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Autore: BereniceStone    06/06/2018    0 recensioni
" Il 2140, il futuro, beh presente; per me.
Lo so, lo so, vi starete chiedendo quante cose siano cambiate e chissà che strabilianti innovazioni scientifiche e tecnologiche siano avvenute, le menti galoppano selvagge verso le più rosee delle fantasie.
Mi spiace deludervi, zuccherini, ma il mondo fa ancora schifo, anzi fa persino più schifo di quanto non ne facesse prima, non che io sappia come diamine fosse il mondo prima, ma sono mediamente certa che fosse migliore e se anche così non fosse, che cazzo, lasciate fantasticare pure me.
Credetemi o no, chissenefrega, ma l’intera umanità è putrida e prolifera in una palude d’esistenziale schifo, c’è marciume ovunque, la quotidianità è un trascinarsi per inerzia e testardo masochismo che tiene tutti arpionati alla vita, che poi se vogliamo chiamarla vita questa; a me pare una barzelletta, di quelle pessime, che non fanno ridere neppure per pietà.
Ad ogni modo lo vedrete da voi, quel che è il 2140, se c’avrete voglia altrimenti fate come cazzo vi pare, io ho cose ben più importanti da fare che star qui a raccontarvi della mia fottutamente miserabile vita di merda.
Benvenuti nel futuro, sfigati."
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Prologue : 
Welcome, To The Human Race 

https://youtu.be/lVIxDpvjJr0


L’argenteo ferro del disco rotondeggiante, piatto, s’illumina di sfavillanti bagliori gialli, vibrando per fugaci istanti poggiato alla superficie legnosa del comodino, i numeri lampeggiano, sprigionati dai fasci di luce, ologrammi vividi che segnano l’orario mattutino, ed una melodia in crescendo si protrae nella spartana stanza.

Dita affusolate, ossute, s’arrampicano al bordo del mobilio, dal bozzolo d’una coperta imbottia, 
sporge un'esile braccio, dalla crisalide, bianco sporco, emerge una zazzera corvina che risale il cuscino consumato, appiattitosi nel tempo, le ciglia incastrate si dischiudono e richiudono rapide, come battito d’ali d’un colibrì, ed iridi ambrate, appannate dall’interrotto sonno, si focalizzano all’orologio lampeggiante. Estenuante lentezza accompagna le lunghe gambe tornite a sbocciare fuori dal bozzolo, piedi ignudi ricadono mollemente al tappetto bucherellato che accerchia il letto, il pigro sollevarsi della schiena fa ricadere le coperte al materasso, formando una collinetta informe, le strette spalle infossate si rilassano e gradualmente l’intera figura femminile fuoriesce dalla crisalide.

Seduta, a lato del materasso, la sottile maglietta infeltrita, d’uno slavato verde smeraldo, che ricorda il colore d’una palude putrida, ricade a coprire le imperfette curve, improbabile intimo maschile sporgere dall’inferiorità del tessuto verdognolo, la schiena s’inarca nello sforzo d’un respiro profondo ed un sospiro rumoroso ne precede il distacco, completo, dal giaciglio di cuscini sgonfi e coperte consumate, i piedi s’insinuano nella morbida spugnosità di ciabatte, la soletta appiattita, quasi inesistente, e passi, lemmi, strisciano alle mattonelle azzurrognole, rovinate da crepe, le note della canzone seguono le movenze placide che conducono la donna nella stanza che s’apre, nella parete di destra, in fondo alla camera da letto.

Il bagno, spoglio e poco fornito, dai tasselli del mosaico, che formano l’arredo predominante, scheggiati e mancanti in alcuni punti, ad interrompere sgraziatamente un disegno geometrico che percorre l’intero diametro delle mura, il piano doccia, impolverato da pulviscoli di cemento, è semi coperto da un sipario plastico, ingiallitosi in alcuni punti, l’unica finestra presente è sigillata da possenti persiane ad impedire alla luce mattutina di filtrare, la tazza del servizio sanitario, in coccio sbeccato, è instabilmente fissata al suolo, la parte superiore già sollevata, le tozze cosce vi si schiacciano contro e lo scrocio d’orina che picchietta l’acqua stagna sovrasta, per fugaci secondi, la distante melodia; azzerata poi, per brevi minuti, da un rituale manuale che prevede il riempimento, d’acqua marroncina, d’una bacinella d’anonima plastica arancione svuotata poi all’interno della tazza a favorire lo scarico inattivo.

