Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Happy_Pumpkin    03/06/2018    2 recensioni
Il mondo è stato avvolto da ghiaccio e neve perenne in una catastrofe che ha portato i pochi umani sopravvissuti a vivere in città alimentate da una gigantesca caldaia centrale, dalla quale il calore viene diramato in maniera radiale negli edifici che la circondano.
In questo mondo Eren, un esploratore insensibile al dolore, viaggia di città in città congelate per recuperare beni di prima necessità, mentre Levi gestisce parte della fucina, al di là delle cicatrici e della paura intima di non vedere più Eren tornare a Raylight dove, come tanti prima di loro, cercano di sopravvivere.
“Perché non dopo, perché domani?” domandò Eren lasciando la mano sul ventre dell’altro, sfiorando la peluria del pube e, poco oltre, l’erezione.
“Perché oggi voglio che tu sia solo mio. Non dei ricordi, non dei morti, non di nessuno al di fuori di questa casa. Ti basta come risposta, Jaeger?”
È perché oggi, almeno oggi, voglio pensare alla vita.
Questi gli baciò il collo e avvicinò le labbra al suo orecchio quando gli rispose in un sussurro:
“Domani andrà bene.”
[Frostpunk!AU | Ereri/Riren]
Genere: Angst, Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Analgia






“Portaglielo, il mio ultimo pegno d’amore per lei.”
Il vento soffiava feroce, trasportando fiocchi di neve nelle sue folate gelide e, assieme, le ultime parole di Erd Jinn. Ma Eren Jaeger, parte della Squadra di Esploratori, riuscì a coglierle ugualmente assieme al vento e alla neve.
Lasciò andare l’uomo, che gli morì tra le braccia, con i capelli e le ciglia incrostate di ghiaccio, gli occhi vitrei e il naso in un principio di cancrena dovuta all’assideramento. Il corpo sarebbe stato seppellito dalla neve, andava bene così: la neve non si sarebbe mai sciolta, non l’aveva fatto per secoli e non avrebbe cominciato proprio quel giorno.
Si alzò in piedi, spezzando con quel movimento una lastra di ghiaccio e ulteriore neve soffice depositata sulla schiena: si disperse in polvere bianca, mista a frammenti simili a vetro.
In un pensiero fugace, cercò di muovere le gambe e scoprì di riuscirci, anche se pesavano, circondate da neve e ghiaccio. Non le guardò, finse di dimenticarsi quello che era accaduto alla città abbandonata. Fu comunque in grado di spostare le dita dei piedi, ma non se ne preoccupò particolarmente: era abituato, non le muoveva da giorni.
Raccolse la tela dove erano state stipate tutte le provviste trovate nell’ultima disastrosa spedizione: carbone da lasciar asciugare, un po’ di scarti metallici e qualche pezzo di ricambio per le caldaie recuperato dall’ultimo appostamento in cui erano stati, prima di precipitare con il pallone aerostatico e trovarsi nel mezzo di una tormenta.
Una città come tante altre visitate nel corso delle esplorazioni che, però, non era sopravvissuta ai periodici cali drastici della temperatura, forse perché aveva poco carbone con cui alimentare la gigantesca caldaia centrale, forse perché gli edifici non erano stati isolati sufficientemente bene. Faceva effetto, vedere quei luoghi un tempo vivi, vitali, completamente congelati nel tempo: pareti dipinte da uno strato di ghiaccio, coni simili a vetro che pendevano dai soffitti con ancora agganciate carrucole, pelli, ricordi di vita. Entrando nelle abitazioni, in cerca di cibo, oggetti utili o vestiti, Eren sentiva di invadere qualcosa di privato, per molti una tomba: scorgeva coppie strette assieme nel proprio letto, per addormentarsi prima del grande gelo e non svegliarsi più, ma anche bambini, anziani, rannicchiati in cerca di un calore che non sarebbe mai arrivato.
All’inizio non ce la faceva, si arrabbiava, per l’indifferenza o la mancanza di rispetto con cui i suoi colleghi toglievano spesso da mani ibernate, spezzandole, coperte, ricordi, frammenti di chi quelle persone erano state prima di morire. Poi, rientrando a casa dopo ogni esplorazione, tra chi era morto in quell’impresa, chi ne era uscito con un arto in cancrena per il congelamento, aveva compreso che era inutile farsi degli scrupoli: la vita era diventata così, una legge della sopravvivenza. Ed Eren doveva sopravvivere, doveva portare indietro qualcosa;  non per se stesso, forse per la città di Raylight, ma soprattutto... per lui.
Però, ogni volta non mancava di ringraziare i morti, per consentire comunque loro di vivere.
Da come il sacco allacciato da una robusta corda pesava nella neve, Eren dedusse infine che doveva essere parecchio carico, ma lo trascinò senza sforzo, affondando passo dopo passo fino a riuscire a sentire la terra ghiacciata e sterile al di sotto.
