato fermare dagli infermieri. Avrebbe bussato, chiamato, fatto ogni cosa per stargli accanto.
Invece si era arreso. Gettato sul letto, abbandonato come un vecchio vestito, mentre cercava una qualsiasi via di fuga da quella vita che ormai non gli apparteneva più.
 
 
*
 
 
Il cielo era grigio e la pioggia scendeva lentamente sugli abiti scuri della folla.
Michele era in piedi, separato dal gruppo degli onorevoli, immobile e freddo come una statua, mentre pensava con ironia che anche quelle nuvole minacciose erano lì per salutare Marchesi, replicando la stessa pioggia di quando era morto Francesco.
Aveva passato quattro giorni completamente da solo, leggendo e rileggendo quella lettera fino ad impararla a memoria, pensando e ragionando su ogni cosa successa da quando aveva messo piede in quel palazzo.
Non aveva trovato risposte, solo domande in più. Era passato attraverso diverse emozioni, dalla tristezza alla rabbia al rimorso. Ora però anche quelle lo avevano lasciato, ed era rimasto solo un profondo senso di ingiustizia verso una persona che, in ogni caso, non sarebbe dovuta morire.
Al funerale era venuta una marea di persone, molti con le bandiere di Sinistra Democratica. Marcello Pasqui e Goffredo Ranieri erano davanti a tutti, impeccabili e solenni nei loro abiti scuri. Poco più lontano, Thomas e Arturo erano immobili, con lo sguardo fisso sulla bara.
Per tutta la cerimonia, Michele non riuscì a fare altro che a starsene in disparte silenziosamente. Continuava a percepire tutto come un sogno. Quei giorni non gli erano bastati a metabolizzare. Ancora si immaginava di poter vedere Marchesi vivo, di potergli parlare di quella lettera, di potergli dire che le cose si sarebbero risolte in qualche modo.
E invece era lì, poco lontano dalla sua bara. E la pioggia scendeva, bagnando i fiori che si accumulavano sul marmo nudo.
Erano venuti compagni da tutto il Paese per salutarlo. Militanti di SD, dell’Azione Cattolica, di altri partiti e cittadini comuni: ciascuno aveva un motivo diverso per essere lì. Piangevano tutti, ma le loro lacrime sarebbero passate. Invece, alcuni dolori sarebbero rimasti indelebili, come quello di Marcello Pasqui.
Avrebbe dovuto parlare con lui il prima possibile. Per quanto sarebbe stato difficile, sentiva che il destino aveva deciso che avrebbe potuto stargli a fianco sinceramente nel dolore, oltre al fatto non indifferente che avevano molte cose da dirsi.
I suoi pensieri vennero interrotti da due figure anziane, che si fecero largo tra la folla nel silenzio generale. Erano senza dubbio la coppia più elegante tra i presenti. Nascosti dietro occhiali scuri, reggevano un pesante mazzo di fiori variopinti, che lentamente, ad ogni passo, accompagnavano alla loro ovvia destinazione.
Non fu difficile per Michele capire chi fossero. E, una volta capito, si sentì accecato da un istinto fino a quel momento sconosciuto.
Prima che la coppia giunse davanti alla bara, Michele sbarrò loro la strada.
«Lui non vi vorrebbe qui» disse ad alta voce.
I genitori di Marchesi finsero di non capire e cercarono di scavalcare quello sconosciuto che per qualche motivo aveva intenzione di piantare grane, ma Michele pestò un piede in avanti e li bloccò di nuovo.
«Non li vuole i vostri fiori!» gridò più forte.
Il padre di Marchesi si tolse gli occhiali scuri, rivelando degli occhi profondi troppo simili a quelli del figlio.
«E tu chi saresti?» chiese, sprezzante, «chi sei tu per impedirmi di piangere mio figlio?»
Michele non indietreggiò davanti alla minaccia di quello sguardo. Sentiva dentro un fuoco che non riusciva a controllare.
«Sono la persona che sa ciò che gli avete fatto. Non meritate di posare quei fiori, né la compassione di questa gente».
Michele sentì dei movimenti attorno a lui. Sapeva che sarebbe stato cacciato via in malo modo, ma la paura che avrebbe avuto il vero Michele era morta e sepolta insieme al suo segretario.
«Ha ragione. Non siete i benvenuti qui, devo chiedervi anche io di andarvene, per rispetto verso Riccardo».
La voce era autoritaria e perentoria, tanto che lo sguardo di fuoco del padre di Marchesi si tramutò in rabbia impotente.
L’uomo che aveva parlato era Marcello Pasqui.
Il cimitero fremette in un silenzio carico di attesa. Dopo interminabili secondi, il padre di Michele gettò i fiori per terra, prese la moglie sottobraccio e camminò verso l’uscita.
Michele tremava di rabbia, e poteva quasi sentire Marcello tremare vicino a lui.
«Cosa ne sai tu?» gli mormorò a denti stretti il capogruppo.
«Dobbiamo parlare» rispose lui.
Pasqui evitò accuratamente il suo sguardo, puntandolo verso la bara che conteneva il corpo senza vita del suo migliore amico.
«No, non mi interessa. Non mi interessa nulla, lasciami in pace».
L’uomo sparì nella calca. Michele cercò di raggiungerlo, ma dopo un po’ lasciò perdere, capendo che non sarebbe servito.
Riccardo avrebbe sicuramente odiato quella cerimonia. Michele si chiese quanti tra i presenti erano stati suoi ex compagni di classe, ex compagni di partito, ex avversari politici, magari anche ex fascisti. Con quanti di loro aveva discusso, fatto riunioni, cene importanti, serate, preso delle sostanze? Aveva conosciuto e stretto rapporti con un’infinità di persone, ma nessuno era stato in grado di salvarlo.
Fu una donna la prima a prendere la parola. Michele la riconobbe, perché il suo viso era ben noto ai media.
«Sono Adriana, la madre di Francesco Venturi» la voce tremava mentre si asciugava le lacrime, «e ci tengo personalmente a ricordare Riccardo. Non c’è stata persona che è rimasta più accanto alla nostra famiglia dopo la morte di nostro figlio. Fu lui a pagare le spese legali per cercare i colpevoli. Lui trovò lavoro a me e a mio marito, dopo che ci licenziammo entrambi, perché l’azienda in cui lavoravamo prima era di proprietà un neofascista. Fu lui a starci accanto in tutti questi anni, rimandando i suoi impegni per venire spesso a trovarci. Ora che non c’è più è come aver perso di nuovo mio figlio…» Vedere quella signora scoppiare in lacrime, sorretta dal marito e da Pasqui, fu troppo per Michele. Corse via dal cimitero, non voleva più sentire nulla.
«Michele!»
Nicolò lo aveva raggiunto, impeccabile nel suo abito scuro. Il giovane sentì un tuffo al cuore, rendendosi conto che non era affatto pronto ad affrontarlo ora.
Una parte di lui avrebbe voluto raccontargli ogni cosa, per filo e per segno. Gli avrebbe chiesto suggerimenti e sostegno, perché ne aveva un gran bisogno. Ma l’altra parte sentiva che farlo avrebbe voluto dire tradire Riccardo. Perché Nicolò era sempre Nicolò, il capogruppo del Fronte, un uomo onesto e intransigente, che se avesse letto quella lettera sarebbe corso dai giornali a dire tutta la verità per amore di giustizia.
«Se hai bisogno di un aiuto, sai che io ci sono».
Michele alzò lo sguardo su quegli occhi verdi, luminosi e sinceri.
«Ti ringrazio, davvero, ma devo stare da solo per un po’». Si rese conto che aveva ancora la voce che tremava.
Corse via, senza voltarsi indietro, cancellando dalla sua mente quella voce che gli diceva di non farlo. Avrebbe voluto ascoltarla, ma non poteva. Le parole di Riccardo Marchesi erano macigni, e quel peso ora era solo sulle sue spalle.
 
