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Autore: scarletRose88    12/06/2018    0 recensioni
In un’Europa devastata dalla guerra e dalle conseguenze del cambiamento climatico, la popolazione conta poche centinaia di migliaia di individui. Molte regioni sono scomparse perché sommerse dagli oceani o perché sepolte dalla sabbia del deserto. Da circa centocinquant’anni si è costituito l’Impero di Urbia - ispirato all’antico impero romano - che ha ereditato quel che resta della civiltà. Proprio al di là dei suoi confini, un giovane si risveglia dopo un lungo coma senza nome e identità, assumendo per questo il nome “Nemo”. Ad accompagnarlo nella solitudine della sua condizione c’è soltanto una canzone, che risuona confusamente nella sua testa al grido di “vendetta e libertà”. Quelle parole rappresentano per lui l’unica traccia di sé e da cui intende partire per iniziare un viaggio alla scoperta del suo passato.
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PRIMA PARTE

LE TERRE ARIDE

Aveva camminato per ore prima di imbattersi nel primo cartello stradale. Il legno era spugnoso, consunto, e le lettere incise riportavano il nome di una città: Giano. Nel sentiero che conduceva alla strada maestra, scorse numerosi cippi miliari con iscrizioni e fregi erosi dal tempo. Contenevano per lo più formule sacre che benedivano il cammino dei viandanti. Finalmente, a circa tre miglia a valle, scorse un piccolo villaggio fortificato dove sperò di trovare riparo per qualche giorno. Era stordito, assetato e terribilmente affamato. Ovunque si voltasse non vedeva che pianure desertiche e sporadici arbusti, per lo più rinsecchiti. Non un corso d’acqua, ad eccezione della fonte nascosta nella grotta dove si era risvegliato. Continuava a chiedersi come ci fosse finito, ma non riusciva a ricordare niente. Era esasperante. Non sapeva neppure come avrebbe dovuto presentarsi alla gente dal momento che non ricordava il suo nome.
Alla Porta della cittadella non trovò nessuno di guardia, i bastioni erano aperti. Il silenzio era surreale. Attraversò la strada principale in compagnia di enormi boli di polvere che rotolavano sospinti dal vento. Le porte e le finestre cigolavano, il sordo tintinnio di un campanello echeggiava in lontananza. Era una città fantasma. Si recò nel municipio della città, deciso a scoprire qualcosa di più su quel posto. Anche gli uffici erano deserti, probabilmente il villaggio era stato soggetto a razzie poiché era assente qualsiasi oggetto di valore. Si avvicinò a un registro, forse di una deputazione, e prese a sfogliarlo. C’erano diverse lettere e dispacci, molti dei quali riportavano la data del centodecimo anno imperii. A quando risaliva? La maggior parte riferiva notizie relative a una carestia che avrebbe decimato la popolazione del villaggio.
Alle spalle del municipio si ergeva una piccola chiesa circondata da un peristilio. La brezza prese a soffiare più forte tra le colonne e chiuse gli occhi per ascoltare il suo alitare. Gli parve di sentire risuonare ancora quella musica, come se fosse orchestrata dal vento. Un calpestio di passi però lo riscosse e non poté proibire al cuore di accelerare i battiti. Tornare a sentire suoni umani lo aveva riportato alla realtà, una realtà di cui non ricordava nulla. L’istinto gli suggeriva di essere prudente e si accucciò dietro a una colonna mentre cercava di captare la direzione dell’intruso. Deglutì con il cuore in gola pensando che probabilmente l’intruso fosse lui. Si era imprudentemente introdotto in quel villaggio desolato e probabile covo di sciacalli, non aveva neppure un’arma con cui difendersi, d’altro canto non sapeva neppure se era in grado maneggiarne una.
I pensieri si affollavano farraginosi nella sua mente quando, improvvisamente, qualcosa saettò vicino alla testa. Ansimò, in preda al panico, mentre si voltava a controllare che cosa lo avesse appena sfiorato. L’asta di una freccia oscillava vicino al suo orecchio e le pupille si dilatarono sulla punta di metallo conficcata nella colonna di gesso. Lo stavano attaccando. Si mise carponi e strisciò lontano dalla traiettoria del nemico cercando di soffocare i gemiti. Un’altra freccia si piantò sulla colonna che lo precedeva e capì di essere in trappola, il suo aggressore non era solo. Cominciò a considerare l’idea di uscire allo scoperto con un urlo e di darsela a gambe approfittando dell’effetto sorpresa. La prospettiva più probabile era, però, che lo riducessero a un colabrodo. Sollevò le mani in segno di resa, non poteva fare altro. I nemici si fecero avanti nell’aranciato bagliore del tramonto.
