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Autore: Il_Signore_Oscuro    17/06/2018    2 recensioni
Il mondo si ricorda solo dei grandi personaggi, di coloro che hanno avuto un ruolo centrale negli eventi più importanti del suo tempo. Mentre il grande meccanismo della Storia divora tutto il resto, precipitandolo nell'oblio. Io però ho scavato e scavato, consegnando alla vostra memoria una storia diversa, una storia che era rimasta nell'ombra. Una guerra più profonda, e combattuta lontano dagli occhi dei molti...
Da oltre dieci generazioni i Cangramo sono i leali alfieri degli Argona, i potenti sovrani della costa orientale di Clitalia, la terra divisa fra i molti re. I Cangramo dominano su una piccola contea nell'estremo sud-est, una contea che comprende il Porto del Volga, la Valspurga alle pendici del Monsiderio e l'antica Rocca Grigia, costruita su un'altura a strapiombo sul mare. I quattro fratelli Cangramo cercheranno di ritagliarsi un posto in un mondo violento e insidioso, intessuto di amori, battaglie, inganni e segreti. Mentre lontano dagli occhi, un male a lungo dimenticato, antico e potente, getta la sua ombra sul futuro degli uomini...
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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CAPITOLO XXXI
Un’altra, la mano che ti nutre
-Carlo-
 

 

Alfonso legò stretta la cintura in vita, ponendo la lunga spada all’interno del fodero istoriato con il sigillo della casa Argona. Quando l’acciaio scivolò nel cuoio, il suono che ne derivò parve il fugace pigolio del passero alla luce del primo mattino.
Fuori il cielo s’era colorato delle ombre della sera e sin dal suo risveglio Carlo non riusciva a liberarsi della sgradevole sensazione che qualcosa stesse per accadere. Guardò Alfonso, osservò la sua armatura leggera e il suo cipiglio sicuro “Quando si va per mare le vesti pesanti vanno evitate, mio padre lo dice sempre”. E nel cuore avvertì battere una sorta di nostalgia giunta prima del tempo e immotivata.
Si avvicinò a lui e lo baciò con tenerezza sulle labbra, venendone ricambiato, ma con uno sguardo di sconcerto. In fondo avrebbero combattuto una guerra insieme, non c’era motivo di struggersi nella nostalgia, quasi avessero dovuto separarsi di lì a poco:
«Che ti prende?» chiese lui, carezzandogli la guancia, con la voce fra il tenero e il divertito.
«Io-io non lo so» confessò Carlo, con l’aria che prendeva a mancargli in gola «c-credo di avere paura».
«Non fare così» lo rincuorò lui «sappiamo bene quanto sia difficile ucciderci e non si può dire che non ci abbiano provato. Non saranno i Manidi a riuscire lì dove altri hanno fallito» concluse con un occhiolino.
Carlo si sforzò di sorridere e, lesto, infilò l’ascia al fianco destro e la spada corta al sinistro.
Non erano i flutti del mare a spaventarlo, né le lame ricurve dell’Impero dell’Est, ma qualcosa di più evanescente, più sottile e senza un vero nome.

Un rumore sordo alla porta interruppe i suoi pensieri, mentre la voce di un araldo scivolava all’interno della stanza.
«Mio Signore Argona,» declamò, a voce alta «vostro padre desidera vedervi, immediatamente».
“Quell’accento…” Carlo aprì la porta, trovandosi dinanzi un perfetto esemplare di abitante delle terre centrali: pelle olivastra, capelli corti e curati, viso ben rasato. “Perché mai un araldo delle Terre Centrali?”.
L’araldo ebbe cura di accompagnarli attraverso i corridoi del castello, in silenzio e senza spiccicar parola.
Alfonso incedeva sicuro e tranquillo, negli occhi gli brillava tutta l’eccitazione per la guerra che lo attendeva al di là del mare.
Giunsero in una sala circolare, in realtà distante dalla Sala del Trono. Lì li attendevano dei soldati, armati di tutto punto e con armature pesanti, istoriate con oro e con gioielli. Spade corte e dalla lama larga pendevano dai loro fianchi, mentre sul petto riluceva il blasone degli Orimberga. L’araldo si allontanò da loro, il cerchio dei soldati si strinse.
Adesso il messaggero, pergamena spiegata, recitava ad alta voce un qualche tipo di editto o di giudizio firmato e controfirmato da un’autorità.

«Alfonso Gherardo Argona,
principe ereditario di Argonia e prossimo signore del Regno Orientale, per i crimini di omicidio, veneficio, blasfemia ai danni di un numero imprecisato di servi dell’Unico. I soldati al servizio del Gran Sacerdote Raminus Orimberga porteranno a te la sua giustizia. A cagion di ciò, per l’autorità conferitami dalle supreme autorità della grande Arcadia e della Santa Utopia.
Io, ti condanno a morte»
«Cosa?!» esclamò Alfonso, sguainando la spada e ponendosi spalla contro spalla con Carlo.
«Manfredi, lurido bastardo…» sussurrò il cavaliere, snudando le armi anche lui.
Fu allora che i soldati avanzarono verso di loro, chiudendoli in una morsa di acciaio.
Un soldato col naso storto cercò di colpirlo, staccandosi dai ranghi, ma Carlo deviò il suo fendente e conficcò l’ascia nella sua faccia, per poi distaccarla con un calcio. Alfonso, intanto, aveva fatto scivolare la lama nella gorgiera d’un altro soldato, e quando l’acciaio ne uscì, esso era colorato di un rosso vivo.
“Dobbiamo aprirci un varco, prima che i ranghi si chiudano di nuovo” pensò rapido il cavaliere e, buttata via la lama corta, prese per la mano il suo signore e lo tirò via da quella trappola.
Si avviarono per i corridoi, alla disperata ricerca  di un rifugio, di una via di fuga.
Le mura del castello risuonavano della eco dei lunghi corni d’allarme. Ad un tratto principe e cavaliere sgusciarono in una porticina semiaperta, richiudendola dietro di sé con una sbarra di legno malconcia.

