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Autore: Ksyl    13/06/2018    8 recensioni
3x22 - Los Angeles
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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"E si impara lentamente a riconoscere le pochissime cose in cui permane l'eterno che si può amare" - Rilke

1.

Dicono che non ci accorgiamo mai dell'arrivo di un bivio, quando la nostra vita verrà travolta, segnando il punto di demarcazione tra un "prima" e un "dopo". Siamo troppo intenti a vivere, trascinati da forze incontrollabili che ci portano esattamente dove dovevamo essere. Con tutto quello che ne consegue. Ed è per questo che non esitiamo, che non cerchiamo un riparo, che non ci salviamo, forse. Solo dopo ci chiediamo se avremmo potuto fare diversamente. E la risposta, di solito, è no.

Avrebbe dato colpa alle circostanze, tutte le volte che ci avrebbe ripensato, se mai fosse riuscito a smettere di ossessionarsi, di ripercorrere gli eventi, smettere di volerla.
Del resto, era andata proprio così. Erano lontani da New York, dalla solita routine e da una vita dentro la quale potevano muoversi con agio. Una vita che a lui cominciava ad andare stretta, ma che aveva l'indubbio vantaggio di garantire una solidità vantaggiosa, se pure ormai intorpidita.

Forse era dipeso dall'atmosfera vacanziera, nonostante fossero a Los Angeles per un motivo importante che niente aveva a che vedere con il lusso da cui erano circondati e che lui non aveva, in tutta onestà, mai pensato di usare come esca. O, magari, sì. C'erano parti di sé che tendevano a sfuggire al suo severo controllo.
O forse era dipeso dal vino, che avevano sorseggiato in un'atmosfera meno rigorosa del solito, dopo una cena amichevole, rilassata. Il vino era sempre un'ottima scusa per tutto, ma non questa volta. Era importante che non mentisse a se stesso, anche se le sue buone intenzioni si infrangevano contro un nodo irrisolto che non gli permetteva di vedere le cose con la chiarezza necessaria. C'erano sempre nuovi veli da sollevare, nuove realtà da affrontare e forzatamente accettare. Qualche volta il compito di portare luce nelle zone rimaste troppo a lungo nell'ombra era faticoso e svilente, perfino per lui, perfino bramandolo più di ogni altra cosa.

Mentre se ne stavano seduti sul divano – un po' troppo vicini, a dirla tutta, anche se si era ben guardato dal lamentarsene, o porre tra loro una distanza più decorosa - aveva provato l'insopprimibile istinto di dirle quelle parole che avevano cambiato sensibilmente le tonalità allegre della serata, trascinandoli verso quella china da cui era stato impossibile ritrarsi senza farsi del male. Perché se ne erano fatti, anche se il suo corpo non mostrava cicatrici. Ma il suo cuore sì. Il suo cuore era ferito, anche se cercava di dissimularlo. Era inutile nascondere una verità che premeva per emergere ed essere riconosciuta, almeno dentro di sé.

Aveva detto tutto quello che pensava, non una parola di più, ma, purtroppo, nemmeno una di meno. Su come lei fosse ancora, dopo tanto tempo, un mistero che non avrebbe mai risolto, che l'avrebbe intrigato per sempre, anche se questo aveva preferito tenerlo per sé. Su quanto intimamente fosse ammaliato dalla profondità della sua forza, del suo cuore, che lui riusciva a vedere nella sua grandezza. E, in ultimo, su quanto lei fosse straordinariamente bella. Che era quello che avrebbe voluto menzionare per primo, per quanto poco creativo suonasse, obnubilato com'era da qualcosa che non sapeva spiegare, ma gentiluomo abbastanza da non farlo trapelare.