«Chi diavolo sei?» disse uno in tono tutt’altro che amichevole.
Aprì cautamente gli occhi e li vide. Uno, due e tre, erano in tre. Erano tutti armati di arco e frecce, ma recavano anche dei coltelli sulla cintura e indossavano abiti sporchi di fango e sudore. Due erano giovani, uno sui vent’anni, l’altro doveva averne meno, il terzo invece era maturo e la chioma scura rivelava i primi segni della mezza età. Le espressioni erano parimenti minacciose.
«Verità o morte?» minacciò quello più giovane vibrando un coltello.
Scosse ripetutamente la testa mentre sentiva i battiti del cuore ruggire nel petto: “No, no, vi prego. Verità, verità” bofonchiò goffamente. Si sentiva incredibilmente ridicolo ma l’unico sentimento che riconosceva da quando si era svegliato era la paura. Nessun’altra emozione.
«Parla, maledizione!» intervenne il ragazzo più grande facendo un passo avanti. Quello maturo continuava a stare in silenzio, assistendo cupo.
«Sono un pellegrino, ho raggiunto questo villaggio per cercare ospitalità. Lo giuro».
A quelle parole i tre aggressori mostrarono un’espressione incerta, scambiandosi sguardi carichi di scetticismo. Per un lunghissimo minuto non parlarono e il cuore del forestiero fu quasi sul punto di esplodere. Non potendo sopportare oltre quella situazione soffocante decise di intervenire, ma l’uomo brizzolato lo interruppe.
«Da dove vieni?»
Una domanda semplice, diretta, cui seguiva una risposta spontanea, repentina. A meno che non si nascondeva un segreto. Ma come poteva spiegare a quei tre guerrieri che non ricordava niente di sé? Per quanto ne sapesse poteva essere un esiliato politico, un latitante, un debitore in fuga…
«Vigliacco! Sei un Vigilante, vero?» tornò ad accusarlo il ragazzo pungendolo sul torace con la punta del coltello. Le sue parole gli apparvero tanto incomprensibili quanto bizzarre. E la sua espressione interrogativa non doveva essere loro sfuggita dal momento che allentarono la pressione delle minacce rilassandosi leggermente.
«Se non sei un Vigilante e neppure un ribelle, allora chi sei?» riprese più pacato il ragazzo.
«Io… io non lo so. Ve lo giuro, mi sono svegliato ieri con un tremendo vuoto di memoria. Non ricordo nemmeno il mio nome» rivelò in fretta ed esausto.
Quelli ripresero a lanciarsi occhiate, sempre più disorientati. L’uomo brizzolato imbracciò l’arco e ripose la freccia nella faretra. Infine tese una mano senza abbandonare l’espressione arcigna: «Beh, allora dovrai venire con noi, Signor Nessuno» ironizzò.
 
 
La morsa intorno ai polsi lo riportò alla realtà scuotendosi sul pavimento in una raffica di spasmi. Prese ad ansimare, il sudore gli incollava i capelli sulla fronte e i gemiti asfissiavano le corde vocali. La claustrofobia lo strozzò come se gli avesse appena avvinghiato le mani intorno al collo e, ormai al limite della sopportazione, cacciò un urlo tanto acuto che attirò qualcuno nella stanza. Due uomini si fermarono a guardarlo reggendo una candela dalla fiammella danzante.
«Vi prego, lasciatemi andare! Lasciatemi andare!» ripeteva tra un gemito e l’altro.
«Sembra che la prigione sia un’esperienza sconvolgente per te, eh?» ribatté quello che si era avvicinato.
L’altro ridacchiò carico di sarcasmo: «Già, probabilmente si tratta di un’esperienza “pregressa”» e gli mollò un calcio sullo stinco. «Non è così?»
