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Autore: Cheonefer86    10/06/2018    1 recensioni
Snape aveva una figlia.
Gli era capitata per caso e altrettanto per caso era diventato padre, ma neppure lei era stata capace di chiudergli il buco che aveva nel petto, quella ferita che continuava a fare male.
Lei lo aveva colmato per metà, ma l'altra apparteneva ad Harry, e cadeva a pezzi.
Due sorrisi che amava. Uno che si allontanava sul treno e l'altro perso per sempre.
Un cuore che lo aveva abbandonato e uno che iniziava una nuova vita.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Harry Potter, Nuovo personaggio, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Un giorno qualunque di pioggia

 

Pioveva di nuovo.

L’ennesima giornata buia e umida trascorsa ad osservare il mondo fuori dalla finestra mentre sua figlia giocava e leggeva.

Già, aveva una figlia.

Aveva provato a negare, ma le somiglianze erano così evidenti che nessuno, persino lui, avrebbe potuto provare il contrario.

L’aveva cresciuta come aveva potuto, ricordando il meglio dei propri genitori e il meglio dell’essere stato un insegnante, il resto, istinto di sopravvivenza e basta.

Una mattina piovosa come quella, aveva aperto la porta e si era ritrovato un piccolo fagotto tra le mani consegnatogli da un qualche impiegato del Ministero, e una lettera con una scrittura incerta, frettolosa.

Righe storte e lettere quasi incomprensibili che sbiadivano tra le lacrime o forse tra gocce di saliva, lettere di aiuto, ricerca di speranza.

«Deve esserci uno sbaglio» aveva detto, mentre la creaturina dormiva tra le sue braccia, ma il mago sulla porta aveva scrollato la testa e se n'era andato senza neppure dargli una spiegazione.

In un giorno qualunque di pioggia era diventato padre.

 

L'aveva portata via da Spinner's End.

Troppo dolore intriso in quelle quattro mura, troppa sofferenza. Persino troppo squallore da far sopportare ad una bambina.

Lui c'era abituato da tutta una vita, era abituato all’asfissia di un mondo corrotto e sporco, erano sempre stati il suo mondo.

Erano lui.

Ma mai avrebbe costretto la figlia a camminare su quel vecchio pavimento dove lui ci si era rifugiato per anni, nella speranza che a terra non arrivassero le urla.

E allora l’aveva presa e portata via.

Lontano da dove lui era cresciuto, sotto quel tetto che gli aveva insegnato a soffrire.

In quel posto avrebbe rivisto solamente l’immagine di un bambino con le mani strette alle ginocchia e le lacrime sui vestiti.

L’immagine di altre lacrime.

Lì aveva smarrito ogni suo sogno e ogni speranza gli era sfumata davanti agli occhi.

Non avrebbe voluto essere un genitore in quella casa, lì dove non aveva mai davvero avuto i suoi, di genitori, dove aveva sperimentato nient’altro che abbandono.

Aveva perso ogni amore per poi ritrovarlo e perderlo ancora una volta.

Amore in occhi diversi. Colori che sbiadivano fino a disintegrarsi in ogni singolo atomo.

Per lei voleva qualcosa di nuovo, dove poter costruire una vita da capo, dove ricostruirsi egli stesso.

Per lei e per sé.

L’aveva portata via e basta.

 

In un giorno qualunque di pioggia era riuscito a trovare la madre della bambina, ma lo aveva fatto troppo tardi.

L'aveva trovata in un ospedale di provincia dove era stata ricoverata per l’ennesimo buco di troppo sulla pelle, ma quella volta non erano riusciti a salvarla, troppa quella schifezza che si era iniettata per poter reggere ancora: il cuore aveva ceduto e basta.

E mentre l'aveva guardata per l'ultima volta immobile e bianca, col viso triste ma disteso, aveva ricordato.

Aveva ricordato quella sera di anni prima in cui l'aveva incontrata quell’unica volta, in cui aveva visto quegli occhi spenti, che sembravano gialli. Occhi gentili.

Labbra spaccate e troppo aride.

Aveva ricordato ogni cosa. Ogni stupida azione compiuta.

E alla fine erano finiti in una stanza anonima di un albergo altrettanto squallido, non lo sapeva neppure lui perché, non aveva risposta nemmeno a distanza di anni.

Era successo e basta, come accadevano tante cose nella vita, anche quelle che non si mettono in conto.

