In direzione
ostinata e contraria
C’era qualcosa di tremendo e selvaggio,
in quegli occhi
verdi e attenti. Un’inquietudine profonda, nera come il mare
di tenebre che
stavano attraversando. Loki Laufeyson giocherellava davanti a lui con
il lungo
pugnale scintillante che, solo dieci minuti prima, gli aveva piantato a
un
millimetro dal collo col chiaro intento di tagliargli la carotide. Lo
aveva
afferrato con forza per i capelli, gli aveva premuto l’arma
sulla gola mentre
ancora dormiva e poi, con quella sua voce bassa e roca, aveva iniziato
a
elencargli tutte le cose orrende che gli avrebbe fatto, se non avesse
acconsentito a soddisfare la sua gentile
richiesta. Così, l’aveva chiamata. Poi
si era preso la briga di
incappucciarlo, imbavagliarlo e condurlo su quella nave veloce e solo
dopo che
le onde avevano sbattuto per lungo tempo contro la chiglia snella, si
era
deciso a togliergli il cappuccio dal volto. Il vecchio sacerdote aveva
strizzato gli occhi e si era ritrovato in mezzo al mare di fronte al
dio degli
inganni in persona.
Loki Laufeyson. Utilizzava ancora le armi degli
Asi dalle
belle else decorate con draghi e pietre preziose comprate dai Nani, ma
addosso,
sulla corazza di pelle scura, portava un mantello di pelo di lupo di
chiara
foggia Jotunn. Eppure non era né l’uno
né l’altro, rifletté Harold. Non
apparteneva
al popolo di Odino, che lo aveva educato e cresciuto, né a
quello di Laufey,
cui era stato ceduto. Si raccontavano oscure storie sul suo conto.
Dicevano che
fosse spietato e crudele come i Giganti che lo avevano generato, ma
fiero e
arrogante come gli Asi dai capelli d’oro. Il drakkar
scivolava nel nero della
notte, fendendo silenzioso le onde.
“Quale rito vuoi che celebri?”
domandò a un tratto,
spezzando l’aria salmastra e umida, fredda, che gli penetrava
nelle ossa ormai
vecchie.
L’altro gli rivolse un sorriso gelato.
“Lo vedrai tra poco,”
sibilò. Diede una controllata rapida alla direzione della
nave veloce, poi
tornò a puntargli addosso quei suoi occhi troppo verdi,
capaci di scrutare fin
nelle pieghe più profonde dell’anima di ognuno.
Dicevano fosse famoso per i
suoi inganni, Loki Laufeyson. Che Odino avesse fatto una sciocchezza,
privando
Asgard di una mente così sagace e astuta per regalarla agli
Jotnar. Era grazie
a quel mago dalla lingua svelta, se i Giganti avevano ripreso il
prestigio e il
lustro perso da millenni. Eppure, nessun beneficio o ringraziamento era
toccato
al figlio bastardo di Re Laufey, che degli Jotnar aveva la freddezza e
degli
Asi l’aspetto. Troppo spregiudicato, fiero e diverso, per
essere il degno erede
di Laufey; troppo simile a Odino, padre che lo aveva ceduto in fretta,
per
poter reggere le sorti di Jotunheim dalle guglie ghiacciate.
Dicevano anche che Loki amasse parlare: che si
trastullasse
con le parole, assaporandone il gusto e il peso, come se si trovasse di
fronte
a un piatto prelibato. Paragone sbagliato, in verità. Era
più simile al gioco
di un gatto col topo, quello che lui allestiva con le sue vittime. Ma
adesso,
il figlio di Laufey era laconico e silenzioso. A ben guardare,
c’era
un’inquietudine strana, nel modo in cui tormentava con le
dita affusolate
l’elsa intarsiata del pugnale, e le sue labbra, sempre
ironiche e beffarde,
erano stirate in una un’espressione severa, concentrata.
Aveva fretta, l’ingannatore.
Ma il motivo, qual era?
Harold assottigliò gli occhi per
guardarlo meglio,
rabbrividendo sotto il mantello che proteggeva a stento dal freddo il
suo corpo
ossuto, di vecchio. Ricordava l’ultima volta che lo aveva
visto: era solo un
ragazzino magro e spaventato, che si guardava attorno con aria
circospetta,
guardinga, come se si aspettasse da un momento all’altro di
essere svegliato da
un sogno o da un incubo. Intrappolato in un gioco politico
più grande di lui, venduto
come una reliquia rubata, strappato agli affetti più cari,
aveva tentato,
d’accordo con il fratello, di scappare dal suo destino,
fuggire lontano. Era
stato riacciuffato in tempo. Harold allora era più giovane
di adesso. La sua
barba non era completamente bianca, ma ancora fulva, spruzzata solo di
tanto in
tanto da ciuffi candidi, e credeva di avere la risposta a tutte le
domande.
Laufey scatenerà un’altra guerra, se non
riavrà ciò che gli ho preso, non
perché gli interessi avere un erede, ma per affermare la sua
supremazia. Queste
erano le state le sagge parole di Odino, e non si erano incrinate
neppure di
fronte agli occhi rossi di pianto di Frigga. Così il re dei
Giganti aveva
ripreso suo figlio e Asgard ne aveva perso uno, ma
l’equilibrio dei Nove Regni,
il precario ordine che governa i mondi appesi all’Yggdrasill,
si era
ristabilito.
Per qualche anno, nessuno aveva saputo
più nulla di Loki e
di come fosse la sua vita a Utgard, presso Laufey. L’attesa e
la trepidazione,
lentamente, avevano lasciato il passo alla rassegnazione. Non avere
nessuna
notizia manteneva accesa la flebile luce della speranza, consentiva di
immaginare un presente e un futuro, se non roseo, almeno tollerabile
per il
giovane Loki.