Mosse più volte le ciglia, per evitare i depositi di ghiaccio e rischiare di non riuscire più a vedere, mentre la sciarpa ormai era incollata al viso e al naso, il che però non gli impediva di cercare grandi boccate di ossigeno. Sperò che i regali custoditi, raccolti scioccamente per semplice sfizio, non venissero danneggiati; a conti fatti non erano nulla di speciale, parecchi anni fa sarebbero stati addirittura qualcosa di terribilmente ordinario, ma dopo tutto quello che era successo forse... potevano rendere altre persone un po’ più felici.
Continuò lento ad avanzare, determinato, i pensieri che volavano lontani, oltre il cielo notturno, le stelle e il vento carico di neve. A un certo punto dovette sollevare di più il piede destro, era pesante e non riusciva a muoverlo particolarmente bene.
Abbassò lo sguardo, rendendosi conto di non averlo più fatto da quando avevano lasciato la città; gli venne da ridere e da piangere allo stesso tempo.
Osservò il piede e vide che si era piantato un pezzo di metallo che sporgeva, appuntito, da oltre lo stivale. Trattenne il respiro, deglutì, e annuì come per comunicare qualcosa a se stesso.
Non importa, già, non è importante. Devo andare avanti. Tanto non fa male. Tu non puoi sentire il dolore, Eren, né gli arti congelati andranno mai in cancrena com’è successo a Erd, a Mina o a Erwin.
Finché non provi dolore, arriverai dove devi.
Strinse i denti, trattenne un’istintiva voglia di piangere all’idea che quella chiazza rossa imprigionata negli strati di ghiaccio del suo piede fosse il proprio sangue e ignorò la voce malevola nella sua testa che gli suggeriva che l’infezione o il tetano erano tutto un’altro discorso.
“Ce la farò – mormorò, ma la voce uscì in nient’altro che un flebile suono – ho le vite e i doni di chi non è sopravvissuto.”
Nel mezzo della tormenta, tra il ghiaccio e la neve Eren Jaeger, unico sopravvissuto di quattro esploratori, avanzò trascinando il piede ferito e il sacco di tela con le scorte per la città di Raylight.

*

Levi, responsabile del settore ovest della gigantesca caldaia centrale di Raylight, osservò i valori della fucina, dette una stima al quantitativo di carbone rimasto per passare il resto della notte e si massaggiò il collo. Si guardò la canotta sporca e sollevò appena un labbro in una sorta di disappunto interiore; anche dopo anni, non si sarebbe mai abituato al sudiciume di quel posto. Ma era quel posto a far vivere tutta la fottutissima città, dunque se lo fece andare bene ugualmente.
“Non torni a casa, Levi?”
Questi sollevò lo sguardo e vide Erwin: aveva indosso la giacca portata tante altre volte durante le numerose esplorazoni a cui aveva preso parte, mentre la protesi meccanica spuntava oltre la manica dal bordo un po’ liso. Un tempo non la metteva, specie i primi mesi da quando il braccio era stato amputato in seguito alla cancrena, ma ultimamente si era reso conto che la sua menomazione gli impediva di fare troppe cose per accettare di non mettersi la protesi.
Aveva un accenno di barba non fatta. In passato, prima che tutto cambiasse, prima di quello che era accaduto a Hanji, Erwin se faceva la barba ogni giorno, così come ogni giorno si pettinava i capelli, quasi fossero ancora a Londra senza la disastrosa glaciazione e i cambiamenti climatici di dieci anni fa.
“Non riuscivo a dormire. Ho preferito allungare il turno.”
Si guardarono un istante, poi Erwin gli disse, lanciandogli l’asciugamano appeso di fianco alla giacca lunga appartenente a Levi:
“Tornerà.”
“Lo so che tornerà. Il problema è... come? In che stato? Quando la smetterete di lanciarlo in quelle missioni suicide, circondato da persone che schioderanno e che lui non può salvare, eh?”
Aveva alzato leggermente la voce, che rimbombò tra le pareti metalliche e gli echi delle fucine. Ma il volto era rimasto quasi indifferente, appena adombrato, coi ciuffi scuri che gli coprivano la fronte pallida, in contrasto con le guance arrossate per il lavoro.
Si mise l’asciugamano al collo e cominciò ad avanzare, per riprendersi la giacca e uscire.
Erwin lo lasciò passare, per poi voltarsi e guardargli la schiena:
“Nonostante quello che ti è successo, tu continui comunque a lavorare qui dentro. Perché sai che c’è qualcosa di più importante di te stesso – vide Levi arrestarsi e portarsi istintivamente una mano dietro al collo, come per coprirlo dopo aver tolto l’asciugamano – avrei voluto che Eren fosse uno come tutti gli altri. Ma lui non è come tutti gli altri e questo, a discapito dei traumi e dei rischi che subisce, ha incrementato le nostre possibilità di sopravvivere. Mi dispiace, Levi.”
Questi si mise la giacca, fissò brevemente Erwin, infine gli disse asciutto:
“Già. Sembra che tutti debbano dispiacersi di un sacco di cose. Torna da Hanji, o sarò io a essere dispiaciuto. E per quanto io ti rispetti, non ti piacerebbe vedermi rammaricato.”
