Anime & Manga > Yuri on Ice
Ricorda la storia  |      
Autore: Kendra26    16/06/2018    7 recensioni
Otabek aggrottò, leggermente, lo sguardo. “Non stai bene?”
“Sto bene! Ho solo uno cazzo di raffr-“ la frase venne interrotta dall’ennesimo colpo di tosse.
“Okay, ti sei preso un malanno,” asserì l’altro, scrutandolo. “Andiamo a casa?”
Yuri sollevò, di scatto, la testa verso la sua direzione, pentendosene un secondo dopo, per via della sensazione vorticosa che quel movimento gli aveva provocato. “Ma tu non devi allenarti?”
-------------------------------------------------------------------------------------
WARNING: [Hurt/Comfort senza pietà] - [Hurt!Yuri/Caring!Otabek] - [Presenza di procedura medica imbarazzante]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Otabek Altin, Yakov Feltsman, Yuri Plisetsky
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Questa storia è stata scritta per la 26 prompt challenge della pagina Facebook Hurt/Comfort Italia. Il prompt è “Cura”. Un grazie a Snehvide per aver creato questo magnifico gruppo!
 
Cure Bullet
 
Respirare. Respirare, respira, di nuovo. Il respiro è il suo filo diretto con la concentrazione. Respirare e contare, contare il tempo e respirare. Lo stava facendo bene? In quel momento, no. Mancava un respiro e mancava una battuta, perdeva il ritmo, perdeva i pensieri e quel filo si attorcigliava ai suoi piedi, facendolo cadere.

 
Era successo proprio questo, quella mattina. Qualcosa di così sciocco e irrilevante come un raffreddore gli aveva appannato la testa; si era ammalato due giorni dopo la ripresa ufficiale degli allenamenti, in vista delle competizioni autunnali, colto alla sprovvista dal clima umido e freddo di un aprile timido a San Pietroburgo. Ci fosse stato suo nonno, lì con lui, forse gli avrebbe preparato il tè con la marmellata* di lamponi e spalmato addosso lo zvezdochka**, ignorando le sue proteste e lamentele per quell’ odore così forte e la consistenza così appiccicosa. Paradossalmente, quei sapori e quegli odori, quasi gli mancavano. Quasi, chiaro, solamente un pizzico dall’effettività emotiva, perché, si sa, ai soldati, alle tigri non manca nulla. Il loro perfetto sostentamento deriva dall’allenamento duro, dalla concentrazione e dal respirare. E contare. E respirare, ancora. I passi, il tempo, le battute, i toeloop, i flip, il doppio axel, il triplo axel, che non viene. Riprova, flip, doppio, un colpo di tosse e a terra. Si era sentito il sangue scorrere e pulsare nelle orecchie, nelle ginocchia e nelle dita dei piedi, defluire dalla testa e portarsi via i pensieri e le ripetizioni. Conta, conta. Respira, conta.


“Yuri!” Aveva girato la testa verso la voce di Yakov, appena un po’, ma gli era sembrato che parte del suo cervello fosse rimasta in aria, ad aleggiare sul ghiaccio sul quale era appena caduto, soffocato nei colpi di tosse. Persino l’occhiata tagliente che teneva in serbo per i momenti di tentato avvicinamento o sospetta preoccupazione da parte di terzi gli era uscita un po’ scalfita.


“Stai male. Che ti sei beccato? Sei uscito un’altra volta con i capelli bagnati? Allora lo fai apposta!”


Sperò che quel grugnito detto a mezza bocca, condito da un’imprecazione, tanto per abbellirlo, fosse una risposta sufficiente all’allenatore. Come se non fosse già abbastanza pensare che avesse vinto il Grand Prix e in quel momento fosse bastato un maledetto starnuto o quel che era, per ridurlo a un incapace. Si rimise in piedi, in fretta, pronto a ripartire, a riprende a contare.


“Vaffanculo. Sto benissimo, non rompere.” Si sentì bloccare da una manona rubiconda, dalla presa ferrea, che non ammetteva repliche.


“Tu ora vai a cambiarti e ti infili a letto. Ci manca che ti venga una bronchite che ti rovini il resto della stagione!” Cercò di divincolarsi, ma senza sforzarsi davvero, perché aveva già sperimentato su di sé le conseguenze di non dar retta a quel pusillanime burbero di allenatore e la cosa non avrebbe giocato a suo favore. Ribelle, certo, ma con scaltrezza. E poi, un soldato obbedisce sempre al suo comandante.


Pattinò fino all’uscita del rink, furioso, infastidito e insoddisfatto da se stesso; gli sembrava uno smacco incommensurabile essere vittima della debolezza fisica, quando il fisico era tutto ciò che aveva per esprimere al meglio le sua abilità. Era quasi un tradimento.


