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Autore: kissenlove    19/06/2018    1 recensioni
Lauren Castle a soli quindici anni era già una stella del lacrosse, sport che praticava fin da piccola, ma il suo sogno s'infrange alla vigilia di una partita importante. Scopre di avere la leucemia ed è costretta a rinunciare alla sua passione per stare costantemente sotto controllo, tra un ospedale e l'altro. Arresasi all'idea di essere un "malato terminale" e di non avere più speranze, trascorre le giornate nella sua stanza di degenza in compagnia di un soldato americano, ormai in congedo, a cui si lega molto. Sarebbe potuta continuare così, per sempre, ma a quanto pare il destino ha ben altri piani...
(ISPIRATO A UNA STORIA VERA.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le corde del cuore'
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IN OGNI ATTIMO
– capitulo 4 – 


 
“Non chiudere la porta in faccia ai sentimenti.
Vivi, anche se fosse l'ultima cosa che fai,
in questo mondo.”





 
 
Quella mattina era nei pasticci più degli altri giorni. Era proprio nei guai, ci si era infilato con tutte le scarpe nell'esatto momento in cui i suoi piedi avevano premuto i pedali e l'auto aveva preso a muoversi verso l'uscita. Purtroppo il tempo era poco e Adam non badò a misurare la distanza. In quel momento si sentiva talmente nel pallone, che continuò a fare la retromarcia e si fermò quando sentì lo stridulo rumore, provocato dalla colluttazione tra porta e carrozzeria. Tirò il freno a mano e mise a folle dopo aver portato la macchina al punto di prima. Sbattè la portiera sbuffando ripetutamente e fece scorrere lo sguardo sull'intera carrozzeria sperando in niente grave. Prima di riuscire a tirare un sospiro di sollievo si rese conto di un maledetto graffio – a malapena visibile, certo – alla basse delle ruote. Si rialzò e agitò il pugno in aria. La preziosa audi 8 del suo vecchio che gli era costata più del suo stipendio, orribilmente deturpata. Sospirò, passandosi una mano sulla fronte. Ora poteva dire addio alla possibilità di guidarla ancora. Era stata un'impresa convincere suo padre a lasciargliela, poichè quella della madre era parecchio scomoda nelle manovre, ma era riuscito ad ottenerla promettendogli solennemente che si sarebbe preso cura di lei. I primi tempi l'aveva fatto, se ne era preso cura come se fosse stata sua sorella, stando attento a dove parcheggiarla per evitare... questo.
Quest'orribile striscia bianca, in bella vista sulla carrozzeria blu notte. Alzò gli occhi al cielo e rientrò in macchina, sperando di arrivare illeso a scuola. Per fortuna, suo padre non rincasava prima delle cinque, quindi avrebbe avuto tempo per pensare a una scusa plausibile dopo la scuola.
Mentre guidava in direzione del centro di Kingstown, il cellulare vibrò un paio di volte sul sedile affianco.
Sapeva chi lo stava cercando alle nove e mezza della mattina, in pieno orario scolastico, e senza perdere di vista la strada si sporse per controllare il messaggio appena comparso.

23 febbraio. Jimmy, online... sta scrivendo.
Adam, dove cavolo sei? Il prof sta facendo l'appello, sbrigati!

