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Autore: Hotaru_Key22    14/06/2018    2 recensioni
Era il 5 giugno 1940, i tedeschi avevano bombardato la linea della Somme, l’Aisne, Abbeville e la Linea Maginot e avevano dato inizio ad una battaglia che avrebbe portato, solo venti giorni più tardi, all’armistizio tra Francia e Germania e alla conquista della prima per mano della seconda.
Mi chiamo Ignace Lacroix, sono stato un soldato francese e il cinque giugno mi trovavo proprio sulle rive del fiume Somme, nei pressi di Abbeville.
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Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sopravvivono quelli che sanno di cosa scrivere

Era il 5 giugno 1940, i tedeschi avevano bombardato la linea della Somme, l’Aisne, Abbeville e la Linea Maginot e avevano dato inizio ad una battaglia che avrebbe portato, solo venti giorni più tardi, all’armistizio tra Francia e Germania e alla conquista della prima per mano della seconda.  
Mi chiamo Ignace Lacroix, sono stato un soldato francese e il cinque giugno mi trovavo proprio sulle rive del fiume Somme, nei pressi di Abbeville.
Avevo di fianco a me un 2,5 cm FlaK Hotchkiss 38, un’arma contraerei, un cannone, ed ero pronto ad usarlo non appena avessi visto un aereo della Lutwaffe sferzare il bel cielo limpido della mia Francia. Sapevo tutto del mio cannone ed ancora oggi mi ricordo tutto a memoria: 850 kg di peso in batteria, un’elevazione di -5°/+80°, un angolo di tiro di 360°, cadenza duecentocinquanta colpi al minuto, tiro utile mille metri. All’epoca ero solo un ragazzo, sin da bambino ero cresciuto a pane e nazionalismo e il mio cannone era l’unico compagno che non avrei visto morire davanti ai miei occhi. Il mio cannone non aveva un nome, non perdeva sangue, non aveva un cuore che cessava di battere e non aveva labbra che mi supplicassero di salvarlo. Il mio cannone non era come Louis, che ammiccava dalla sua postazione con quel suo sorriso perennemente stampato sul viso.
Dovrei parlarvi di Louis. Aveva solo un paio d’anni in più di me, i baffetti appena pronunciati sotto il naso a punta, i capelli cortissimi e neri ed occhi color pece. Se l’aveste visto per le strade di Parigi, l’avreste definito il francese per eccellenza. Ma in quel momento era solo un soldato come tutti gli altri, con l’uniforme sporca di cenere e terra.
Lui era importante per me. Forse perché avevamo lo stesso ruolo, o perché entrambi avevamo avuto un padre che ci aveva passato la devozione per il nostro paese a suon di frustate ed entrambi avevamo ascoltato le lacrime e le ninna nanne intrise di sogni di una madre che avrebbe potuto fare una vita diversa, ma non l’aveva fatta, o ancora il motivo poteva essere solo il banale essersi ritrovati a raccontarsi ricordi, storie ed emozioni una sera fresca di primavera.
Louis era innamorato di una tedesca che aveva conosciuto qualche anno prima che avesse inizio la guerra e i due si erano mandati lettere finché avevano potuto. Io invece avrei dovuto sposare una francese, però lei era ebrea ed era dovuta fuggire in America. Era incantevole e io le dedicavo componimenti poetici. Louis diceva sempre che ero malato e che dovevo smetterla di fare tanto il filosofo. Io però a scuola ci ero andato e avevo letto tanti libri e allora sapevo che i filosofi, a meno che non fossero anche poeti, non scrivevano sonetti.
Mentre le acque del fiume scorrevano davanti ai miei occhi, pensai che eravamo proprio messi male. I tedeschi avevano aggirato facilmente la Linea Maginot, una serie di fortificazioni che proteggevano i confini della Francia, per arrivare in Belgio e nei Paesi Bassi e sarebbero arrivati presto anche lì, sulle rive della Somme.
«Louis!» chiamai allora, per sentire che avevo ancora una voce che mi consentisse di parlare. Lo vidi voltarsi e scendere dalla sua postazione con sicurezza, come faceva sempre lui. Era uno tutto d’un pezzo che si sentiva già uomo più di quanto realmente fosse.
Quando si avvicinò, io non ricordavo più per che cosa lo avevo chiamato. Sapevamo in ogni momento di poter morire, però io in quel momento sentivo il fiato gelido e tagliente della morte proprio sul mio collo. E anche su quello di Louis. Ogni tanto avevo pensato di esserne innamorato, ma lui era un soldato molto più di me e avrebbe detto ancora una volta che ero malato. Io ero un ragazzo introverso, uno che piange spesso anche quando non ce n’è motivo. Io ho gli occhi grigi e ovviamente li avevo anche allora, ma da ragazzo mi sembravano effimeri e vuoti, non come quelli forti e consistenti di Louis. Io non ero un soldato. E non ero un filosofo. Io non sapevo quel che ero, ma sapevo che mi sarebbe piaciuto essere un poeta. E mi sarebbe piaciuto avere una musa come Louis, non come una ragazza di Tours a cui sapevo attribuire solo l’aggettivo “incantevole”.