“Ehi.” Intento a slacciarsi i pattini, più lentamente del solito, perché pareva che persino i lacci si divertissero ad annodarsi con i fili scombinati nella sua testa e a rendere i movimenti più pesanti, non si accorse di qualcuno che gli si era seduto accanto. Alzò gli occhi su Otabek, che lo fissava, in silenzio.


“Ykvdicchennstobn,” borbottò con gli occhi sottili e irrequieti.


Otabek aggrottò, leggermente, lo sguardo. “Non stai bene?”


“Sto bene! Ho solo uno cazzo di raffr-“ la frase venne interrotta dall’ennesimo colpo di tosse.


“Okay, ti sei preso un malanno,” asserì l’altro, scrutandolo. “Andiamo a casa?”


Yuri sollevò, di scatto, la testa verso la sua direzione, pentendosene un secondo dopo, per via della sensazione vorticosa che quel movimento gli aveva provocato. “Ma tu non devi allenarti?”


Otabek gli rispose con una scrollata di spalle, facendo scorrere lo sguardo sopra di lui, come una carezza. Era lì, a San Pietroburgo (sembrava quasi paradossale) con il suo allenatore, per una breve trasferta di allenamento, nel quale avrebbe provato dei nuovi schemi di allenamento con la supervisione di Yakov. Avrebbe dovuto allenarsi tutti i giorni, fino alla fine della settimana e ora se ne stava lì seduto accanto a lui, proponendogli una ritirata e di venir meno ai propri doveri (non era un soldato anche lui?).


“Guarda che il vecchio è un rompicoglioni, mica puoi andartene così…”


“Forse mi sento male anche io. Forse ti serve un passaggio a casa.” Lo continuava a guardare. Yuri lo fissò, confuso, scettico, quasi infastidito da quella sottile accondiscendenza.


“Che cazzo dici, non hai la moto qui…”


“Non è necessario che lui lo sappia.” Finalmente, Otabek riportò gli occhi sulla pista, come per analizzarla, in cerca di una risposta che, di fatto, già aveva. Aveva già deciso e una parte di Yuri, quella meno ribelle e scazzata, non era troppo intenzionata a opporsi.

 
Non seppe mai, esattamente, cosa disse Otabek al suo coach (che sembrava sempre d’accordo con lui, non si sa come. Forse il vecchio avrebbe dovuto imparare qualcosa!), ma in meno di dieci minuti, erano già fuori dallo Sports Champions Club, diretti verso casa di Lilia, alla quale, per estensione e necessità, Yuri si riferiva allo stesso modo. La proprietaria, quella settimana, era lontana, impegnata in un seminario a Stoccarda, alla scuola di balletto Cranko. Yuri barcollò un paio di volte nel tragitto, sciorinando un’attenta selezione di starnuti e parziali soffocamenti e rifiutò, con irruenza, il sostegno della mano di Otabek sul suo gomito, quando questi lo vide instabile. Arrivarono a palazzo Baranovskaya (definirlo appartamento sarebbe parso dozzinale, al di là delle oggettive apparenze) e Yuri si trascinò in camera sua, dove lasciò cadere la borsa a terra, in uno dei pochi spiazzi liberi di pavimento e si gettò, sgraziatamente, sopra il letto sfatto.


“Ah.”


Lo sforzo di sollevare la testa sembrò immane, ma si sentì, improvvisamente, vulnerabile per via di quell’invasione non programmata dei suoi spazi e gli sembrò doveroso difenderli, per quanto valessero.


“Ah?”


Otabek scrollò le spalle, guardandosi intorno. Il broncio, proprio dell’espressione del suo viso, gli dava sempre un’aria riflessiva, come se fosse costantemente in procinto di decretare una sentenza assoluta; una caratteristica che formava un contrasto interessante con la sua poca propensione alle chiacchiere.


“Sei sempre di fretta?”


“Perché?”


“Non hai tempo di riordinare…”


Si sistemò seduto, con gli occhi che dardeggiavano dal suo volto alla confusione di vestiti, fumetti e borse che campeggiava nella stanza. Si ricordò perché riuscisse a sopportare Otabek; anzi, osava dirlo, perché Otabek gli piacesse così tanto: non era mai accusatorio in ciò che gli diceva, non puntava mai il dito e dava tante cose per scontato, come facevano Lilia, Yakov, addirittura Viktor, sebbene con intenzioni nettamente più innocenti.


“Non ho tempo per fare niente, se non allenarmi,” ammise, segretamente fiero. Venne scosso da un altro colpo di tosse e un’altra vertigine, che lo spinsero ad accasciarsi di lato sulla coperta e ad allargare le braccia con fare disfattista. “Che palle,” borbottò. Sentì la presenza di Otabek che, con cautela, si avvicinava al letto. Non si aspettava, di certo, la sensazione rinfrescante di un palmo liscio e freddo sulla fronte. Non lo respinse, ma trattenne il respiro, implicitamente. Respira, respira, non respirare.