Harold, in quegli anni, si era avvicinato molto
alla regina:
Frigga aveva abbandonato la corte di Asgard per rifugiarsi nel suo
palazzo di
Fensalir, offesa per la decisione unilaterale presa da Odino,
necessaria ma
crudele, che aveva spezzato il suo cuore di madre. La donna,
solitamente capace
di vedere il futuro e scorgere i piani tessuti dalle Norne, sembrava
aver perso
le sue abilità divinatorie, come se il dolore provato avesse
annichilito il
potere che la contraddistingueva. Con lo sguardo luminoso e azzurro
posato sui
giardini curati che si stendevano sotto le sue finestre, si struggeva
per Thor
che, dopo aver perso la compagnia del fratello e migliore amico, aveva
profuso
ogni energia nell’arte del combattimento e solo in esso
sembrava trovare
soddisfazione. Con voce rotta, si domandava come stesse quel figlio
lontano che
non era nato dal suo ventre, ma aveva amato intensamente. Ne lodava
l’intelligenza vispa e acuta, la grave serietà
infantile che, a volte, si intravedeva
sotto il suo broncio di bambino, la furbizia e la rapidità
con cui, anche
mentre giocava o si esercitava con le armi, tentava di volgere a suo
favore
ogni situazione possibile. Poi, un giorno, arrivarono notizie da
Jotunheim.
Un’onda più alta delle altre
si infranse contro lo scafo del
drakkar. Spruzzi di acqua gelida raggiunsero i due ospiti. Harold
gemette per
il contraccolpo subìto, il dio degli inganni, davanti a lui,
rise.
“Tutto questo ti diverte? La mia vita
non conta niente, sono
solo un povero vecchio, ma la tua offesa nei confronti di Asgard
avrà
ripercussioni che sentirai fino a Jotunheim,” gli
rinfacciò offeso. “Agire come
hai fatto, in questa situazione, è da folli!”
“Fidati, Harold: conosco bene i metodi
degli Asi e degli
Jotnar,” fu la risposta data con voce ferma, severa, condita
da un velo di
disprezzo che sembrava avvolgere entrambi i popoli.
“E io conosco i tuoi,”
replicò il vecchio con lentezza,
scandendo con cura ogni sillaba. “Ho ascoltato quelli che
sono scampati alla
tua furia, ho raccolto ogni loro parola. E ho parlato con tuo fratello,
Thor.”
Uno scintillio nella notte e il coltello di Lingua
d’Argento
si conficcò nel legno, a pochi millimetri dalla gamba ossuta
di Harold. Una
smorfia increspò le labbra sottili di Loki. “Non
è mio fratello. Non lo è mai
stato,” soffiò a denti stretti, recuperando
rapidamente l’arma.
“Siete cresciuti insieme, avete imparato
a combattere
insieme, avete giocato insieme. Questo non fa di lui un
fratello?” insistette
il vecchio, rabbrividendo di fronte alla fenditura nell’asse
lasciata dal
pugnale.
“Il figlio di Odino non è
niente se non un avversario,”
puntualizzò il dio dell’inganno, e lo disse con
una tale ferocia che Harold,
istintivamente, si tirò indietro.
Non avere nessuna notizia è meglio che
averne di cattive.
Questo diceva sempre a Frigga, tormentata e infelice. Il suo cuore di
madre non
smetteva di sanguinare, e lui non poteva far altro che cercare di
rendere più
sopportabile quel dolore finché, un giorno, le sue frasi si
erano rivelate
profetiche. Loki figlio di Laufey era vivo e vegeto, ma c’era
qualcosa, nel suo
modo di agire, di storto, sbagliato, eccessivo. Osservando le sue
gesta,
appariva evidente come il fine giustificasse sempre i mezzi, tutti. Non
c’era
arma che non fosse disposto a usare, compreso il seiðr, quella
magia potente e
antica quanto l’Yggdrasill evocata dalle rune, i cui
rudimenti gli erano stati
impartiti dalla stessa Frigga. Così, con inganni, imboscate
e incantesimi, due
dei Nove Regni finirono per essere conquistati da Jotunheim. A
un’occhiata
superficiale, Loki si era semplicemente comportato da guerriero audace,
mescolando l’astuzia sfacciata degli Asi con la potenza
dell’esercito Jotnar;
ad un esame più attento, tuttavia, l’ex figlio
cadetto di Odino si era rivelato
corroso da una rabbia tremenda che le numerose vittorie pareva non
fossero in
grado di placare. Il punto era che il dio dell’inganno
infieriva, come se si
stesse vendicando di un torto antico. Sopruso che, Harold dovette
ammetterlo,
c’era ed esisteva, sebbene fosse tragicamente indirizzato
dalla parte sbagliata
o in quella maledettamente giusta.
Chiuse gli occhi stanchi un momento. “Tu
menti, sei un
bugiardo. Hai avuto l’occasione di ucciderlo e condurlo
prigioniero presso
Laufey: l’hai lasciato andare,” gli
ricordò cantilenante.
Loki fece uscire dal petto una risata secca e
nervosa e si sporse
verso di lui. “Questo, ti ha raccontato? Credevo che le voci
che girano ad
Asgard sul mio conto fossero, come dire, più interessanti,
curiose. Divertenti,
persino.”
“Divertenti non è il termine
esatto, Loki. Spaventose,
direi,” lo corresse Harold con un brivido. “Cosa
hai voluto dimostrare? Hai
piegato i tuoi avversari con una forza e una crudeltà mai
viste, nei Nove
Regni.” Quello di fronte a lui non era più il
ragazzino sempre in vena di fare
scherzi che sapeva sciorinare compitamente le rune. Il sorriso sghembo
era
segnato da una cicatrice verticale bianca e sottile che non scalfiva la
bellezza del suo volto, ma gli regalava un’aria feroce. Si
chiese perché si
ostinava a mantenere quell’aspetto menzognero anche a
Jotunheim, e quanto gli
fosse costato.
“Davvero?” Il dio
dell’inganno parve compiacersi delle sue
parole. “Ho solo esercitato il mio diritto di nascita, mio
vecchio ficcanaso,
dimostrando agli Asi e agli Jotnar quanto bene abbia imparato le loro
lezioni,”
spiegò implacabile.
“Quale rito devo celebrare, Loki?
È Laufey che te l’ha
chiesto?”
“Laufey.” L’altro
pronunciò il nome masticandone ogni
sillaba. “Non credo tu abbia compreso la natura del nostro
rapporto.”