Aveva lasciato che i suoi sentimenti – solo uno stupido non si sarebbe accorto che esistevano - palpitassero leggeri e speranzosi attraverso le parole e, a un certo punto, non era stato più possibile tornare indietro. Aveva atteso, attanagliato dalla nausea sentendosi sul punto di precipitare, convinto che sarebbe fuggita. Era rimasta, invece. E aveva sorriso, forse perché aveva creduto che fosse solo uno dei soliti scherzi, vista la sfumatura che aveva cercato di dare, in ultimo, a quel suo netto sbilanciarsi, così insolito tra loro. Non perché non volesse, ma perché non se lo permetteva mai. E non lo avrebbe fatto nemmeno adesso, se avesse potuto fermarsi.
O magari si era sentita in imbarazzo per lui, per essersi esposto in quel modo, senza rete di protezione, come se pensasse davvero che fosse possibile cambiare le cose o non sapesse che affrettarle, venendo meno a quel voto di pazienza olimpica che si era imposto, non sarebbe servito a niente, se non a condurli al disastro.

Aveva sorriso anche lui. O aveva creduto di farlo, abbozzando solo una piccola smorfia, trattenuto dalla progressiva paralisi che gli aveva concesso a stento di respirare, stretto tra le maglie di una gabbia che non sapeva se avesse lui stesso contribuito a creare o ne fosse stato vittima innocente.
Il tempo si era fermato, insieme al battito del suo cuore. I sorrisi erano scomparsi, il silenzio si era fatto denso, intriso di quella stessa sostanza che aveva sempre avvertito tra loro e a cui non sapeva ancora dare un nome, ma che era sicuro non fosse ignota nemmeno a lei. Non per come lo stava guardando.

Non fu il coraggio, infine, a spingerlo verso di lei, ma piuttosto la sua mancanza. Perché se lo avesse avuto si sarebbe alzato, le avrebbe augurato la buonanotte, e si sarebbe chiuso la porta della camera alle spalle. A chiave. Sigillata, per barricarcisi dentro. C'erano moltissime ottime ragione per farlo e nessuna, o quasi, per rimanere seduto su quel divano, incollato, impossibilitato a fare altri movimenti che non fossero lasciarsi andare, muoversi verso di lei, farsi manovrare da quella parte di sé che era stato convinto di poter controllare in eterno.

Era così sbagliato quello che stava facendo, trascinato da un impeto a cui non riusciva a opporre resistenza, che era sicuro che sarebbe intervenuta una forza superiore a fermarlo. Invece non accadde. E tutto ciò che era sembrato contrario a ogni logica, al buonsenso, e a un futuro luminoso – che era in ogni caso e in ogni circostanza, quello che gli stava più a cuore – all'improvviso si trasformò in qualcosa di fragile e delicato, quando le sue labbra si appoggiarono esitanti su quelle di lei.

Era stato certo che lei si sarebbe ritratta. Che avrebbe reagito con ribrezzo, spingendolo lontano, facendogli una scenata epocale, per ribadire con fermezza quali erano le regole non scritte e mai chiarite che avevano accettato di comune, muto accordo e che lui aveva infranto. Perché a lui non stavano bene, ma stava peccando di egoismo. E avrebbe rimpianto di aver agito con leggerezza, sprecando la sua unica occasione, se così si poteva chiamare, e non era certo di potersi dare almeno quel conforto.
Non successe quello che aveva temuto, quello che sarebbe servito a riportarli, con un po' di fortuna, al punto in cui erano prima, quello che avrebbe mantenuto il loro rapporto nelle stabili coordinate di un'amicizia che esisteva, che era preziosa, ma che non esauriva quello che provavano.

Il cuore gli batteva così furiosamente che temette di non accorgersi di un qualsiasi passo indietro da parte sua. Sarebbe bastato un sospiro e lui si sarebbe allontanato, si sarebbe scusato – anche se non c'erano scuse per chiarire l'inspiegabile. O l'ovvio, se così la si voleva mettere.
Era così teso e preoccupato – lo stomaco era contratto e si sentiva uno strano formicolio nelle dita – che non stava facendo onore al miracolo che stava accadendo. Fu il suo ultimo pensiero cosciente, una sorta di permesso interiore di regalarsi quello che poteva, quello che gli sarebbe stato concesso e relegare a un prossimo e nebuloso momento il rimpianto, il senso di colpa, e probabilmente, la dolorosa assenza di quello che, una volta provato, gli sarebbe per sempre mancato. La sentì sospirare, in effetti – lo percepì sulle labbra e gli bastò per congelarsi.