Il ragazzo sussultò di fronte a quell’inaspettata violenza e si rannicchiò contro la parete: «Perché mi tenete qui legato? Io non ho fatto niente» reagì debolmente.
«Questo lo vedremo» conclusero uscendo.
Il buio tornò ad avvolgerlo pesantemente e la testa, sgombra di remoti ricordi, si affollò di funesti pensieri. Dove si trovava e perché la gente era tanto aggressiva? Sembrava che la civiltà avesse lasciato il posto alla brutalità. Non sapeva che cosa pensare, ma le sue riflessioni furono interrotte dalla porta che si riapriva. La candela rivelò un volto per la prima volta familiare: era quello dell’uomo che lo aveva trascinato in prigione.
«Su, vieni con me, Signor Nessuno».
Fu letteralmente sguinzagliato fino a un robusto palo di legno, posto al centro di una piazzetta sabbiosa, cui vennero legate le mani rivolgendo all’esiguo gruppo di persone raccolte le spalle nude. Le gambe tremavano in maniera incontrollabile e la posa curva non gli permetteva di avere il pieno controllo dei suoi movimenti. Finalmente il suo aguzzino iniziò a parlare, rivolto ai compagni.
«Guardate queste spalle. Non un graffio, né una cicatrice, nessuna traccia di una battaglia».
La folla prese a mormorare animosamente e il cuore del ragazzo riprese a palpitare.
«Chi, nelle nostre terre, potrebbe sfoggiare un corpo tanto sano e pulito, più puro di quello di un neonato?»
La folla rispose prontamente: «Nessuno! Nessuno!» ripeteva incattivito.
«Chi, nel nostro mondo, potrebbe sentirsi tanto al sicuro da non aver mai dovuto combattere e guastare la purezza del proprio corpo?»
Alla seconda domanda retorica il pubblico parve compiere un sospiro prima di rispondere, e quando reagì fu più feroce che mai: «I Vigilanti! I Vigilanti!»
Non sapeva perché ma sentiva che quel melodrammatico siparietto si sarebbe presto concluso con una cruenta esecuzione per insaporire lo spettacolo.
«Dunque a chi potrebbe mai appartenere questo corpo incontaminato dai conflitti del nostro tempo se non a un nemico?»
Le voci del pubblico inferocito iniziarono a intonare la parola “morte” accompagnandosi con un pugno rivolto al cielo albeggiante. Decise di accettare il proprio destino, troppo stanco e avvilito per poter reagire. L’aguzzino tornò a parlare dopo aver azzittito il pubblico con un gesto risoluto: «Prima di punirlo è lecito permettergli di pronunciare le sue ultime parole» e si avvicinò al prigioniero afferrandogli brutalmente i capelli fradici che ricadevano sulle spalle. «Le tue ultime parole, Signor Nessuno?»
Lo guardò attraverso gli occhi gonfi per il pianto e cercò di muovere le mani, paralizzate dalla stretta delle corde che premevano sulla circolazione sanguigna. Infine disse soltanto una parola, l’unica che lo accompagnava dal suo risveglio insieme a una canzone, e che doveva appartenere a chissà quale oscuro passato: «…Vendetta».
Il pubblico dapprima rumoreggiante, lentamente si acquietò soffocando gemiti di incredulità. Lo stesso aguzzino lo fissò a occhi sgranati, rafforzando la stretta dei suoi capelli.
«Che cosa hai detto?»
«Vendetta… vendetta» ripeté dolorante ma improvvisamente lucido. Stranamente quella parola sembrava provocare sul suo nemico lo stesso effetto che avvertiva su di sé e tornò a ripeterla di nuovo, più deciso: «Vendetta. Vendetta!»
A quel punto la folla riprese a rumoreggiare unendosi a lui in quel suono, che profumava di proibito ma che concedeva una piacevole sensazione di frenesia a tutti coloro che la pronunciavano. Il clima era cambiato, e di nuovo la paura aveva lasciato il posto al coraggio. Non era più la vittima di quello spettacolo, invece si sentiva come l’eroe di una storia che non aveva mai conosciuto.
 
«Dunque, ragazzo, affermi di aver perso la memoria e di non ricordare neppure il tuo nome. Eppure pronunci una parola bandita da oltre un secolo e che da queste parti è tabù».