E lui non aveva messo in conto di diventare padre.

Eppure, in un giorno qualunque di pioggia, gli avevano portato sua figlia.

E tutto era cambiato.

La solitudine svaniva mentre la guardava e stringeva una lettera tra le dita.

Lettere distrutte di una vita altrettanto distrutta.

Potrai darle un futuro migliore di quanto non possa fare io, ma come avrebbe garantito futuri se era ancora in cerca dei propri? Cosa lo avrebbe reso migliore dopo una vita spesa da solo e odiato, respinto e respingente, nient’altro che sangue sulle dita?

C'era altrettanto schifo nella propria esistenza, altrettanto veleno ad ammazzare ogni cosa intorno a sé.

Potrai essere migliore persino tu che non ti sei mai reputato degno di niente, io c’ho provato, ma ho fallito miseramente, ho provato a prendermi cura di lei, ma alla fine ciò che guardavo erano una siringa e la mia pelle che si bucava, l’ago che scendeva mentre lei piangeva. Non sei marcio come me, saprai prendertene cura; ma lui davvero non era marcio?

Corrotto e basta.

Lui, un buco lo aveva avuto nel petto per anni. Un pozzo enorme, una voragine infinita.

Non era neppure riuscito a salvarla, salvare quella donna che gli aveva spento i pensieri per una notte.

Quella madre che gli aveva donato una figlia.

Quante madri non era riuscito a salvare? Quanti figli?

L’aveva lasciata lì, distesa sul letto e il veleno nelle vene, avrebbe dovuto prosciugarlo in ogni singola goccia e invece si era rivestito ed era uscito da quella stanza, dalla sua vita, ignorando che quell’unica scelleratezza avrebbe cambiato entrambi.

Lei, però, non era cambiata abbastanza.

Aveva continuato la sua esistenza tra siringhe e fuoco, una vita altrove.

E lui, invece, l’aveva lasciata andare.

Morire.

 

«Papà» lo chiamò, seduta sul pavimento a colorare.

Si voltò a guardarla, a fissare i propri occhi neri in un altro paio così identici ai suoi e aspettò che continuasse a parlare, senza distogliere lo sguardo neppure un solo istante: quella parola lo faceva tremare ogni volta. Ogni volta, ancora dopo tanti anni, era una sorpresa che riannodava i fili della propria anima ancora a brandelli.

«La mamma domani non verrà, vero?»

«No. Te l’ho già spiegato che la mamma non verrà più. Mai

La madre, ormai, non era che un ricordo scolorito nell'inchiostro, disperso in carta da due soldi che aveva dovuto incantare per non farla divorare dal tempo che trascorreva.

Seppellita in un incantesimo e nascosta agli occhi della figlia.

Nascosta alla sua memoria labile di bimba, di quel fagotto che era stato troppo piccolo per ricordarsi il volto della donna che l'aveva messa al mondo.

Avventura di una sera.

Desiderio di non essere soli almeno per qualche ora.

Un vuoto da riempire.

Ed ora, quel vuoto nel viso di sua figlia non lo avrebbe mai colmato.

Di quella donna aveva conosciuto soltanto dolore e solitudine, amore disilluso, sentimenti così simili ai propri da farli collidere almeno per una notte.

Per l'alcol e un po’ d’amore.

Che cosa avrebbe mai potuto raccontare a sua figlia?

Della merda che buttava giù come acqua?

Di quella bellezza ormai sfiorita, gettata nel bagno di qualche hotel di ultima mano insieme all’infima speranza di essere salvata, di un amore che l'aveva resa uno straccio?

No, sua madre era morta e basta.

Non c'era mai davvero stata.

Forse quando sarà più grande le racconterai di me, di quel poco di bello che c’era in me

«Ok» la bambina tornò per un attimo al disegno, le mani e il viso sporcati di nero. «E Harry?» si fermò di nuovo, per guardarlo ancora una volta, e quegli occhi facevano male. Quella parola faceva male.

E in quegli attimi, mentre spiava di nuovo la pioggia, si accorse che la risposta alla domanda che si era sempre fatto era lì, in quel nome.

Lettere altrettanto distrutte che lo avevano distrutto.

 

*

 

La pioggia sembrava non volerlo abbandonare neppure quel giorno.

C’era sempre un che di malinconico in quelle gocce che cadevano dal cielo, tratti di fascino che aveva trovato fin da quando era bambino, piccoli assaggi di speranza che gli facevano credere che tutto potesse essere lavato via.