Erwin fece un accenno di sorriso amaro, consapevole del peso di tante situazioni irrisolte:
“Un giorno la glaciazione finirà. E per allora potrò dire di aver fatto il possibile per garantire la sopravvivenza della razza umana, con o senza il Sindaco Zachary.”
“Lo so, Erwin. È anche per questo che ti rispetto. Buonanotte.”
Uscì dalla struttura, scendendo le scalette metalliche che circondavano il gigantesco cilindro centrale, cuore vero e proprio di Raylight: un’enorme caldaia dalla quale si diramava il riscaldamento in tutta la città, esteso grazie a delle caldaie aggiuntive a vapore collocate nelle zone più distanti; tale riscaldamento si irradiava tramite i diffusori di calore posti in ogni edificio, per evitare che persino nelle notti in cui la temperatura scendeva oltre i 70° C si congelasse.
Spegnere la caldaia centrale significava morte per assideramento, perdita delle coltivazioni e degli animali. Senza quella, ogni speranza di vita in Raylight cessava di esistere.
Passò al chiosco delle zuppe poco distante dal luogo di lavoro, si fece incartare due ciotole ancora bollenti e prese a camminare lungo le strade ormai deserte. Chi era ancora sveglio non aveva il turno programmato per l’indomani, o si trattava dei gestori dei pub e delle arene in cui la gente si sfogava picchiandosi  vicenda. Un tempo Levi era stato uno di quelli. Si guardò il palmo libero della mano, sfregiato da cicatrici di ustioni che non si sarebbero mai del tutto sanate.
Passò oltre, sentendo l’eco ovattato di chiacchiere, tintinnare di bicchieri e, più distante, l’esultare selvaggio di un buono scontro, pagato con sangue e sudore.
Quando arrivò a casa, un appartamento modesto di due stanze, appoggiò il sacchetto di tela con le ciotole accanto a un mucchio modesto di libri già letti e riletti, una foto ingiallita sopravvissuta al tempo, di quando erano ancora a Londra, prima della glaciazione e prima che non ci fosse più posto per chi non aveva abbastanza soldi.
Scorse il carillon non funzionante: un oggetto vezzoso, recuperato ostinatamente da Eren perché all’interno, una volta aperto, aveva ancora uno specchio. Ogni volta che dovevano farsi la barba, vedevano anche la figura di una ballerina un po’ scolorita che non riusciva più a danzare, senza la sua musica; persino patetico, a ben pensarci, ma non era la sola a sentire la mancanza della musica.
Attese qualche istante, pensò persino di scaldare dell’acqua che già arrivava tiepida, in quanto passava vicina alle tubature del riscaldamento sotterranee e isolate, per evitare di farlacongelare. Ma non lo fece. Non riuscì a pensare di lasciare passare ancora del tempo, di sistemarsi, di avere cura di sé in una qualche distorta forma, mentre Eren era là fuori.
Secondo i calcoli della Gilda degli Ingegneri la spedizione sarebbe già dovuta rientrare il giorno prima e, per quanto gli sarebbe piaciuto condividere la fiducia di Erwin, proprio non credeva che quel ritorno sarebbe stato così facile.
“Fanculo.”
Afferrò la giacca più pesante, appesa al chiodo piantato nelle pareti imbottite e isolate per evitare la dispersione di calore, indossò il cappello, la sciarpa ed ebbe un ripensamento all’ultimo. Si tolse le scarpe, mise un doppio strato di calzini e indossò gli scarponi da escursione. Gli andavano un po’ larghi – moccioso troppo cresciuto – ma meglio di niente: lui, a differenza di Eren, il gelo purtroppo lo sentiva eccome.
Pensò che, una volta avuto Eren a casa, le zuppe anche se fredde sarebbero state ugualmente buone.

*

In lontananza, Eren vide le luci della città rischiarare appena l’orizzonte della distesa innevata nel cuore della notte. Aveva passato il valico che isolava Raylight e per un attimo, circondato da pareti rocciose immense, con il suono ovattato dei suoi passi lenti sulla neve, aveva pensato che non sarebbe riuscito ad andare oltre, sarebbe morto prima di stanchezza, di fame, di stupida nostalgia.
Si leccò istintivamente il labbro, avvertendo il gusto ferroso del sangue: doveva essersi spaccato per via del freddo e del vento. Ma andò avanti, la luce lontana gli aveva dato un nuovo motivo per non fermarsi, per non lasciare che il male accumulato eppure non percepito lo bloccasse. Ormai il piede era completamente zuppo di sangue, come il ghiaccio che lo circondava, ma l’emorragia sembrava essersi bloccata per via del congelamento. Pensò che forse quella volta, rientrando a casa, avrebbe potuto realmente fare male. Rise, scuotendo appena il petto stanco, nel rendersi conto che stava già dando per scontato di arrivare in città e, non solo, rifugiarsi tra le mura di casa con un pezzo di ferro piantato nel piede.
Non si era mai sopravvalutato così tanto come allora, forse la morte prossima gli stava facendo acquisire una fiducia in se stesso mai sperimentata in maniera tanto forte; forse era solo delirio dovuto allo sforzo sovrumano di rimanere in vita e trascinare chili di ferro.
