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Autore: emmebelloc    10/06/2018    0 recensioni
Il ponte di Trezzo sull'Adda negli anni '70 dalle 18 alle 20.
Chi sapeva e poteva, evitava. Chi no, suonava.
Era l'epoca delle Giulia, delle Fiat 126, 127, 128 e delle più vecchie 500, 600, 850 special, delle Simca 1000 bicolore, delle Dyane e 2cv, delle Opel Kadett e Ford Escort, dei maggiolini e maggioloni delle Prinz e qualche Daf.
La benzina era rossa come la parrucca di Minni Minoprio, la quantità di piombo presente nell'aria, con la pietra filosofale, avrebbe fatto tutti ricchi.
Genere: Comico, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Al passare dei camion il ponte balla, facendoti provare l’ebbrezza dell’adesso crollo ma non mollo. Il ponte di Trezzo sull’Adda è elastico. Sembra costruito bene. Negli anni settanta, alle ore diciotto, il traffico d’auto sul ponte raggiungeva il tutto esaurito. Un serpente col singhiozzo fatto d’auto e camion. Fermi in coda e senza smartphone, che avrebbero inventato solo quarantanni dopo, ci si concentrava tutti sul “vediamo se qualcosa si muove” con movimenti del collo simili a quello dei polli da batteria pochi secondi prima della consegna del pasto. Quando le auto davanti guadagnavano terreno ci si tirava su con la schiena, si davano due sgasate per disingolfare il motore imballato e in attesa, come di quella parola che non viene, quella sulla punta della lingua, si era tutti pronti a mollare la frizione accompagnandola con una parolaccia, che in spiccioli significava “era ora”. Dall’auto davanti sarebbe potuto pervenire un “Maporcaputt…” da quella dietro un “Ostia”. Così era il tran tran dalle diciotto alla venti dei giorni feriali, comprendente il “falso allarme incidente” che veniva dato tutte le sere. Avveniva che la quinta auto davanti alla tua si allontanava, il serpente perdeva la coda e diventava due serpenti. Davanti vanno, perchè qui siamo fermi? Con una carrellata veloce di tutti coloro che erano al volante si sarebbero potuti distinguere gli autoctoni dai foresti. L’autoctono allargava le braccia e sorrideva perchè sapeva, il foresto cercava il morto e i feriti. La risposta era Rosario Fontanazza. Palermitano. Capelli bianchi, camicia rossa scozzese e gilet dal quale sbucavano due braccia tese nello sforzo di muovere avanti un carretto stracarico di carta da macero. Rosario abitava e lavorava di qua dal ponte, la cartiera di là. Era un brav’uomo, beveva solo un po’, picchiava moglie e figli, ogni tanto accoltellava qualcuno ma tutti gli volevano bene.* l clacson degli Homer che una volta giunti a casa si sarebbero tuffati sul divano, suonavano fissi, quelli di chi doveva recuperare i figli in palestra sparavano intermittenti come assoli di tromba, chi non teneva alla Ternana suonava, quello di chi gli stava andando a fuoco la casa no, era rotto. Suonavano tutti, come se le onde sonore assommatesi potessero creare una forza d’urto come quella generata dalla pistola di Lucio in Overwatch, che venisse in aiuto alla spinta del trabiccolo. Rosario Fontanazza spronato a dare di più, spingeva il suo carretto alla stessa velocità, al massimo. Non poteva fare di più, non era necessario suonare, quindi mollava il carretto si girava verso le auto e lanciava antiche maledizioni trinacriesi con le braccia al cielo. Menagramate, parolacce, uno sputo, una mezza bestemmia. Con il tempo necessario giungeva alla fine del ponte, svoltava a destra veloce, giù in discesa e l’allarme cessava. Ciao Rosario, a domani. *In realtà non faceva niente di tutto questo, l’ho scritto solo per far contrasto, beveva solo un pochino.
   
 
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