Non rispose, e continuò a premere l'acceleratore sentendo, di conseguenza, la macchina vibrare. Continuò a guardare dritto davanti a sè, finché non vide una striscia di mare, sottile, che si confondeva e creava un piacevole contrasto con i prati irlandesi. L'aria era più leggera rispetto a quella di città, lo riempì i polmoni e gli donò una sensazione piacevole sul viso, mentre teneva il finestrino leggermente aperto. Si perse per un secondo a contemplare il paesaggio, donato all'isoletta di dun Laoghaire, e per poco non investì un anziano intento ad attraversare. La macchina frenò bruscamente, azionando il multi collision brake, sbalzandolo prima in avanti e poi indietro, trattenuto tenacemente dalla cintura. L'anziano lasciò cadere il bastone, portandosi instintivamente una mano al petto. Sollevò, poi, il bastone da passeggio agitandolo contro il muso dell'auto, imprecando contro la disattenzione dei giovani d'oggi. Adam mimò una "scusa" piuttosto impacciato, e dopo che l'anziano passò dalla parte opposta ripartì, lasciandosi scivolare con sollievo contro il sedile. La giornata non poteva andarmi peggio - pensò, riprendendo a guidare con un ritmo moderato. L'ultima cosa che mancava era un incidente. Dopo dieci minuti di rettileneo e qualche curva, imboccò l'arteria principale, costeggiando il mare. Lo sciabordio delle onde riempì l'abitacolo e l'accompagnò fino ai cancelli della scuola.
Visto dall'esterno, il Sandford Park School somigliava a uno squallido capannone in ferro e vetro, immerso in una radura abbandonata a sé stessa dove l'erba ti arrivava a metà gamba, ma il fatto che si trovasse a pochi passi dall'oceano lo rendeva un posto incantato. Il patio era vuoto, disseminato di tante vetture. Le lezioni dovevano essere iniziate da almeno un'ora, come gli aveva scritto Jimmy. 
Prese la valigetta e il cellulare e si diresse a passo svelto verso l'ingresso. Una schiera di armadietti verde - uno dei colori cardini dello stendardo - chiusi da lucchetti gialli gli si parò davanti, prima di scendere ai piani inferiori, dove per quest'anno avevano posizionato gli studenti del Senior Cycle, quelli a cui mancava un anno per conseguire il diploma. Aprì il suo, nella fila di sinistra, con una strana combinazione di codici e prese il materiale. Quando si trovò davanti alla porta grigio-topo trattenne il respiro e afferrò la maniglia. Una quarantina di occhi lo fissarono dai loro banchi, un inquietante mucchio di giacche verdi, e in più quelli del professore, piantonato alla cattedra. Si sentì terribilmente a disagio e abbassò la testa fissandosi le scarpe, in pendant con la mise orribile. Per un momento, pensò di voltarsi e scappare, poi il suo sguardo vagò nella direzione dei compagni, alla ricerca di Jimmy, il suo amico, e lo trovò scomposto ad infastidire Jade, la sua probabile compagna.
"Signor Clark, finalmente ci degna della sua presenza!" esordì brusco il professore, risvegliandolo senza troppi indugi dalla trance momentanea in cui era piombato.
Niente a che vedere con il dolce rumore delle onde o il verso di un gabbiano, piuttosto somigliava a un'unghia che strisciava contro il lavagna facendoti tremare nelle ossa.
"Quest'istituto non è un albergo ad ore. Non può presentarsi quando le pare e piace. Ci sono delle regole da rispettare." ad ogni frase batteva sempre di più la mano sulla cattedra, facendo tremare gli infissi delle finestre. La classe piombò nel mutismo.
Adam fissò negli occhi l'uomo più detestabile del mondo e si schiarì la voce.
"Non ho sentito la sveglia, signor Python." 
"Per favore, vada a contarlo a qualcun altro. Pensa sia nato ieri?"
"No, signor Pitone." 
"Python, per amor del cielo!" sbraitò.