Dopo essere stato rilasciato, venne condotto in una casupola del borgo piuttosto malandata dove alloggiava il capo della comunità, Don August. Sembrava un villaggio molto povero ma, a differenza di quello esplorato a valle, era popolato da un centinaio di persone. Per una ragione che ancora non riusciva a spiegarsi, avevano deciso di liberarlo dalle catene ma ciononostante non si sentiva ancora al sicuro. D’altronde neanche lui sapeva se poteva rivelarsi effettivamente pericoloso per quelle persone. «Ho sentito quella parola in una canzone». Preferì non mentire, magari rivelare quel dettaglio lo avrebbe aiutato a scoprire qualcosa sul suo passato.
«Una canzone…?» di colpo le guance scarne e rugose persero colore. Era anziano e mutilato a un braccio, sull’occhio sinistro correva una corposa cicatrice. Di certo poteva sfoggiare gloriosi segni di una battaglia, come amavano dichiarare.
«Sì, io non so dove l’ho sentita per la prima volta ma, quando mi sono risvegliato in quella grotta, c’era questa melodia a cullarmi» spiegò.
Il vecchio si lasciò andare sulla sedia portandosi una mano ossuta sull’occhio sfregiato. «Erano anni che non ne sentivo parlare» riprese sommesso, sembrava in preda a una profonda emozione. Tornò a guardarlo negli occhi, scrutando nelle bizzarre iridi di diverso colore: «Non ho mai conosciuto un uomo come te, sano, incontaminato, ma che nasconde paradossalmente un passato da partigiano» insinuò.
«Partigiano?» non capì.
«Il Governo ha inviato spesso nelle nostre terre i suoi tirapiedi perché si infiltrassero tra la nostra gente e catturassero gli ostinati “traditori della patria”. Ma nessuno di loro ha mai osato pronunciare quella parola, neppure in punto di morte. Inoltre, se proprio posso dirlo, nessuno ha mai compiuto una missione segreta in maniera tanto maldestra» e ridacchiò alzando le spalle.
«Voi… voi pensavate che io fossi una spia?»
«Non c’era altra spiegazione, infondo anche il tuo modo di parlare è diverso. Insomma, guardaci: siamo malati, mutilati, poveri e brutali. Non abbiamo altro scopo se non quello di arrivare vivi alla sera e di portare un po’ da mangiare ai nostri figli. Non ci curiamo più del nostro aspetto o di quello della città, non c’è più alcun sentimento in noi, nessun piacere. Se da qualche parte qualcuno prega, da un’altra parte qualcun altro tenta il suicidio».
Il discorso di Don August cominciò a scuoterlo come sapeva fare soltanto quella parola e strinse forte i pugni lungo i fianchi.
«E quando arrivi tu, alto, robusto, sano e con una sfilza di denti dritti e bianchissimi, come non potremmo insospettirci?» ridacchiò di nuovo e il ragazzo inarcò le sopracciglia mentre si portava inconsciamente le dita ai denti.
«Voglio dire, sei strano. Se non sei un abitante delle Terre Aride, devi obbligatoriamente appartenere allo Stato. Forse ti sei allontanato di tua spontanea volontà oppure ti hanno cacciato, seppure questo non rientri nelle loro modalità» disse andando finalmente al punto.
Stato? Di che cosa stava parlando? Scosse la testa confuso.
«Non ricordi niente eh? Va bene, allora siediti. Ti racconterò tutto» disse indicandogli una sedia.