 
Quando si decise a tornare a Montecitorio era già passato qualche giorno.
Era rimasto rinchiuso dentro una bolla. Il tempo passava, ma senza produrre nulla. Non aveva avuto contatti con nessuno dopo il funerale, e quando parlò con un assistente parlamentare si stupì di quanto si fosse dimenticato persino il suono della sua stessa voce. Chiese di Pasqui, venendo a sapere che era rimasto chiuso dentro il suo ufficio tutti quei giorni. Non voleva vedere nessuno, mangiava pochissimo e non si sapeva cosa facesse.
Michele aspettò la notte prima di bussare a quell’ufficio per mantenere quell’incontro il più discreto possibile, anche se non aveva idea di come riuscire a farsi aprire, dal momento che, a quanto pareva, Pasqui non aveva aperto neanche a Goffredo.
Bussò forte, attendendo. Appoggiò l’orecchio alla porta, senza sentire il minimo rumore.
«Marcello, sono io, Michele» si annunciò, alzando timidamente la voce. Era la prima volta che lo chiamava per nome e si accorse che faceva uno strano effetto. La porta, però, restò ostinatamente chiusa.
«Lo so che non hai intenzione di aprirmi» continuò, «ma io non me ne andrò finché non parleremo».
Detto ciò si sedette sul pavimento, prevedendo una lunga attesa. Passò un’ora buona di totale silenzio. Dopodiché, Michele si rialzò e bussò di nuovo.
«È importante, aprimi! Non sono qui per compatirti» si ritrovò a gridare. Non sapeva da dove stava tirando fuori tutto quel coraggio. Forse era l’ora notturna, forse il fatto di aver passato giorni in completo silenzio, ma in quel momento si sentiva più determinato che mai.
«È stato Riccardo a chiedermi di non lasciarti da solo. Come hai fatto tu con lui, quando è morto Francesco».
La porta si aprì con uno scatto, mostrando una figura alta dallo sguardo più severo e buio del solito. Michele si ricordò dei tempi in cui aveva una paura folle anche solo a parlarci, da quanto quell’uomo sembrava duro e insensibile. Ora però, quel tipo di paura gli faceva il solletico.
«Cosa vuoi da me?»
«Parlare, fammi entrare».
Non aveva chiesto nemmeno il permesso e questo sembrò destabilizzare Marcello il quale, colto di sorpresa, non riuscì a impedire al giovane deputato di sgattaiolare dentro.
Parlò subito, per non lasciare tempo all’altro di aggredirlo.
«So tutto. So dell’inchiesta, so di cosa avete fatto. So dei rapporti con mio padre, dei miei voti comprati, di come siete finiti al governo e perché».
Osservò la reazione di Pasqui, il quale non si scompose, anche se non distolse gli occhi dai suoi. Aveva ottenuto la sua piena attenzione.
«Bene. Molto bene» rispose a denti stretti, «sei qui per insultarmi, per sputarmi in faccia il tuo odio? Sprechi il tuo tempo, in questo momento sarà difficile ferirmi ulteriormente. Piuttosto, corri a testimoniare dal giudice, così domani avremo la notizia fresca di stampa».
«Non mi interessa. Non è per questo che sono qui!» sbottò Michele, cercando di trattenere l’irritazione.
«E allora che vuoi da me?» gridò Marcello, evidentemente nervoso.
«Volevo farti leggere questa. Me l’ha scritta Riccardo prima di andarsene».
Marcello lo fissò, imperscrutabile. Qualcosa nella sua maschera di freddezza sembrava aver ceduto.
Tirò fuori la busta e la porse a Pasqui, che la aprì con mani tremanti. Michele aveva pensato a lungo se dargliela o no, ma alla fine quella gli era sembrata la scelta più giusta. Era pericoloso, perché Pasqui in quel momento aveva in mano tutte le prove e avrebbe potuto stracciarle in un secondo.
Una volta finito, Pasqui posò i fogli. Si tolse gli occhiali, facendoli cadere rumorosamente sulla scrivania.
«Ric…» mormorò impercettibilmente.
Scoppiò in lacrime, coprendosi gli occhi con una mano e singhiozzando in silenzio.
Michele restò interdetto. Mai se lo sarebbe aspettato. Non da Pasqui, soprattutto non davanti a lui.
Senza riuscire a controllarsi iniziò a piangere anche lui. Il dolore inespresso uscì fuori tutto in una volta, travolgendo i muri costruiti da entrambi.
Passarono diversi minuti prima che Marcello si ricomponesse. Rimise i fogli nella busta e, con grande stupore di Michele, gliela ridiede.
«Che cos’hai intenzione di fare, dunque?» domandò, inespressivo. Michele strinse le ultime parole di Marchesi tra le mani. Ci aveva pensato e ripensato a sufficienza in quei giorni. Aveva ragionato, calcolato, valutato, e alla fine aveva capito quale fosse la cosa più giusta.
«Non farò assolutamente nulla. Io e te saremo le uniche persone ad aver letto questa lettera. Le indagini su Riccardo ovviamente si fermeranno, ora che lui non c’è più. Perciò tutta questa storia non verrà mai a galla».
Marcello lo fissò, completamente spiazzato da quella risposta. Senza il controllo della situazione, per una volta appariva vulnerabile.
«Perché?»
«È giusto così» rispose sicuro Michele, «che altro dovrei fare? Ricattarti? Avere una specie di vendetta? Non mi interessa nulla di tutto ciò. Quello che è stato è stato, non servirebbe a nulla rovinare il nome del nostro partito per questo».
Marcello si fece più serio che mai. Le lacrime erano completamente scomparse dal suo viso.
«Dunque lasceresti girare altre voci false su di te, pur di non rivelare la verità? Si sta parlando di onestà, Martino. Non è quello che ti ha sempre insegnato Arturo?»
«Non c’entra niente» ribadì il giovane, «io so tutto. So perché tu e Riccardo l’avete fatto. Perché dovrei rovinarti? Non sei un criminale!»
Per una volta, Pasqui rimase senza risposta, non aspettandosi una tale convinzione incrollabile su di lui.
«Capisco...»
La stanza piombò nel silenzio e Michele sentì che era il momento di andare.
«Adesso vado, ma per qualsiasi cosa sentiti libero di contattarmi». Uscì dall’ufficio del suo capogruppo, convinto più che mai di aver fatto la cosa giusta.
 