Che tutto potesse nascere ancora una volta.

Ci aveva sperato per anni, finché non era cresciuto e la realtà gli si era abbattuta addosso come una frana.

Aveva, però, continuato ad amare la pioggia.

Un vetro che tornava pulito, una pianta che bucava la terra.

Forse perché qualche frammento del bambino che era stato giaceva ancora lì da qualche parte, seduto in un angolo a guardarla scendere, a contare ogni goccia che correva giù lungo il vetro sporco della casa, e passare le ore ad incitarle mentre gareggiavano una dopo l’altra, piccole e grosse.

«Papà, sbrigati! Arriveremo tardi!» lo riscosse la piccola dopo essersi inconsapevolmente bloccato sul marciapiede, a pochi passi da una pozzanghera che doveva essersi formata da poco.

«Non arriveremo tardi, nessuno Snape arriverà mai in ritardo» le sorrise, cercando di confortarla: sapeva perfettamente quanto fosse agitata per quella partenza, per l’inizio della sua nuova vita.

Aveva provato a dissimulare, ma, anche se il DNA era lo stesso, le sarebbero occorsi ancora tempo e pratica per diventare come lui: quel pensiero lo fece sorridere di nuovo.

Ed erano sempre quelle piccole cose a riempirgli il buco nel cuore, un sasso dopo l’altro gettato in un pozzo, quel viso che gli ricuciva gli squarci che si portava dietro appoggiati all’anima.

«Papà»

«Sì?»

«Ma siamo soltanto io e te?»

«Sì.»

Lo fissò per un attimo, quegli occhi identici ai propri e le belle labbra tese così uguali a quelle di sua madre, piene e rosse, però, poi si mosse appena. «Mi piace che siamo solo io e te» e gli sorrise ancora una volta mentre gli stringeva le dita intorno alle sue, riempiendogli ancora un poco il petto.

Loro due e nessun altro.

Camminavano per le strade di Londra mentre la pioggia scendeva, bastandosi e aggrappandosi ognuno all’anima dell’altro.

 

L’aveva presa per mano, fuori casa, e, con i bagagli nelle tasche e la pioggia sopra di loro, l’aveva accompagnata fino alla stazione.

Due passi più grandi e due più piccoli, uno dietro l’altro, loro due e basta.

Non avevano bisogno di nessun altro, si ripeteva spesso.

Erano loro, padre e figlia. Nessun altro.

Anche se quel vuoto continuava a reclamare di essere colmato. Riempito e basta.

Un corpo sopra un altro corpo.

Due anime a contatto.

«Dov’è Tal?»

«Starà rincorrendo qualcosa, ma torna, non preoccuparti.»

«Tal! Tal! TAL!»

In un giorno qualunque di pioggia, aveva aperto la porta a un piccolo ammasso nero di pelo che lo fissava, triste. Triste come lo era stato lui per giorni e forse per una vita intera.

Solitario e infreddolito.

Vuoto.

Sua figlia se n’era innamorata subito e lo aveva costretto a prenderlo con sé, con loro, un cumulo di dolcezza nelle loro vite, un piccolo lampo nero che correva per casa insieme ad altre due piccole gambe sempre meno malferme.

Tal apparve di nuovo all’improvviso, strusciandosi alle gambe di entrambi per poi accucciarsi vicino alle valigie tornate alla loro grandezza originale.

Si guardava intorno svogliato, annusando ogni tanto l’aria alla ricerca di qualcosa da mangiare, mai sazio, nonostante sua figlia gli avesse dato qualcosa appena prima di uscire di casa.

«Lo fai mangiare troppo.»

«Non è colpa mia se ha sempre fame. E poi non sta fermo un minuto, ha bisogno di energie!»

«Io ho bisogno di energie per stare dietro ad entrambi.»

La bambina iniziò a ridacchiare, prima piano e poi così forte da spaventare persino Tal, nonostante fosse abituato a quel suono quasi sgraziato che era dannatamente identico a quello che aveva sentito tra la bocca di sua madre, qualche volta, durante quella notte in cui l’aveva conosciuta.

Un suono che, però, sapeva così tanto di vita da sembrare ridicolo sul volto infossato della donna e quel corpo quasi scheletrico che aveva avuto paura persino a sfiorare. Stringere a sé per non sentirsi solo.