La donna espira, volgendosi ai rubinetti arrugginiti, la smaltatura argentea che possedevano presenta segni d’invecchiamento, le ambrate iridi si soffermano alla colorazione sporca, quasi terrosa, dell’acqua che batte contro il marmo in rottura del lavabo, anch’esso malamente ancorato al suolo, prima di raccoglierne una manciata tra le mani, a formare una bacinella, e bagnarvisi il volto, strofinando ripetutamente contro i pori della pelle e le palpebre chiuse, dalle dita, protese a tastare l’aria, alla ricerca dell’asciugamano, sgocciolano gocce che picchiettano contro le azzurre piastrelle annerite, la destra afferra la stoffa ruvida e ne tampona il tessuto giallastro contro il volto, piccole stille d’acqua restano incastrate alle lunghe ciglia scure.

Afferra poi lo spazzolino, adagiato in un bicchiere di vetro, i cui pezzi rotti sono stati malamente rincollati, dal tubetto accartocciato del dentifricio fuoriesce una minuscola quantità di prodotto, depositato tra le spatole che strofinano, velocemente, l’arcata dentale, sputa l’impasto di saliva schiumosa formatosi e si sciacqua rapida la bocca, attingendo direttamente dal getto che fuoriesce dal tubo del rubinetto; che richiude infine, terminata la procedura, per passare alla doccia.

Si spoglia della larga maglietta e dell’intimo maschile, gettandoli nel lavabo, e si chiude dietro il sipario, di plastica appannata a cinge il piano in bianca ceramica, rovinata da macchie di ruggine e muffa ai lati, filamenti d’acqua marroncina le scivolano addosso, appiattendole la corta chioma corvina alla base del collo, ciuffi a coprirle lievemente gli occhi socchiusi, piega le ginocchia a tastare i bordi del piatto doccia, sino a scontrarsi contro l’unico flacone, appiccicoso, in plastica bruciacchiata, di bagnoschiuma presente, versandosene un’esigua dose al palmo sinistro, strofinandolo prima al centro della nuca e poi, il restante, nel sottobraccio ed, accuratamente, alle parti inferiori, tornando infine a frizionarsi la nera cute sino a formare uno strato di sapone che discende lungo la spina dorsale e finisce risucchiato dallo scarico per l’acqua, posto al centro del pianale ceramico, annerito da strati di capelli rimasti incastrati.

Terminata la procedura, della durata d’una manciata di minuti, dal plastico tendaggio emerge la donna, gocciolante, le braccia esili si protendono ad arpionare un asciugamano striminzito a strofinare via l’acqua dalle strette spalle, percorrendo poi i contorni dei seni, unica sporgenza tenuemente pronunciata in un torace levigato, strofinando l’appena accennato punto vita, passando agli ampi fianchi, le anche sporgenti, il fondoschiena abbondante, risalendo infine, ripassando le curve irregolari, d’una fisicità tutt’altro che tonica, per fermarsi qualche secondo in più a massaggiare energicamente la nuca; inumiditosi d’acqua il giallastro tessuto viene ripiegato e riposto affianco a quello precedente utilizzato, in una striscia di ferro, arrugginita ai lati affissi al muro, tra il lavandino e la tazza in coccio.

Accompagnata dalle note in crescendo della melodia, lasciata risuonare nella camera da letto, la donna incastra i piedi alle spugnose ciabatte, afferra il cartoccio d’indumenti lasciato nel lavabo, e ripercorre i passi iniziali, gettando quindi maglietta ed intimo al materasso e chinandosi ad aprire l’ultimo cassetto del legnoso comodino, estraendo un paio di mutande, di femminili fattezze, rosa appariscente e tempestate da improbabili sagome di gatti stilizzati, seguiti da calzini, di spessa spugna, ed un reggiseno, una striscia unica, grigia, intervallata da righe viola fosforescente, che le stringe i seni, appiattendoli al busto.

Nel risalire allunga le braccia al soffitto, stiracchiando la schiena che produce uno sgradevole scricchiolio, similare a bolle d’aria compressa in cerchi di plastica che scoppiettano, le ritrae poi ciondolanti lungo i fianchi, strisciando pigramente all’armadio alla sua destra, un mobile, in legno anch’esso, le cui ante cigolano nell’aprirsi e pendono irregolari verso il suolo, al suo interno giacciono, alla rinfusa, uno scarno quantitativo d’indumenti.