 
I giorni passarono.
La casa di Michele era sempre più pulita e ordinata. Passava le sue giornate a spolverare in modo maniacale per evitarsi di pensare, e usciva di casa solo per fare la spesa e per passare dall’ufficio di Marcello Pasqui.
Restava in quella stanza per circa un’ora al giorno. I due si parlavano pochissimo, a volte neanche si guardavano. Eppure, Michele sentiva che non avrebbe potuto fare a meno di farlo. Stava creando un rapporto fatto solo di dolore e silenzi, ma doveva. In fondo, erano le ultime volontà del suo segretario, e per qualche motivo la porta dell’ufficio di Pasqui sembrava sempre aperta per dare spazio a quella flebile compagnia.
Fu alla fine di uno di quei bizzarri incontri che Michele incontrò Arturo in uno dei corridoi della Camera. L’ultima volta che lo aveva visto era stato al funerale, e non si erano parlati molto in
quell’occasione.
L’anziano gli fece un cenno e Michele lo seguì nel cortile deserto. Era da un po’ che nel palazzo non si vedevano più molti onorevoli a causa delle inchieste.
«Come ti senti, Michele?»
Il giovane scosse leggermente la testa, segnalandogli che era meglio evitare quella domanda.
«È stato un duro colpo per tutti. Tu forse lo conoscevi ancora poco, ma… beh, mi dispiace molto vederti così. Thomas è distrutto, non c’è verso di farlo stare meglio. Però qualche giorno fa io e lui abbiamo parlato di una cosa, e penso sia il momento di dirtela».
Michele attese in silenzio. Sapeva che Arturo non poteva capire il suo dolore. Non era mai stato un grande amico di Marchesi, dunque non era ragionevole pensare che soffrisse più di chi l’aveva conosciuto.
Ma la verità era diversa, anche se non poteva rivelarla.
«Insomma, prima o poi dovremmo farci i conti. È un grande dolore, ma presto sarà necessario eleggere un nuovo segretario. Ecco, io e Thomas vorremmo che tu fossi il candidato della nostra parte».
Michele fissò il suo vecchio mentore. Un tempo sarebbe stato onorato che qualcuno lo pensasse in grado di ricoprire un tale ruolo. Ora, invece, gli sembrava solo qualcosa di assolutamente stupido. Lui avrebbe dovuto sostituire Marchesi?
«Non ne sono in grado, mi dispiace» rispose, secco. Arturo sospirò, come se si fosse aspettato quella risposta.
«Certo che ne sei in grado, Michele. Marchesi è stato un simbolo umano, ha rappresentato un pezzo importante della nostra storia, anche se con molte criticità. Tu ne rappresenterai un altro, per il coraggio che hai mostrato, per la tua inflessibilità morale».
Michele ripensò agli ultimi bizzarri episodi della sua vita. Era diventato un simbolo perché si era quasi fatto ammazzare, perché Marchesi lo aveva messo nei guai. Aveva rischiato la vita, ma alla fine era stato solo l’ex segretario a rimettercela per davvero.
«È ciò che hai sempre voluto per me, lo so. Ma non posso farlo, mi dispiace. Questa volta non posso essere ciò che tu vorresti».
Si alzò per andarsene, evitando accuratamente di lasciarsi toccare dalla delusione negli occhi del suo vecchio mentore.
 