“Scotti.” Nonostante quella verifica sul suo stato di salute, Otabek tentennò per diversi secondi, prima di interrompere il contatto con lui. Gli sembrò, mentre allontanava la mano, che, nel movimento, gli avesse scostato una ciocca di capelli dalla fronte o, chissà, forse era solo la febbre a fornirgli piccoli guizzi allucinatori.


Strizzò gli occhi un paio di volte, mentre un mal di testa incalzante gli avvolgeva il cervello e un ronzio nelle orecchie lo faceva sentire meno lucido del solito. “Forse c’è un termometro, da qualche parte.”


“In bagno?”


“Forse.”


Otabek non disse nulla, ma dietro le palpebre chiuse lo sentì allontanarsi e dirigersi in bagno (aveva visto dov’era?), da dove, dopo qualche attimo, provennero dei tonfi attutiti di sportelli e cassetti che si aprivano e si chiudevano. Dei passi cadenzati e silenziosi anticiparono il suo ritorno in camera.


“Ho cercato di rovistare il meno possibile.”


“Tanto quella strega mi rompe sempre le palle per il casino che combino in bagno, non se ne accorgerà nemmeno.” Un afflusso di calore gli colorì le guance (ma certo: aveva la febbre!) e gli fece sbarrare gli occhi, quando sentì qualcosa di freddo e liscio contro il suo labbro inferiore. Lo sguardo soddisfatto e, al contempo, nervoso, di Otabek incontrarono il suo. “Trovato.”


Yuri lo fissò, vagamente esterrefatto. L’altro non ebbe il minimo accenno di distogliere gli occhi dai suoi; anzi, un fremito fulmineo del sopracciglio comunicò una sottile incitazione al soddisfare l’implicazione che quel gesto suggeriva. Gli servì un’altra manciata di coraggiosi secondi, prima di aprire la bocca, ancora stupito, ancora a studiarlo. Il silenzio che riempiva l’ambiente rese quel momento persino più surreale; la poca lucidità scampata al suo stato febbricitante sottolineava la bizzarria di quella situazione. Otabek, in piedi accanto al suo letto, che gli spingeva un termometro in bocca e lo reggeva con le dita, tenendo il conto di lenti minuti sull’orologio del telefono, i quali sembravano venir scanditi al contrario. Infine, con una lieve tirata, fece pressione per sfilarglielo via dalle labbra, dopo quello che era sembrato un tempo interminabile, per poi assottigliare gli occhi e leggere il numero sulla stanghetta di vetro.


“Yakov non aveva tutti i torti.”


“Quel vecchio esagera sempre.” Fu grato per poter riprendere a parlare, ma si maledisse, quando la voce gli uscì un po’ arrochita e debole. Diede un poderoso colpo di tosse, per schiarirsela, che ebbe però l’effetto di trascinarsene dietro una coda concatenata.


“Immagino… Qui dice che hai 39,” annunciò Otabek, rivolgendogli un’occhiata sarcastica, alla quale Yuri ricambiò per metà e con tutta la forza di scazzo che riuscì a racimolare, nonostante gli spasmi.


Sentì il materasso inclinarsi appena, quando Beka gli si sedette accanto.


“Sai… Mia nonna ha un rimedio formidabile contro la febbre.”


“Ah, sì? Sarebbe?”


“Un bagno con l’aceto!”


A quella insolita proposta, Yuri drizzò la testa e gli regalò un’occhiata scandalizzata. “E cosa cazzo sarei, un’insalata?”


Le labbra di Otabek sembrarono in procinto di piegarsi in una risata, interrotta, però, sul nascere da una miagolante invasione felina, che gattonò elegantemente nella stanza e si appollaiò, in un unico balzo, sulle gambe di Yuri, coperte dalla trapunta.


“Il gatto nelle tue foto,” asserì, curioso.


“Lei è Potya,” la presentò Yuri, allungando una mano per accarezzarle il pelo. Poi, la sua espressione, resa appena addolcita dalla sua compagna domestica si incrinò, attraversata da un guizzo preoccupato. “E se le attacco l’influenza?”


La risata bloccata qualche minuto prima, stavolta scoppiò dal petto di Otabek. “Non credo che i gatti si ammalino di raffreddore umano. A ogni modo, penso che esistano medicine anche per loro, nel caso.”


“Lei è come me,” ribatté Yuri, risoluto.


“Come?”


“Non le servono medicine.” Il broncio fiero che imbastì lo fece apparire più giovane dei suoi sedici anni.


“A te non servono medicine?”


“No.”


“E come guarisci?”


“Io domani già torno in pista!”