Arrivò fin quasi ai margini della città. Mancavano pochi chilometri, magari qualcosa di più. Sentì la vista farsi offuscata, le luci diventare più confuse.
Intravide un’ombra stagliarsi contro la luce ed estendersi.
La morte? Stava venendo a prenderlo?
Magari avrebbe fatto male. In un certo senso lo sperava.
Prima di potersi accasciare a terra però due braccia lo sostennero, avvolgendolo. Non c’era delicatezza, in quel gesto, ma andava bene: non era la delicatezza a reggere un peso morto.
Poi intravide il suo volto. Sembrava preoccupato, arrabbiato, forse sollevato. E in tutte quelle sensazioni, si rese conto che nessun altro avrebbe potuto decifrarle così bene come se stesso.
Cercò di sorridergli, uno di quei sorrisi idioti e altruistici che tirava fuori mentre aveva le sopracciglia aggrottate per mostrare la sua costante determinazione. Ma realizzò che aveva ancora la sciarpa incollata addosso, nonché il sangue e il gelo che gli aveva paralizzato persino la pelle funerea del volto.
Levi.
Lo disse nella sua testa. Cercò di alzarsi in un moto di orgoglio, di bisogno di dimostrare che poteva ancora camminare, come tante altre volte prima di allora.
“Sta’ fermo. Che cazzo hai fatto al piede, Eren? – sembrava esserci una vibrazione preoccupata nella voce – ti porto a casa.”
Eren cercò di afferrargli il braccio. Riuscì a emettere un suono: “... sacco...”
Levi inarcò un sopracciglio, poi guardò alle spalle dell’altro e vide il sacco di tela che doveva essersi trascinato dietro per infiniti chilometri. Schioccò la lingua: “Porterò anche quello. È per tutta quella roba che gli altri sono morti e tu ti sei quasi fatto uccidere.”
Lo lasciò disteso nella neve per alzarsi, mettersi attorno alla vita le corde usate per trainare il contenitore di tela, infine si caricò Eren in spalla, sentendolo più pesante del solito. Che fosse per il ghiaccio accumulato o per il ferro, era difficile comprenderlo.
Non lo sentì protestare, ostinato come al suo solito. Con la coda degli occhi vide che era svenuto; portò un dito davanti al naso e, dopo essersi accertato che respirasse, avanzò per ritornare indietro.

*

Quando si infilò nelle vie strette della città, Levi aveva già bene in mente dove andare. Gli seccava, ma non aveva molte altre alternative. Eren doveva essere scaldato con coperte prima ancora di metterlo nell’acqua calda, in modo da evitare ulteriori scompensi circolatori, inoltre qualcuno doveva togliere quel ferro piantato nel piede e ricucirglielo, possibilmente evitando una qualche forma di infezione.
Assurdo non morire per la cancrena, ma rischiare comunque per un pezzo di metallo.
Bussò alla porta di Hanji. E di Erwin. Un tempo, prima dell’incidente, era convinto che fossero felici. Ora che Erwin aveva perso il braccio e Zachary gli aveva vietato di prendere parte alle esplorazioni, sembrava essersi irrimediabilmente rotto qualcosa.
Dopo qualche istante gli venne ad aprire Hanji con una tunica leggera, priva del solito camice pieno di tasche tipico di chi lavorava nella Gilda degli Ingegneri; alle sue spalle, Levi scorse la figura alta di Erwin. Sembravano essere svegli e, dalle loro facce, non perché stavano facendo sesso. Poi fare sesso vestiti era una cosa patetica persino per un figlio di puttana come Erwin e una psicopatica come Hanji.
“Eren è tornato, come tutti dicevamo, ma se non facciamo qualcosa rischia di andarsene di nuovo. E questa volta per sempre – guardò direttamente Erwin quando gli disse – con me ho tutta la merda che i vostri esploratori hanno trovato. Ah, tra parentesi, sono schiodati tutti. Ed Erd aspettava anche un bambino. Spero che vivremo tutti felici e contenti con questa roba.”
Erwin sospirò, muovendosi per andare ad aiutare Levi con il sacco trascinato dietro in un clangore di ferraglia e neve sciolta, assorbita dalla strada, mentre Hanji lo aiutò a trasportare Eren dentro.
Lo posarono sul tavolo vuoto, lasciando dietro pezzi di ghiaccio che cominciarono a staccarsi dagli abiti e dai capelli.
“Togliamogli i vestiti; Erwin, prendi le coperte e il coltello, Levi dovrai aiutarmi a tagliare gli scarponi, prima dobbiamo assicurarci che la circolazione di Eren riprenda, poi penseremo all’affare che ha piantato nel piede ma che, se non altro, ha impedito che lui morisse dissanguato.”
Gli altri due si dettero da fare, mentre Hanji svestiva con rapidità Eren, ancora svenuto, per circondarlo progressivamente di coperte, avvolgendogli anche i capelli ora fradici, mentre ai loro piedi c’era una pozza d’acqua scongelata.