E lei aveva riso a qualche sua parola mentre le aveva posato una mano sulla spalla, temendo di spezzarla tra le dita; e aveva riso persino di alcuni suoi timori.

Una risata così forte in un corpo così fragile. Un sorriso che sapeva di primavera su labbra spaccate e stanche.

La regina dei contrasti, l’aveva rinominata dentro di sé, mentre pian piano si avvicinavano per scacciare per un attimo qualche lembo di solitudine, spostarlo come una tenda logora finché non si stanca la mano e ti ricade addosso, colpendoti ogni volta più forte.

«Papà, papà! Guarda, c’è Harry!»

 

Harry era entrato nella sua vita ben prima di lei.

C’era entrato completamente con semplicità, nel silenzio di una stanza d’ospedale.

Era rimasto lì, per giorni, a guardarlo e basta, immobile e poi risvegliarsi pian piano.

Aveva aperto gli occhi con un dolore lancinante alla gola che lo avrebbe fatto urlare se non fosse stato per quel braccio che gli si era proteso, così, senza dire niente, e lui lo aveva afferrato, stringendolo fino a fargli male, fino a fargli uscire il sangue dalla carne.

Harry, però, era rimasto fermo, aveva serrato la mascella e si era concesso al suo dolore.

Gli aveva donato il proprio.

E quando aveva lasciato quella stanza, in un giorno qualunque di pioggia, lui era lì, con lo stesso silenzio sulle labbra e tante parole da dire.

«Non mi serve la balia» poche parole in cui gli aveva sputato tutta la sua rabbia per essere lì, per esserci lui stesso, per essere sopravvissuto. Per guardare ancora quegli occhi.

Harry aveva sorriso e basta.

Sotto la pioggia si era avvicinato regalandogli un sorriso.

Regalandogli il perdono.

E giorno dopo giorno dopo giorno, aveva iniziato a trafiggergli il cuore.

Ad inchiodare i pezzi d’anima persi qua e là.

A riempire quel buco che aveva nel petto.

Con lui, Spinner’s End era diventata un po’ meno squallida, le urla avevano perso volume e il dolore sembrava essere uscito dalla porta principale.

Ed aveva amato a lungo come mai aveva fatto, ed era stato amato in ogni angolo per cancellare anche le più piccole impronte di dolore intrise nelle pareti e a terra, tra le crepe e le luci e ogni pagina di un libro.

Aveva amato risvegliarsi tra le braccia di qualcuno, di un respiro sommesso sulla propria pelle. Di un cuore che batteva.

Ed Harry, che era stato per anni nient’altro che tormento, aveva trasformato la sua vita in una gioia che mai aveva sperimentato, neppure quand’era stato lui stesso bambino e correva con il profumo di Lily accanto.

Harry gli aveva donato la speranza.

E poi si era ripreso ogni cosa.

 

Il camino della locomotiva aveva iniziato già a tirar fuori fumo quando sua figlia si era alzata e di corsa era andata incontro al giovane Potter con le braccia già tese per essere afferrata e lanciata in aria.

Sapeva che ci sarebbe stato il rischio di incontrarlo, in fondo i loro figli avevano la stessa età e iniziavano la scuola quello stesso anno, insieme, come insieme erano cresciuti.

Quasi una famiglia.

Egoisticamente aveva persino sperato che la figlia nascesse Babbana come sua madre pur di non vederlo ancora, ma la piccola aveva iniziato a manifestare la magia fin da piccola, prima ancora che riuscisse a tenersi in piedi.

E nonostante tutto, quando aveva visto i libri sfrecciare per le stanze era stato un padre orgoglioso, e aveva sorriso.

«Ehi, piccola tempesta!» Harry l’aveva presa in braccio e fatta volare, e lei era felice.

Era sempre felice quando era con lui e quando la loro relazione era finita, aveva fatto in modo che continuassero a vedersi, che giocasse con lui e con i suoi figli, Al soprattutto.

«Potter» lo salutò mentre il giovane Potter posava a terra la bambina, più per educazione che per reale voglia.

«Professore.»

Quante volte si erano pronunciati quelle parole sulle labbra fino a trasformarle in nient’altro che sospiri? E poi in silenzi.

In dita tra le dita.

In corpi che si muovevano per poi fermarsi e respirarsi addosso.

«Papà, io voglio stare nella stessa Casa di Al!»