Un velo di sudore gli imperlava la fronte mentre Adam si tratteneva da prenderlo in giro ancora, e ancora, per quel cognome che gli calzava a pennello. Di certo, non poteva dirgli che sua madre aveva completamente equivocato le parole del giornalista su una scossa, che aveva interessato Dublino a dieci chilometri da Dun Laoghaire, costringendo lui e suo padre a intrufolarsi nell'audi per mettersi al sicuro. E che, uscendo dal garage, aveva rigato la macchina del padre e quasi investito un passante. Non poteva, di certo
"Vada a sedersi. Le risparmio la presidenza per stavolta." esclamò puntando il dito su una fila di banchi. Adam lo ringraziò e si affrettò a percorrere quello stretto corridoio che separava le due file.
"Clark?" lo richiamò, un'altra volta. Si bloccò di colpo voltandosi, e vide il dito dell'uomo indicargli un banco unico, nel fondo della stanza.
"Si sieda lì."
Adam controllò con un rapida occhiata ogni centimetro, tutti occupati. Una volta assicuratisi che quello fosse l'unico libero vi gettò i libri e scivolò sulla sedia. Ormai rilassato e a suo agio, inchiodò gli occhi sugli appunti. Dopo aver concesso abbastanza attenzione a quell'uomo per quasi un'ora, si stiracchiò velocemente e girò il viso in direzione della finestra. Non aveva mai notato questo posto, nessuno l'aveva occupato prima di lui, e il professor Python lo utilizzava, escluscivamente, in caso di punizioni sfruttando la fobia della solitudine. Ognuno cercava di mettersi vicino a qualcuno - persino accanto al peggior nemico- e tutto per non rimanere soli. Si sceglieva la terza fila, una via di mezzo tra prima e ultima, ma perfetta per chi voleva eludere le interrogazioni e passare inosservato.
Qualcosa lo colpì e finì sul pavimento. Adam si voltò e finse di stare attento temendo che Python se ne fosse accorto e si rimise composto riprendendo la penna in mano.
"Pss.. Adam..." lo chiamò a bassa voce Jimmy, sporgendosi dal suo banco, due file avanti.
"Cosa..." arricciò la fronte e trasalì quando il professore alzò di due ottave la voce per farsi sentire anche dagli ultimi banchi. Poi si girò verso la lavagna, continuando la mappa concettuale.
"Vedi cosa ti ho scritto..." bisbigliò, facendo segno alla pallina.
L'altro sospirò. "Mi farai scoprire, scemo." rispose. 
Approfittando che fosse di spalle si chinò per raccogliere quel pezzo di carta arrotolato. Dovette allungarsi a causa della pessima mira del compagno per non rischiare di finire sul pavimento. Lo afferrò e fulminò il mandante da lontano. Quello gli fece un sorrisetto in risposta e scrollò le spalle.
"Maledetto..."
Si tirò su, e senza accorgersene, andò a sbattere contro lo spigolo del banco.
Serrò la mascella in una muta espressione di dolore, trattenendo a stento un'imprecazione. Si accasciò a terra, massaggiandosi la parte offesa, sentendo una protuberanza sotto i polpastrelli. Jimmy si lasciò scappare una risatina, che attirò subito l'attenzione del professore.
"Clark! Cosa cazzo fa per terra? Gioca a nascondino?" 
"Eh, indovini..." scherzò Jimmy.
L'uomo si accigliò, attendendo una risposta dal diretto interessato.
"Può ripetere, Costa? Non ho sentito bene." lo incalzò, impugnando il gesso tra pollice e indice.
Adam restò zitto in attesa che quel dolore passasse prima di ammazzare il suo amico.
"Clarke, ritorni seduto láithreach !" gli intimò l'insegnante, riprendendo la lezione dove l'aveva interrotta, augurandosi di non doversi più fermare per le restanti due ore. Adam si rimise sulla sedia, il dolore si era leggermente calmato, ma la botta gli aveva lasciato un bernoccolo grande quanto una noce. Il suo sguardo cadde inevitabilmente sul bordo del banco, dove vide due lettere l'una accanto all'altra, una L e una C, scritte in grassetto e più volte ripassate con la penna. Le sfiorò tracciandone il contorno, l'inchiostro era secco ormai, chissà chi le aveva scritte. Sollevò il volto e cercò di fare mente locale per ricordare chi avesse occupato quel banco, ma non ricordò nessuno da associare alla L della dedica. Poteva essere stato un vecchio alunno, che si era affezionato a quel banco tanto da volergli lasciare un segno, e lui stava semplicemente perdendo tempo.