Si ritrovò di nuovo da solo con se stesso. Lui e quella dannata lettera, alla quale non riusciva a darvi risposta.
 
 
*
 
 
“Caro Thomas,
quando ti arriverà questa lettera, io sarò già morto. Almeno con te, però, preferirei evitare i convenevoli. Tra le persone che conosco penso che tu sia quello in grado di affrontare la morte con più serenità, per la tua storia personale. Spero che tu ti sia vestito sgargiante anche al mio funerale, non ti perdonerei mai in caso contrario.
Volevo avvisarti di persona che la mia villa, nel mio testamento, sarà intestata a te. Lo so, è un po’ ironica la sorte, dal momento che mi hai preso per il culo tante volte per la mia modestissima casa. Ma c’è un motivo per cui la lascio proprio a te: perché so che non ne farai mai un museo o cose simili. Anzi, spero proprio che tu decisa di usarla come ai vecchi tempi, quando l’avevamo sfruttata come base per la resistenza. Ancora mi ricordo tu che suonavi alle sei di mattina per prendere i manifesti. Hai usato la mia cucina per fare la colla, facendomi credere che ne eri capace, e penso che ritroverai alcune tracce del tuo esperimento mai andate via.
Ma ora non è più tempo di rivangare il passato. Ti saluto, caro Thomas. Sono fiero di aver combattuto insieme ad uno sfigato comunista come te. Ti affido il nostro caro, vecchio partito. So che, finché ci sarai tu, sarà al sicuro.
 
Ric”
 
 
*
 
La stazione era buia e deserta mentre Nicolò si trascinava dietro il suo trolley blu.
Da sempre, quello era stato il suo più fedele compagno di viaggi. Con lui era andato ovunque e aveva vissuto le più belle avventure della sua vita. Aveva dimostrato a se stesso di essere indipendente, indistruttibile. Di sapersi ricostruire dalle macerie, di essere aperto a qualsiasi cosa il mondo potesse offrirgli.
Ora, però, non stava partendo per nuovi orizzonti. Stava semplicemente scappando. Per la prima volta, stava tornando indietro.
D’altra parte, a che sarebbe servito restare? Non era più utile a nessuno. Giorgio era andato via, e con lui era morto l’ideale che rappresentava, quello di un uomo che rinuncia a tutto per inseguire i suoi sogni, anche se impossibili. Michele, invece, stava affrontando un dolore troppo grande perché potesse aiutarlo, anche se non riusciva a trovarci un senso, dal momento che lui e Marchesi non erano mai stati molto legati. Doveva esserci qualcosa che non sapeva, ma Nicolò aveva perso la sua solita sfacciataggine che gli avrebbe permesso di restargli accanto ugualmente e di indagare su quella morte assurda e improvvisa.
E poi, il partito era finito. Chiarelli si era dimostrato un falso e un criminale e il resto era alla deriva più totale. Forse sarebbe toccata a lui la responsabilità di tenerlo in piedi, ma in fondo che gli importava?
Non c’era più niente per lui, ormai. Nessuno aveva più bisogno di lui, e neanche lui sentiva di aver bisogno di se stesso.
Il treno partì veloce, superando quella città, ultima tappa di un viaggio ormai rimasto senza meta.

*
 
Era un nuovo giorno.
Michele si alzò dal letto, si stiracchiò, si lavò i denti. Infilò calzini, pantaloni, camicia e scarpe e uscì da casa sua.
Il sole stava ancora nascendo su quella pigra città a cui un po’ si era affezionato dopo quasi un anno. A piedi arrivò su via del Corso, facendo slalom tra i turisti asiatici, unica presenza fissa. Si ritrovò in breve tempo davanti a palazzo Montecitorio, il quale svettava troneggiante sugli edifici attorno.
Erano giorni frenetici, fatti di riunioni, incontri e telefonate. Sebbene TG e giornali ancora ne parlassero, sembrava che il lutto per Riccardo Marchesi fosse già passato nel dimenticatoio del partito, lasciando riaccendere i vecchi malumori e gli scontri di potere assopiti negli ultimi anni in vista del congresso per l’elezione del nuovo segretario.
Michele seguiva quei giochini quotidiani quasi per divertimento. Il suo nome rimbalzava su varie bocche, anche se lui aveva detto espressamente ad Arturo di no. Ma anche quello faceva parte dei giochi, perché tutti sanno che se metà partito ti chiede di candidarti diventa più difficile tirarsi indietro.
E poi, c’erano sempre quelle parole che non riusciva a togliersi dalla testa.
 
“Se potessi, anche io ti voterei come prossimo segretario.”
 
Erano state le ultime volontà di Riccardo Marchesi. Poteva davvero permettersi di ignorarle?
L’orologio che gli aveva regalato era ancora rinchiuso dentro un cassetto della sua scrivania. Non aveva avuto il coraggio di metterlo, né di guardarlo. Quell’orologio conteneva una storia troppo grande perché lui potesse farsene carico.
Lui non era nessuno. Era solo un giovane uomo che era stato messo in mezzo da altri e che, per vari colpi di fortuna, era riuscito a uscirne bene e con una discreta fama sulle spalle.
E ora, davanti a lui sembrava dipanarsi una sola strada possibile, alla quale non poteva sottrarsi e per la quale non si sentiva affatto pronto.
 