La donna afferra un paio di pantaloni, in tessuto jeans, blue notte, strappati in più punti, a formare filamenti bianchi d’elastico sfilacciato, che le vestono stretti e ne lasciano scoperte porzioni di pelle all’altezza della coscia sinistra e d’entrambi i polpacci, rovistando poi tra le magliette gettate sgraziatamente ne raccatta una, le maniche rosicchiate ed irregolari, i bordi inferiori slabbrati, d’un verde militare, un taschino scucito e penzolante al lato destro del petto, l’indossa frettolosamente, incastrando l’estremità frontale poco sopra il bottone ramato del jeans, dalle grucce appese all’asticella superiore spicca una camicia in flanella, quadrettata di sfumature grigiastre, infilandosela alle spalle ne aggiusta i lembi, che le ricadono a sfiorarle le ginocchia.

Espirando svogliatamente si volge nuovamente al comodino, rigirandosi il piatto cerchietto argenteo tra le dita, poggiandoselo al polso destro due cintole in cuoio nocciola si diramano dai lati e le avvolgono autonomamente il polso, appiattendosi all’ossatura, incollandovisi come ventose, con l’indice sinistro sfiora il bordo destro, a semicerchio, del dischetto argenteo ed il fascio di luce giallastra si ritrae, portandosi con sé i numeri lampeggianti, lasciando la melodia a risuonare, ancora per qualche minuto, ad accompagnare i ciondolanti passi della donna ad aggirare il letto, strisciando sino allo stipite d’una porta che non c’è più ed immettersi nel lungo corridoio che si dirama dinnanzi, attraversando tre porte sigillate, aprendosi poi nello striminzito salotto, separato dalla compatta cucina solamente da un tavolino in plastica rustica, bruciata e rosicchiata, che ne fa da confine divisorio.

Il divano, foderato di stoffa a grinze color seppia, malconcio e dalle molle sporgenti, troneggia al centro della sala, l’arredamento spartano è arricchito solamente da alcune mensole, sbilenche e pericolanti, ricolme di libri dall’aspetto consumato e vecchio, ed un appendi abiti affisso alle mura che ospitano, anche, la porta principale, dai gancetti dorati, scoloriti, penzola una sacca ampia, d’un neutrale nero, priva di fronzoli, dalla forma ovale ed allungata, gli anni che possiede resi noti dal tessuto, deterioratosi nel tempo, e dalla tracolla allentatasi che la donna sfila dall’uncino ricurvo e si posiziona alla spalla sinistra, facendola passare dalla destra, a scontrarsi e creare una linea divisoria al centro del costato.

Capovolti, schiacciati al pavimento di mattonelle ingrigite, chiazzate da macchie scure impossibili da identificare, giacciono due stivaletti neri, sformati, la donna china la schiena a raccoglierli, infilandovi i piedi che s’adattano alla similpelle danneggiata in più punti, nocciola sbiadito, la linguetta della calzatura sinistra penzola, privata dei laccetti, mentre la destra ondeggia all’allacciatura allentata.

Le dita affusolate, frastagliate di graffi freschi e cicatrici pallide, ancora più pallide del carnato candido, rovistano all'interno della tracolla, estraendone un mazzolino di chiavi, di varie dimenzioni, usurate e tenute unite da un filo in rame, che attraversa il foro creato al centro d'un vecchio tappo di coca-cola, sceglie quindi la chiave seghettata, inserendola nella fessura, girando due volte, per poi stringere la maniglia, spingendola verso il basso, aprendo fiaccamente. Socchiude gli occhi, inspira, avanza di cinque passi, l’indice sinistro picchietta due volte contro la superficie del cerchietto argenteo, schiacciato al polso destro, e le note della melodia sfumano sino ad azzerarsi.

Espira, riapre gli occhi e nelle iridi caramello si riflette lo scenario d’un paesaggio diroccato, una distesa di terra secca, asfalto frantumato, lampioni ridotti in cilindri di ferro caduti a terra, piegatesi e distruttisi, pezzi di mura ammassati ai bordi di case diroccate, scoperchiate, qualche dimora ancora intatta a svettare e contrastare con le macerie che incupiscono l’aria, cozzando con l’azzurro cristallino del cielo terso ed i raggi di sole lucente che fanno risplendere la desolazione e la distruzione che si dirada dinnanzi allo sguardo ambrato della donna.