Le Terre Aride si estendevano intorno al secolare bacino del Mar Mediterraneo, territorio un tempo florido e che aveva ospitato centinaia di popoli. Si raccontava che proprio nel cuore del Mediterraneo, a causa della sua favorevole posizione geografica, era sorta una delle città più antiche del mondo: Roma. Contesa da diversi popoli, la Capitale del mondo - così era chiamata - si affermò con il suo potere fino ad assoggettare tutti i territori che la circondavano governandoli per quasi un millennio. Al presente, quell’Impero non esisteva più, sostituito da una successione di governi fino al compimento di un altro millennio, quando il mondo fu devastato da una epidemia e poi destabilizzato da una inondazione che ne cambiò definitivamente i confini. Molte città scomparvero, la popolazione mondiale si ridusse dell’80% e per circa cinquecento anni la Terra assomigliò a un pianeta disabitato in cui la natura tornò a dominare selvaggia. Agli anni che anticiparono la ripresa della civiltà fu attribuito il nome di “Secoli bui”, poiché non si registrarono né fonti né segni di cultura che fornissero una testimonianza di quel periodo. Quando le comunità umane sopravvissute ricostruirono nuovamente la civiltà, ci si riferì alla Grande Inondazione – e alla precedente pestilenza – come all’evento che aveva funto da spartiacque con l’epoca passata. Di lì a poco venne fondato il primo Stato organizzato della Nuova Europa che prese il nome di Urbia, proprio in onore degli antichi fasti di Roma. La Grande Inondazione aveva spostato il baricentro del potere politico nell’Europa nord-orientale, dove un tempo si estendeva l’antica nazione russa. Le gelide lande del polo nord, sciogliendo i propri ghiacciai, si trasformarono in campi fertili e i territori inesplorati si rivelarono preziosi scrigni di risorse energetiche, come il petrolio e il gas naturale. Il clima mite permise agli abitanti di stabilizzarsi definitivamente e molto presto si rese necessario sottomettersi a rigide regole di controllo per garantire la propria sopravvivenza.
Quando l’economia dello Stato raggiunse tassi di produzione che soverchiarono quelli di consumo, il Governo poté considerarsi fuori dalla crisi iniziale ma temeva che le sue sole risorse non bastassero ad assicurare un ulteriore sviluppo. Manifestò da allora una bramosia che si tramutò in imperialismo. Nell’arco di pochi decenni, Urbia assoggettò le terre del circondario, dove altre comunità avevano fondato dei piccoli stati, riducendole a province e divenendo di fatto un Impero. A nulla erano valsi gli sforzi per ricostruire una nuova vita e una propria identità. Ogni tentativo fu fagocitato dall’insaziabile Urbia, al cui potere nessuno riusciva a resistere, d’altronde era il paese più longevo dalla fine dei Secoli bui e per questo era forte e industrializzato; inoltre vantava un grande alleato nel Papa, vicario di Cristo in Terra ma, più di tutto, detentore di un potere universale, e che decideva le sorti dei traditori o, come loro preferivano definirli, degli eretici. La Chiesa ricostituì persino un Tribunale dell’Inquisizione che condannò a morte molti ribelli. Il nuovo motto divenne “Urbia o Morte”.
«Per questa ragione, ti abbiamo proposto “Verità o Morte”. È una sorta di beffa allo Stato, per noi» intervenne Jacob, lo stesso ragazzo che lo aveva puntato con un coltello quando lo aveva braccato nel villaggio fantasma.
Dopo aver ascoltato la storia Don August sull’Impero che un tempo aveva governato anche le Terre Aride, comprese che quella gente non aveva più niente. Per anni aveva versato tributi e fornito soldati, ma in cambio era stata spremuta dalle tasse e terrorizzata dall’Inquisizione. Malgrado fosse stata ricca di risorse e protetta da un governo fortemente militarizzato, aveva vissuto nella miseria. Le donne venivano arrestate senza comprovate accuse e gli uomini che le difendevano finivano sulla forca insieme a loro. Non restava che una sola soluzione: ribellarsi.
Jacob lo stava guidando in un giro d’ispezione ai confini della cittadella rifilando qua e là qualche informazione. Il villaggio si chiamava Ribera, e si diceva che fosse il residuo di una grandissima città ispanica. Intorno era stata ricostruita una cinta muraria sulla cui cima erano stati conficcati dei bastoni acuminati per impedire agli intrusi di scavalcare.
«Quanto tempo è che siete estromessi dall’Impero?» chiese mentre lo guardava accendere le torce sui bastioni della Porta.
«Saranno più di settant’anni ormai. Io non ero ancora nato al tempo della guerra, però ricordo che quando ero piccolo i miei genitori erano ancora in fuga dai Vigilanti che stavano cercando di sterminarci tutti. Hanno persino rilasciato armi batteriologiche e molti tra anziani e bambini sono morti in preda a orribili malattie» rispose fissando i lapilli che guizzavano dalla fiamma della torcia.
«È terribile» commentò.
