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Autore: throughtsun    18/06/2018    1 recensioni
L’ultima notte che hai dormito qua, e non è qualcosa di cui mi rendo conto adesso che ci ripenso, non ti sei sporto per toccarmi neanche una volta, mentre io ti ho accarezzato la schiena più volte, e le mie dita si sono avventurate tra i tuoi capelli, mentre eri bollente e la febbre scendeva, e forse si portava via anche l’ultimo pezzettino di amore per me che ti era rimasto incastrato da qualche parte nel tronco – immagino forse sotto allo stomaco, che ti faceva male la sera prima.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non voglio affondare il dito nella pianga. Non voglio continuare a premere sulla ferita finché non riprende a sanguinare, ma voglio parlare, raccontare, ricordare.

Ricordo com’era quando dormivi a casa mia. E voglio ricordarlo, voglio tenere questa immagine nella mia testa affinché niente e nessuno possa mai tacciarmi di aver vissuto questa nostra rottura con la tua stessa superficialità e snervante leggerezza, né di averti dimenticato come hai fatto tu con me, riservandomi forse qualche angolo impolverato in basso a sinistra nel cervello.

L’ultima volta che siamo stati insieme hai dormito a casa mia e hai indossato persino il mio pigiama – ti stava un po’ piccolo ma continuavi a tremare per la febbre mentre ridevi, ti sei stretto nelle spalle chiedendomi di assicurarti che nessuna delle mie coinquiline ti avrebbe visto così.

Ogni tanto mi torna in mente l’ultimo giorno che abbiamo speso insieme. L’aria fresca di Monza, la piazza col Duomo in restaurazione – che sfigati, avevamo girato per una mezz’ora buona per trovarlo e alla fine la facciata era coperta. Hai giocato a indovinare di che materiale fosse stata fatta. Eri già altrove. Non ho un ricordo così prezioso di quella giornata, quando approfondisco, quando colgo le sfumature, i silenzi, la noia, le sigarette accese e poi buttate via a metà.

Il freddo e l’umidità della sera (era maggio) ti si attaccavano addosso mentre camminavi dietro di me, seguendomi (mi guardavi? Guardavi la stazione? Pensavi al mio modo di camminare?). cercavamo una panchina, l’abbiamo trovata, ci siamo seduti vicini, ti ho strofinato la mano sulla schiena, rabbrividivi, e per qualche secondo hai fissato un punto indistinto – lo facevi spesso. Poi, senza muovere gli occhi, mi hai detto che ero proprio dolce, e che saresti stato perso senza di me. Io facevo tesoro, in quel momento della mia vita, di ogni tua delicatezza, e quella la accolsi senza troppa convinzione, ma comunque grata che avessi avuto il pensiero di dirmi una cosa del genere – vera o falsa che fosse (sapevo fosse falsa. Speravo non lo fosse).

Tornando indietro mi nasconderei dietro uno degli alberi dall’altro lato della banchina, dopo i binari. Accovacciata, ci guarderei dal buio, illuminati dalla luce intermittente dei lampioni difettosi della stazione (quelli che giocavamo a dire che ci ricordavano noi), e saprei dirmi se da fuori l’avrei mai detto che quello sarebbe stato l’ultimo momento di tenerezza tra di noi. Probabilmente sì, probabilmente non l’avrei neanche chiamata tenerezza, quella. Probabilmente l’ultima è stata tempo prima. Probabilmente non è neanche quella lì, neanche quella di tempo prima, probabilmente era una ancora precedente a questa, non saprei ben definire i contorni del tuo amore che è stato incontenibile come le sfumature. Incontenibile nel senso di indefinibile. Le sfumature qualcuno direbbe che non esistono. Il colore, se ci pensi bene, non c’è. Sto divagando, comunque, filosofeggio.

Quando dormivi a casa mia era bello perché se avessi allungato la gamba ci sarebbe stata la tua, a un certo punto, che avrei incontrato. Avrei fatto su e giù col piede e ti avrei forse dato fastidio. Se allungavo la mano, a un certo punto avrei incontrato la tua spalla (dormivi sempre a pancia in giù, come me), e poi il tuo collo, e le mie dita si sarebbero tuffate tra i tuoi capelli. Però dormivi e preferivo lasciartelo fare. Ogni tanto, quando eri tu a svegliarti, facevi lo stesso con me, e con la mano ti allungavi fino a toccare la mia, abbandonata vicino al cuscino, e mi accarezzavi il braccio finché non facevo lo stesso con te. Era bello dormire con te, era piacevole.