«Non sei tu a decidere, ma il Cappello. Ti collocherà dove riterrà più opportuno» e avrebbe voluto aggiungere che sua figlia in Grifondoro proprio non l’avrebbe voluta, ma rimase muto a guardarla mettere il broncio.

«Con me ha tenuto conto della mia scelta.»

«Puoi pensare ai figli tuoi e non ai miei?» ma Harry per tutta risposta cominciò a ridere, una risata così diversa da quella di sua figlia o della madre. Quasi dolce che nascondeva quella di un bambino.

E quanto l’aveva amata.

E quanto ancora l’amava.

 

In un giorno qualunque di pioggia si era innamorato e basta.

E aveva capito di essere fottuto.

Se ti butti da quel ponte sei andato.

Perché il giorno in cui t’innamori sei un piccolo idiota che si getta da un ponte, ma il tempo non si riavvolge e non c’è corda che ti riporti su.

Sei andato.

Ormai perso.

E dal giorno in cui t’innamori, quelle labbra sono sempre davanti a te e quando non ci sono, le cerchi come un pazzo.

Cerchi ogni lembo di pelle.

Quella particolare parola detta in quel particolare modo. Una lettera scritta.

Cerchi un profumo, e anche quando non c’è, ti sembra di percepirlo ovunque tu vada.

E allora impazzisci e basta, perché sei andato.

Ormai fottuto.

E in un giorno qualunque di pioggia si era fottuto.

Aveva aperto gli occhi ed era rimasto sul letto a guardare la pioggia fuori la finestra, quel cielo grigio che ogni tanto si apriva di bianco, le mani a massaggiare le tempie mentre desiderava nient’altro che un corpo accanto a sé.

Nient’altro che ci fosse lui accanto a sé, al proprio corpo seminudo e sudato.

Gocce che si mischiavano le une sulle altre, come l’acqua sulla terra, e respiri sopra altri respiri.

Era corso fuori, incurante di tutto, sperando che quelle lacrime dal cielo lavassero via quei pensieri, che sciogliessero ogni brama e ogni speranza fino a fargli dimenticare ogni cosa.

Ma in un giorno qualunque di pioggia, lui aveva bussato alla sua porta, fradicio, ed era rimasto in silenzio a guardarlo, mentre il verde dei suoi occhi aveva provato a parlare, ad urlare quei sentimenti che anche lui aveva tentato di nascondere.

Ed erano rimasti di nuovo muti a scrutare ognuno l’anima dell’altro fin quando non si era scostato per lasciarlo entrare.

Per lasciarlo entrare definitivamente nella sua vita.

E nel cuore.

 

«Papà, ma se finisco a Grifondoro, tu mi vorrai sempre bene?»

Fissò per un attimo Harry che sorrideva compiaciuto, ma distolse subito lo sguardo, quelle labbra gli facevano ancora male.

Si piegò su un ginocchio per essere alla stessa altezza della figlia e le sfiorò il viso, delicato. «Ti vorrò sempre bene qualsiasi sarà la tua Casa, mi basta che tu sia felice.»

La piccola guardò per un attimo il padre e poi Harry, poi di nuovo entrambi. «E voi eravate felici ad Hogwarts?»

Per un attimo gli parve di cadere, perdere l’equilibrio e rovinare a terra davanti a tutti: era stato felice ad Hogwarts?

Sì, si disse, ma per quanto?

Quanto erano durati i propri sogni? Le speranze.

Il tempo di continuare a sentirsi un diverso, un escluso.

Il tempo di imboccare nient’altro che strade sbagliate e sentieri colmi di sangue.

Era stato felice a correre con Lily, poi, però, l’aveva persa. Aveva perso ogni cosa bella che c’era stata nella propria vita e gli era rimasto soltanto il desiderio di essere qualcun altro e un marchio sulla pelle, quello che continuava a nascondere a sua figlia.

Quello che sua madre aveva guardato a lungo, curiosa, chiedendogli cosa fosse quello strano tatuaggio, cosa rappresentasse.

E lui le aveva raccontato tutto, forse perché non l’avrebbe mai più rivista o forse perché non avrebbe ricordato più nulla dopo l’ennesima porcheria iniettata nel braccio.

Avevano avuto dentro due veleni diversi e lui, probabilmente, lo aveva ancora.

Soltanto la morte avrebbe potuto cancellarlo, ma nemmeno Lei lo aveva voluto, se lo era preso per qualche minuto per poi sputarlo di nuovo in mezzo alla vita e ai dolori.