Otabek gli rivolse uno sguardo intenerito e, allo stesso tempo, divertito dalla poca veridicità di quelle parole, che lo indignò più di quanto volesse.


“È vero!”


“Hai 39.”


“Mi passa in fretta!”


“Non c’è un armadietto dei medicinali in questa casa?” Il peso di Otabek abbandonò il materasso e Potya sembrò risentita quando la sua mano smise di lisciarle il pelo. Si diresse verso la porta, ma tentennò sulla soglia, insicuro di dove dovesse indirizzarsi per trovare il suo bottino.


“E che cazzo ne so!”


“Non sei mai stato male?”


“Te l’ho detto,” gli ripeté Yuri, puntandogli uno sguardo di fuoco orgoglioso addosso. “Io. Non. Mi. Ammalo.”


Nonostante la risposta insoddisfacente, Otabek non demorse. Uscì dalla camera disordinata ed entrò di nuovo in bagno.


“Forse qui? Ci sono delle scatole,” gridò, al di sopra del rovistio tra gli scaffali del mobiletto appeso accanto allo specchio. Potya anticipò il secondo ritorno di Otabek in camera con un balzo giù dal letto, per andargli incontro e strusciarsi contro le sue caviglie.


“Gatta traditrice…”


“Perché? Mi sembra simpatica.”


“In genere, non le piacciono gli estranei,” spiegò Yuri, con una smorfia scettica. Quindi, assottigliò gli occhi nella sua direzione. “Cos’è quella roba?”


Otabek sembrò, improvvisamente, a disagio; lo evitò, accuratamente, con lo sguardo e si accucciò per grattare Potya dietro l’orecchio, che parve apprezzare oltremodo, omaggiandolo con una serie di fusa incoraggianti. “Ho cercato ovunque, ma ho trovato solo queste…”


Yuri scostò la coperta, sotto la quale si era rifugiato, per cercare di smorzare i brividi e fece per alzarsi. Otabek, scattò in piedi e lo bloccò con una mano sul braccio, per il disappunto del felino sul pavimento.


“Non ti alzare!” sbottò. Quel movimento improvviso l’aveva fatto spostare un po’ troppo vicino a lui, tanto che Yuri riusciva a percepire il suo respiro sul volto, che ora gli sembrava persino più bollente di prima. Doveva essergli salita la febbre.


“Fammi vedere cosa cazzo hai lì!” disse, irritato, per poi strappargli la scatola bianca che teneva in mano. L’espressione di stizza si tramutò in orrore incredulo, quando i suoi occhi scorsero la scritta azzurrognola e una silhouette inequivocabile che risaltavano sulla confezione di cartone. Trascorse qualche secondo di terribile imbarazzo, in cui nessuno dei due riuscì a respirare normalmente.


“Io non…” Le parole gli morirono sulla lingua, tentennanti. Otabek gli mollò la presa sul braccio e prese a farneticare, mancando anche lui di avere successo nel tentare di articolare un discorso sensato.


“Non c’erano altre medicine! Solo roba per il mal di stomaco!”


Yuri deglutì a vuoto, prima di riprendere a parlare, sperando che la sua voce non fosse troppo stridula. “Lilia soffre di gastrite…” borbottò.


“Forse è per quello che… Sai… Non c’erano farmaci da prendere per bocca,” confabulò Otabek, cercando di mascherare l’imbarazzo che aveva investito entrambi. Persino Potya era sgusciata via dalla stanza, sbigottita da tutta quell’agitazione. Non era una gatta da drammi, lei.


Notando l’espressione, ancora esterrefatta e le guance inverosimilmente rosso fuoco di Yuri, Otabek cercò di deviare il discorso. “Senti, a queste pensiamoci di dopo,” propose, togliendogli gentilmente la scatola dalle mani. “Proviamo con un bagno.”


La testa di Yuri scattò verso di lui. “Con il cazzo di aceto? Te lo scordi!”


“No, un bagno normale. Mia nonna dice anche che il caldo porta via il caldo,” chiarì, sperando vivamente che la saggezza kazaca avesse un minimo di riscontro nella realtà. “Ti aiuto,” aggiunse, infine, tendendogli una mano.


Gli occhi di Yuri slittarono dal pavimento alla mano e dalla mano al pavimento. Aveva raggiunto un livello ben più elevato di ambiguità con Otabek, durante Welcome To The Madness, ma lì era diverso, quello era stato per intrattenere, per provocare, quel gesto lì, invece… Sembrava molto più intimo, nella sua innocenza. I suoi pensieri rimasero in bilico qualche secondo, finché non si convinse e afferrò la mano protesa, lasciandosi aiutare ad alzarsi dal letto. Il tempo che ci misero per raggiungere il bagno, meno di un minuto, di fatto, si dilatò talmente da sembrare quasi ore e quando entrarono e Otabek chiuse la porta alle sue spalle, Yuri si rese conto che era lì, in quel momento, che era reale. Ringraziò mentalmente la febbre per averlo immerso in quello stato ovattato di leggera confusione, che non lo rendeva in grado di esprimere l’imbarazzo che provava; lo stesso non poteva dirsi di Beka, già in ginocchio accanto alla vasca da bagno, intento a riempirla. La rigidità delle sue spalle e la testa, forse un po’ troppo vicina al bordo, tradivano il suo impaccio.