Doveva fermarsi. Anche se non c'erano stati segnali espliciti da parte sua, anche se avrebbe preferito tagliarsi una mano piuttosto che separarsi da lei, dal suo calore, la sua dolcezza e quella sensazione di aver travalicato i propri confini ed essersi trasformato in altro da sé. Ma era necessario, per il bene di tutti, il bene più grande. E forse il proprio, di bene, sarebbe arrivato per ultimo.
Si staccò da lei, anche se dovette costringersi a farlo. Chiuse gli occhi, per non vedere quello che stava perdendo e per mantenere traccia di ciò che aveva vissuto. Ma era giusto così. Avrebbe disperatamente preferito convincersi del contrario, ma non poteva permetterselo. Da qualche parte, era ancora un gentiluomo.

Respirò profondamente, liberando il diaframma dalla morsa in cui era stretto, accorgendosi di aver lasciato la mano ad accarezzarle la guancia. Solo ancora qualche secondo e si sarebbe alzato. Ad attenderlo una lunghissima notte di tormenti, ma era pronto a sopportare tutto ciò che sarebbe arrivato. Non aveva nessun rimpianto. Niente lo avrebbe convinto che non ne era valsa la pena, nemmeno se lei avesse deciso di allontanarlo. Ma sapeva con certezza che il tormento più grande sarebbe stato quello di starle accanto e non potersi avvicinare, tornare nei ranghi, stare in disparte, vederla con un altro. Lo avrebbe fatto, naturalmente. Non sapeva ancora a che prezzo.

Kate non lo trattenne, accettò la sua decisione, chiudendosi in un silenzio impenetrabile, in cui era difficile capire che cosa provasse, che cosa pensasse di quello che era avvenuto. Aveva paura di cercare i suoi occhi, per timore di leggere una condanna a morte definitiva. Lo fece, naturalmente, perché non voleva dirsi di essere stato vigliacco, di non aver voluto sapere la verità, incontrò il suo sguardo. Il gesto parve risvegliarla dal torpore attonito nel quale era sprofondata e la fece indietreggiare impercettibilmente e fu proprio quello, insieme allo smarrimento e la confusione che emanavano da lei in rapide ondate che arrivavano a sopraffarlo, a fargli capire di averla persa.

"Io...". Si schiarì la voce, continuando a tenere gli occhi incollati a suoi, sbilanciandolo ancora più all'indietro, verso l'oscurità dolorosa che iniziava già a lambirlo. Li abbassò di scatto. "Credo sia ora di andare a dormire. Buonanotte, Castle".
Parlò in modo rapido e sommesso e, nel giro di pochissimo, non era più accanto a lui, ma fuggita verso la sua stanza, lanciandogli solo una fugace occhiata dalla soglia, aggrappata alla porta che presto si chiuse alle spalle, lasciandolo disperatamente solo. E piuttosto sconvolto, al punto da non sapere come reagire, impossibilitato a dare un qualsiasi comando di azione al suo corpo rattrappito. Era ancora scombussolato per le sensazioni fisiche provate, per la piega sorprendente degli eventi, e per la brusca conclusione che lo lasciava senza forze e, in fondo al cuore, senza speranza. Era tutto quello che aveva? Quello che gli sarebbe rimasto? Aveva buttato via tutto?

Doveva alzarsi. Doveva almeno abbandonare il campo, cercare anche lui un rifugio, contare le ferite, ma per prima cosa era necessario calmarsi. Sapeva già che non sarebbe stato semplice raccapezzarsi, ma non poteva farlo rimanendo in quello spazio vulnerabile. Si alzò, frastornato, pronto a tornare nella propria camera, quando un rumore proveniente da quella di lei lo fermò.
Non sapeva quanto fosse ancora in grado di reggere a quel punto e di certo non poteva affrontare una scenata, o qualcosa che ci assomigliasse.