Parlava di entrambi i popoli come se non
appartenesse a
nessuno, pensò il vecchio, riconoscendo nella frase del suo
rapitore una nota
di chiaro disprezzo. Forse era quella, la chiave per interpretare
l’apparente
follia che permeava le azioni del Fabbricante di Bugie:
l’ingannatore che era
stato ingannato, il cui aspetto stesso non era altro che una
mistificazione
dovuta al seiðr, non faceva altro che agire per se stesso, in
nome di un
proprio tornaconto personale che non contemplava in realtà
né gli interessi di
Laufey né quelli di Odino. Alle volte, pareva che la
volontà di Loki pendesse
da una parte rispetto a un’altra in maniera caotica e
imprevedibile. Voci
attendibili, di spie sparse per i Nove Regni, raccontavano come Laufey
volesse
immediatamente muovere verso ad Asgard, attirato non solo dallo Scrigno
degli
Antichi Inverni rimasto nelle mani di Odino, ma da altre potentissime
reliquie.
Loki si era opposto con fermezza a quel piano, promettendo e
minacciando. Era
arrivato a sobillare i Giganti contro il suo stesso padre
purché Asgard non
fosse attaccata, difendendola persino a viso aperto.
C’è chi diceva che quella
del dio degli inganni non era altro che una mossa ben studiata: la
patria degli
Asi sarebbe caduta più fragorosamente, se nel frattempo gli
Jotnar avessero
trasformato in lande ghiacciate e desolate gli altri Otto Regni. Altri,
sostenevano che lo scaltro Loki stesse tergiversando e il suo piano
fosse molto
più imperscrutabile e folle di quanto non apparisse a uno
sguardo superficiale:
stava manipolando Laufey per arrivare a Odino, l’uomo che lo
aveva ceduto come
un trofeo privo di valore facendogli credere di essere di essere un
Ase. Voleva
porsi come l’unica speranza di Asgard, la sola luce
nell’oscurità in grado di
riportare all’antico splendore il regno che aveva creduto
fosse il suo, per poi
gettarlo nel caos e scatenare il Ragnarok.
Quale che fosse la verità, i piani
contorti e caotici
dell’ingannatore si erano infranti bruscamente quando una
delle sue rapide ed
efficaci sortite era stata bloccata da Thor. Da allora,
l’avanzata degli Jotnar
pareva avesse rallentato e l’esercito di Laufey si era messo
decisamente sulla
difensiva per poi arretrare, perdendo in fretta le posizioni
faticosamente
guadagnate. Lo stesso Loki era sparito a Utgard, a leccarsi le ferite
dopo lo
scontro subito, dicevano, ma cosa fosse successo realmente nessuno
poteva dirlo
con certezza. Lui e Thor avrebbero dovuto morire sul campo di
battaglia, invece
erano sopravvissuti entrambi.
“Se non è per Laufey
è per te stesso,” mormorò il vecchio
mentre il drakkar dalla prua snella continuava a fendere le onde
gelide. “Jotunheim
verrà sconfitta, Loki. In mezzo alla ritirata,
anziché scappare, tu rapisci me,
un prete. Quale rito pensi che potrebbe salvarti, dalla disfatta, dalla
giusta
punizione che ti attende per i tuoi crimini?”
“Un’altra parola e sarai
morto.”
“Io sono anziano, Loki figlio di
Laufey,” insistette Harold,
“ho vissuto una vita lunga e piena. Non ho niente da perdere,
ormai. Ma tu?”
Stavolta, il dio dell’inganno non
rispose. Si passò una mano
tra i capelli scuri, resi umidi dall’aria salmastra,
serrò le palpebre e si
concesse, per la prima volta dopo molte ore, di riflettere sulla
decisione
assurda e folle che aveva preso, le cui conseguenze avrebbero aumentato
ancora
di più il disordine e il caos nei Nove Regni. Era troppo
tardi per tirarsi
indietro, e forse neanche lo avrebbe voluto. Se solo non fosse tornato,
se la
curiosità non lo avesse divorato e la sua mente scaltra non
si fosse messa a
ragionare sul vantaggio che gli concedeva il suo aspetto ambiguo di
Ase, non si
sarebbe trovato su quel drakkar in mezzo al mare con quel maledetto
prete dalla
voce cantilenante. Doveva essere pazzo, se aveva ritenuto che il suo
piano
sballato potesse funzionare.
Una nebbia densa come una cappa scura avvolse la
nave stretta,
dal cielo scomparvero le stelle, ma Loki si orientò
ugualmente nella notte
grazie a una bussola che estrasse rapido da una tasca. Regalo antico,
tenuto
addosso per anni e anni, rigirato tra le dita in letti troppo freddi o
non
scaldati abbastanza. C’era un’incisione, sul retro,
che l’ingannatore non
sfiorò, come sempre faceva. Non perché
l’avesse dimenticata, ma per non
spezzare il filo di quegli eventi mutati tanto rapidamente da farlo
agire in
maniera impulsiva e sconsiderata. Lui, che ponderava sempre ogni gesto,
parola,
sguardo senza far mai trapelare cosa si agitasse nel suo petto. Chiuse
tra le
dita il bell’oggetto finemente cesellato, su cui
già il vecchio sacerdote aveva
posato lo sguardo incuriosito. Ne aveva senz’altro
riconosciuta l’origine, ma
certo non il donatore, pensò il dio degli inganni. Si stava
domandando, piuttosto,
a chi l’avesse rubato, perché era tanto bello da
parere un gioiello.
La barca raggiunse la riva. Loki costrinse Harold
a saltare
nell’acqua gelida e il vecchio incespicò e cadde
bocconi sulla battigia. Lingua
d’Argento, invece, sbarcò a terra senza fatica
alcuna, agile ed elegante figura
stagliata contro il nero della notte. Lo sollevò dalla
sabbia e dal mare che
quasi lo trascinavano via, spingendolo sulla spiaggia che diveniva
terra.
“Dove mi stai portando?”
gridò il sacerdote sentendo il
pugnale che gli premeva contro la schiena. Aveva ancora i polsi legati.