Quando gli scoprì le mani e i piedi, Hanji sospirò, realizzando che un tempo aveva trovato Eren un caso di studio meraviglioso. Ora, dopo le morti a cui aveva assistito e le amputazioni viste, era semplicemente sollevata che quel giovane uomo non sentisse male, né rischiasse la cancrena: gli arti si congelavano, ma rimanevano lì, come in attesa, senza subire alcun danno. Una condanna e una fortuna perché altrimenti, quella notte, Eren avrebbe perso con ogni probabilità tutti e quattro le estremità.
Occhieggiò Levi, gli occhi incavati e come sempre adombrati, l’espressione vagamente apatica, e gli disse:
“Ce la faremo, Levi. Eren è testardo e ostinato. Altrimenti non avrebbe mai finito per stare con te.”
Quella volta l’uomo sollevò lo sguardo, scoprendosi più vulnerabile.
Poi, ribatté con una sorta di affetto incomprensibile ai più:
“Già. A quanto pare essere testardi sembra il requisito per stare con determinate persone.”
Occhieggiò Erwin che era andato a prendere altre coperte, Hanji lo guardò a sua volta, poi sorrise, sentendosi amichevolmente presa in causa.
D’altronde, per amare bisognava crederci veramente. Fino all’ultimo.

*

Eren sbattè più volte le ciglia, sentendosi piacevolmente intorpidito. Intravide un fascio di luce provenire dalla stanza in penombra, mentre il corpo era pesante eppure lo avvertiva, tra le coperte e il peso della testa sul cuscino. Fece per alzarsi a sedere, ma deglutì, cominciando a ricordare.
Era tra la neve, Levi l’aveva afferrato, poi... aveva qualcosa. Un pezzo di metallo, infilato nel piede.
Boccheggiò un istante, per sollevarsi a sedere di scatto, annaspando tra le coperte, con la paura tremenda di trovarsi qualcosa di amputato: una gamba, un braccio, delle dita. Un punto del suo corpo che aveva smesso all’improvviso di fare miracoli, cominciando a essere come tutti gli altri, con il principio di congelamento che conseguiva la cancrena.
Respirando a fatica si controllò i piedi, le mani, il viso ed espirò nel realizzare che era ancora vivo, niente amputazioni, nulla, tranne una fasciatura al piede ferito. Si appoggiò alla testiera del letto, socchiudendo un istante gli occhi.
“Cos’è, adesso hai preso anche a farti un check-up da solo?”
Eren riaprì gli occhi per vedere Levi sulla soglia della porta d’ingresso. Aveva la giacca addosso e doveva essere appena rientrato.
“Le cose... gli oggetti. Dove sono?” Domandò d’istinto Eren.
Levi inarcò un sopracciglio: “Hai un piede bucato e ti preoccupi delle robe raccattate in quella città merdosa? – visto che Eren lo guardava, senza chiudere gli occhi grandi fastidiosamente fissi su di lui, sospirò breve e aggiunse – Al deposito smistamento. Mi hanno restituito due oggetti, dicendomi che forse erano tuoi.”
Appoggiò sul tavolo un contenitore di cuoio rigido, con dentro una scatoletta di quella che pareva latta e un orologio fermo.
Eren sembrò sollevato e, paradossalmente, avvolto da un velo di malinconia.
“Sì. Uno è mio, l’altro è da dare a Nanaba. L’ha preso Erd per lei – assottigliò le labbra – sono tutti morti, Levi. Non ce l’ho fatta a riportarli indietro.”
Levi lo guardò, ma non disse nulla.
Non era mai stato bravo a consolare, né a usare le parole. Anche le sue soluzioni spesso erano brusche e prive di amore, per chi non lo conosceva.
Si tolse la giacca e le scarpe, rimanendo con addosso una delle canotte che usava per lavorare e i pantaloni scuri. Afferrò una ciotola posizionata vicino alla stufa che irradiava il calore della caldaia centrale, prese un cucchiaio dalla cucinetta di fianco e la porse a Eren, mettendosi in piedi di fianco al letto:
“Mangia. L’ho presa ieri notte, prima che tu decidessi di farmi andare da Hanji per ricucirti. Non strafogarti, perché non ho intenzione di pulire il tuo vomito. Non dovresti nemmeno avere nausea, visto che non sei costretto a imbottirti di antidolorifici.”
Eren fece un accenno di sorriso, prendendo la ciotola:
“Grazie, provvederò a non sputare vomito sul letto. Posso anche venire a tavola, ce la faccio.”
“Stai a letto e riposa quelle fottutissime gambe – tagliò corto Levi, per poi allontanarsi – prendo l’acqua. Puzziamo e questa cosa mi fa schifo.”
“Ok.” Replicò semplicemente Eren. Percepì vagamente il calore della ciotola, ma anche se fosse stata ustionante, non se ne sarebbe reso conto. Solo che la sua pelle le ustioni, a differenza del congelamento, le avrebbe sentite eccome, corrodendosi irrimediabilmente.