Sputato sulla terra per essere un padre, lui che era sempre stato nell’ombra.

Nascosto nell’oscurità di tutti.

Harry sembrò notare immediatamente i turbamenti che avevano preso a vorticargli in mente e subito si avvicinò alla bambina, prendendo con sé anche suo figlio Al. «Siamo stati felici ma anche tristi, fa parte della vita. Fa tutto parte dell’essere persone» li strinse entrambi, come a volerli confortare, mentre lui era rimasto immobile ad osservare; e ad ascoltare. «Ma non conta ciò che siamo stati noi o ciò che ci è successo, conta che voi stiate bene, che siate felici e vi divertiate.»

«E soprattutto che studiate» si affrettò ad aggiungere, come se un incanto lo avesse riportato improvvisamente sulla banchina.

Il giovane Potter gli sorrise, vedendolo tornare in sé, tornare il solito Snape, gelido professore che aveva tormentato i suoi anni di scuola, anche se non lo era più da tempo, non da quando quegli occhi non erano più il ricordo di un passato.

«Papà» stavolta fu Al a parlare. «Io ho fame.»

 

In un giorno qualunque di pioggia, si erano baciati per la prima volta, e aveva pronunciato quelle stesse parole nella mattina di Spinner’s End.

«Io ho fame.»

«E cosa vuoi da me?»

«Nulla, ma ho fame.»

«Vai a comprarti qualcosa.»

Per tutta risposta si era alzato e lo aveva lasciato lì, da solo sulla poltrona, per andare in cucina a fare non sapeva bene cosa, ma, ricordando le sue disastrose avventure con le pozioni, si era alzato e lo aveva seguito, trovandolo a rovistare nel frigo.

«Cosa stai cercando?»

«Ti ho detto che ho fame.»

«Non ti ho concesso il permesso di frugare nel mio frigorifero.»

«Quando mai ho seguito le regole?» e lo aveva fissato con quel ghigno spavaldo e insolente che gli aveva visto tante volte sulle labbra e che, piano piano, aveva iniziato a farlo impazzire perché aveva desiderato solamente cancellarlo da quella bocca. Farlo suo e basta per poi farlo sparire.

Aveva afferrato uova e pancetta e tutto quello che c'era dentro, mentre lui era rimasto a fissarlo, allarmato e incuriosito.

«Sei sempre stato una sciagura con le pozioni, non ti lascerò usare la mia cucina» e gli aveva strappato dalle braccia tutto quello che aveva preso, suscitando nient’altro che l’ilarità del ragazzo.

«Quando avevo il libro del Principe Mezzosangue, non ero poi così male,» ma lui non aveva replicato a quell’affermazione, aveva iniziato a cucinare senza degnarlo di uno sguardo.

Poi, Harry, semplicemente, si era avvicinato, e nel silenzio avevano accostato anche le loro anime ben prima dei loro corpi. Uno di fianco all’altro tra i profumi.

Così, all’improvviso, gli aveva stretto il viso tra le mani e aveva avvicinato le labbra.

Il cucchiaio a terra mentre le bocche si parlavano in silenzi, e gli occhi si cercavano oltre le palpebre.

E alla fine si erano soltanto saziati l’uno dell’altro.

 

«Fra un po’ parte il treno, non possiamo allontanarci. Potete prendere qualcosa dal carrello dei dolci.»

«Ma io non voglio dolci!» aveva protestato Al, battendo i piedi come solo un bambino sapeva fare.

«Al, smettila!»

«Papà…» osservò la figlia tirargli un angolo della giacca, curioso piegò appena la testa, ma rimase in silenzio. «Anche io ho fame…» aggiunse, quasi titubante.

«Potete andarci a prendere qualcosa.»

«Al.»

«Rimaniamo qui con mamma.»

«Al!»

«Va bene.» Non credeva di averlo detto davvero, ma avrebbe fatto tutto pur di non sentirli più parlare come due mocciosi che volevano soltanto fare i capricci. Sarebbe andato persino con Harry pur di farli smettere.

Il giovane Potter lo aveva guardato, allibito lui stesso per quella concessione che stava facendo ai loro figli, ben sapendo – e lo sapeva persino lui – quanto fosse raro, ma ancora più stupefatto – ne era ben conscio – perché aveva accettato di andare insieme al mago più giovane. Camminargli vicino.