Kate comparve nel suo spazio visivo, più scossa di prima e altrettanto silenziosa. Gli mancò il fiato nel leggere nel suo linguaggio corporeo quelle che, si convinse subito, erano solo proiezioni dei propri desideri inespressi. Rimase in piedi, senza muoversi, ma sapendo di non poterlo fare ancora a lungo, come infatti accadde.
Andò a prendersela, perché anche il gentiluomo che si pregiava di essere, in una qualche misura, aveva deciso di arrendersi. Lei gli venne incontro e si lasciò andare tra le sue braccia, che lui aveva alzato istintivamente. Fu lei a cercare le sue labbra e lui poté soltanto rispondere con altrettanta forza. Smise finalmente di pensare a quello che era giusto, si lasciò andare e si fece travolgere. Non aveva idea di quello che sarebbe successo, ma a quel punto era ormai al di là del punto in cui poteva ancora fare qualcosa per rimediare.

Diede retta e assecondò quello che provava e che lei condivideva con pari passione.
La baciò a lungo, in piedi davanti alla porta della sua stanza, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. Non era così, ma la sensazione era quella di poter rubare per loro almeno quella notte.

Nessuno dei due prese lucidamente la decisione di andare oltre, varcare un limite che era stato certo che sarebbe rimasto immutabile nei secoli – tempo che lui avrebbe in ogni caso pazientemente aspettato. Nessuno lo espresse ad alta voce. Fu del tutto naturale essere preso per mano e seguirla docilmente, scosso nel profondo da una tempesta che avrebbe rimesso in discussione la realtà per come la conosceva. Non si accorse di tremare dentro, avendo perso qualsiasi consapevolezza del proprio corpo che le andava dietro attratto da lei come un magnete. Oscuramente sapeva di dover essere lui a prendersi carico di tutto, a guidare, a sostenere, a creare uno spazio in cui nessuno dei due potesse cadere – così lo aveva sempre immaginato – ma riusciva solo a orientarsi istintivamente verso di lei, senza un briciolo di forza di volontà.

Se si trattava di un sogno, avrebbe voluto non svegliarsi mai, avrebbe firmato senza esitare la deportazione in un universo privato abitato solo da loro due, in cui ripetere e rivivere all'infinito l'esperienza straniante e totalizzante di aver ricevuto all'improvviso e senza nessun avvertimento, quello che aveva sempre desiderato.
Si sentì quasi sopraffatto da quello che provava, quando l'ebbe davanti sicura e determinata, con uno sguardo acceso negli occhi incupiti di cui faticò a credersi il destinatario. Gli sembrò tutto così straordinariamente bello e familiare che si chiese come fosse possibile che qualcuno – lui stesso – avesse potuto considerarlo impossibile o sbagliato. Che cosa c'era di sbagliato nel sentire per la prima volta il contatto della loro pelle, appoggiare le labbra su quel corpo che aveva creduto inavvicinabile e che ora era improvvisamente alla distanza minima mai intercorsa tra loro, baciarle la base del collo dove pulsava una piccola vena, lanciare lontano gli indumenti che ancora li dividevano e affondare tra i suoi capelli? Soprattutto, sentirla vicina, sentirla compagna, mentre si immergeva in qualcosa di irresistibile e ignoto?

Dentro di sé, ben nascosta nell'oblio della coscienza, aveva sempre saputo la risposta.

.

Bonjour e bentrovate :-).

Ordunque, sono stata indecisa se finire la storia o pubblicarla man mano, perché nel secondo caso c'è sempre il rischio di improvvisi chiari di luna e pause imprevedibili, ma alla fine amo la condivisione e quindi ho deciso di scriverla in contemporanea, con tutto quello che comporta per me, e cioè l'AnZia, in sintesi :D

So perfettamente che per qualcuno far aprire "quella porta" a Beckett è un tabù non facile da vincere, e non lo è stato nemmeno per me fino a questo punto, perché ho sempre voluto che abbassasse quell'infame maniglia per tempo, ma da lì si sarebbero generate conseguenze impegnative, a mio avviso. Quindi, capisco se non vi piace la premessa. E del resto non è una storia placida, come anticipato e voglio proprio immergermi in emozioni più aspre (nel mio personale concetto di asprezza).

Grazie a chi vorrà seguire la storia, perché, alla fine, sono passati due anni e siamo ancora qui, chi mi farà compagnia, chi mi regalerà minuscoli e preziosi pezzetti del proprio tempo. Come sempre sono grata per ogni tipo di scambio, che non do mai per scontato. Silvia

   
 
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