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Autore: Hoi    05/06/2018    2 recensioni
Tratto dal testo:
"Il progresso è una reazione a catena che non ha inizio né fine. Ogni scoperta genera domande e possibilità, così tutto ciò che nuovo, amplia le prospettive del possibile e proviene da ciò che già si conosce. Le scoperte, per quanto astruse e astratte, generano echi invisibili che scuotono ogni aspetto di ciò che esiste e cambiano il reale."
"Adesso sembravano così piccole e lontane le nazioni a cui appartenevamo… eppure anche una volta abbandonata l’atmosfera avevamo continuato a sentire il peso delle nostre patrie, forse anche a causa di questo, era uno strano scherzo del destino che fosse proprio con lei che condividevo il letto. Strinsi più forte il suo corpo al mio, tirando la coperta termica, per coprirla più che potevo. Per quanto cercassi di limitare i pensieri inutili (e quello senza dubbio lo era), non potevo fare a meno di chiedermi se non fosse successo perché in qualche modo condividevamo qualcosa oltre all’addestramento."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il progresso è una reazione a catena che non ha inizio né fine. Ogni scoperta genera domande e possibilità, così tutto ciò che nuovo, amplia le prospettive del possibile e proviene da ciò che già si conosce. Le scoperte, per quanto astruse e astratte, generano echi invisibili che scuotono ogni aspetto di ciò che esiste e cambiano il reale.

 

 


Maicol Young
Primo colono spaziale
Futuro prossimo

 

Sapevamo che sarebbe successo, forse non sapevamo come, ma sapevamo che il risultato sarebbe stato questo.

Tenevo stretto il corpo di Danielle tra le mie braccia, cercando di cogliere qualche segno dai suoi occhi chiusi. Avevo scambiato con lei meno di una ventina di parole ed a pensarci ora, era strano constatare che nonostante fosse l’unica altra appartenente alla ESA oltre me nella spedizione, era anche quella che conoscevo meno. In effetti non era poi così strano se si considera che avevamo organizzato i turni di veglia appositamente perché non fossero mai svegli due appartenenti allo stesso team contemporaneamente. Adesso sembravano così piccole e lontane le nazioni a cui appartenevamo… eppure anche una volta abbandonata l’atmosfera avevamo continuato a sentire il peso delle nostre patrie, forse anche a causa di questo, era uno strano scherzo del destino che fosse proprio con lei che condividevo il letto. Strinsi più forte il suo corpo al mio, tirando la coperta termica, per coprirla più che potevo. Per quanto cercassi di limitare i pensieri inutili (e quello senza dubbio lo era), non potevo fare a meno di chiedermi se non fosse successo perché in qualche modo condividevamo qualcosa oltre all’addestramento. Forse qualcosa di genetico che ancora non aveva nome, ma che ci accomunava, rendendoci simili, speciali, migliori. Lei comunque non era forte quanto me. Feci scivolare le mani sulla sua schiena nuda, cercando di trasmetterle calore attraverso le dita. Aveva la pelle liscia di una ragazzina, nonostante avesse di certo più di trent’anni. Così addormentata, mi resi conto che sembrava in pace. Forse anche lei lo sapeva, forse anche lei era stata certa che saremmo morti e forse, al contrario mio, non era mai stata turbata da questa prospettiva.

Il giorno della partenza, il Presidente mi aveva paragonato a Neil Armstrong, io avevo sorriso e lasciato che l’orgoglio mi gonfiasse il petto, solo più tardi quando ormai eravamo in orbita mi ero reso conto che in ogni aspetto io ero più simile a Virgil Grissom. La prima spedizione. L’avanscoperta. Quante possibilità c’erano che ce la facessimo davvero? Che atterrassimo su Marte indenni? Erano serviti 11 tentativi perché si arrivasse sulla luna e Marte era infinitamente più lontano. Certo erano altri tempi, c’erano altre conoscenze, ma come loro, anche noi andavamo in avanscoperta, verso qualcosa che non conoscevamo. Eravamo Astronauti ben addestrati, come loro, che erano morti ancor prima dell’atterraggio. Eravamo un test ed era dai nostri errori che avrebbero imparato. Non avevo creduto nemmeno per un secondo che saremmo realmente arrivati su Marte, eppure dietro il pesante portellone di accesso alla struttura, c’erano terra e sassi alieni. Chissà se Danielle se n’era resa conto. Ormai erano passate alcune ore da quando avevo terminato le procedure d’atterraggio.