Di nuovo, la voce del dio degli inganni lo
raggiunse roca.
“Siamo quasi arrivati, porta ancora solo un po’ di
pazienza. Poi, se farai come
ti dico, ti lascerò libero,” promise, ma aveva
parlato troppo in fretta, e nei
suoi occhi color di giada si agitavano ombre scure. Era come se Loki
Lingua
d’Argento avesse perso la sua solita protervia. Camminava
rapido sull’erba
umida e la terra scoscesa, come se il tempo non fosse abbastanza e
avesse
fretta, spingendolo davanti a sé senza premura alcuna.
Fu allora che apparve il Tempio, ormai poco
più che un
ammasso di mura diroccate e abbandonate a se stesse, con i rampicanti
che ne
infestavano le mura insinuandosi nei pertugi e nelle fenditure della
roccia.
Dimenticato da tutti, o quasi, ma ancora potente centro di forze
antiche più
degli Asi e dei Vanir e degli Jotnar. L’ingannatore spinse
dentro a forza il
sacerdote guardandosi attorno circospetto e teso.
“Come fai a conoscere questo
posto?” boccheggiò Harold
varcando l’arco di pietra antica, decorato con incisioni di
un tempo passato e
perduto, dimenticato. “La strada che conduce fin qui
è segreta. Non esistono
mappe, per Bar Duhl.”
“Esistono, invece. Basta solo
cercarle,” ribatté Loki. Un
sorriso sbieco, compiaciuto gli attraversò il bel viso
affilato. Il vecchio non
ebbe il tempo di domandarsi come riuscisse, una mente brillante come
quella, a dedicarsi
a imprese inique e oscure che nessun lustro portavano al suo nome.
L’Ase che
non era tale lo spinse a forza nel sacello. Qui il sacerdote si
fermò, pallido
in volto. “Cos’è questo?”
balbettò.
Illuminato dalla luce fioca di decine di lunghe
candele,
c’era un altare. Ogni dettaglio era stato curato. I calici
d’oro dove gli sposi
avrebbero bevuto per sancire la loro unione, la spada e
l’anello da scambiarsi
assieme alle promesse, il drappo di seta e oro su cui posare ognuno
degli
oggetti necessari a celebrare il matrimonio.
Harold cercò con la coda
dell’occhio l’ingannatore. “Di
chi?”
Dietro di lui, Loki premette con più
forza la lama
all’altezza del fianco fino a farlo gemere. “Il
mio,” ringhiò.
Non erano soli, nell’ampia sala. Due
guardie sbucarono dal
nulla. Una di loro, ad occhi bassi, disse in fretta qualcosa al dio
dell’inganno nell’aspra lingua degli Jotnar. Lingua
d’Argento aggrottò le
sopracciglia scure, rifletté un momento sulla risposta da
dare. Parlò
brevemente al soldato, e il vecchio sacerdote riconobbe, nelle parole
svelte
del suo carceriere, alcuni brandelli della rapida conversazione: aveva
chiesto
se la ragazza fosse pronta e ordinato di condurla lì.
Deglutendo, Harold valutò la sua
situazione e quella di Loki:
c’era un solo motivo per cui a un uomo come lui poteva venire
in mente l’idea
folle di contrarre un matrimonio mentre tutti i Nove Regni erano
sconvolti
dalla guerra. Si morse le labbra pregando gli Antenati, supplicando
mentalmente
le Norne: non poteva aver osato tanto.
“Bada a ciò che fai, Loki
figlio di Laufey. La tolleranza
degli Asi è assai limitata.”
Il dio degli inganni gli afferrò i
capelli, costringendolo a
scoprire la carotide pulsante, appoggiando la lama affilatissima di un
pugnale
sulla sua pelle raggrinzita. “Come la mia,”
osservò torvo. Poi, apparve lei.
Una figura di donna sottile,
esitante, con il volto coperto, scortata dalle due guardie di poco
prima. Si
avvicinò all’altare togliendosi il cappuccio, e
Harold gemette di dolore. “Non
lei, non puoi farlo,” boccheggiò. Alla luce fioca
delle mille candele, aveva
riconosciuto Sigyn della Casa di Freya. “È una
mostruosità.”
Forse erano le mura nere del sacello, a far
sembrare la
ragazza un’apparizione. Oppure, l’effetto etereo
era dovuto solo al pallore del
viso di Sigyn che si mescolava al pizzo candido che le fasciava le
spalle
esili, le braccia sottili. Avvolta in una nuvola di seta bianca,
avanzò
tremando verso l’altare, i bei capelli d’oro
parzialmente sciolti sulla schiena.
Il sacerdote credette di sentire Loki irrigidirsi vedendola, ma fu solo
un
istante o un’impressione. Venne trascinato dietro
l’altare e costretto a
indossare il sacro manto.
“Ora pronuncia le parole del rito!
Sbrigati!” ordinò il dio
degli inganni. Al posto del pugnale afferrò la spada antica,
ma ancora
affilata, che aveva recuperato da un tumulo ghiacciato su Jotunheim e
avrebbe
dovuto offrire in dono alla sua consorte.
“Che stai facendo, sei pazzo? Freya ti
ucciderà e, se non ci
riuscirà, ci penserà Odino, anzi Thor!”
si ribellò Harold, sconvolto e inorridito.
Lei no, per le Norne, no. Conosceva quella ragazzina. L’aveva
vista bambina
correre nei campi. Era onesta, gentile, sincera. La guardò
in viso, fissò i
suoi occhi grigi grandi e rotondi, spauriti e liquidi, e ne ebbe
un’immensa
pietà. “Pagherà con il suo sangue per
questo, figlia mia.”
“E io ucciderò te se non
farai come ti dico! Sposaci.
Sposaci adesso!” gridò Loki colpendolo con
l’elsa. Il prete si ritrovò a terra,
sentì Sigyn che gridava. Poteva riconoscere il sapore del
sangue che gli colava
dal labbro spaccato. Nonostante il dolore, raccolse le forze e le
parole mentre
Lingua d’Argento lo rimetteva bruscamente in piedi. Gli
cercò gli occhi.