In lontananza si odono ululati feroci di belve fameliche e nella cima dei palazzi meno diroccati nidificano sciami d’uccelli rapaci dallo scarno piumaggio pece, da una via secondaria, seminascosta tra macerie di negozi ed abitazioni, emerge la sagoma lontana d’un gargantuesco bipede, folta peluria grigia, chiazzata di rosso cremisi, la coda fende l’aria, il muso allungato mostra canini affilati che serrano il cadavere, grondante sangue, d’un animale dalle zampe tese ed irrigidite, dimena la vittima gettandola al suolo e dilaniandone brutalmente quel che resta


“buongiorno – la voce rauca, gutturale, inspira ossigeno e sospira  – mondo”


Un ghigno sghembo le distorce il volto in una smorfia d’insofferente sarcasmo, allunga il braccio, volgendo lo sguardo, afferra la maniglia chiudendosi la porta alle spalle, infilza la chiave precedentemente utilizzata nella serratura sgangherata, chiudendola minuziosamente, facendo saltellare il mazzetto di chiavi al palmo e piroettando goffamente torna a fronteggiare il desolato paesaggio, con passo molleggiante costeggia le mura destre della casa, la visione periferica a controllare che ogni singola finestra sia ancora saldamente serrata da spessi strati di metallo, sigillati da segni di fiamma ossidrica contro le preesistenti persiane, compie il giro dell’intera dimora, una tra le poche ancora quasi perfettamente intatta, fatta eccezione per qualche tegola mancante e la grondaia crollata a terra, si ferma poi nel retro, qui spicca un capannone in lamine d’acciaio, dal mazzo di chiavi sceglie quella più piccola e la inserisce nell’incavo del lucchetto ciondolante ad unire le estremità di possenti catene, che sigillano le lamiere d’ingresso.

Scioglie il complesso intreccio, limitando il chiasso fragore prodotto dal catenaccio che sbatte contro le lamine, lasciando l’entrata spalancata, a permettere alla luce naturale d'illuminare la rimessa, si guarda attorno, scrutando minuziosamente ogni centimetro, costeggiando un’automobile impolverata, dalle linee sportive ed una cupola schiacciata a svettare tra parte anteriore e frontale, il parabrezza smontato e gettato in un angolo del capannone, gli specchietti inesistenti, e le ruote sgonfie, ne apre lo sportello dalla parte del guidatore e raccoglie, poggiato sul sedile rivestito da morbida imbottitura, due paia di guanti da meccanico, in similpelle, del rosso scarlatto restano piccole chiazze, destinate a distaccarsi, vi fa scivolare le mani e china la schiena, tastando la parte inferiore del sedile, sollevando il tappeto, rigonfio e spigoloso, della tappezzeria del veicolo, estraendone una pistola di forma rettangolare, la canna in spesso acciaio inossidabile, sulla cui sommità svetta una lama affilata, del medesimo materiale, che la sorpassa e s’estende per alcuni millimetri, il calcio largo e robusto è dotato d’un grilletto cilindrico ed un piccolo cubo si nasconde nella parte superiore del carrello otturatore, quasi centralmente, con leggerezza maneggevole la poggia al tettuccio dell’auto.

Estrae quindi una seconda arma, più grande della precedente, anch’essa in acciaio inox, dal calcio sottile, una linea di pochi millimetri di spessore, il grilletto allungato e sporgente collegato alle estremità inferiori e superiori, da cui si diramano due tubi ricurvi che convergono, sin quasi a combaciare tra di loro, a formare un piccolo spazio, appena visibile, l’intera superficie è rivestita da piastrine a specchio che riflettono l’ambiente circostante; la deposita come la precedente e richiude la portiera, volgendosi poi al tavolino in legno ammuffito schiacciato alla lamiera. Ivi giacciono una fila di proiettili sferici, cilindrici ed ogivali, in piombo rivestito, e metallici rettangoli, d’un intenso arancione, una sequela di coltelli di varie dimensioni ed un’arma dalla canna lunga, la parte superiore al rettangolare calcio è formata da resistente acciaio, dal diametro spesso e massiccio, che decresce verso il basso sino a divenire un tubo, piegato, da cui si diramano tre canne lisce, unite a formarne un’unica singola, aventi ognuna una propria volata, ed adiacenti all’arsenale riposano sacchette in poliestere impermeabile, munite di ganci in cuoio, una fondina, in velcro, e lacci gommosi, spessi e dalla consistenza di ruvida durezza.