«Già, però io sono sempre vissuto in questo modo. Non ho idea di come sarebbe la mia vita al di fuori delle Terre Aride, non ho alcun termine di paragone. Mi comprendi?» riprese voltandosi.
Inarcò un sopracciglio, anche per lui era lo stesso, se non peggio. Non aveva la minima idea di come fosse il mondo, si sentiva come un bambino che stava imparando a conoscere ciò che lo circondava, e quella canzone, quella canzone era la sua mamma, che lo cullava nel sonno…
«A proposito, non so neppure come chiamarti. È un po’ frustrante. Se non ricordi il tuo nome potrei dartene uno io, che ne dici?» disse portandosi una mano al mento.
Fu riscosso da quella proposta inattesa. Da una parte era sollevato di avere finalmente un’identità, dall’altra lo infastidiva l’idea che fosse un ragazzino qualunque a dargli un nome, neanche fosse un cane randagio.
«Che ne dici di Nemo? Significa “nessuno”, mi sembra proprio adatto a te. Qui il latino lo conoscono soltanto gli anziani, era la lingua della Chiesa e di queste terre più di duemila anni fa; si dice che sia tornata a fluire all’interno dell’Impero, tra le classi alte».
«Nemo, eh? Mi sembra davvero un nome stupido» soggiunse colpendo con la punta del piede un sasso.
«Hai un’idea migliore?»
«Direi di no» ribatté mordendosi un labbro, poi riportò l’attenzione sulle informazioni del compagno. «Come siete a conoscenza di ciò che accade nell’Impero? Avete qualche informatore?»
Il ragazzo fece spallucce: «A volte catturiamo qualche Vigilante imprudente, altre volte passa di qui qualche viandante coraggioso che ci porta doni e informazioni in cambio di ospitalità».
«Capisco. Il confine più vicino dell’Impero non è molto lontano da qui, vero?» si chiedeva se non fosse davvero un cittadino dello Stato, in quel caso non sarebbe stato facile tornare a “casa”.
«Le Terre Aride rappresentano quella che un tempo è stata la bellissima provincia d’Hispania, che includeva le tre penisole del Mediterraneo: l’iberica, l’italica e l’ellenica. Dove terminano le Terre Aride, a nord, iniziano le Terre Perdute, che appartengono invece a un’altra ex provincia imperiale, la Gallia, oltre la quale si ergono le mura di una delle più ricche province esistenti: Danubia» spiegò. «Dunque, per rispondere alla tua domanda, no, non direi che il confine sia proprio vicino essendo l’Estrema Frontiera imperiale a più di 1000 chilometri da qui. Inoltre, da queste parti non abbiamo mezzi di trasporto a parte i cavalli» e posò su di lui uno sguardo interrogativo.
«1000 chilometri, eh?» soggiunse con un sorriso di circostanza, sentiva che quella domanda aveva sortito nell’amico qualche perplessità. «Il nemico è piuttosto lontano» aggiunse per cambiare discorso.
«Il nemico può essere ovunque» concluse raggelandolo, allora girò i tacchi e si avviò al borgo.
Il giorno dopo raggiunse la comunità nella piazza centrale per la colazione. Lì ogni mattina era distribuito il rancio alle famiglie prima del secondo e ultimo che avveniva al tramonto. Inoltre si svolgevano piccoli traffici come il baratto o il commercio. Intorno erano dislocati i piccoli quartieri abitati che trovavano nel municipio al centro della piazza un punto di riferimento. Nessuno abitava nello stabile sgangherato e Don August preferiva alloggiare con la sua famiglia nel borgo. La vita trascorreva pacifica in quelle terre ma si respirava un’aria pesante e gli abitanti tiravano avanti trascinando sulle spalle un pesante fardello. Non c’era gioia nei loro occhi, nessun entusiasmo. Nemo si avvicinò alla gente in coda per la colazione, che era costituita da zuppa di mais e purea di patate, tutto rigorosamente insipido. Il sale era un lusso da quelle parti e quando si catturava un animale, la sua carne andava subito lavata e consumata. In ogni caso non sarebbe servito a nulla conservarla, si viveva alla giornata. Nemo non aveva memoria del suo passato ma stranamente ricordava molto bene il sapore del cibo salato. Ed era buono. L’appetito cancellò ogni inspiegabile nostalgia e divorò tutto. Non sapendo come darsi da fare, si avvicinò a un gruppo di manovali impegnati a ristrutturare la colonna portante di un edificio.