“Non ti legherò a quella
ragazza. Uno come te con una come
lei sarebbe un’aberrazione,” disse con lentezza. “Non perdere
tempo, ammazzami qui: non
celebrerò nessun matrimonio, stanotte.”
Il dio degli inganni imprecò furibondo,
e Harold proseguì
implacabile. “Ti stanno già cercando, non
è vero?”
Fu quello il momento esatto in cui capì
di averlo in pugno. Ansimando
e con un sapore metallico in bocca, comprese. Lui la voleva.
Quell’anima nera,
crudele, spietata e feroce aveva messo gli occhi su di lei. Desiderava
che
fosse sua, per sempre, quella notte stessa. E pretendeva che la loro
unione
fosse legale, sancita dalle leggi divine e terrene. Se lo avesse
ucciso, questo
non sarebbe potuto avvenire e Sigyn sarebbe stata salva. La vita del
vecchio
per quella della ragazza era un buon compromesso, decise.
Loki piegò le labbra in una smorfia
amara, incrociò, per un
solo istante, lo sguardo dolce e triste della fanciulla accanto a lui.
I segugi
di Odino si erano già attivati. Avevano certamente fiutato
le loro tracce,
sarebbero calati presto su di loro. Si concesse il lusso di guardarla
alla luce
delle mille candele che facevano risplendere i suoi capelli color
tramonto. Che
idea assurda, aveva avuto; ne avrebbe pagato il prezzo. Schiuse le
labbra per
dire qualcos’altro di terribile, ma Sigyn posò una
mano sul suo braccio teso,
scosse la testa, avanzò di un passo. Fissò il
prete con i suoi occhi profondi e
grigi. “Voi non capite, Harold” iniziò
con voce rotta. “Vi prego. Fate in
fretta, vi prego. Anche Laufey sarà qui a
momenti.”
“Ti verranno a salvare, mia povera
ragazza, presto.” ribatté
il vecchio sicuro. L’avrebbe protetta, impedendo che
quell’unione avesse luogo
con ogni fibra del suo essere. Freya e Odino avrebbero apprezzato il
suo
coraggio.
Sigyn scosse la testa. “Per favore.
Questa guerra presto
finirà. La tua benedizione no. Rimarrà con noi
qualsiasi cosa succeda.” Aveva
gli occhi lucidi e le tremavano le labbra.
“Noi? Cosa stai dicendo, Sigyn? Tu
verrai liberata.”
Una risata beffarda uscì dal petto di
Loki. Accanto a lui,
la ragazza rispose seria in volto. “Gliel’ho
chiesto io, Harold. Volevo fossi
tu. Non te lo ha detto?” mormorò, e allora il
sacerdote si accorse che il
vestito chiaro della ragazza era di ottima fattura e gusto, ma antico.
Un abito
di famiglia, rubato da un baule per andarsi a sposare di nascosto con
l’uomo
sbagliato. Batté le palpebre stanche mentre una
consapevolezza nuova lo
aggrediva improvvisamente. “Di quale sortilegio sei vittima,
bambina mia?”
“Ci stanno cercando, lo sappiamo. Ma se
voi celebrerete il
rito, forse potremmo fuggire lontano e salvarci,”
spiegò Sigyn; la sua mano delicata scivolò in
quella del dio degli inganni
accanto a lei. Il sacerdote vide il gesto e non poté fare a
meno di
comprendere.
No, la ragazza non era lì contro la sua
volontà. Il dio
degli inganni non l’aveva rapita e ora Sigyn, singhiozzando,
piangeva e raccontava
di un amore che c’era sempre stato, di un’attesa
insopportabilmente lunga,
disperata, straziante. Ma Lingua d’Argento non è
il valoroso principe di una
fiaba: è un condottiero scaltro e sagace che ha dimostrato
più di una volta
quant’è pericoloso; un individuo così
geniale e imprevedibile da essere
definito pazzo ma, soprattutto, è il dio del caos e
dell’inganno: nessuna cosa
ha una sola faccia, per lui, nemmeno l’amore.
Di nuovo, nella testa di Harold tornò a
incunearsi la
domanda senza risposta che si era fatto sul drakkar: qual era
l’obiettivo di
Loki? Che tipo di minacce crudeli o promesse struggenti aveva
utilizzato, per
convincere Sigyn a sposarlo proprio in quel momento? Fu illuminato da
una nuova
consapevolezza, sempre più atroce. “Era
l’unico modo?”
“Non c’è
tempo!” lo interruppe Loki con voce urgente. “Ho
sempre avuto la devozione della dea della
fedeltà.” Sfilò dalla tasca la
meravigliosa bussola con cui si era orientato quand’erano sul
drakkar e gli
mostrò a labbra strette l’iscrizione che il prete
aveva notato appena nella
luce livida della luna.
Lingua d’Argento, altrimenti loquace,
non aggiunse una
sillaba né raccontò di quando
lei
gliel’aveva posata sul palmo della mano poco prima che
lasciasse Asgard per
sempre. Le sue dita sottili e delicate, sulle sue, gli avevano fatto
premere il
coperchio intarsiato sfiorando le rune incise.
“Così non perderai la strada di
casa,” aveva detto, e si era alzata in punta di piedi per
riuscire a sfiorargli
le labbra. Bacio incerto, nervoso, immaturo, scambiato tra da due
ragazzini, riemerso
all’improvviso dalle pieghe di un passato che il dio degli
inganni, per scelta
o necessità, non ricordava mai. Forse questa è
una menzogna, però. Una delle
bugie dietro cui si arroccava l’altero principe di Jotunheim
e, nonostante
tutto, di Asgard.
Harold si morse le labbra, poi con un sospiro
iniziò a
officiare il rito nuziale che sapeva a memoria, e la sua voce solenne
venne
raccolta dalle mura umide e antiche di Bar Duhl. Un matrimonio andrebbe
celebrato alla luce del sole, di giorno, in un tempio abbellito con
fiori e
addobbi colorati, alla presenza di amici e parenti, non nel segreto
della
notte. Il soffitto del sacello era crollato da un numero indefinibile
di secoli
e le colonne portanti, nude e protese verso il cielo, sembravano denti
aguzzi
pronti a divorare la notte buia e senza stelle. Eppure, in fondo, non
c’era un posto
migliore per rubare il tempo alle Norne e sfuggire alle armate degli
Asi e
degli Jotnar – di quale altra colpa si era macchiato il dio
degli inganni?