“Posso farlo io,” propose, avvicinandosi al ragazzo. “Non sono mica un cazzo di moribondo!”


La risatina di Otabek non passò inosservata, quando Yuri si scollò dalle piastrelle sul quale si era spalmato, senza forze, e cercò di barcollare verso la vasca. “Non riesci nemmeno a stare in piedi. Siediti… lì,” suggerì, indicando il piccolo sgabello accanto al cesto della biancheria. Yuri lo incenerì con un’occhiata di alto disappunto, ma fece come richiesto; in effetti, a star seduto la testa tornava a un livello accettabile di giramento che gli torturava un po’ meno lo stomaco.


Il gorgoglio dell’acqua che sgorgava dal telefono della doccia scandiva i minuti e riempiva quel silenzio denso di imbarazzo, fin quando Otabek non si voltò verso di lui. “Okay, pronta,” disse, alzandosi e raggiungendolo. “Vieni.” Imitando il suo stesso gesto di poco prima, gli tese la mano; stavolta, Yuri la afferrò senza troppo rimuginare, ormai arreso alla possibilità di riuscirsi ad alzare da solo. Otabek lo condusse verso la vasca, tripudiante di acqua azzurrognola, dalla quale si levavano riccioli di vapore dall’odore fiorato. Doveva aver usato uno degli intrugli profumati di Lilia, che erano disposti sulla mensola; bene, ora avrebbe avuto quell’odore da femmina isterica addosso per tutto il giorno!


“Dovevi per forza metterci quella merda di sapone?” borbottò, con la testa incastrata nella maglia e le braccia in alto, dentro per metà.


“Ti lavi senza sapone? Ma come ve lo fate il bagno, in Russia?”


Lo strattone che Otabek diede alla sua maglia, per tirargliela via dalla testa, mascherò la frase carica di insulti che gli rivolse, ma non gli impedì, di certo, di freddarlo con uno sguardo di sdegno. Incespicò con le dita, per slacciarsi il cordino dei pantaloni e poi farseli scivolare giù dalle gambe, senza rendersi conto che il viso di Otabek si fosse tinto di rosso accesso e che i suoi occhi erano intenti a scrutare il pavimento lucido.


“Aspetta, mi giro,” mormorò, impacciato.


“Non ti cambi mai nello spogliatoio con gli altri? Oddio, quanto sei timido!” gli rispose, sfidandolo. In realtà, provava quello stesso imbarazzo, senza riuscire a spiegarselo, che sperava di nascondere dietro un atteggiamento casuale e strafottente.


“Sì, ma ora… è diverso,” ammise, continuando a evitare il suo sguardo. Quel dato di fatto aleggiò nell’aria, aumentando il disagio di entrambi; Yuri cercò di far finta di nulla, perché l’idea di mostrare insicurezza gli sembrava persino più incresciosa di rimanere nudo di fronte a Beka. Le sue dita rimasero a tentennare sull’elastico dei boxer per qualche secondo, prima di tirarli giù e calciarli da un lato; forse, quel movimento fu un po’ troppo veloce, perché lo colse l’ennesima vertigine e, d’istinto, volteggiò le braccia in avanti, in cerca di un appiglio. Otabek scattò in piedi, afferrandogli una spalla e sostenendolo.


“Attento!”


“Merda!”


“Ti aiuto a entrare,” offrì, occhieggiando la superficie schiumosa dell’acqua, come se fosse la cosa più interessante dell’universo. Yuri si aggrappò al suo braccio e si immerse, lentamente, nella vasca, lasciandosi avvolgere dal vapore. Il contatto con l’acqua calda fu estremamente piacevole, ma lo fece sentire ancora più leggero, ancora più debole, come se il calore proveniente dal suo corpo si fondesse con quello attorno a lui. Affondò la testa nella vasca per metà, lasciando visibili solo gli occhi accipigliati e il naso. Cazzo, se era imbarazzante. Soffiò qualche bolla di fastidio, sotto l’acqua, decidendo che quella posizione fosse l’unica consona, in quella situazione.


“Ehm… Ti serve una mano per lavarti?” chiese Otabek nervoso, mentre afferrava una spugna lì accanto.