Carlo prese a guardarsi forsennatamente intorno, sul muro c’era una piccola finestra.
«Potremmo fuggire da qui» esclamò il cavaliere, affacciandosi appena «è in alto, ma dovremmo riuscire a scalare».
Ma qualcosa nel viso di Alfonso era mutato, nei suoi occhi non c’era paura, rabbia o timore. I suoi tratti s’erano fatti immobili e un lieve sorriso amaro sporgeva dalla sua bocca.
«Anche se riuscissimo ad arrivare in terra sani e salvi ci troverebbero, Carlo. Lo sai meglio di me».
Carlo tirò un lungo sospirò, denegò energicamente col capo «M-molto bene, a-allora combatteremo. In uno spazio ristretto come questo potremmo avere la meglio, s-sì, ne sono sicuro!».
«Ci stanerebbero con il fumo e con il fuoco» disse Alfonso con aria serena «non è con il sangue né con la fuga che trionferemo oggi».
«E come, allora?» chiese il giovane, mentre gli occhi screziati gli si macchiavano di lacrime.
«Ci sono altri modi» a quel punto Alfonso gli si avvicinò e lo baciò, strinse le sue labbra contro le sue, intrecciò la sua lingua con la sua, pose la fronte sul suo capo «Non credo di avertelo mai detto, Carlo, ma io ti ho sempre amato. Anzi, io ti amo e in un altro luogo, in un altro tempo chissà…».
«Alfonso! Alfonso! Non adesso, non dirmelo adesso» disse Carlo, mentre goccioloni tiepidi gli tracciavano le guance.
«Non c’è tempo per rimandare amore mio, questa è la fine» rispose Alfonso, con una quiete che spezzava l’anima «Questa è la fine, per me».
«No, no, non è la fine. N-noi possiamo ancora cavarcela» dei colpi presero a battere contro la porta.
Alfonso denegò con incredibile lentezza, sfilando la spada dal fodero e posandone in terra la punta. Fu a quel punto che il Principe gli rivolse parole, parole che il cavaliere capiva senza sentirle davvero, parole che non poteva concepire.

Quando la porta venne sfondata di forza dai soldati degli Orimberga, ai loro occhi si presentò uno spettacolo pietoso. Il Principe giaceva in terra, il ventre trafitto da una spada e le mani strette sull’elsa della stessa erano quelle del cavaliere Carlo Cangramo. I cui occhi erano rossi e umidi, la cui bocca tremolava recitando parole mute. L’Argona era lì ai suoi piedi, lo sguardo ormai svanito nella morte e la bocca semiaperta.

Carlo venne trascinato nella Sala del Trono, in catene, il sangue macchiava ancora le sue mani e i suoi vestiti. Ma lì, sullo scranno, non c’era il re Ferrante. Sullo scranno sedeva Horatius Orimberga e al suo fianco, ritto sui suoi piedi, c’era Manfredi, inespressivo e silente come una statua.
«Quello non è il tuo posto» ringhiò Carlo, mentre veniva costretto a inginocchiarsi.
«Lo credi davvero?» disse Horatius, giungendo le mani «Il nostro Re Ferrante è prossimo all’ultimo respiro nel suo letto. La malattia che per tanto tempo l’ha consumato, vince infine sulle sue membra stanche. E ahimè, i terribili crimini del Principe Alfonso pare lo abbiano privato del diritto al trono di Argonia. Ciò nonostante egli ha sposato la mia dolce sorella, entrando a tutti gli effetti nella famiglia Orimberga insieme a tutti i domini che gli sarebbero dovuti appartenere. Ma poiché mia sorella è al momento lontana, sono io a fare le sue veci. Dunque sì, direi che questo è esattamente il posto in cui io devo stare» concluse l’Orimberga, con un vistoso sorriso in volto.
«N-non si è celebrato nessun matrimonio! Lurido cane!».
Horatius strabuzzò gli occhi, fingendo un’aria stupita «Ma come?» un servo gli consegnò un foglio di pergamena «questo documento attesta il contrario e, tu guarda, è persino contrassegnato dalla firma di vostro padre. Notoriamente, uno dei più fedeli amici della casa Argona».
«Voi, voi mentite!» urlò Carlo, con la voce rotta dalle lacrime che non volevano smettere di uscire dai suoi occhi.
«Non sprecherò altro tempo nell’ascoltare gli insulti e il vilipendio di quest’uomo. Soldati» disse, con un gesto che voleva dire una sola cosa.
Ma a quel punto Manfredi, inaspettatamente, intervenne «Mio signore, mio signore» disse, con voce untuosa «questo cavaliere, seppure dalla parte avversa, ha dimostrato più volte il suo valore. E, pensate, è stato capace di redimersi dai suoi errori arrivando a uccidere il suo signore, quando ha compreso quanto costui fosse persona turpe e meschina».
«Questo non lo esime da una punizione esemplare» replicò acido Horatius.
«Certo, certo, ma la fedeltà e il pentimento valgono quantomeno la sua vita. E a proposito di punizioni, perché non costringerlo a un’esistenza che gli sia sgradita, sotto il diretto controllo della vostra famiglia. Sì, che prenda i voti, nella sacra Arcadia! E che sotto la luce dell’Unico venga redento dai suoi peccati!»
A lungo vi ragionò Horatius Orimberga, e sul bilico delle sue dita, della sua decisione, oscillò la vita di Carlo.
Prima che un cenno del capo lo condannasse a continuare a respirare. 
   
 
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