"Schema 3, ragazzi!" esclamò il mister da bordo campo, gesticolando con le dita. Adam appena colse il segnale scattò in avanti, posizionandosi ad un metro dalla porta avversaria, dove il portiere lo stava attendendo con le ginocchia flesse. Jimmy manovrò abilmente il pallone evitando le scivolate. Con un fulmineo torcimento del busto passò la palla all'attaccante. Adam pronto a ricevere la fece rimbalzare col petto e prese a correre, incitato dalle ragazze e dai compagni. Uno di loro tentò di braccarlo frontalmente, ma Adam lo scansò con una lieve rotazione del bacino e riuscì a smarcarsi, segnando il terzo goal di giornata e chiuse la partita amichevole. Le ragazze gli lanciavano sguardi trasognati dalla tribuna.
"Sei stato fenomenale!" ribadì il difensore, afferrandolo per il collo.
"Grazie alla tua azione. Sei stato perfetto anche tu."
Il cuore palpitava per lo sforzo e percepiva tensione al livello dei muscoli, ma era soddisfatto del suo percorso. Era quello che desiderava da quando aveva cominciato il calcetto, a otto anni.
"Però non metterci tutta questa forza, in fondo è stato soltanto un'amichevole."
"Non è importante che partita disputiamo, dobbiamo sempre dare il massimo!"
"Hai ragione." alzò le mani, bevendo piccoli sorsi. "Però non esagerare. I muscoli si stirano facilmente in questi casi, e se ti infortuni come facciamo?"
"Non succederà." lo rassicurò il capitano, osservando la fascia gialla che gli cingeva il braccio.
"Sei sicuro?"
"Sì, smettila di fare la chioccia!" Quello scosse il capo, saltellando sul posto. Adam prese un sorso di gatorade, e in silenzio, meditò sulla possibilità di chiedere a Jimmy notizie in più su quell'L.
Forse lui aveva conosciuto quella persona, dato che aveva iniziato gli studi del liceo in quella classe.
Arricciò la fronte, turbato da tutti quei pensieri e decise di concentrarsi sui lacci degli scarpini.
"Perchè non vai dal tuo fan club?" 
"Non mi va." si limitò a dire Adam, balzando in piedi. 
"Ma sono venute per te." continuò Jimmy, indicando il gruppo di ragazze, in cui individuò anche qualche giocatrice di lacrosse. Poco dopo, sentì la voce di Megy e la sua figura longilinea si fece spazio nel suo campo visivo. Le rimproverò e quelle rimasero a testa bassa, limitandosi ad annuire.
Jimmy la osservò incantato per tutto il tempo.
Adam gli schioccò le dita a un palmo dal naso e riuscì a scrollarlo dalla momentanea immobilità.
"Perché non vai a parlarle?" gli appoggiò una mano sulla spalla, scuotendolo leggermente.
Jimmy non rispose, continuando a fissarla mentre le afferrava per i polsi costringendole a schiodarsi dalla balaustra per tornare al loro campo, che si trovava esattamente al lato opposto.
"Troppo tardi." 
"Non importa" fece l'altro.
Mentre la ragazza si allontanava gli rivolse un'occhiata indecifrabile, cosa che per un'attimo aprì tanti interrogativi nella testa di Jimmy. Diede le spalle ad Adam e proseguì a camminare verso i lavandini e, intanto, con la coda dell'occhio sperò di incrociare ancora una volta quegli occhi perforanti.
Adam si appoggiò al bordo a braccia incrociate, il suo viso era rigido. 
"Jimmy, posso farti una domanda?"
"Su cosa? Se vuoi dei soldi, mi dispiace deluderti ma sono al verde."
"Non m'interessa il tuo budget economico." Precisò, facendolo girare automaticamente nella sua direzione, con l'asciugamano attorno al collo e i capelli appiccicati alla fronte.
Adam gli si avvicinò di più. "Senti, Jimmy, tu per caso sai chi sedeva nel banco di oggi?"
Jimmy ci pensò su. 
"Perché t'interessa tanto?" gli domandò.
Il capitano fece spallucce nel vano tentativo di nascondere la curiosità. Era sempre stato un tipo curioso, attratto dai misteri, dalle cose che non conosceva. Si fingeva sempre un pirata a bordo della sua nave alla ricerca dei preziosi forzieri segnati su una vecchia mappa mezza bruciacchiata. Una volta aveva rischiato di dare fuoco al tappetto della sua camera. 
"Non si risponde a una domanda con un'altra." Lo rimbeccò il castano, passandosi una mano fra i capelli. "E poi non sono certo si tratti di una ragazza. Comunque, dimentica quello che ho detto."
Non appena tentò di andarsene il difensore lo prese per un braccio costringendolo a fermarsi.
"Dimenticati quello che ho detto." gli ripetè, di nuovo. 
"No, forse posso aiutarti. Ma a una condizione..."
Adam roteò gli occhi al cielo, sbuffando. "Lo sapevo. Cosa vuoi?"
"Una capatina a quel night club che hanno inaugurato l'altro giorno." 
"Nient'altro?"
"Ho gusti sopraffini." si vantò l'altro mentre sorrideva beatamente, facendo intravedere le fossette ai lati della bocca. "E poi hai bisogno di una ragazza. O hai intenzione di rimanere così a vita?"
"Sono troppo impegnato con il calcio per..." ma Jimmy lo interruppe. "Lo so. Ma cosa c'è di male se una sera ti lasci andare?"
Adam era pronto a ribattere che non gli serviva il suo aiuto per trovare la sua anima gemella, ma l'altro lo zittì. Gli avvolse le braccia attorno al busto e lo trascinò verso la panchina, dove il mister li stava aspettando, sgolandosi da ormai dieci minuti. L'intera squadra dopo poco lo accerchiò e rimase in religioso silenzio, in attesa che il loro allenatore pronunciasse i nomi di coloro che avrebbero disputato il campionato. Un fischio acuto e breve attirò l'attenzione degli ultimi, che tacquero.
Adam trattenne il respiro mentre il suo sguardo correva sulla tabella alle spalle dell'uomo. Si strinse nelle spalle torturandosi un labbro fra i denti. Il mister prese un foglio e lo sventolò in alto.
"Qui ci sono i nomi dei titolari. Chi verrà nominato deve fare un passo avanti. Il resto sarà di riserva."
"Si muova mister, che qui facciamo mattina!" gli gridò di rimando Jimmy. Adam gli diede una gomitata nelle costole, intimandogli di farla finita.
"Okay, a porta Igor. Come difensori laterali ho deciso di schierare Nicolai e Aaron, mentre come centrale Jimmy..." e mentre lo diceva, intercettò lo sguardo del diretto interessato che strinse i pugni contro i fianchi. "Centrocampista Caèl, Luis, e trequartista Finn e Ronald. In prima punta Adam..."
Jimmy gli diede una pacca sulla spalla e il castano gli sorrise, facendo con sommo piacere quel passo in avanti che aveva aspettato praticamente da tutta la vita. "chiudono la formazione Sergio come seconda, e infine Niall come ala." chiuse il foglio. "Bene, vi auguro buona fortuna, e ricordate di tenere alto il nome del nostro istituto, okay?"
Tutti gridarono a squarciagola quell'okay per darsi la carica giusta in vista delle prossime partite.
"Per la vittoria del liceo Sandford Park School!"
Lo seguirono a ruota anche gli altri.