Gli occhi di Yuri, ridotti a due fessure, seguirono la mano dell’altro a filo d’acqua. “Quella non è la mia spugna!” sbottò, tirando su la testa precipitosamente. Otabek mollò di colpo la spugna rosa pallido che aveva appena agguantato, con un’espressione leggermente disgustata sul volto. Si strusciò, distrattamente, le dita sui pantaloni, tanto per sicurezza.


“La mia è quella,” chiarì Yuri. I suoi occhi slittarono verso una forma arancione, sul bordo.


“Quella lì a forma di tigre?”


Annuì, con fare difensivo. “Che hai da dire? È un regalo delle mie fan!”


Otabek fece chiaramente del suo meglio per trattenere una risata, che si trasformò in una sorta di singulto strozzato, poi prese la spugna dalla forma di una tigre dal bordo della vasca e la immerse nell’acqua. Strizzò con forza il tigrotto, la cui faccia si deformò in una buffa smorfia contrita e poi si avvicinò, cauto, a Yuri. Attese qualche attimo, come per essere sicuro di avere il permesso, finché Yuri non piegò le spalle in avanti e fece ciondolare la testa, esponendo la schiena. Le carezze spugnose tracciavano scie delicate sulla sua pelle, ma l’ipersensibilità provocata dalla febbre lo rendeva estremamente ricettivo a quei tocchi. Ogni volta che percepiva lo spostamento d’aria e lo sciabordio dell’acqua che precedevano quelle passate umide, si mordeva il labbro inferiore con i denti.


“Tutto okay?”


“Sì… Sono solo… Non mi sento molto bene.”


“Mi sbrigo, così puoi tornare a letto.”


Otabek gli passò la spugna sulle spalle, sulla nuca e lungo le braccia. Si era inginocchiato sul pavimento accanto alla vasca e si allungava verso di lui con ogni movimento indirizzato all’altro lato del suo corpo. Si rese conto, fugacemente, dell’estrema vicinanza del volto e del corpo del ragazzo, ma non aveva l’energia per potersene preoccupare; al contrario, quei tocchi accorti e il calore lo stavano facendo scivolare in un semi-sonno ovattato e pacifico.


“Yura… Non ti addormentare.” Una stretta alla spalla lo risvegliò, ma aprire del tutto gli occhi sembrava costargli una gran fatica, così si limitò ad alzare le palpebre a mezz’asta. Sentì lo scroscio della doccia e un getto d’acqua calda che gli colpiva le spalle e si riversava lungo la sua schiena e sul suo petto. Otabek si alzò e si avvicinò all’appendi-asciugamani; Yuri si disse che doveva essere alquanto prevedibile in fatto di scelte estetiche, visto che Beka afferrò il grande telo azzurro decorato con una stampa a teste di tigrotto, appeso al gancio sulla destra, senza alcun barlume di esitazione.


Alzarsi dalla vasca non fu l’operazione più semplice del mondo: la testa, ora, gli girava davvero tanto, si sentiva instabile e non riusciva a respirare bene. Tenere gli occhi aperti era diventata una sfida e, nonostante il vapore che avvolgeva il bagno e il calore della sua pelle, era scosso da brividi. Si puntellò con le mani ai bordi e, quando si alzò in piedi, Otabek accorse alle sue spalle e lo avvolse con l’asciugamano. Ormai, l’imbarazzo per la nudità era scemato ed era stato sostituito dall’esigenza di abbassare la febbre o, per lo meno, porre fine a quella terribile sensazione di malessere. Senza vergogna, né reticenza, si appoggiò al fianco di Otabek, che gli circondò le spalle con un braccio e lo condusse in camera, a piccoli passi. Si distese sul letto quasi in preda a una trance, grato di poter, finalmente, chiudere gli occhi. Il mondo continuava a girare, vorticoso, anche nel buio che si celava dietro le palpebre serrate e un’emicrania prepotente gli si insinuò nelle tempie, per poi irrigarsi fino dentro al cervello, scombussolandogli i pensieri.


In sottofondo, sentì Otabek armeggiare con una scatola o forse erano due, lo udì scartare qualcosa, accartocciare qualcos’altro; tutto gli arrivava distorto.


“Yuri. Yura, mi senti?”


Avrebbe voluto rispondergli che sì, certo che lo sentiva e anzi, non è che avrebbe potuto abbassare un po’ la voce, perché ogni sillaba che pronunciava era come una pallottola che gli perforava il lobo frontale? Invece, tutto quello che riuscì ad articolare fu un verso mugugnante, che sperava Beka riuscisse a interpretare correttamente. Percepì il calore di una mano sul suo fianco semi coperto dall’asciugamano, che lo spingeva delicatamente, affinché si girasse sulla pancia.