 
Quando arrivò il giorno del congresso, ormai tutti i giornali davano per certa la candidatura di Michele, il quale non si era preoccupato di smentire né di confermare la voce.
Il centro congressi era gremito di persone e telecamere e il nervosismo era tangibile. Tutti erano lì per un motivo, chi per guadagnare posizioni, chi per evitare di perderne, in ogni caso per ciascuno quel congresso sembrava essere questione di vita o di morte. Michele si sedette in un angolo della seconda fila. Fece finta di aggiustare il proprio discorso per evitare di parlare con i suoi colleghi, ansiosi di avere una conferma definitiva che lui si sarebbe candidato, convinto dalle tante richieste.
La sala si ammutolì quando entrò Marcello Pasqui insieme a Goffredo. Il capogruppo era vestito di nero. Il viso era colmo di freddezza, e dietro agli occhiali spessi non trapelava alcuna emozione. Reggendo in mano una busta di fogli scarabocchiati, si sedette al suo posto con estrema lentezza, come se quel semplice atto gli costasse un’immane fatica.
Goffredo era anche lui vestito di nero, rasato e con lo sguardo stanco. Appena entrato, iniziò a radunare i suoi per parlarci a bassa voce. Si diceva che la loro area candidasse un certo Dominiani, uomo di provenienza democristiana facente parte anche lui della grande schiera dei “partigiani del terzo millennio”.
Dopo aver dato istruzioni, Goffredo proclamò subito il minuto di silenzio in ricordo di Marchesi. Michele provò ad immaginarselo lì, seduto alla presidenza con il suo solito portamento e lo sguardo sicuro di chi ha in mano la situazione. Si rese conto che l’assenza dell’ex segretario, nonostante non avesse mai parlato molto nelle riunioni, era evidente e pesava come un macigno.
Marcello Pasqui prese la parola per primo. L’atmosfera era intrisa di solennità e non si udiva volare una mosca.
«Grazie a tutti per essere qui. Dopo la mia relazione, sarà possibile intervenire liberamente e far pervenire le candidature per la segreteria alla presidenza».
Si schiarì la voce. Una goccia di sudore gli imperlò la fronte e Michele la osservò scendere, turbato da quell’insolita manifestazione di angoscia.
«Come sapete, non stiamo vivendo tempi semplici, per il partito e per la politica. I partiti di questa maggioranza parlamentare e alcuni
dell’opposizione sono colpiti da sentenze che stanno smascherando un giro inquietante di affari, e tali sentenze minano alle fondamenta della fiducia nelle istituzioni».
Michele strinse i pugni, con la lettera di Riccardo Marchesi che gli rimbalzava prepotentemente in testa con tutto il suo contenuto scottante.
«Credo che sia decisivo che il nostro partito si faccia carico delle responsabilità di questo momento storico e le affronti. E, per prima cosa, dobbiamo affrontare insieme la prematura scomparsa del segretario Marchesi».
La sala tacque ancora di più, come segno di rispetto. Michele sentì le mani sudare. Non si aspettava che Pasqui ne parlasse così esplicitamente.
«In questi giorni» riprese lentamente, «ciascuno di noi ha avuto modo di riflettere, di ricordare. Abbiamo sentito tante storie su Riccardo, da giornalisti, scrittori, storici e politici. Tanti amici e tanti compagni si sono uniti al suo ricordo, tanti fiori hanno adornato la sua lapide. Una parte consistente dell’intero Paese si è unita nel dolore per questa tragica scomparsa. Tuttavia, come ben sapete, io personalmente ne sono rimasto fuori, rifiutandomi di condividere il mio ricordo in qualsiasi occasione pubblica».
Il silenzio si mutò subito da rispetto a curiosità per quelle parole inedite di Marcello Pasqui, uomo che mai si era lasciato andare a sentimentalismi o anche solo alla banale espressione di qualunque cosa lo riguardasse strettamente.
«Questa scelta è sembrata insolita e ha scatenato malumori, ma dietro ad essa non c’è solo il cieco dolore per la scomparsa del mio migliore amico. Un altro sentimento, più difficile da affrontare, è stato la causa del mio silenzio. E ora è proprio quella responsabilità di cui parlavo prima, quella che noi come partito abbiamo per questo momento storico, a spingermi a rompere tale silenzio».
Ci fu un fulmineo istante in cui gli occhi di Pasqui incrociarono quelli di Michele, e durante quel breve contatto il giovane deputato capì immediatamente cosa stesse per succedere, e realizzò solo in quel momento di non aver mai capito niente di Marcello Pasqui, di non averlo mai conosciuto sul serio.
«Quando morì Francesco Venturi» la voce si alzò leggermente, riacquistando sicurezza, «io e Riccardo eravamo appena usciti dall’università, dagli anni più bui della nostra storia recente, e la Carta Antifascista fu il nostro modo di dare un senso alla sua morte. Ma che senso potevamo dargli continuando a restare all’opposizione di un governo presieduto dal Nuovo Partito Popolare? Non avremmo vinto solo propagandando la Carta Antifascista, perché gli anni passavano e il nostro giovane compagno Venturi stava diventando un vago ricordo, una qualunque vittima da relegare nella storia più buia del nostro Paese. Solo noi, noi che avevamo combattuto in prima linea insieme a lui, noi che avevamo visto da vicino la rinascita
fascista capivamo, sentivamo e soffrivamo veramente quell’assenza». Michele cercò di nuovo il suo sguardo, inutilmente. Non sapeva neanche lui se volesse fermarlo o trasmettergli il coraggio di continuare. Sapeva solo che ciò che stava per dire il capogruppo avrebbe modificato gli eventi in modo irreversibile.
«Più di tutti soffriva Riccardo, perché Francesco, per lui, era molto più di un amico, e mai accettò di averlo perso. Mai».
Le persone in sala iniziarono a parlarsi a bassa voce e a cercare lo sguardo altrui, ciascuno improvvisamente disperso in un congresso che stava mutando dal solito prevedibile copione.
«Ebbene, è stata questa sofferenza e questo desiderio di vendetta a spingere Riccardo a candidarsi e a vincere lo scorso congresso. E lo stesso dolore e lo stesso risentimento lo spinsero a vincere le elezioni, comprando i voti dalla cosca della ‘ndrangheta di Nello Martino».
Centinaia di occhi si voltarono subito verso Michele, che subito sentì il cuore perdere un battito.
«Esatto, ci recammo insieme dal padre del nostro compagno Michele per chiedere i voti. Solo io e lui sapevamo di questa cosa e solo noi
l’avremmo saputa. Ci siamo sporcati le mani e per tutto questo tempo abbiamo nascosto la verità, lasciando che fosse Michele, che non c’entrava niente, a portare da solo sulle spalle i nostri errori».
La platea era ormai completamente atterrita. Partì qualche fischio, e Pasqui ne cercò l’origine, con lo sguardo carico del sollievo di chi si sta liberando di un enorme peso.