"Basta così, ragazze! Potete andare." disse Megan riunendo in cerchio le compagne, che stremate si accasciarono a terra. Si erano allenate ininterrottamente, concendendosi solo mezz'ora di pausa. Megan stava ricoprendo alla perfezione il ruolo di capitano, le spingeva a dare il massimo come aveva sempre fatto Lauren, e anche se era difficile mantenere il ritmo, tutte tenevano bene in mente che lo facevano principalmente per loro stesse, perchè il lacrosse era una passione non una costrizione. E non avevano smesso per un solo momento di pensare a come stesse Lauren, visto che la ragazza le aveva praticamente estromesse dalla sua vita, dopo la scoperta della malattia. Il neo capitano aveva dovuto fare appello alla sua forza di volontà per guardarle negli occhi e mentire. Aveva cercato di rendere più veritiera la versione aggiugendo che Lauren stesse continuando a sottoporsi alle chemio e a fare controlli approfonditi per stabilire a che stadio fosse giunta la malattia, senza neanche far riferimento alle dimissioni dell'altro giorno, e si sentì terribilmente in colpa. Sapeva che le compagne avevano il diritto di essere informate sulla situazione, ma già abbastanza persone stavano soffrendo, e lei non voleva lanciare altra legna ad ardere. Dopo aver sorriso falsamente e detto un'altra trafila di bugie, si diresse barcollante a bordo campo dove aveva lasciato il borsone. Fece un sospiro e si accasciò sulla panchina, appoggiando la mazza sulle ginocchia. Aveva la pessima abitudine di sfidare i suoi limiti. Correva, tirava fino a sentir le braccia indolenzite e i muscoli implorare pietà. 
Una lattina dietro l'altra. Il suo petto si alzava e abbassava, mentre stringeva al petto la mazza. Continuava ad allenarsi fino agli ultimi sprazzi di luce, non importava che le gambe non la riuscissero più a reggere quella fatica estrema a cui si era condannata per dimenticare... 
Chinò il volto e la osservò, rigirandosela fra le mani. Gliel'aveva regalata Lauren subito dopo che smise di giocare, e da quel momento Megy non se ne era più separata; se la portava sempre dietro ad ogni partita, immaginando Lauren vicino a lei che la spronava a tirare. Si sentiva più forte e decisa di prima, ma non si sarebbe sognata mai di soffiarle il posto di capocannoniere della squadra. Quello sport le scorreva nelle vene, era nata per fare quello, ed era certa che un giorno sarebbe tornata a far tremare le avversarie con i suoi tiri magistrali e impossibili. Avevano sempre costruito le azioni di gioco insieme, lanciandosi occhiate complici da una parte all'altra del campo, e nulla – neanche il cancro – sarebbe riuscito a spegnere quella passione. Anche se il male la stava consumando, se la cera si stava sciogliendo poco alla volta, tanto da far pensare a una fine certa e inevitabile.