«Allora?» chiese Louis, stiracchiandosi e mettendo in mostra il suo torace scolpito, ben visibile anche da sotto l’uniforme.
«Anche tu senti di star per morire» dissi io, in quella che venne fuori più come un’affermazione che come una domanda. Lui rimase immobile, potevo vedere benissimo le sue pupille vibrare all’interno della cornea e solo allora mi accorsi di quanto esse si distinguessero dall’iride, anch’essa nera.
«Credo che sia normale» continuai, deglutendo a vuoto un paio di volte ed inarcando le labbra in quello che voleva essere un sorriso di rassegnata malinconia, ma che dall’esterno dovrà essere sembrata solo una sbiadita smorfia di autocommiserazione «Avrei voluto avere più tempo per scrivere di te e della guerra, più tempo per capire se ti amo o meno e tempo per amarti davvero, ma davvero, tanto…»
«Smettila» mi interruppe in un tono severo che non gli avevo mai sentito. Era bello, però. Bello sul serio.
 «Avrai tempo di scrivere della guerra…e di me. I filosofi sopravvivono sempre alle catastrofi per poterle raccontare» aggiunse poi, accennando ad un sorriso.
Io sospirai, quando in lontananza avvertimmo il rombo di un motore. Il rumore deciso e maligno di un bombardiere.
Louis mi regalò ancora uno sguardo, prima di iniziare a correre verso la sua postazione.
«Louis!» lo chiamai ancora io, consapevole di avere una voce «Sono un poeta! Non un filosofo! Un poeta!»
Lo vidi ridere quella che, sapevo in cuor mio, sarebbe stata la sua ultima risata, poi gridò «Tutti quelli che sanno come si tiene una penna in mano sopravvivono! E sopravvivono quelli che sanno di cosa scrivere!»
Anche io mi misi nella mia postazione. Ero più sereno. Anche Louis sarebbe sopravvissuto. Lui non era andato a scuola e non scriveva, ma io avrei scritto di lui. Io avrei scritto per lui.
Erano molti bombardieri, alcuni viravano dritti verso Abbeville e a noi toccava lasciarli andare e sperare che gli altri più vicini al paese se ne occupassero come di dovere. Devi fidarti molto dei tuoi compagni quando combatti una guerra. Io ad esempio mi fidavo di quelli che, sull’altra sponda del fiume, tenevano testa ai panzer e agli altri mezzi di terra e sapevo che potevo concentrarmi solo sui bombardieri sopra la mia testa e a quelli sopra la testa di Louis e di altri come noi.
Però c’era un unico compagno di cui mi potevo fidare al cento per cento in quel momento. Il mio cannone. Al tocco delle mie mani, lui sparava. Era una postazione solida, che mi dava in qualche modo sicurezza. Mi chiesi se anche i piloti della Lutwaffe si sentissero sicuri all’interno dei loro bombardieri. Mi chiesi se il bombardiere a cui stavo mirando avesse all’interno un soldato con un nome. Mi chiesi se quel soldato avesse anche lui un Louis e una ragazza che definiva “incantevole”.
È una cosa che in guerra non si dovrebbe mai fare. Non si dovrebbe mai pensare a chi sta dentro al bombardiere, ma solo al bombardiere. Non si dovrebbe mai pensare a chi sta dietro al cannone, ma solo al cannone.
Mi accorsi troppo tardi di essermi bloccato. Mi accorsi troppo tardi di aver tradito la fiducia che Louis aveva riposto in me quando, convinto che io sparassi al velivolo sopra la sua testa, si era voltato ad occuparsi di un altro più in là.
Credo che a volte tendiamo a darci troppe colpe. Credo che a volte preferiamo attribuire le nostre colpe a qualcun altro o a qualcos’altro. Io adesso non so ancora se la morte di Louis sia dipesa dalla mia troppa umanità o da quella stupida guerra. So solo che in quel preciso istante non diedi la colpa al bombardiere, ma allo stesso pilota che vi era dentro e a tutti gli altri suoi compagni.
Oggi posso dire che in quel momento io divenni il cannone. Non avevo occhi per piangere, non avevo cuore che battesse per nessuno, non avevo labbra che implorassero salvezza dal rancore, non avevo un nome chiamato da persona alcuna e non avevo una penna in mano o qualcosa da scrivere. Sparavo e basta. Caricavo il cannone e sparavo. Mentre il mondo intorno a me crollava, mentre i miei compagni morivano sotto il fuoco nemico, mentre colonne di fumo e di morte si levavano da Abbeville, io rimanevo imperturbabile e sparavo. Mi ero ridotto ad essere solo un cannone caricato con proiettili di rabbia e, chissà, forse anche dolore.