Si sentiva già decisamente meglio e più riposato, però, considerando che Levi aveva finito il turno di lavoro, avvertì un senso di colpa all’idea di essere rimasto a dormire in stato quasi comatoso tutto il giorno. Sapeva che doveva riprendersi, ma proprio non poteva fare a meno di provare un moto di fastidio, visto che i suoi compagni erano morti e lui... dormiva.
Mangiò la zuppa, mentre Levi metteva a scaldare l’acqua e sistemava la grande bacinella in legno. Lo osservò, poi pian piano loro due cominciarono a parlare.
Eren gli descrisse l’ultima città in cui era stato, le insegne, i cartelli congelati nel tempo, i negozi di mercanti con i pochi pezzi di ferro recuperati, i luoghi di svago ormai deserti, le fucine inattive, i meravigliosi coni di ghiaccio che pendevano come lacrime dai soffitti bassi degli edifici.
Levi lo ascoltava, ringraziando dentro di sé di poter sentire il suono della sua voce. Non glielo disse, altrimenti Eren avrebbe sofferto e reputato più difficile partire, quando sarebbe di nuovo stato il momento.
Lui invece gli raccontava degli ultimi avvenimenti della città in quelle settimane di assenza di Eren, dalla messa idiota dei Predicatori attorno alla gigantesca caldaia – patetici, come se fossero loro con delle fottutissime preghiere a tenere al caldo le fucine e non il carbone – gli ultimi lavori al laboratori portati avanti da Hanji e dai suoi pazienti assistenti, Moblit e Armin – vide Eren sorridere nel parlare del migliore amico – o del fatto che Mikasa, incinta, non avesse ancora ucciso Jean in preda a uno sbalzo ormonale.
“Il bambino – chiese Eren, appoggiando la ciotola ormai vuota – pensi che ce la farà? So che è una domanda idiota, ma dopo aver creduto che Hanji ed Erwin potessero a loro volta veder nascere il loro figlio ed è morto, nonostante tutto, io... ecco, io... non sono poi così tanto sicuro delle cose. Tranne che devo tornare. Questa è la mia certezza.”
Levi lo guardò. Dilatò impercettibilmente le narici, poi gli disse:
“Hanji forse nemmeno riuscirà più a rimanere incinta. Erwin... credo sia per questo che ha perso il braccio, è stato disattento, meno stronzo del solito. Si sono fottuti a vicenda, ma si amano. Supereranno anche questa. Mikasa è forte, Jean è un uomo troppo umano, responsabile, protettivo pur lasciandola indipendente come è sempre stata. Per questo funzionano così bene. E per questo ci sono i presupposti che il bambino sopravviva. Ma... la vita non è mai un calcolo di probabilità, purtroppo, è fatta di eccezioni. Grazie a queste eccezioni tu sei vivo. E ringrazio che tu creda ogni volta di poter tornare.”
Si arrestò. Sfiorò il tavolo, un gesto quasi irrilevante per dare meno importanza alle parole.
“L’acqua è calda.”
Eren annuì, sentendo il petto più leggero. Levi era cosi straordinariamente bravo, senza saperlo, nel dirgli la cosa giusta al momento giusto. Non sapeva come ci riuscisse, ma accadeva e basta.
Sollevò le coperte, mise giù i piedi e si alzò. Con le braccia incrociate l’altro lo fissava, come per controllare che lui ce la facesse, che reggesse, che per qualche misterioso motivo il piede non cominciasse a fargli male, come accadeva agli altri comuni mortali capaci, a differenza sua, di sentire il dolore.
Quando si avvicinò alla vasca, Eren si morse un labbro e fece per allungare un braccio verso Levi che, però, si era già girato. Prima di potergli afferrare la maglia, Levi se l’era tolta, senza cura, un gesto come un altro. Rivelò la schiena, nuda, per quello che era: un insieme di cicatrici profonde e frastagliate che arrivavano fin quasi alle natiche, dovute a un’ustione curata con quel poco che all’epoca avevano. Erano passati cinque anni da allora e la schiena di Levi era rimasta così, terribilmente sfregiata.
Ma a Eren non importava. Trovava l’uomo sempre bellissimo, nelle sue sfumature d’ombra, nel modo in cui i muscoli del dorso si intravedevano al di sotto, esattamente come le vertebre che risalivano fino all’altezza del collo e di parte della nuca rasata.
Lo osservò finire di togliersi anche i pantaloni sporchi di fuliggine, lasciati a terra assieme al resto, e rimase a fissarlo anche quando si girò, contemplando così il suo torace robusto per via del lavoro sfiancante, il ventre asciutto e la sua virilità, poi, le gambe meno slanciate delle proprie toniche che scendevano fino agli spigoli per lui erotici delle caviglie, coi piedi magri, nervosi, saldamente piantati a terra.
Sentì un principio di erezione e non se ne vergognò. Sicuramente, da Levi aveva preso il modo poco imbarazzato di approcciarsi al sesso, pur adoperando maggiore inventiva del proprio compagno. Si ritrovò a sorridere, il sorriso di chi si rendeva conto di essere in vita dopo il gelo della morte; e non si vergognò nemmeno di quello.