Non si parlavano davvero da tempo ormai, da quando era davvero finita tra di loro.

Si erano lasciati e basta.

In un giorno qualunque di pioggia avevano preso strade diverse, lontane, ed era di nuovo andato in frantumi.

Quando gli aveva detto che avrebbe sposato Ginny, era andato in mille piccoli pezzi, ma poi, ciò che li legava, era stato più forte di tutto il resto, e non era riusciti a stare lontano, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Menzogna dopo menzogna fino alla fine.

Aveva impiegato tempo e dolore a riaprire quel cuore che non aveva mai smesso di sanguinare e poi, semplicemente, si era ritrovato di nuovo il petto sporcato di rosso, densità scarlatta che colava in centinaia di gocce. Altro dolore.

Più lo guardava e più era consapevole che il buco che aveva nel petto non si sarebbe mai più richiuso. Che nessuno avrebbe mai potuto farlo. Nessuno.

«Ti vedo bene» eppure la sua voce continuava ad essere dolce miele sulle ferite, persino quelle che lui stesso gli aveva procurato.

«Me la cavo,» ma i suoi occhi proprio non era in grado di fissarli. «Come sempre.»

«Mi dispiace.»

«Di cosa?»

«Io…»

«Hai fatto semplicemente quello che dovevi fare. Non ti biasimo per questo.» No, non lo biasimava per aver scelto la propria famiglia, ma faceva tremendamente male. Ancora e sempre.

Lo guardava e c’erano nient’altro che i ricordi a tormentarlo, ricordi di felicità ormai passate, di sorrisi e notti insonni uno accanto all’altro.

Di notti e basta.

Camminavano uno di fianco all’altro e gli tornarono alla mente i tanti profumi che avevano condiviso, le giornate nascosti a difendersi dal mondo.

Quando la più piccola dei Weasley era rimasta incinta, gli era crollato il mondo sulle spalle: sapeva che avrebbe perso di nuovo tutto, che l’amore gli sarebbe stato strappato di nuovo di dosso come erba cattiva dai muri di una casa. E le sue pareti avevano vacillato sempre di più, poi erano semplicemente crollate.

Uno schianto a terra che aveva risuonato per miglia e miglia fino a perdersi nel vuoto. Nel nulla.

Fino a perdersi di nuovo egli stesso.

Si erano feriti a lungo, lasciati per poi riabbracciarsi più forti di prima. Stretti e poi allontanati. Abbandonati.

Distrutti e basta.

 

Quando tornarono, i loro figli erano lì, felici a rincorrere Tal, passando tra la folla che attendeva lungo la banchina.

Ginny la guardò appena, troppa la vergogna che provava per fissare i propri occhi ai suoi, a quella donna alla quale aveva strappato l’amore per più di una volta, e come poteva lui dolersi di ciò che gli era stato tolto, se lui aveva fatto altrettanto?

Aveva usurpato ciò che non era mai stato suo. Che mai lo sarebbe stato.

E ci si sentiva nient’altro che a pezzi e sporchi.

Uno schifo ogni volta che sentiva pronunciare il nome della donna o la vedeva, anche solo da lontano.

E in quel momento avrebbe voluto sprofondare; anche se era passato ormai del tempo e lui ed Harry si erano lasciati, voleva soltanto andarsene da lì, il più lontano possibile.

Scappare come un vile codardo anche se codardo non lo era mai stato.

In quel momento si scoprì impaziente, desiderava solo che il treno partisse al più presto: sapeva che sua figlia sarebbe stata al sicuro e l’avrebbe lasciata in buone mani, le sarebbe mancata, certo, tremendamente, ma voleva allontanarsi e basta.

Rinchiudersi nuovamente nella propria solitudine. Lontano da quel dolore che gli torceva ogni muscolo.

«Papà, cos’hai?» sua figlia gli si parò davanti, ancora ansimante per la corsa: aveva sempre avuto la straordinaria capacità di intuire ogni sua emozione, ogni più piccolo turbamento; poteva anche non capire fino in fondo ciò che provava, ma sapeva sempre che qualcosa in lui non andava.

«Niente, stai tranquilla.»

«Sei triste perché ti lascio da solo?»

«Certo, ormai ero abituato al mio piccolo folletto» e le scompigliò un poco i capelli, facendola ridere. «Ma so che starai bene e che sarai felice. Sono contento che inizi questa nuova avventura.»