«Mi prendo tutti i vostri fischi, perché li merito. Io e Riccardo abbiamo arrecato un grave danno al partito. Io avrei potuto fermarlo, avrei potuto capire che ciò che stavamo facendo avrebbe danneggiato noi, la nostra comunità, e soprattutto la sua persona, già provata da diverse ferite. Non l’ho fatto, e oggi sono qui per prendermene la responsabilità davanti a voi».
Nessuno osò più fischiare, e Michele si accorse solo in quel momento che Goffredo era uscito dalla sala.
«Solo la verità potrà permetterci di ricordare davvero Riccardo Marchesi. Sono cosciente che, dicendo questo, il nostro congresso avrà una piega diversa. Da domani la stampa inizierà a bersagliarci, verranno a importunare me e tutta la nostra classe dirigente, sicuramente perderemo voti. Ma solo ammettendo la verità potremo guarire, risollevarci, rinascere e riparare a ciò che abbiamo causato con le nostre scelte sbagliate».
Arturo aveva uno sguardo severo, che non aveva distolto per un solo secondo dal capogruppo. Thomas invece teneva gli occhi bassi, ma si intravedeva la cocente delusione di chi, per la prima volta, vede il lato oscuro di chi ha avuto al suo fianco nella lotta per tutti quegli anni.
«Per i motivi che vi ho ampiamente raccontato, mi dimetto da capogruppo e da deputato. Non sosterrò Dominiani per la segreteria del partito, sebbene sia legato a lui da stima e affetto reciproco.
Credo che l’unica persona che meriti la segreteria sia chi ha saputo con coraggio dimostrarci cosa significa essere onesti, intransigenti e leali. Per questo motivo, indico Michele Martino per la segreteria di Sinistra Democratica».
Pasqui abbassò il microfono e abbandonò i banchi della presidenza, sedendo in platea. Nessuno osò parlare, né applaudire, né fischiare. Tutti si guardarono l’un l’altro, sconvolti, nell’attesa di capire cosa fare. I giochini di potere e i gossip di quelle ultime settimane erano crollati come castelli di carta dopo quelle parole, pesanti come macigni.
Michele sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Era Arturo, che gli sorrideva da dietro. In quel sorriso c’era tutta la stima e l’affetto, tutte le parole che da un po’ di tempo si erano allontanate dalle loro brevi e sfuggenti conversazioni.
Dentro quel sorriso Michele rivide Antonio, suo padre, sua madre, il circolo, la scuola, le elezioni, la campagna elettorale, le bottigliette d’acqua che qualche giovane gli portava sui palchetti dei paesini in cui aveva fatto i comizi. Rivide le strette di mano vigorose degli anziani che promettevano di votarlo, Roma, il palazzo, i commessi che gli prendevano il soprabito, le ore passate dentro l’aula, Marchesi che era sempre al telefono, sempre impegnato.
Rivide la lettera, l’orologio, le rare lacrime dello stesso capogruppo che lo aveva odiato a morte e che ora lo stava indicando come segretario. Rivide anche l’ospedale, la macchina senza targa, la confusione, la solitudine, le lacrime a cui non aveva ancora trovato un senso.
Alzò la mano. Per una volta, con la massima decisione. Sapeva cosa doveva fare e cosa doveva dire. E, quando prese in mano in microfono, la sua voce gli risuonò più adulta, più matura.
«Care compagne, cari compagni» iniziò, accorgendosi di quanto forte suonava quel semplice appellativo, «in queste settimane siete stati in molti a chiedermi di candidarmi per la segreteria del partito, e io mi sento davvero di ringraziarvi di cuore per questo. Credo che voi tutti vi aspettiate da me un qualche discorso su come io voglia rilanciare il partito con qualche formula di rinnovamento che a noi sono tanto care. Mi dispiace deludervi, ma non ho pronto niente di tutto questo». La tensione si poteva tagliare con il coltello. Michele prese aria nei polmoni e proseguì.
«Mentre parlava il nostro capogruppo, sono arrivato a chiedermi cosa siano veramente quelle belle parole di cui ci adorniamo: lealtà, onestà, legalità. Ho pensato che è molto facile dire che una persona è onesta perché non ha mai sbagliato. Per coloro che credono di essere onesti, i criminali sono sempre gli altri».
Osservò la platea che lo fissava, in attesa.
«Credo però che il coraggio che ha avuto ora Marcello Pasqui non sia paragonabile a quello di nessuno di noi, nemmeno a quello che in molti mi attribuiscono. È facile recitare la parte dei buoni contro i cattivi. In qualche modo, è stato semplice per me sopportare i ricatti e le infamità, perché mi sentivo dalla parte della ragione, non avevo da combattere con la mia coscienza. Molto più difficile è confessare i propri sbagli, chiedere scusa, mostrarsi colpevoli. Solo una persona che si sente davvero responsabile verso la propria comunità può assumersi un rischio simile».
Marcello lo fissava, impietrito.
«Perciò, io penso che al posto di cercare nella figura del segretario un qualche nuovo eroe, un simbolo di purezza da ostentare, dovremmo invece apprezzare chi è così onesto da mostrare non solo il suo lato migliore, ma anche il peggiore. Per questo motivo intendo ritirare la mia candidatura ed esprimere, a mio nome e a nome di chi vorrà, Marcello Pasqui come candidato alla segreteria».
Le parole di Michele piovvero come pietre in testa a ciascuno dei presenti. In una giornata, con due soli interventi, la situazione politica era stata completamente stravolta. Capicorrente e funzionari si consultavano tra loro, sconvolti, aspettando che qualcuno intervenisse per capire cosa fare.
Nel frattempo, Michele era tornato al suo posto. Il cuore gli pulsava forte, il sangue gli era andato al cervello, ciò nonostante sentiva di aver fatto la cosa giusta.
E lo sentì ancor di più quando uno dei presenti si alzò in piedi ad applaudire. Iniziò da solo, ma l’istante dopo venne seguito a ruota dai suoi vicini di banco. A macchia d’olio si diffuse l’applauso, finché non coinvolse la maggioranza dei presenti, stabilendo che Pasqui sarebbe stato accolto come nuovo segretario.
Thomas, Arturo e gli altri dell’area politica di Michele restarono di sasso. Il giovane sapeva che gli sarebbe toccato discuterci, ma ora non era pronto ad affrontarli.
Fu così che raggiunse il banco dov’era seduto il nuovo segretario di SD. Lo guardò negli occhi e gli sorrise, quasi commosso dallo smarrimento di quell’uomo, che era pronto ad abbandonare la nave e all’improvviso se ne era ritrovato capitano.
Gli legò un orologio al polso e gli strinse la mano. Pasqui lo osservò e capì, ricambiando vigorosamente la stretta. La sala fu tutta uno scrosciare di applausi e di scatti di macchine fotografiche.
Aveva fatto la cosa giusta. Era questo ciò che importava.
 