“Ti si è ibernato l’encefalo, Eren?” chiese con ironia Levi.
“In un certo senso. – replicò l’altro, scrollando le spalle – Ti stavo guardando: mi sei mancato in queste settimane.”
Fece per cominciare a togliersi la maglia ma, con un sospiro solo apparentemente seccato, Levi con uno scatto gli afferrò il braccio per poi dire:
“Lascia stare. Faccio io, finiresti per essere lento.”
“Hai paura che l’acqua si raffreddi, Levi?” domandò Eren, provocandolo con tono scherzoso.
Questi sollevò lo sguardo verso di lui, dopo avergli tolto la maglia per lasciarlo a petto nudo e ribatté, asciutto:
“No. È che voglio vederti nudo in fretta. Sei mancato anche a me, Eren.”
Specificò a sua volta il nome, con affetto, nonostante il tono tagliente.
Questi annuì, come se la risposta fosse effettivamente abbastanza per capire qualunque cosa. Così, lasciò Levi libero di agire; lasciò che gli facesse scivolare i pantaloni un po’ larghi fino a terra e, assieme, le mutande, avvertendo i polpastrelli piagati dell’uomo ruvidi contro la propria pelle e la leggera peluria.
Si guardarono, Levi con le mani ancora sui suoi fianchi ed Eren che gli prese quelle mani e le sollevò, fino a baciarle.
“Grazie per avermi trovato nella tormenta. Non potevo permettermi di non farcela.”
Le sue parole si dispersero tra le dita dell’altro che sembrò volerle serrare per non farle fuggire via.
“Nemmeno io potevo permetterti di non tornare.” ribatté Levi, diretto, guardandolo negli occhi.
Lasciarono infine rispettivamente la presa e l’uomo aggiunse: “Inizia a entrare e allunga la gamba fasciata, non bagnarla per nessun motivo, anche se non vorrei insultare la tua intelligenza specificandolo. Aggiungo un’altra bacinella d’acqua calda.”
Eren annuì, umettandosi le labbra quasi per concentrarsi nei movimenti, senza stupirsi particolarmente di quella che era la propria erezione, più interessato invece alla fasciatura e a non far cadere il piede ferito o Levi avrebbe anche potuto incazzarsi, a ragione.
In un’ondeggiare d’acqua riuscì a sedersi, lasciando parte della gamba appoggiata sul bordo e il piede che pendeva di fuori, poi mise i gomiti distesi e si concesse qualche secondo per contemplare Levi, la sua erezione, intento a raggiungerlo con tra le mani un catino.
Ma non poté guardare molto più a lungo, perché l’uomo gli rovesciò l’acqua calda sulla testa. Eren nemmeno percepì la temperatura, segno che non doveva essere particolarmente bollente – di questo ringraziava sentitamente – e si ritrovò a ridere appena, portandosi poi indietro i capelli fradici che gli si erano spostati fino a coprirgli la fronte. Pensò che avrebbe dovuto tagliarli, Levi era uno che teneva a quelle cose; forse glieli avrebbe spuntati prima di partire di nuovo, forse prima ancora gli avrebbe fatto la barba che cominciava a crescere.
L’uomo sospirò, lasciò il contenitore ancora piacevolmente caldo e disse:
“Sposta un po’ la gamba, Eren, dove vuoi che mi sieda, in braccio?”
“Sì – rispose l’altro, per poi guardarlo con gli occhi verdi accesi di sentimenti e specificare – appoggiati a me, dammi la schiena. Posso lavarti io.”
“Non sono io quello con un paletto conficcato nel piede.”
“Appunto. Accontentami, allora.” Ribatté Eren, con quel suo modo a volte sfacciato che aveva di provocare Levi.
Questi schioccò la lingua, replicando: “I tuoi stratagemmi fanno veramente cagare. Ma apprezzo la tenacia.”
Entrò in acqua, le cosce così vicino a Eren, poi la sua erezione a pochi millimetri dall’altro che la guardò con intenzione, il respiro più breve, la bocca avvolta dalla stretta eccitata dei denti.
Ma Levi si sedette, girandosi, con il movimento delle onde che andò a lambire le spalle di Eren.
Questi allora andò ad abbracciare la schiena di Levi, senza fretta, né impaccio. Lasciò scivolare le sue mani sotto l’acqua, fino a sentire il ventre asciutto leggermente incavato, mentre Levi avvertiva il torace dell’altro contro il suo e, più sotto, l’erezione che si faceva spazio tra le proprie natiche. Gli andò più contro, pur mantenendo il dorso leggermente incurvato, mentre le mani di Eren gli toccavano la vita e, subdole, gli sfioravano l’intimità già eccitata.
Avvertì il sospiro carico di desiderio di Eren, il suo respiro contro il proprio collo quando il ragazzo gli appoggiò il mento.
“Ti ho portato un regalo dall’ultimo viaggio.”
Levi non cambiò espressione, ma allargò le braccia, appoggiando un gomito sulla coscia dell’altro.
“Quello in cui ti sei trovato con un piede quasi fottuto? Grazie, Eren, ricordami di non chiederti mai regali.”