Il cellulare squillò riempendo improvvisamente il silenzio che la circondava. Appena vide il display nefasti scenari le attraversarono il cervello. Il suo nome continuava a lampeggiare. Aveva le mani sudate e le dita tremavano mentre premevano quel tasto verde, e un senso di nausea le pungeva nello stomaco come uno spillone. 

Avrebbe voluto dirle così tanto, ma si limitò a un semplice "pronto".

– Cara, sono Claire.

Oh, no... 

– Signora Castle, è successo qualcosa? 

Scattò in piedi come un soldato. 

– No, non spaventarti.

Il suo cuore tornò a battere regolarmente e la voce ad essere meno tremolante, ma il senso di panico restò. 

Si schiarì la voce. – Claire, come sta Lauren?

La domanda da un milione di dollari.

– Non bene, purtroppo. Stanotte ha avuto un tremendo incubo e quando le ho chiesto cosa avesse sognato, non me l'ha voluto dire, ma mi è sembrata scossa.

La donna pareva sentirsi in colpa per i malesseri notturni della figlia. E nonostante ci fosse uno schermo a dividerle, Megy immaginò quel video incresparsi, farsi teso e incupito, come tutte le volte che il dottor Tognetti dice le cose come stanno. Ormai era diventata parte di quella famiglia. Percepiva il loro dolore, lo provava sulla sua pelle, e viveva momenti in cui non si poteva fare a meno di essere incazzati col mondo e altri in cui si provava a sorridere ed essere felice.

–Claire, stia tranquilla. Dov'è ora?

– In camera sua. Ha mangiato poco e niente, poi è andata a letto – spiegò velocemente la donna, quasi colta da un attacco di panico. – Ho paura, Megan. Non voglio che mia figlia torni in ospedale un'altra volta. Non lo sopporterei.

– Non succederà, Claire.

–Non potresti passare stasera? A Lauren farebbe bene vedere la sua amica.

– Va bene, vedrò di venire per le sette e mezza. E non si preoccupi che la rimetterò in piedi a suon di calci.

La donna ridacchiò dentro la cornetta. – Spero tu abbia più fortuna. Lauren sa essere testarda.

–Lasci fare a me e vedrà.

Dopo essersi salutate le due donne chiusero la conversazione.

"Ah, accidenti Lauren! Mi farai morire di crepacuore!" 