Gli uomini si stupirono della sua energia, erano sempre troppo deboli per i lavori pesanti ma lo straniero apparve instancabile ai loro occhi. In effetti Nemo non era mai stanco e, quando al tramonto i lavoratori si ritirarono nelle proprie case, restò per continuare fino all’alba. Il suo unico rimpianto era di non conoscere i trucchi del mestiere. Aveva appreso qualcosa durante la giornata ma aveva bisogno di qualche lezione sulle tecniche di costruzione. Era felice di poter dare una mano, infondo il suo unico desiderio era di avere un posto nel mondo, uno scopo.
Mentre stava rimettendo a posto gli attrezzi da lavoro, udì il vagito di un bambino provenire da una casupola in legno e senza finestre. Come ipnotizzato da quel pianto familiare e al contempo sconosciuto, si avvicinò e scorse una donna che cullava un neonato. Il cinguettio degli uccelli lo ravvisò del sopraggiungere del nuovo giorno. Aveva trascorso l’intera notte a lavorare ma non era stanco. Era solo curioso. Si avvicinò di più quando sentì la donna canticchiare una ninnananna e appoggiò la testa alla finestra sollevando del pulviscolo. Chiuse gli occhi, facendosi cullare insieme al bambino. Voleva essere stretto anche lui fra le sue braccia, voleva sentirsi protetto.
«Che cosa fai lì?»
Si riscosse bruscamente tanto da perdere l’equilibrio e, reggendosi alla finestra, fece crollare il telaio sgangherato.
«Oh, merda. Mi dispiace! Mi dispiace, mi dispiace!» ripeteva mortificato. Doveva essere diventato tutto rosso perché sentiva il calore pervaderlo dal collo in su. Inaspettatamente la donna sorrise, forse tacitamente divertita dalla sua goffaggine, e lo invitò a entrare.
«Puoi farlo anche dalla finestra ormai» disse scherzando sull’enorme varco che aveva provocato.
«Sono un vero idiota… lo rimetterò subito a posto, ho imparato a lavorare la pietra stanotte» la informò ma quelle parole suscitarono altra ilarità nella donna che iniziò persino a ridere.
«Hai imparato questa notte a lavorare la pietra? Allora sarà meglio chiamare Cador se non vuoi combinare altri pasticci» disse riferendosi al capomastro che il giorno prima aveva diretto i lavori.
«No, io l’ho distrutta e io la riparerò» insistette e corse a recuperare gli attrezzi.
La donna era rimasta a guardare Nemo mentre riparava la parete. Il bambino si era addormentato ma non si vide l’ombra di un marito.
«Mi piacerebbe offrirti qualcosa ma non ho niente» disse lei a denti serrati.
«Ma sono io che sto pagando un debito, tu non mi devi niente» la rassicurò asciugandosi la fronte con un braccio.
«Aspetta» si chinò per asciugargli il viso con uno straccio. Quel gesto lo costrinse a fermarsi da qualsiasi cosa stesse facendo e a osservare il viso lentigginoso della donna. Era giovane, molto magra ma graziosa con i suoi grandi occhi ambrati incorniciati dalle spettinate sopracciglia nere.
«I tuoi occhi… sono di colore diverso, lo sapevi?»
La sua voce lo destò dall’intorpidimento: «Cosa?» domandò stupidamente.
«Il tuo occhio destro è grigio-azzurro, come il cielo, e quello sinistro verde-oro, come la terra» riferì affascinata. «Sei cielo e terra…» aggiunse per poi interrompersi, solo allora si rese conto di non conoscere il suo nome.
«Ti ringrazio. Il… il mio nome è Nemo» si presentò incerto.
«Nemo? Che nome strano. Io invece sono Bea» disse con un sorriso. «Dunque, Nemo, sei tu lo straniero smemorato?»
Abbassò gli occhi imbarazzato. Bel modo di presentarsi agli estranei, eppure, da quel che sembrava, la sua storia era già sulla bocca di tutti. D’altronde quella era una piccola comunità. «Non ricordo nulla. Non so che cosa mi sia successo».