Lo sentì ridere appena per quella battuta tagliente, fatta per difendersi dai sentimenti, dalla paura quasi viscerale di non rivederlo più, un giorno.
“È del the – rispose l’altro, ignorando la provocazione – the vero, non come quello alle erbe e licheni che definisci... com’è che lo definisci? Vomito misto a sottoprodotto della merda? Sei sempre terribilmente artistico quando parli di defecazione, Hanji ha ragione.”
“Oi, sei qui per disquisire delle mie capacità dialettiche o per parlarmi del the? È quella scatoletta, vero?”
Si girò appena, ma gli occhi caddero sulle labbra di Eren. Pensò che gli mancava morderle mentre scopavano. Gli mancavano tante cose, le labbra erano una di queste.
Lui annuì: “È quella scatoletta.”
Poi si chinò appena e portò la bocca vicino alla spalla di Levi. Così vicina da aprirla e poggiarvi sopra le labbra, senza smettere di guardare l’altro, per leccargli una goccia d’acqua colata dal collo nudo, oltre i capelli rasati.
Infine gli baciò la schiena sfregiata, le cicatrici che la ricoprivano, ogni simbolo del dolore che Levi aveva provato anni fa, per proteggerlo, quando lui invece non l’avrebbe mai sperimentato, non avrebbe mai fatto sua la sofferenza di chi amava. Gli morse il collo delicatamente, eppure con passione, con il fuoco che aveva dentro e non avrebbe lasciato estinguere nonostante il ghiaccio del mondo che li circondava.
Levi sospirò, un sospiro più roco. Sentì il cuore accelerare in un rush di sangue e, lo sapeva, avvertì anche il respiro di Eren farsi irregolare, dal modo in cui gli scaldava la pelle baciandola.
“Dopo mettiamo sulla stufa altra acqua e beviamo il the ormai scongelato; domani consegneremo l’orologio a Nanabe.”
“Perché non dopo, perché domani?” domandò Eren lasciando la mano sul ventre dell’altro, sfiorando la peluria del pube e, poco oltre, l’erezione.
“Perché oggi voglio che tu sia solo mio. Non dei ricordi, non dei morti, non di nessuno al di fuori di questa casa. Ti basta come risposta, Jaeger?”
È perché oggi, almeno oggi, voglio pensare alla vita.
Questi gli baciò il collo e avvicinò le labbra al suo orecchio quando gli rispose in un sussurro:
“Domani andrà bene.”
Allora, Levi gli prese la mano e non la lasciò quando gliela mise sulla propria erezione. Torse leggermente il busto ed Eren lo baciò sulle labbra, cominciando a masturbarlo. Un principio, un’idea, per quando sarebbero usciti da lì, grondanti d’acqua, sapone e desiderio, fino ad andare sul letto, bagnarlo, e fare l’amore.
Solo in quei giorni, quando non era fuori nel ghiaccio e nella neve, Eren si sentiva un privilegiato: per non sentire dolore, ma poter comunque sentire Levi, il suo e il proprio orgasmo, la vita al di là del gelo.




Sproloqui di una zucca

Mi mancavano Eren e Levi in un rapporto più o meno sano. Questa è l'idea che ho di loro due, al di là dei traumi del passato. Tanto incapaci di parlare, di comunicare, ma alla fine riescono a sentirsi, a capirsi, a esserci sempre l'uno per l'altro. E sono tutti e due forti, orgogliosi, non mezze pippe; Eren è vitale, è energia, è il fuoco nel rapporto sessuale, in questo senso è più Levi che deve stargli dietro XD
Oltre a ciò, volevo descrivere una condizione estrema, in cui per qualche motivo il mondo è coperto di ghiaccio e le città sorte hanno come cuore pulsante una gigantesca caldaia che va a carbone. L'idea mi è stata ispirata dal videogioco gestionale Frostpunk; penso di essere la prima da queste parti a scrivere una roba del genere, ma a me piace sperimentale. Dopo l'atompunk, il cyberpunk e lo steampunk non potevo esimermi ahahah!
Inoltre, Levi ed Eren hanno una carica erotica pazzesca. Quanto li amo assieme <3
Ultima cosa, questa è la base di un progetto più grande. Una volta terminato a Rusty Heart vorrei parlare di questo mondo, di questo Eren esploratore che soffre di una forma particolare di  analgia (insensibilità al dolore, da qui il titolo) che oltretutto impedisce ai suoi arti di entrare in cancrena in seguito al congelamento. Allo stesso modo vorrei parlare di Levi che spala carbone (lol un'occasione per vederlo a petto nudo e sudato, che scema sono XD), di quello che è successo anni fa per portarlo ad essere sfregiato a vita sulla schiena e i palmi delle mani, ma vorrei parlare anche di Erwin, Hanji, Armin, Jean e Mikasa (ringrazio la meravigliosa Noa, se mai avrà modo di leggere, perché mi ha ispirata terribilmente su Jean e Mikasa durante le nostre chiacchierate).
Vedremo, per il momento work in progress.
Grazie per aver letto <3
   
 
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