Ad aprirle la porta di casa Castle quella sera ci pensò Alvin. Appena vide Megan fermò sullo zerbino rimase a contemplarla, come in catalessi, con la manina ancorata alla porta. Megy si chinò verso il viso paffuto del bambino e gli accarezzò dolcemente una guancia.
"Megy!" esclamò saltando sul posto.
"Ciao Alvin. C'è tua sorella?"
"Si è chiusa in camera." si limitò a dire sbuffando, per il poco interessamento che la ragazza stava mostrando nei suoi confronti. Era da quando Megy era diventata amica della sorella, che il piccolo si stava impegnando con tutte le sue forze per dimostrarle quanto ci tenesse. L'aveva corteggiata, dedicato tante poesie e regalato un fiore di carta pesta fatto ad artistica con le sue mani, ma lei continuava a trattarlo come un bambino di dieci anni – cosa che purtroppo dimostrava ampiamente a livello fisico. Apprezzava il fatto che lo proteggesse e difendesse dalla furia di Lauren, ma questo tra qualche anno gli sarebbe bastato sempre meno.
"Alvin, chi è alla porta?" gridò la signora Castle dalla cucina.
"Megan, mamma." rispose il piccolo, senza distogliere gli occhi da quella specie di angelo.
"Vai a chiamare tua sorella." 
"Perché dovrei chiamare quel ghiro?" ribattè. 
"Alvin!"
"Come ti permetti di darmi del ghiro." tuonò la ragazza sbucando nel corridoio e fulminando il fratello, che ogni volta la ignorava, concentrandosi sulla ragazza con cui sognava un giorno di sposarsi, se fosse stata ancora attraente e senza rughe. Lauren li raggiunse a piccoli passi, stringendosi lo scialle attorno alle spalle, e con una manata spostò il fratello interponendosi fra di loro.
"Scusalo."
"Oh, non ti preoccupare."  si spostò leggermente guardando in direzione del piccolo spasimante, e gli strizzò un occhio. "Alvin, dopo vieni in camera di tua sorella che ti racconto una bella storia."
Il piccolo s'illuminò. "Davvero, posso?" non perse tempo nemmeno a chiedere il permesso alla proprietaria della stanza.
"No, non puoi unirti a noi." il suo entusiasmo si frenò all'istante. 
"Perché? Non mi scandalizzo."
"Perché sei piccolo." 
Alvin mise il broncio, con già le lacrime agli occhi.
"Stai zitto." lo ammonì la sorella.
"Ma parli tu che non hai manco uno straccio di fidanzato!" le urlò contro.
Lauren lo guardò in cagnesco. "Perché non vai ad aiutare la mamma invece di stare qui a fare il cascamorto con la mia amica?"
"Me ne vado, ma prima Megan deve promettirmi che mi racconterà una storia."
"Sì, Alvin. Dopo ti racconterò una storia, ma adesso ubbidisci a tua sorella." 
Alvin batté le mani felice e corse via, strappando un sospiro rassegnato alla sorella che lo seguì con lo sguardo finché non scomparì in cucina. In fondo, stava regalando a suo fratello ogni pezzo della quotidianità che non aveva più. Alvin non sapeva della sua malattia, e i suoi genitori erano stati d'accordo di non dirglielo per non farlo soffrire. Aveva ancora dieci anni ed era meglio che non venisse turbato da questi discorsi, così si erano impegnati per costruirgli attorno una realtà distorta fatta di bugie continue, sorrisi tirati e lacrime ricacciate indietro. I loro litigi davano l'impressione che nulla fosse cambiato nulla. L'unica cosa che voleva Lauren era proteggere quel bambino, impedirgli di scontrarsi subito con la sadicità della vita. Voleva a tutti i costi fargli credere che era bellissimo stare al mondo, anche con gli sbagli, le delusioni, le conquiste e le perdite. La vita era l'unica cosa preziosa a cui ogni essere umano si doveva aggrappare con le unghie e i denti, per non lasciarsi travolgere dallo sconforto. Era una sola, un'unica possibilità e non andava sprecata. Voleva lasciare ad Alvin qualcosa di importante, oltre ai loro litigi che cercava di assecondare il più possibile. Si divertiva a rispondere alle sue frecciatine, ad arrabbiarsi e rincorrerlo per tutta casa. Sembravano due bambini quando si torturavano a vicenda con il solletico, e lei dimenticava per un momento di essere malata.