“Senti… Hai davvero la febbre troppo alta. Mi sto preoccupando.” Sentì il peso di Otabek raggiungerlo sul materasso, quando puntellò un ginocchio sulla coperta e si sostenne con una mano, appoggiata accanto al suo fianco. “Quando mia sorella era piccola e si ammalava, a volte mi occupavo di lei. L’ho già fatto, se ti consola.”


Fatto, cosa? Di cosa stava parlando? Si riferiva ancora a quello stupido bagno per insalate? Persino un pensiero così semplice gli richiese un livello di concentrazione tale, che ebbe come diretta conseguenza una stilettata alle tempie, che lo fece demordere dall’interrogarsi sulle intenzioni di Beka. Tuttavia, non poté fare a meno di irrigidirsi quando sentì una mano calda sfiorargli una natica.


“Beka,” mormorò, cercando di sottrarsi. Tentativo fallito in partenza, a causa della sua debolezza fisica e del braccio dell’altro, che gli bloccava sul letto la parte inferiore della schiena. Gli regalò un paio di carezze, forse nel tentativo di calmarlo; tuttavia, lo stato di semi coscienza di Yuri non gli avrebbe consentito di ribellarsi, sebbene fosse il suo istinto primario, in quel momento.


Le sue natiche vennero allargate da delle dita attente, che premettero fastidiosamente sulla sua pelle troppo sensibile. Non era più sicuro che i brividi che provava fossero causati dalla temperatura corporea così alta, ma preferì non indagare e darlo per certo. Una punta scivolosa si insinuò contro il suo ano e venne spinta al suo interno, seguita dall’indice di Otabek, che venne intrappolato per qualche secondo dallo stretto anello di muscoli. Fu sorpreso da quell’invasione dolorosa, non accorgendosi che la tensione del suo corpo aveva reso l’operazione persino meno piacevole; fortunatamente, il senso di fastidio dell’avere un corpo estraneo dentro di sé stava scemando progressivamente, man mano che passavano i secondi.


“È fredda, lo so.” La voce di Otabek lo aiutò a rientrare in uno stato di calma, a placare il disagio. Fece per tirarsi su e rotolare via, sotto le coperte, ma venne bloccato, di nuovo.


“No. Ne serve un’altra, stai troppo male,” lo informò Beka, con la voce velata da un tono allarmato. Yuri cercò di divincolarsi, ancora una volta, mugugnando un “Basta,” ma fu del tutto inutile.
“Sh. Se ti rilassi, fa meno male. Respira.” Respira, respira. Sembrava la cosa più difficile del mondo.


In una ripetizione di gesti, si ritrovò i glutei aperti delicatamente dalle dita di Otabek. Stavolta, sentì il suo indice sfiorare, lieve, quell’apertura stretta, che sembrò rilassarsi a quel contatto e il ragazzo che lo cullava con incitazioni a star buono, a non muoversi, che sarebbe durato solo un attimo. Di nuovo quella punta fredda contro la sua pelle bollente, di nuovo una leggera spinta per aprirlo quel che bastava da poter scivolare dentro di lui e, ancora, il dito di Beka che la seguiva, immediatamente dopo. Si permise di riprendere a respirare più o meno normalmente, svuotando i polmoni dell’aria che aveva, involontariamente, trattenuto durante quegli interminabili secondi.


Girò la testa di lato, adagiandola sul cuscino e strizzò gli occhi, attendendo che quella sensazione di scomoda pienezza si affievolisse. Percepì Otabek alzarsi dal materasso e afferrare il piumone, arrotolato ai piedi del letto, per coprirlo fin sotto al mento.


“Ora puoi dormire,” disse, con un tono gentile. Yuri avrebbe davvero voluto aprire gli occhi per assicurarsi che fosse ancora tutto okay, che l’imbarazzo non l’avesse reso scostante, che non volesse scappare via da lui, ma un fischio acuto nelle orecchie e il mal di testa che scandiva i suoi colpi, come fossero martellate, glielo impedirono. Mentre cedeva al sonno, gli parve di sentire una mano liscia e calda scostargli i capelli sudati dalla fronte e una voce morbida sussurrargli parole smorzate, che lo fecero cadere in un confortante oblio.



I raggi accecanti del sole già alto nel cielo lo fecero sentire come avvolto da un’invasione di luce, quando aprì gli occhi pigramente, la mattina dopo. Non era abituato ad alzarsi così tardi. Si tirò su a sedere, appoggiandosi scompostamente ai cuscini, e si guardò intorno, cercando di mettere a fuoco la sua stanza e di radunare i pensieri, così da essere pronti per il primo scazzo mattutino.


“Potya?” chiamò. In genere, era lui che si occupava di riempirle la ciotola, quando si svegliava e, a giudicare dal cielo luminoso, la sua gatta era, probabilmente, furiosa con lui e in preda alla fame più nera.