Ai piedi del tavolo, ammassati, un giubbotto privo di maniche, dal materiale molle che gli conferisce un particolare gonfiore, ed un caschetto aderente, somigliante ad un qualche genere di metallo, ma decisamente più spesso e di densità maggiore al punto da sembrare composto da più strati sottili che ne conferiscono, ad occhio, resistenza, ai lati sono agganciate asticelle in carbonio, collegate a lenti in finissimo vetro trasparente, movibili.

Le femminili dita si muovono esperte, agganciando la fondina attorno alla coscia sinistra, incastra i laccetti di due sacche in poliestere ai passanti fiancali dei jeans, indossa poi il giubbotto che si stringe, automaticamente, ad aderire alla perfezione e ricalcare le curve del busto, sino a divenire uno strato millimetrico, colorandosi dei tessuti sottostanti sino a rendersi invisibile scomparire alla vista, attorno ad esso la donna intreccia i nastri gommosi a formare una croce all’altezza delle scapole, raccoglie quindi manciate casuali di pallottole, inserendole nelle sacche, e riempendone una terza che getta nell’ampia tracolla.

Aggancia, assicurandosi che non cada, l’arma dalla tripla canna ai lacci in gomma dietro le spalle, s’appropria di dieci rettangoli arancioni, che fa scivolare nella sacchetta di destra, accerchia la coscia sinistra con un laccetto di ruvida gomma e vi incastra due armi bianche, la prima dalla lama allungata e seghettata e la seconda più compatta e liscia, dalla lama vitrea e scura, raccoglie infine il caschetto, adagiandolo a coprirle l’intera nuca ed i lati dell’ovale volto, quest’ultimo produce un lungo sibilo aggiustandosi alle dimensioni del cranio; al punto da schiacciarvisi completamente e lasciar fuoriuscire solamente qualche ciuffo corvino alla base del collo.

A procedura quasi ultimata raccoglie le armi precedentemente recuperate, la pistola rettangolare viene riposta nella fondina, mentre quella dalla particolare forma quasi concentrica s’incastra, incollandosi come ventosa resistente, ai lacci gommosi che le stringono il punto vita, nascondendosi sotto la camicetta quadrettata.

Prima di lasciare il capannone le iridi ambrate scorrono lungo la superficie del tavolo ammuffito, eroso dai tarli, lo sguardo s’assottiglia e le dita tastano, scostando pallottole e lame d’acciaio, il legno chiudendosi poi a stringere un minuscoli bottoncino di plastica bianca, rivestito di morbido silicone, dalla consistenza appiccicosa, le palpebre si dilatano in una muta esclamazione di sollievo mentre indice e pollice tengono saldamente fermo il cerchietto, adagiandolo per fugaci secondi all’argenteo cerchio schiacciato al polso destro, un fischio sottile e breve avverte che la procedura di collegamento è avvenuta con successo e l’ossuto indice della donna s’incolla al bianco congegno depositandolo, esercitando una lieve pressione, all’altezza della tempia destra, l’indice si ritrae poi lentamente, picchiettando per due volte contro il lato sinistro del marchingegno al polso e prima ancora che possa battere le palpebre una melodia, d’altri tempi, dal ritmo allegro, note di variopinta serenità, risuona, trascina dalle onde cerebrali, unicamente nella mente della donna.

Ondeggiando a cercare di seguire un ritmo, che non possiede, ripercorre a ritroso le azioni compiute pochi minuti prima, richiude accuratamente le lamiere della rimessa, sigilla ferreamente le catene ed il lucchetto, lancia le chiavi in aria, allarga l’apertura della tracolla e le guarda ricadervi dentro, sbuffa un ghignetto che le plasma il volto in una smorfia di rassegnata solitudine e solleva terriccio avanzando ciondolante verso est, ove ha sede la, quasi, vicina cittadina, ancor più distrutta della zona che s’è scelta come propria.
 

 

Note personali : 

Questa storia è liberamente ispirata al mondo, fantastico già così com'è, di Fallout. 
Quindi, qualsiasi genere di similitudine, di fattore in comune e quant'altro è, chiaramente, un riferimento; un omaggio, per così dire. 
Per il resto personaggi, sviluppo, trama, ecc... sono frutto della mia, scarsa, immaginazione. 

Detto questo, ringrazio chiunque avrà voglia di leggere, spero vi potrà interessare, almeno un pochino. 



 
 

 
   
 
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