 
*
 
 
Milano, alle sette di sera, gli era sempre sembrata un grande spettacolo. Quando lavorava lì, anni fa, amava staccare a quell’ora e immergersi nella movida dei bar del centro.
Ora però, uscendo dall’ufficio, ciò che vedeva attorno non gli suonava né piacevole né familiare, ma vuoto e noioso.
Non aveva avuto bisogno di supplicare molto per farsi assumere di nuovo nella compagnia in cui aveva lavorato prima di entrare in politica. Avrebbe preso uno stipendio più basso, ma le sue abilità manageriali erano ben note, e se avesse voluto avrebbe potuto scalare di nuovo la gerarchia aziendale per approdare nelle sale di comando. Se avesse voluto.
Sporadicamente seguiva i telegiornali, provando sentimenti contrastanti alla vista di quel palazzo e di quelle persone che fino a poco tempo fa salutava nei corridoi. Pasqui era stato eletto segretario a dispetto di tutto ciò che aveva confessato al congresso, e Nicolò riuscì solo a pensare a quanto fosse contento di essere lontano da quel mondo sporco e disonesto. Si erano aperte diverse inchieste dopo la sua confessione, ma sembravano procedere a rilento. Tutti i deputati di SD facevano quadrato attorno al nuovo segretario, tra cui il più agguerrito era senza dubbio il nuovo capogruppo, Thomas Greco.
Sentì bussare alla porta. Dovevano essere i colleghi, pronti a chiamarlo per l’ora dell’aperitivo.
«Avanti!»
Per poco non cadde dalla sedia quando si trovò davanti l’ultimo uomo che si sarebbe aspettato di veder entrare da quella porta.
«Ciao».
Michele Martino sembrava un’altra persona rispetto all’ultima volta
in cui l’aveva visto, circa un mese prima al funerale di Marchesi. Non vi era più traccia del pallore del volto, né dell’ombra scura dentro gli occhi color nocciola. Non c’era la minima indecisione nei suoi movimenti quando chiuse accuratamente la porta del suo ufficio.
«Michele? Ma che ci fai qui?»
«Pasqui mi ha dato informazioni su dove fossi» comunicò nel modo più naturale possibile.
Nicolò sospirò, sentendo quel nome a cui ultimamente aveva dedicato gran parte del suo odio privato, inquadrandolo come il principale responsabile ancora vivo di numerose malefatte che avevano coinvolto lui, Michele e l’intero mondo della politica.
«Già, il vostro nuovo segretario. Quello che ti ha inguaiato facendo affari di nascosto con tuo padre».
«Proprio lui» rispose tranquillo Michele, «ma non è per parlare del mio segretario che sono qui».
«Ah, e per cosa?» sbottò Nicolò, che stava iniziando a innervosirsi per quell’uomo del suo passato venuto a importunarlo.
«Per impedirti di fare il vigliacco. Sei scappato come se niente fosse, senza nemmeno presentare le dimissioni al tuo gruppo. Sei un deputato e sei il capogruppo di un partito, non è qui che dovresti stare».
«Questa è bella!» rise Nicolò, impressionato da quella sfacciataggine,
«hai proposto un criminale come segretario del tuo partito al posto di candidarti tu, e ora dai a me del vigliacco?»
«Pasqui non è un criminale» rispose freddo l’altro, «è un uomo che ha commesso degli errori e li ha confessati tutti. Nessuno più di lui merita quel posto».
«È compromesso con la mafia!» sbottò Nicolò, non riuscendo a trattenersi, «ti rendi conto di che persona sia? Come Chiarelli, come metà del mio partito! Lo sai cos’è successo nell’ultima assemblea del mio gruppo, eh? Che hanno avuto il coraggio di difenderlo! Giorgio se n’è andato, schifato. Metà dei circoli territoriali si sono sciolti in protesta. E tu mi chiedi di tornare?»
«Ma che razza di persona sei diventato?» Michele riuscì a guardarlo dall’alto in basso, nonostante la statura non lo aiutasse, «il Nicolò che conoscevo faceva ostruzionismo giorno e notte per non far passare una legge. Non scappava davanti ai problemi, li affrontava!»
Nico si alzò dalla sedia, punto sul vivo.
«E che differenza potrei fare? Non posso cambiare nulla, ormai» gridò.
Ci fu qualche secondo di silenzio prima che il suono di uno schiaffo vibrò nella stanza.
Michele restò diversi secondi con la mano alzata, quasi non credendo di averlo fatto davvero. Nicolò si toccò la guancia colpita, non riuscendo a capacitarsi di quel colpo restituito con mesi di ritardo.
Ricordò quel momento in cui aveva alzato lui la mano contro l’altro, il quale al tempo aveva difeso la sua azione politica dicendo che non avrebbe fatto differenza un voto in più o in meno. Realizzò che la rabbia che aveva mosso la sua mano era la stessa che, in quel momento, aveva fatto scattare quella dell’altro, in un gesto del quale mai lo avrebbe ritenuto capace.
Fissò gli occhi di Michele, ritrovandoci quello sguardo duro e deciso che un tempo apparteneva anche a lui, e che non assomigliava neanche lontanamente a quello spaventato e rassegnato dell’uomo che aveva conosciuto.
Guardò l’altro mentre usciva dal suo ufficio, evidentemente reputandolo indegno anche solo per un saluto.
 