Invocò le Norne e gli dèi
Antenati e si mise a elencare alla
coppia nervosa e preoccupata i diritti e i doveri che avrebbero
regolato la
loro unione. “Scambiatevi i pegni e le promesse,”
concluse infine e, com’era in
uso sia presso gli Asi che i Giganti, Loki offrì a Sigyn la
spada antica che
aveva trafugato da un tumulo dov’era sepolto un suo antenato
e lei gli mise al
dito un anello d’oro e fu vinta dall’emozione.
“Non ho mai sognato che avrei incontrato
qualcuno come te, che
me ne sarei innamorata, ma è successo,”
mormorò guardandolo negli occhi,
stringendogli le mani. “Non sei il principe delle fiabe,
l’ho sempre saputo:
non è bastato. Ho provato a dimenticarti: non ci sono
riuscita. Forse, non l’ho
mai voluto davvero. Ti ho aspettato per giorni, mesi, anni, fino a
smarrire il
tuo viso e la tua voce. So chi sei e cosa hai fatto e non mi faccio
illusioni
sulla tua natura, ma non importa. Ti resterò accanto
qualunque cosa accada,”
disse Sigyn e i suoi occhi brillavano fieri e innamorati.
Loki forse pensò alla sera in cui si
era intrufolato in uno
dei fragorosi banchetti degli Asi per spiare le loro mosse, il volto
coperto da
un mantello, e all’istante in cui se l’era
ritrovata davanti all’improvviso. Attorno
a loro la gente rideva e ballava e si ubriacava. L’aveva
riconosciuta a stento
– la ragazzina di ieri che gli aveva regalato la bussola non
era che l’ombra
della donna di oggi – e una curiosità improvvisa
lo aveva convinto a restare.
Thor, in lontananza, beveva e cantava e ancora non lo aveva
riconosciuto.
“Sapevo che questo giorno sarebbe
arrivato,” gli aveva detto
Sigyn sorridendo. “Non ho mai sognato che avrei perso
qualcuno come te, ma che
lo avrei ritrovato sì, ogni notte. Ti ho aspettato per
così tanto tempo!”
Lingua d’Argento si era guardato attorno
nervoso. “Il mio
ritorno ad Asgard porterà guerra, disordine,
morte.” La voce del fabbricante di
bugie si era velata di un tono beffardo e cattivo che non
l’aveva spaventata
affatto, così come non era rimasta intimorita dal modo in
cui si era chinato
verso di lei. Gli aveva sfiorato la mascella affilata, i suoi
polpastrelli
avevano toccato le labbra sottili e segnate da una cicatrice antica.
“Sei un
bugiardo. Non sei qui per distruggere Asgard.”
Così aveva mormorato.
Nel tempio di Bar Duhl, sotto un cielo nero senza
più luna
né stelle, il dio dell’inganno forse
ripensò ai canti di quella sera lontana,
oppure alla tenaglia che si stava per chiudere attorno al suo collo. O
a
entrambi. “Non posso farti nessuna promessa,” disse
in fretta alla donna che
stava sposando. “Mentirei, lo sai.”
Un istante dopo, l’aria fu squarciata
dal rombo del tuono e una
saetta si abbatté sulla soglia del rudere e così
Sigyn non ebbe mai modo di
replicare, né tantomeno poté farlo Harold. Thor
Odinson li aveva raggiunti
prima che il rito nuziale fosse completato. Entrò nel
sacello stringendo Mjollnir,
che sfrigolava mandando strali elettriche nell’abside
semidistrutta. “Mi
dispiace,” si ritrovò a dire con un filo di voce
il vecchio, rivolgendosi allo
stesso tempo al figlio di Odino e ai due amanti sfortunati. Nessuno dei
presenti gli badò.
Tutta l’attenzione di Loki era stata
catturata dall’arrivo
di quello che, per un certo periodo della sua vita, aveva creduto
essere suo
fratello. “Sei in ritardo,” disse piegando le
labbra in un sorriso sbieco e
freddo, lupesco.
“E tu sei quasi un uomo sposato. Sarei
dovuto arrivare
prima,” ammise il tonante lanciando uno sguardo ad Harold, a
Sigyn e alle mille
candele che illuminavano la tetra notte sopra Bar Duhl.
L’anziano prete pensò con una
fitta di rimorso a quello che
avrebbe potuto essere e non era stato: al destino dei Nove Regni se
Odino non
avesse ceduto Loki ai Giganti di Ghiaccio quando non era che un
ragazzo, alla
svolta che avrebbe potuto avere la guerra che funestava i rami
dell’Yggdrasill
se lui avesse concesso al dio degli inganni di scappare dai suoi molti
nemici,
all’infelicità assurda cui si era condannata Sigyn
innamorandosi dell’uomo
sbagliato. Pensò che quando la sua barba era ancora fulva
non aveva avuto il
coraggio di opporsi al suo re, ma che adesso non aveva nulla da perdere
e non
avrebbe lasciato che Thor e Loki si uccidessero a vicenda su quel suolo
sacro.
Il dio del tuono stringeva il martello con aria minacciosa e il suo bel
viso
fiero trasudava decisione, quello dell’inganno sorrideva
tetro e pareva pronto
a scattare con la stessa letale precisione di una fiera affamata a
caccia nel
bosco. Aprì la bocca per riparare il torto antico che
riempiva il suo cuore di
vergogna ma, di nuovo, il primo figlio di Odino avanzò verso
l’altare e lo interruppe.
Prese la coppa d’oro, la riempì di idromele e la
porse a Lingua d’Argento.
“Sbrigati fratello, saranno qui tra
poco. Io vi coprirò le
spalle. Maledette le Norne, quanto hai fatto incazzare Laufey e Odino.