Il problema di come le cose sono finite tra di noi è che non so cosa farmene, adesso, di tutti questi bei ricordi. Non so come trattarli, quindi non li tratto, li tengo lì e ogni tanto mi tengono compagnia, come a una donna anziana che non ha nient’altro che le sia rimasto. Di te non mi è rimasto altro, e va bene, so che è una frase dal tono triste, però è passato un mese da quando ci siamo lasciati e visti l’ultima volta e penso che le cose dovessero andare così, alla fine, e che non ci fosse niente che io avrei potuto fare per impedirti di rovinare completamente tutto quello che abbiamo avuto. I ricordi forse avrebbero dovuto essere contaminati altrettanto e la maggior parte lo sono – io che prendo il pullman per venirti a trovare, le canzoni che lo stereo della tua macchina cantava a tutto volume e quelle che eri tu a cantare a tutto volume, quelle che piacevano ai tuoi amici e quelle che odiavano i tuoi amici, la tua faccia, la tua faccia la odio tantissimo, così come i tuoi capelli e quella barba del cazzo che ti sei fatto crescere ultimamente.

Odio molte cose da quando hai rovinato tutto di te e del tuo aspetto e del tuo modo di essere. Cose che prima mi intenerivano ma adesso mi danno solo un gran fastidio. Come il tuo modo di cambiare i capelli ogni volta che inizia una nuova fase della tua vita – il fatto che quando sei stato con me hai cambiato 2 volte acconciatura e taglio di capelli avrebbe dovuto già dirmi qualcosa, ma si è ciechi davanti alle ovvietà perché non ci paiono tali, finché non ci paiono tali. Mi dà anche molto fastidio che ascoltiamo musica simile e anche nient’affatto uguale, i tuoi gusti pretenziosi, e anche in fondo un po’ banali, solo che non lo accetteresti mai, tu, di essere una persona banale. E chi ti credi di essere? Siamo tutti banali. Non sei così diverso dagli altri, così speciale, così unico, e questa era un’idea che per te non era accettabile e che se anche lo fosse non era gradevole da accettare.

Mi dà anche molto fastidio pensarti d’estate, che ti diverti, prendi il sole, ridi e canti e suoni la tua chitarra elettrica del cazzo, o peggio ancora ti porti dietro quella acustica, così fai cantare tutti gli altri con te e sai che bella situazione piacevole si viene a creare, con tutti voi che cantate, con noi che ci siamo lasciati da poco e con te che canti allegro banalità italiane e testi incomprensibili ma che ti piacciono solo per il loro potere evocativo. Che risposta un po’ deludente, comunque, quella che i testi di Calcutta ti piacciono tanto per le immagini che evocano. A me i testi non devono far immaginare cose. A me i testi devono dire qualcosa, qualcosa che mi riguarda e di cui non mi sono ancora resa conto, o che non ho saputo spiegare.

Comunque era bello quando dormivi a casa mia. Mi piaceva quando di notte allungavi il braccio per toccarmi, assicurarti che ci fossi, saziarti un po’ delle mie attenzioni che forse si erano fatte all’improvviso necessarie, nel cuore della notte, alle prime luci del mattino. L’ultima notte che hai dormito qua, e non è qualcosa di cui mi rendo conto adesso che ci ripenso, non ti sei sporto per toccarmi neanche una volta, mentre io ti ho accarezzato la schiena più volte, e le mie dita si sono avventurate tra i tuoi capelli, mentre eri bollente e la febbre scendeva, e forse si portava via anche l’ultimo pezzettino di amore per me che ti era rimasto incastrato da qualche parte nel tronco – immagino forse sotto allo stomaco, che ti faceva male la sera prima. Comunque, immagino dovesse andare così. Adesso mi danno fastidio tante cose di te e continuo a piangere a ripensare a quanto poco tempo ti ci è voluto per andare avanti. ‘Non ti nascondo che sono andato avanti’. La tua superficialità ha la pretenziosità di pronunciarsi simile a fondali che non ha mai esplorato o visto dalla sua altezza.

  
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