 
*
 
 
Pasqui osservava le stelle dalle finestre ampie del suo nuovo ufficio. Si ritrovò a immaginare tutte le volte che Riccardo vi aveva guardato da quella sua stessa posizione, perso in quei pensieri orribili che lo avevano portato a togliersi la vita.
Aveva sperimentato una commozione mai sentita prima per la protezione del suo partito nei suoi confronti. Thomas, eletto
all’unanimità nuovo capogruppo, si lanciava in ferventi interviste in sua difesa, oltre a venirlo a prendere per il pranzo e per la cena, assicurandosi che mangiasse. Martino, nominato nuovo presidente di SD al posto di Goffredo, si dava un gran daffare per rilanciare l’immagine del partito e per difenderlo dagli attacchi in aula. Persino il vecchio Costa, all’inizio molto contrariato per la sua elezione, aveva speso delle belle parole su di lui.
Una sera di quelle, Marcello aveva trovato Martino da solo al bar, che beveva malinconico più di quanto riuscisse a reggere. Non gli aveva detto niente, ma aveva scritto un messaggio al barista per dirgli di non dargli più alcolici. Il giorno dopo gli aveva fatto trovare un indirizzo sulla scrivania, con un biglietto su cui aveva scritto che c’era qualcuno che ancora poteva riportare indietro. Era uno slancio di gratitudine immenso per lui, perché sapeva che se quell’uomo fosse davvero tornato lo avrebbe sicuramente attaccato, ma lo aveva fatto lo stesso. In fondo, sapeva molto bene cosa significasse perdere un amico.
Mentre era perso nei suoi pensieri, un uomo sconosciuto entrò nel suo ufficio.
«Pasqui Marcello?»
«Sono io».
«Bene» fece pochi passi verso la scrivania, «questo è per lei, buona serata».
Marcello si avvicinò, notando una busta con scritto il suo nome.
«Ma chi è lei?» gridò verso la porta aperta dove l’uomo era scomparso all’improvviso.
Prese la busta in mano, sentendo il cuore accelerare per ciò che vi avrebbe trovato dentro.
 
“Caro Marcello,
mi dispiace. Per confessare la verità ho dovuto ammettere anche le tue colpe, senza il tuo consenso. Per rimediare a quest’ultimo danno ho deciso di lasciarti sia il mio conto in banca che i numeri di alcuni avvocati. Troverai i biglietti da visita dentro la busta, comunque ci ho già parlato io. Nel peggiore dei casi ti daranno qualche mese di servizi sociali e una multa che non avrai difficoltà a saldare. Nel migliore, la verità non verrà mai fuori, perché chi la detiene in questo momento avrà troppo buon cuore per fartela pagare. In qualunque scenario, almeno potrò andarmene con la certezza di averti risparmiato il carcere.
Non potevo andarmene senza salutarti. Non potrò mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai fatto per me. Ci ho provato poco fa, quando ti ho incontrato sulle scale di piazza del Gesù. Ma non bastano né poche parole, né la mia eredità a saldare il debito di una vita intera.
So che in questo momento starai provando molto rancore verso di me e non posso impedirtelo. Se potessi rimedierei seduta stante al tuo dolore silenzioso, ma me ne vado con la speranza che qualcuno possa fare ciò che tu hai fatto per me: starmi accanto nel periodo più buio della mia ita.
Non saremo più una squadra, ma avrai sempre un partito su cui contare, spero che tu te lo ricordi sempre. Voglio credere che un giorno potrai tornare a sorridere e, forse, a perdonarmi. Ci crederò con tutte le mie forze, aggrappandomi a questo pensiero fino al mio ultimo respiro. E so che non sto sperando invano, perché tu non mi hai mai deluso.
Ric”
 
   
 
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