«Papà, è sempre una scuola, dovrò studiare, non è un’avventura!» La bambina sembrava un po’ sconsolata e a vederla così gli si allargò spontaneo un sorriso.

«E tu che farai senza di me?»

«Finalmente potrò rilassarmi.»

«Papà!» urlò indignata, anche se non riuscì a nascondere un po’ di divertimento sul viso, poi si voltò verso il giovane mago che stava parlando con sua moglie: «Zio Harry, è vero che andrai a fare compagnia a papà?»

«Tuo padre non ha bisogno di compagnia e poi Harry ha altro da fare.»

«Ma papà…»

«Smettila.»

 

In un giorno qualunque di pioggia, si erano fatti compagni l’uno dell’altro, a guardare altrove nel silenzio di una casa in mezzo al nulla.

Non erano riusciti neppure a dirsi una parola in quella sera, sfiorandosi a malapena con gli sguardi.

Avevano provato ad andare oltre le bugie ed oltre le reciproche rotture.

Avevano provato a riempire i buchi che entrambi avevano nel petto, a curarsi dopo essersi feriti a lungo, a cancellare passati e dolori che li avevano resi così simili eppure così diversi.

Così legati.

Erano dovuti scappare lontano per provare a dare un senso a quei sentimenti che sentivano dentro di loro, per capirsi dopo quel primo timido bacio a Spinner's End.

E quanto era stato forte l’imbarazzo che avevano provato entrambi mentre i suoni della notte crescevano nella foresta e loro si facevano sempre più vicini.

Un passo e poi un altro e ancora uno per ritrovarsi infine uno di fronte all’altro a sorreggersi e a farsi forza, tutta quella che sarebbe servita per andare avanti, insieme, per percorrere una vita insieme, stretti uno nell’altro oltre pregiudizi e dolori.

Oltre tutto.

Non erano, però, riusciti ad andare oltre loro stessi.

Neppure il desiderio e l’amore erano serviti per tenerli legati.

Neppure tutti gli istanti che avevano rubato al mondo per essere un unico corpo, uno in compagnia dell’altro, uno tra le labbra dell’altro.

Non era servito niente.

Né baci rubati mentre i loro figli giocavano né sguardi al di là della folla che li separava.

Niente.

Niente notti o oscurità. Niente lenzuola.

Si erano guardati a lungo per poi non sfiorarsi nemmeno.

«Forse io e te siamo destinati ad un’altra vita» gli aveva detto un ultimo giorno qualunque di pioggia mentre lo teneva stretto a sé, nel letto che li aveva accolti per l’ultima volta. «Questa non è la nostra, finiamo sempre per allontanarci» e lì, in quella stanza, si erano allontanati per l’ultima definitiva volta.

Si erano alzati entrambi, rivestiti senza guardarsi né parlarsi, un silenzio che pesava come macigni mentre pian piano uscivano da lì, da loro, dall’anima, per lasciare nient’altro che un buco enorme nel petto, una fessura che sanguinava e che doleva.

Doleva tremendamente, ogni giorno senza mai affievolirsi.

In un giorno qualunque di pioggia erano diventati estranei e basta.

 

Il treno stava ormai per partire, mancavano che pochi minuti e i ragazzi erano già saliti.

Guardava quel piccolo viso oltre il vetro, orgoglioso e fiero della bambina che era e della donna che sarebbe diventata, e si sentì un poco triste nel vederla andare via, allontanarsi da lui dopo che le aveva riempito giornate intere per anni.

Le avrebbe scritto spesso, per sapere ogni cosa, per non perdersi dettagli importanti della vita di sua figlia. Per non perderla come aveva perso tante cose nella propria esistenza.

«Buona fortuna, Rainn» sussurrò appena, mentre il treno correva via sbuffando.

In un giorno qualunque di pioggia, quel volto che spariva all’orizzonte lo aveva cambiato per sempre.

Era un padre, ed era felice di quello, ma, guardando il giovane uomo alla propria destra, comprese che la ferita che aveva nel petto non si sarebbe mai del tutto rimarginata. 

Lui era lì, ma distante, più distante di qualsiasi galassia, oltre persino i confini dell’universo, e quello faceva male.

E nessun filo o incantesimo sarebbe stato utile.

Nulla.

Soltanto due cuori e due sorrisi.

Una metà, però, non sarebbe mai stata sua.

   
 
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