Stava bene quando Alvin tornava a casa gettando a terra il suo zainetto e facendo una confusione pazzesca. Era così fissato con gli Avengers che aveva costretto la madre a comprargli il vestito di Spider Man, e il giorno di Carnevale si era presentato a casa di Megy fingendo di doverla salvare da un probabile criminale che girava in città, e la ragazza l'aveva assecondato divertita.
Si era guadagnato anche un piccolo bacio sulla guancia e per poco non era finito all'altro mondo – le raccontò il giorno dopo Megy, facendo fare a lei e il signor John un mucchio di risate. Ma non potè fare a meno di maledirsi di star perdendo i momenti di crescita del fratello, e tutto per colpa del destino.
Lui, però, le aveva subito risollevato il morale facendole riscoprire il dolce sapore di casa.
L'affetto e l'ingenuità di quel bambino la curavano più di tutte quelle medicine che assumeva ogni giorno, ad ogni ora. Forse era vero che Alvin era un piccolo eroe e non aveva bisogno della maschera per calarsi in quei panni.
"Un giorno lo cucinerò al forno con le patate."
"Dai, ha solo dieci anni." 
"Di cattiveria." aggiunse, chiudendo la porta. Salutarono brevemente i signori Castle e si diressero verso la camera. Megan ricordava benissimo il motivo che l'aveva spinta a frequentare la ragazza che stava tallonando, al di fuori delle partite e degli allenamenti. Tre anni fa percorse lo stesso corridoio, con fra le mani una cartellina rossa, con all'interno un progetto da finire. La professoressa l'aveva spronata a partecipare al concorso di disegno, e Megy si stupì di ritrovarsi in squadra con la ragazza prodigio. Ci misero l'intero pomeriggio, alternando momenti di svago a quelli di lavoro. Lauren si occupò di realizzare il cartellone, mentre l'altra faceva ricerche in Google trovando immagini che potessero dare l'idea della pace. Si aggiundicarono il secondo posto, con sommo dispiacere degli altri che speravano in un primo posto, ma alle ragazze non importò. Erano soddisfatte lo stesso, felici di quello che avevano realizzato e del legame che stavano pian piano stringendo. In poco tempo, si era creata un'unione indiscindibile che nessuna delle due aveva mai pensato di trovare tra tanta falsità e dopo altrettante delusioni. E invece, tre anni dopo, erano ancora in piedi, a tenersi per mano, e a fottere la vita. Erano cadute così tante volte ed alla fine avevano imparato a volare, a raggiungere un equilibrio. Ogni cicatrice che si portavano addosso, sulla pelle e nel cuore, era il risultato di tutte le battaglie che avevano affrontato. Era lo stemma del loro coraggio, e anche se avevano da perdere tanto, forse troppo... un giorno sarebbero state felici.








 
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Sono contenta di aver scritto questo nuovo capitolo, come avete ben notato si comincia ad entrare nel vivo del libro, ed anche se la narrazione segue un ritmo lento, e non sembra succedere niente di strano fino ad adesso... inevitabilmente vi accorgerete di essere arrivate al punto focale.
Vorrei tanto sapere cosa ne pensate del personaggio di Adam, come l'avete inquadrato finora? Che impressione vi ha fatto? Positiva o negativa?
E' coerente con l'immagine che ho detto gli avrei dato?
 
Ovviamente aspetto i vostri commenti e pareri, e ringrazio sentimentamente dal più profondo del mio cuore chi sta leggendo senza farsi vedere, chi l'ha messa nelle preferite, nelle seguite, e addirittura nelle ricordate! e ovviamente chi mi ha commentato per la prima volta, esponendo recensioni che mi hanno commosso davvero molto. Karen Humbert. 
 
Stavolta non ho previsto note a piè di pagina, ma il termine irlandese significa "subito". 

Vi ringrazio, e spero che continuerà a piacervi. 







 

 
 
   
 
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