“Le ho dato io da mangiare. Ho trovato le scatolette.”


Quando Otabek entrò nella sua stanza, rivolgendogli un sorriso timido, fu come se i pezzi di un puzzle abbandonati sul pavimento da un giocatore distratto si ricomponessero da sé. Non riuscì ad arginare l’imbarazzo, che lo investì in pieno, al ricordo della sera precedente e gli fece strabuzzare gli occhi e colorare il volto di cremisi.


“Cazzo,” sibilò, distogliendo lo sguardo di botto.


Otabek sembrò continuare a comportarsi normalmente o forse era solo molto bravo a fingere. “Stai meglio?” gli chiese. Yuri si limitò ad annuire, certo che qualsiasi frase che avesse potuto articolare in quel momento sarebbe suonata assolutamente idiota.


“Bene. Ho chiamato Yakov. Gli ho detto che ti avrei chiesto se te la sentissi di tornare ad allenarti domani.”


“C’è qualcosa che non hai fatto?” chiese, infine, con tono sprezzante, decidendosi a guardarlo. Era il suo modo, molto contorto, di fargli capire che apprezzava ed era indubbiamente sicuro che Beka lo capisse e che si dimenticasse del suo impaccio, ancora evidente.


“Non ti ho fatto morire di febbre, ieri sera?”


Maledetto Otabek. A quelle parole, Yuri arrossì di nuovo fino ai capelli.


L’altro si avvicinò al suo letto e si sedette sulla coperta morbida. “Tu avresti fatto lo stesso per me, no?” gli disse, a bassa voce, giocherellando con il bordo a frange. Yuri annuì di nuovo, non sapendo bene cosa dire. L’avrebbe davvero fatto, per lui? I soldati compagni devono aiutarsi a vicenda, durante le battaglie più dure, no? Allora sì, l’avrebbe fatto.
“I soldati si aiutano tra loro,” confermò, risoluto. Otabek alzò gli occhi, sorridendogli. Ma doveva arrossire in continuazione quella mattina? Che fine aveva fatto la tigre integerrima? Stupida febbre.


Che era passata.


Be’, di sicuro avrà degli strascichi!


“È vero,” concordò Beka, con gli occhi nei suoi. L’urgenza di interrompere quel momento troppo carico di silenzio e di imbarazzante intensità fece attivare la mente di Yuri verso una delle cose che amava di più al mondo.


“Hai cucinato anche la colazione? Sto morendo di fame, cazzo.”


Otabek sembrò ridestarsi e balzò giù dal letto, allegro. “No.” Non gli diede il tempo di ribattere e palesare il suo disappunto, che aggiunse. “Sono andato a comprarla. Sono andato alla pekarni*** qui sotto, ho comprato dei syrniki****, spero ti piacciano e…”


“Davvero?” Anche Yuri scese dal letto, con lo stomaco che brontolava e l’acquolina in bocca. Prese in braccio Potya, che era entrata nella stanza e si prodigava in fusa per salutarlo. “Cibo. Ora,” gli disse, afferrandogli un braccio e spintonandolo, scherzosamente, fuori dalla camera da letto.


“Ehi Beka,” lo interruppe, un attimo prima di arrivare in cucina.


Otabek si voltò verso di lui, con aria interrogativa. “Eh?”


Yuri tentennò qualche secondo, accarezzando, con un gesto casuale il pelo soffice di Potya. “Non dire niente a Yakov.”


“Di tutti i syrniki che stai per strafogarti?”


Alzò gli occhi per incontrare quelli dell’altro, che gli comunicarono molto di più di quello che non facessero le sue parole. Si rese conto di essergli grato per la pazienza e la delicatezza con le quali lo trattava; sperava vivamente che Otabek riuscisse a capirlo, che riuscisse a evincere quella gratitudine in qualche modo, perché Yuri non era ancora in grado di enunciargliela a parole.


“Sì,” disse infine, rispondendo al suo sorriso. “Proprio di quelli.”
 


Fin
 
 

 
 
*il tè con la marmellata di lamponi è un rimedio tradizionale russo contro la febbre
** zvezdochka: il corrispettivo russo del balsamo di tigre, usato come cura contro l’influenza.
*** pekarni: panetteria russa tradizionale.
**** syrniki: dolcetti per la colazione. Assomigliano a dei piccoli pancake, sui quali ci si spalma burro o marmellata.
 
Il rimedio del bagno con l’aceto l’ho trovato davvero, in un manuale di rimedi casalinghi delle nonne del Kazakistan. Quello del “caldo scaccia caldo”, invece, è frutto della mia mente birichina, che voleva far finire Yuri in vasca. Un ringraziamento speciale alla mia beta Pally e alle sue carote <3
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Yuri on Ice / Vai alla pagina dell'autore: Kendra26