Il giorno prima -1 Giugno 2057, 7.30 orario di Houston-  avevamo fatto il cambio turno, l’ultimo prima di atterrare, Fang aveva svegliato me per primo. Impiegai due ore per uscire completamente dallo stato di ipotermia, quando mi alzai ero ancora in stato confusionale, come sempre, aspettammo che passassero altre due ore per iniziare le procedure di risveglio di Yuri, che avrebbe dovuto aiutarmi durante l’atterraggio. Fang era stanco. Avrebbe dovuto aspettare con me fino al completo risveglio di Yuri, ma l’allerta degli ultimi giorni l’aveva provato. C’erano state delle piccole incongruenze nei dati di rotta, niente di preoccupante in realtà, le esplosioni solari causavano sempre qualche piccolo riallineamento. Così non avevo protestato molto quando aveva annunciato che si sarebbe ritirato prima. Non ero d’accordo, non era la procedura standard, ma avevamo fatto quello stesso cambio ogni due settimane da nove mesi -36 volte per membro dell’equipaggio, 288 volte in totale- ed era sempre andato tutto bene. Così nonostante le mie blande proteste Fang indossò la tutta ipotermica ed entrò nella celletta cinetica.  288 risvegli dalla partenza, 350 test di prova ed affinamento sulla Terra ed il 1 Giugno, 9.30 orario di Houston il sistema di gestione della temperatura aveva smesso di funzionare. Yuri non sopravvisse al risveglio. Tutt’ora non so dire cosa sia successo, né quando esattamente sia accaduto. L’ipotesi più credibile è che liquido di raffreddamento delle tute si sia degradato e abbia perso la capacità di mediare gradualmente la temperatura, ma non riesco nemmeno ad escludere il coinvolgimento dell’anomalia dei giorni precedenti. Comunque fosse, l’atterraggio era una manovra che non dovevo fare da solo, così passai alla celletta cinetica successiva e a quella dopo e a quella dopo ancora, finché non persi le speranze. Inizia le procedure di atterraggio da solo, con più di 6 ore di ritardo. Ed atterrammo. Eravamo arrivati su Marte, ma nessuno dei miei compagni lo vide. Tra tutti solo Danielle era sopravvissuta abbastanza al risveglio da darmi una speranza. La tenevo stretta, sperando che si scaldasse abbastanza da tornare cosciente e più passava il tempo, più irrazionalmente la stringevo. La strinsi finché non sentii il suo corpo irrigidirsi, allora mi allarmai, la lasciai andare e mi misi a sedere. Danielle era riversa nel giaciglio e per qualche motivo non ebbi bisogno di sentirle il cuore per sapere che si era fermato. La contrazione che avevo sentito attraversarla era passata, adesso il suo corpo giaceva privo di forze. La guardai e l’unica cosa che vidi fu il vuoto. Non tentai di rianimarla, ero stanco e sapevo che non sarebbe servito.

Mi alzai e la lasciai lì.

Cercai di stilare una lista delle priorità. Dovevo avvisare il comando, occuparmi dei morti, pensare a impostare un campo, da solo sarebbe stato difficile allestire le strutture stabili su Marte, ma avevo degli ordini, dovevo capire se era possibile costituire un microclima stabile per la coltivazione e provare a… mi mancavano le forze. C’erano troppe cose da fare. Cercai di camminare, di andare al pannello di controllo, ma anche io, come Daniel persi le forze. Le mie gambe come le sue si svuotarono e caddi a terra, in ginocchio. Rimasi a terra, incapace di alzarmi e di reagire, cercando solo di respirare. Era diventato improvvisamente difficile riempire i polmoni d’aria. Mi afferrai la testa tra le mani e istintivamente mi piegai su me stesso, annaspando alla ricerca d’aria. Non avevamo finito l’ossigeno. No, era impossibile. Me lo ripetei mille volte, continuai a pensarlo senza sosta, finché il panico non fu passato e ricomincia a respirare. Ancora ansimando mi misi in piedi e mi trascinai fino alla camera di decompressione. Volevo uscire, volevo vedere Marte. Dovevo uscire. Dovevo allontanarmi dai corpi. Infilai la tuta, ci misi molto più tempo del solito, ma alla fine ce la feci.