Lei lo studiò assottigliando gli occhi poi abbozzò l’ombra di un sorriso: «Ognuno di noi ha un passato, ma quel che conta è il presente. Carpe diem, quam minimum credula postero[1]».
«Cosa?»
Rise alzandosi in piedi: «È la frase di un famoso e antico scrittore, Orazio» spiegò sfilando un libro da una mensola impolverata. «Ecco, tieni» glielo porse stranamente eccitata.
Iniziò a sfogliarlo, era scritto in una lingua strana, lesse “Recueil de poèmes, édition française” sulla copertina: «È un libro di poesie».
«Esatto, di Catullo. Io lo adoro. Raccontano l’amore travagliato fra due amanti, ti piacerebbe leggermene qualcuna?» disse sorridendogli dolcemente.
«Ma non le hai già lette tutte?»
Distolse lo sguardo: «Io non so leggere, era mio padre a farlo per me. Conosceva il latino ed è stato lui a spiegarmi il significato di ogni singola poesia».
Si sentì sopraffatto dalla sua malinconia e si affrettò a sceglierne una per leggerla ad alta voce:
«Vivamus, mea Lesbia, atque amemus
Rumoresque senum severiorum
Omnes unius aestememus assis».
«Questa la adoro» e iniziò a recitarla insieme a lui.
«Soles occidere et redire possunt:
Nobis cum semel occidit brevis lux,
Nox est perpetua una dormienda.
Da mi basìa mille, deinde centum,
Dein mille altera, dein secunda centum
Deinde usque altera mille, deinde centum».
Sollevò il muso dal testo per guardarla. C’era una nuova luce nei suoi occhi. Ripensò alle parole di Don August, al fatto che non ci fosse più alcun sentimento nei suoi compagni, non era vero. Quella piccola scintilla d’emozione c’era, era fievole, ma sempre accesa ed era bastata una poesia per alimentarla. «Di che cosa parla?»
Bea sospirò portandosi una mano al petto, quasi fosse in affanno: «Il poeta esorta la donna che ama a ignorare i pregiudizi, le regole e le convenzioni della gente per abbandonarsi totalmente all’amore» e gli lanciò una strana occhiata, inarcando la bocca.
«Oh, dunque è una poesia sovversiva» commentò ma la ragazza trasalì strappandogli il libro dalle mani.
«Ma che vai blaterando! Voi uomini vedete la Rivoluzione dappertutto» e prese un altro libro riacquistando il buon umore. «Vai a pagina 27».
Nemo inarcò un sopracciglio.
«Conosco solo i numeri, sai, per praticità» si limitò a dire sollevando le spalle.
Nemo trovò la pagina dove si stagliava l’immagine di una succulenta torta con una farcitura di panna e fragole. Non sapeva spiegarselo, ma sapeva riconoscere gli ingredienti di quel dolce che ricordava fosse squisito. Dunque doveva averlo mangiato almeno una volta e sentì salire l’acquolina in bocca.
«Ogni volta che ho i crampi allo stomaco per la fame mi precipito a fissare quella golosa poltiglia di frutta e farina. Spesso ho sognato di prepararla con le mie mani, ma qui è impossibile» la voce si affievolì insieme all’entusiasmo.
Nemo posò il libro su un tavolo e aggiunse con determinazione: «Non preoccuparti, un giorno la prepareremo. Troverò gli ingredienti e ne mangeremo a volontà».
Il volto di Bea si illuminò e si portò le mani al petto come aveva fatto dopo la lettura della poesia. Il quel momento il bambino prese a piangere e si ridestarono entrambi.
«Sarà meglio che vada» disse Nemo per congedarsi e la ragazza gli prese una mano per ringraziarlo.
«Spero di rivederti stasera in piazza, di solito restiamo a suonare e a cantare sotto le stelle prima di andare a dormire» gli occhi tremavano colmi di speranza.
Nemo si sentì strano, come se accettando quell’invito avesse commesso un crimine: «Spero di farcela» si limitò a dire.
A lei bastò perché mostrò un ampio sorriso che arrotondò gli zigomi ossuti.
 

[1] “Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”. Orazio, Odi 1, 11, 8.
  
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