Ci
vorranno mesi, per spiegare a tutti la tua assurda trappola.”
L’altro rilassò
leggermente le spalle e gli rispose con un cenno del capo e un mezzo
ghigno
soddisfatto, accettando il calice.
Al banchetto degli Asi, Thor non si era limitato a
bere e a
cantare a squarciagola. Aveva notato che Sigyn si era appartata
nell’ombra, gli
era parso di intravedere le falde scure di un mantello e poi
l’aveva vista
allontanarsi con le guance rosse e gli occhi lucidi. Non gli era
servito altro,
per convincersi che era necessario raggiungere la macchia scura appena
fuori la
sala. L’ingannatore lo attendeva nel buio, stringendo tra le
mani i suoi lunghi
pugnali lucenti, ma Thor non si aspettava nulla di meno.
Cercò di riconoscere
nell’uomo dai lineamenti affilati di fronte a lui il
ragazzino dall’aria
imbronciata con cui aveva condiviso ogni cosa; pensò anche
che il Loki di
allora non esisteva più e che il figlio di Laufey era un
avversario degli Asi,
ma quella riflessione gli sembrò debole, infondata,
ingiusta.
“Ho commesso uno sbaglio, Loki. Uno di
quelli che spezzano
il destino di un uomo. Avrei dovuto oppormi, fermare Odino, quel
giorno. Eri
mio fratello.”
“Così non è
stato.” La voce del dio degli inganni lo
raggiunse alle spalle. Quella che aveva di fronte non era che una copia
perfetta, ma irreale. Sentì la punta di una lama affilata
premergli contro la
schiena, all’altezza dei reni.
“Non c’è giorno che
non abbia rimpianto quella scelta,”
proseguì. “Ero solo un ragazzo, mi dico, ma non
basta.”
Dietro di lui, Loki rimase in silenzio, come se
dovesse
riflettere sulla risposta giusta da dare. “Lo eravamo
entrambi,” soffiò infine
con una punta di velato rammarico.
“Ho tentato di raggiungerti a Jotunheim,
qualche volta.”
Avvertì una mezza risata sarcastica, piena di compassione.
“Non saresti
riuscito a riportarmi indietro nemmeno con Mjollnir.”
Per un momento troppo lungo rimasero entrambi in
silenzio,
poi giunse il momento della domanda finale, quella che avrebbe deciso
il corso
delle loro vite. Thor strinse il pugno della mano destra: sarebbe
bastato così
poco per richiamare il suo martello, e farlo sarebbe stato un gesto
responsabile e saggio. Tutte cose che lui non era affatto.
“Perché sei qui, fratello?
Per distruggere Asgard o per salvarla?” La sua voce si era
fatta severa e
grave, come era giusto che fosse.
Loki aveva avvicinato le labbra al suo orecchio e,
nell’oscurità in cui erano avvolti, aveva parlato,
spiegato e raccontato, senza
mai togliergli la lama dalla schiena. Attorno al fuoco, guerrieri e
nobili
bevevano ancora tra grida e schiamazzi, inconsapevoli di quello che
stava
succedendo a pochi metri da loro.
“Come posso fidarmi di te, dio degli
inganni?” aveva ammesso
infine.
Nonostante non potesse vederlo, fu certo che Loki
stesse
sorridendo. “Fidati del mio rancore, fratello.”
Un vento severo e impietoso prese ad accanirsi
all’improvviso sulle rovine di Bar Dhul. Sigyn
rabbrividì e così fece il
vecchio prete. Alcune delle candele che illuminavano il tempio si
spensero e
l’uomo vide la ragazza stringersi contro l’armatura
di pelle intrecciata
dell’ingannatore e lui cingerle con un braccio la vita
stretta e offrirle la
coppa da cui aveva bevuto. La figlia di Freya posò le labbra
sul bordo metallico
e sorseggiò il liquido dolciastro. Fedeltà e
inganno stavano per unirsi, Thor
era lì, accanto a loro, e Harold perse per un momento la
forza che lo aveva
animato fino a pochi istanti prima. Fu Loki a riscuoterlo dal suo
torpore. “Riprendi
il rito ora!” gridò. “Gli Jotnar sono
vicini e così il resto delle guarnigioni
Asi. Sputa fuori quella fottuta benedizione!”
“Eravate
d’accordo?” boccheggiò
il prete rivolgendosi ai due giovani uomini nel pieno delle loro forze
che un
tempo erano stati fratelli e pareva non avessero mai smesso di esserlo.
Thor si accigliò.
“Maledizione Loki, ma come, non glielo hai
detto? Non sa niente?”
“Mi avrebbe creduto secondo te, questo
maledetto vecchio
testardo? Ho risparmiato tempo e fatica,” si
giustificò l’ingannatore
sprezzante.
“Loki è una spia di Asgard da
molto tempo, orami,” si degnò
di spiegare il dio del tuono. “Se le armate degli Jotnar
hanno iniziato a
ritirarsi, è per le informazioni che mi ha passato per mesi,
anni. Ora però Laufey lo
ha scoperto,
Odino ha bisogno di prove tangibili per revocare la pena che gli ha
inflitto in
contumacia e, al momento, è troppo compromesso per
accoglierlo. Non ha un posto
dove andare. Sposali prima che lo trovino, affinché Freya
sia costretta a dargli
asilo politico.”
Harold batté le palpebre.
“Una spia?” I pezzi che aveva
cercato di ricostruire da quando era stato rapito iniziarono a
ricomporsi
formando un quadro dalle immagini nitide e definite.
“Una spia quasi morta, per
l’esattezza,” fu la severa
puntualizzazione di Lingua d’Argento.
Il prete annuì. “Nel nome
degli Antichi dèi, con i poteri
conferitemi dalle radici stesse dell’Yggdrasill che reggono
tutti i Nove Mondi
io vi dichiaro marito e moglie,” sussurrò solenne,
“e vi offro la mia
benedizione, Loki della Casa di Laufey e
di Odino, Sigyn della Casa di Freya. Possano le Norne filare per voi un
destino
benigno.”