Mi fermai solo quando mi resi conto di non avere più rabbia né munizioni.
«Ignace…» mi chiamò qualcuno poco distante. Era Mathieu, un ragazzo ancor più giovane di me, che strisciava nel fango. Gli era saltata una mano e il volto era ustionato. Mi venne da vomitare. E fu l’unica cosa che mi fece capire di essere ancora un essere umano, nonostante tutto. Chissà quanti tedeschi avevo ridotto allo stato di Mathieu.
Mi avvicinai a lui e lo strinsi forte in un abbraccio. Non so perché lo feci. Forse perché Mathieu in quel momento rappresentava tutta la mia umanità ferita e morente. Che poeta è uno che ammazza la gente?
«Ti porto ad Abbeville…» sussurrai, sollevandolo di peso, mentre lui si lamentava e piangeva.
«Il tuo cannone…» mi disse, indicando con la mano integra la mia postazione «…è ancora funzionante…dall’atro lato del fiume…stanno ancora sparando…»
Osservai il mio cannone e gli sorrisi, salutandolo come avrei voluto fare con Louis.
«Guardati intorno, Mathieu…» gli ordinai, sospirando.
E lui lo fece. E vide tutto quello che vedevo io. Sull’altra sponda della Somme gli ultimi soldati rimasti tentavano invano di fuggire da quella che sembrava un’esecuzione in piena regola, i bombardieri della Lutwaffe continuavano a sganciare bombe su Abbeville, che ne usciva come un cumulo di macerie e fiamme. La morte si percepiva ovunque.
«L’Inghilterra, però…» disse ancora lui, mentre gli occhi gli si riempivano nuovamente di lacrime «L’Inghilterra vincerà la guerra!»
Io annuii, anche se non avevo alcuna certezza, poi iniziai a camminare verso Bellancourt, perché sapevo che ad Abbeville non avremmo trovato nessuno ad aiutarci.
Forse l’Inghilterra avrebbe vinto, come diceva Mathieu, o forse no. Non sapevo cosa sarebbe successo di lì in avanti e non avevo idea di chi avrebbe vinto la guerra. Sapevo solo che quella battaglia la Francia l’aveva decisamente persa e che la Germania mi faceva paura.
Qualche tempo dopo tornai sulle rive della Somme a lasciare un fiore per Louis e per gli altri compagni che erano morti. Mathieu mi stava vicino, perché anche lui, come me, non era un soldato e sapeva che sarei potuto crollare da un momento all’altro.
Sembra assurdo, ma tra tutti quei pezzi di ferro lasciati per terra riconobbi il mio cannone. E piansi per lui.
Mi resi conto che avrei avuto bisogno di vedere Louis morire, anche se era la cosa che mi avrebbe fatto più male al mondo. Però avrei potuto dirgli che mi dispiaceva e che gli auguravo di fare un buon viaggio. Probabilmente avrei pregato per lui, mentre non potevo di certo pregare per un cannone.
Mathieu mi strinse per le spalle. Dopo la fine della guerra lui aveva gridato che l’aveva detto che l’Inghilterra “avrebbe spaccato i culi a quei fottuti bastardi dei tedeschi”. Non mi piace scrivere parole così cattive, ma se voi aveste sentito il tono con cui Mathieu le aveva pronunciate, sapreste di certo che non c’è modo migliore di riportarle e che lui non era arrabbiato in quel momento. Lui era solo felice.
Dopo la fine della guerra io piansi. Mi chiedevo cosa di preciso stavamo festeggiando.
L’esercito francese, tenendo conto anche degli alleati, aveva perso oltre due milioni di uomini in quella che venne poi denominata campagna di Francia. E allora? Cosa si festeggiava di preciso? La vittoria? Quale vittoria?
All’epoca ero ancora un ragazzo e non potevo capire che la fine della guerra si festeggiava proprio perché altri non sarebbero più dovuti morire. All’epoca ero distrutto e volevo solo piangere. E volevo credere che fosse stato Louis a salvare Mathieu e a mandarmelo. Probabilmente voleva che non mi sentissi solo.
Io ero stato un po’ meno romantico, forse per la prima volta da quando io e Louis avevamo iniziato a parlare quella fresca sera di primavera, e gli avevo lasciato i resti del mio cannone ed un fiore.
Il mio cannone sarebbe rimasto per sempre sulle rive della Somme. E anche Louis.
Oggi sto scrivendo della guerra, ma sto anche scrivendo di lui. Oggi ho una penna in mano e so su cosa scrivere. E sto insegnando anche a Mathieu come si scrive. Perché oggi io sopravvivo e voglio che sopravviva anche lui.
 
 
Addio Louis.
   
 
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