Non avevo frasi che valesse la pena sentire, ma gridai. Non avevo attenti e studiati movimenti per la tv. Non tentai nemmeno di compiere uno scenico quanto soddisfacente primo passo. Appena fuori, sfogai tutta la mia frustrazione e paura e iniziai ad inveire dentro il casco. Le mie grida riecheggiarono attorno a me, intrappolate dalla tuta, finché la gola non mi fece male, finché non fui privo di forze e mi lasciai cadere. Caddi su Marte in ginocchio, a mani aperte, per poi ribaltarmi a pancia in su, per guardare il cielo. Io venivo da lassù ed ero terribilmente arrabbiato con quel posto. No, non con tutta la terra e nemmeno con l’ESA, a pensarci bene non ero nemmeno arrabbiato con i progettisti delle celle cinetiche e delle tute per l’ipotermia. Il mio odio era molto più profondo, attraversava il secolo ed il tempo, andava oltre Armstrong, oltre alla scienza, attraversava le ere ed arrivava fino ad un ragazzo, che per primo aveva messo in tasca una rana che credeva morta e l’aveva vista poi saltare via terrorizzata. Con gli occhi aperti verso il cielo lo vedevo, vedevo quel ragazzo gridare terrorizzato e cadere sul sedere. Lo vedevo raccontare al fratello ed al padre la storia della rana, vidi la cosa diventare sapere comune e attesi fino all’arrivo di un biologo, che con una rana appuntata ad un piano di lavoro denominò il fenomeno come ibernazione. Non attesi di vedere l’ipotermia diventare una terapia medica, quella storia la conoscevo e non volevo vederla finire, sapevo come finiva, con Danielle.

Pensandoci bene non ero nemmeno arrabbiato con i medici o il biologo e nemmeno con il ragazzino che aveva trovato la rana. Era la rana che odiavo. Odiavo lei e ogni singolo anno di evoluzione che l’avevano portata a sviluppare quel sistema di sopravvivenza che aveva reso possibile il viaggio interplanetario ed aveva fallito. Con le mani contratte colpii il terreno e gridai ancora, ma la voce mi mancò e alle orecchie mi arrivò solo un rantolo soffocato. Lottai per tenere accesa la rabbia, perché appena si fosse spenta sapevo che avrei iniziato a sentire il peso della solitudine e dell’incertezza opprimermi. Ma odiare una rana morta da secoli (forse millenni), non è una cosa semplice. La rabbia passò, si raffreddò ed evaporò sotto i raggi blu del tramonto.

Con calma mi misi a sedere. I raggi del sole mi scivolarono addosso e mi superarono. Rimasi immobile, godendo del colore sbagliato del sole e del terreno, poi, senza spiegarmene il motivo iniziai a ridere. Ero piccolo e insignificante. Avevo davanti a me uno spettacolo immenso e assurdo, totalmente contrario ad ogni cosa avessi visto nella mia vita. Ero davanti ad un tramonto blu, dipinto su un infinito deserto rosso e continuavo a pensare e ad aver paura, come se fossi sulla terra. Non volevo morire, non volevo che Danielle morisse, avrei voluto rivedere i miei fratelli, desideravo infinite cose, più di quante fosse possibile esprimerne a parole, ma il mio volere era niente in confronto all’eternità, in confronto al futuro. Era così stupido aver paura di una cosa insignificante come la mia morte. Forse il mio nome sarebbe entrato nella storia, Forse sarei stato chiamato “il primo colono di Marte”, o più probabilmente sarei stato dimenticato. La prospettiva non mi spaventava più, succederà comunque prima o poi, anche la mia memoria sarà inglobata dall’eternità così come ogni cosa. La morte di tutti noi sarà dimenticata. Tutto questo, una vita di privazioni e disciplina, fino al giorno della propria morte, in attesa di diventare niente. In fondo cosa siamo se non un minuscolo frammento della storia di una civiltà sola, dispersa nell’immensità di un universo impossibile da immaginare? Un giorno persino l’umanità scomparirà e allora perché faticare? Non sarebbe meglio dedicare la propria esistenza all’edonismo, godendo di ogni istante? Eppure non cambierei nessuna delle mie azioni. Sono stato un frammento impercettibile di un progresso insignificante, eppure ne sono stato parte. Sono stato un punto infinitesimo all’interno dell’eternità, un uomo solo dentro una gigantesca associazione, piena di uomini più dotati di me, eppure nella mia insignificanza la mia esistenza cambierà ogni cosa. Io non sono Virgil Grissom, o Neil Armstrong, non sono nemmeno un ragazzino davanti ad uno stagno, io sono una rana. E anche se non lo saprò mai, da me nasceranno infinite cose.

 

  
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