“E io benedico la vostra unione con
Mjollnir, la reliquia
degli Asi che protegge le nozze. Adesso sparite, presto!”
ordinò Thor. Loki annuì
e, mano nella mano con Sigyn, attraversò rapidamente
l’abside illuminata dalle
candele.
“Fratello!” Il dio del tuono
lo bloccò prima che l’altro
oltrepassasse definitivamente i resti dell’arco
d’ingresso di Bar Duhl. “Non
fare niente di idiota o ti fracasserò ogni singolo osso con
Mjollnir. Tienilo a
mente sempre.”
“Non so come, ma non mi
stupisce,” ghignò Lingua d’Argento,
e sparì nella notte.
“Tu sapevi.” Harold si
accostò a Thor rabbrividendo per il
freddo. “Ho unito la fedeltà all’inganno
e non posso fare a meno di chiedermi
se abbia fatto bene. La userà per salvarsi la pelle e io
l’ho permesso. Conosci
il suo nome e la sua natura”
“La conosco, sì. È
mio fratello.” Thor fissava il punto dove
la coppia era sparita con le sopracciglia aggrottate. “Ad
ogni modo non
preoccuparti per loro. Non è lui che ha scelto Sigyn, ma il
contrario.”
Asgard era in festa. I venti freddi di Jotunheim
non soffiavano
in quei giorni con gelida ferocia sulle sue guglie dorate, sui tetti
spioventi.
Il principe perduto viveva ancora credendosi figlio di Odino, e ombre
solo
accennate adombravano i suoi occhi verdi e attenti. Camminava nervoso
verso il
castello, con l’aria imbronciata e lo sguardo già
troppo severo, quando la
figlia di Freya, Sigyn, gli si parò davanti. Aveva lunghe
trecce bionde che le
arrivavano fino alla vita e un abito color primavera, ma il giovane Ase
non
notò il rossore che le imporporava le guance, né
diede troppo peso alle ciglia
lunghe e nere che le coprivano lo sguardo dolce.
Le
rivolse un’occhiata
breve. “Se cerchi mio fratello,” disse scrutando
con attenzione il fazzoletto
ricamato che la ragazzina stringeva tra le dita,
“è a prepararsi per la gara
nell’arena.” La sorpassò torvo, ma la
voce della bionda lo inchiodò dov’era.
“Non è per Thor, ma per
te.” Sigyn si era morsa le labbra,
aveva stretto forte le palpebre, per sforzarsi a far uscire quella
singola,
terrificante frase, dalla sua gola. Il dio degli inganni che ancora non
era
tale si voltò con lentezza, fissando la ragazzina stupito.
Sigyn, svelta, gli
mise tra le mani il sottile lino filato e ricamato con cura.
“Indossalo domani,
se vuoi,” disse, e fuggì via, le trecce al vento.
Loki, sbalordito, rimase a
fissare il fazzoletto donato – il primo pegno che riceveva da
parte di una
ragazza – e non riuscì a dirle, lui che un giorno
sarebbe stato chiamato Lingua
d’Argento, che era onorato di tanta attenzione. Eppure, lei
lo venne a sapere.
Lo vide dagli spalti sfoggiare il bianco quadratino di lino, ben
assicurato
alla lancia sottile.
“Non ho mai immaginato che avrei potuto
perderti davvero. Ci
sarebbe sempre stato un luogo e un tempo dove avremmo potuto
ritrovarci,” disse
Sigyn. Era quasi l’alba e avevano cavalcato tutta la notte.
Forse la salvezza
era vicina.
Loki Laufeyson gettò
un’occhiata attenta ai boschi e alle
montagne che si erano lasciati alle spalle, alle nuvole che
testimoniavano il
passaggio di Thor. “Si smarrisce solo chi non conosce la
strada,” osservò
mentre un sorriso furbo e storto gli attraversava le labbra beffarde.
Fine
Specchietto
Autore:
Storia partecipante al contest
“Di Lune, Torri ed Eremiti” indetto da
Laodamia94 sul forum di Efp.
Nickname
sul forum e su EFP: Shilyss/shilyss
Pacchetto
ed elementi scelti:
·
Pacchetto
Imperatore per intero (forza,
potere/prepotenza drasticità – situazione A -
punto di vista anziano e
situazione B – un personaggio piange un errore antico).
·
Pacchetto
Matto per intero (libertà e follia,
disordine/menzogna).
·
Prompt
3 – benedizione.
·
Citazione
8 «I never dreamed that I’d meet somebody
like you… And I never dreamed that I’d lose
somebody like you» ‒
Wicked Game, Ursine
Vulpine) tradotta nel testo in maniera letterale e spezzata (Non ho mai
sognato
che avrei incontrato qualcuno come te/Non avrei mai sognato che avrei
perso
qualcuno come te) e in traduzione libera, molto (non ho mai immaginato
che
avrei potuto perderti).
·
Fandom:
“Thor.”
·
(Pacchetto
secondario: amanti, significato
separazione, situazione b – elementi di una fiaba stravolti).
Note
autore:
Il titolo della storia è ispirato a De André. Il
dettaglio della spada presa da
un tumulo che Loki deve offrire a Sigyn, fa parte dei veri rituali
matrimoniali
vichinghi. L’invocazione di Harold agli Antenati richiama la
battuta di
Heimdall in Infinity War. “La vita del vecchio per quella
della ragazza,” è un
calco da Sin City. Alcune delle battute di Loki e Thor come
“fidati del mio
rancore”, “sei in ritardo” sono prese
dalla trilogia di Thor della Marvel.
Utgard è l’effettiva capitale di Jotunheim
– così risulta dall’Edda – e
il nome
dei Giganti viene declinato Jotunn/Jotnar.
Il nome Bar Duhl scelto per il
Tempio è un richiamo a Tolkien. L’espressione
“difendere a viso aperto”, un
omaggio a Dante (canto di Farinata degli Uberti). Nelle mie storie,
Sigyn non è
mai così sicura di sé come in questa shot, ma del
resto voleva scappare con
Loki e dividere la sua vita con lui praticamente da sempre.
Vi
ringrazio infinitamente per essere arrivati
fino a qui e spero che la storia vi sia piaciuta.
Shilyss