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Autore: alesstar    21/06/2018    0 recensioni
Ai margini della gola del Canyon esisteva una miniera clandestina simile a un budello che fagocita, il suo nome era Sembryn. Poche le testimonianze, chiunque fosse passato di lì non aveva fatto ritorno.
È però nota una storia di cui non si hanno prove concrete: vent’anni fa, un drappello di uomini senza alternative, si trovò ad attraversare quell’Inferno inesplorato per una ragione davvero semplice: cercare l’uscita. Si scoprì solo più tardi che quegli uomini non erano gente qualunque e che non si trovavano lì per caso.
Ad oggi non è possibile rintracciare lo scavo, come ingoiato o imploso. Ma si hanno notizie di MARCUS, l’unico superstite mai esistito. E questa è la sua storia.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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I
RISPETTARE I PATTI

 
 

Nessuno è mai uscito vivo da Sembryn.
La bocca della miniera era ben nascosta, riparata dai fianchi del Grand Canyon a sud del confine. Attraversarla era come farsi masticare vivo e poi inghiottire.
Un buco aperto illegalmente nelle viscere della montagna, sul versante est, tra pareti rocciose tanto nere quanto glaciali e mulinelli di polvere che sibilano nelle orecchie fino a far impazzire. C’era chi la chiamava “trachea della morte clandestina”.
La miniera si estendeva in linea retta, non era consentito scendere in profondità, centinaia di metri al di sotto della superficie terrestre, ogni possibile via di fuga alternativa era vietata. Gli sbarramenti delimitavano l’accesso a una serie infinita di cunicoli che salivano, grotte naturali, inesplorate, ottenute dall’erosione del tempo. Nell’unico tratto controllato si scavava per estrarre, forse meglio dire trafugare l’oro. Si vociferava qualcosa riguardo agli Hopi, un’antica tribù indiana ormai estinta che pare avesse infestato quelle grotte perché non si potesse violarle. Niente di questo fu mai chiarito, forse era solo un modo per tenere lontani i superstiziosi.
All’interno l’aria era irrespirabile, un puzzo di latrina tossica, ma nessuno si era mai lamentato per non finire torturato o ammazzato dai sorveglianti messicani. Di uomini ne avevano massacrati una dozzina solo nell’ultimo mese. Già, ma a chi importava, quelli non erano minatori. Erano ergastolani deportati dal penitenziario texano di Huntsville. Tra loro si contavano decine di assassini seriali, stupratori, rapinatori violenti, pedofili che a Sembryn erano costretti ai lavori forzati, suddivisi in gruppi di dieci per scavo. I sorveglianti li obbligavano a scavare per diciotto ore di fila sei giorni su sette e i più deboli e i meno produttivi erano sottoposti a torture quotidiane; ridotti a ossa scarnificate.
Tutt’intorno c’era un recinto elettrico che solo a sfiorarlo si crepava fulminati. Era alto oltre quattro metri e c’erano altoparlanti piazzati a ogni angolo. Servivano per annunciare il rancio, una brodaglia immangiabile e si moriva anche di quella, e il coprifuoco al calar del sole. Sirene di avvertimento. Il suono assordante che emettevano rimbalzava nella gola del Canyon propagandosi per chilometri e non si diradava prima di tre nevrastenici minuti. Una specie di strategia della tensione messa in atto per scoraggiare evasioni. Ma la vera attrazione era la sveglia: a cinquecento metri dall’ingresso alla miniera padroneggiava imponente un vecchio cannone di quelli che sparano a palla piena, non a granate. Quella canna puntata verso il cielo sputava sempre all’alba.
La domenica tutto taceva, le cave del giacimento erano chiuse per riposo settimanale e le sentinelle scarseggiavano. Il solo giorno in cui, ai trecentonovantotto deportati over sessanta accampati nei prefabbricati fatiscenti ai piedi della montagna, era permesso dormire.
Marcus era il più giovane uomo mai entrato a Sembryn, trent’anni appena, e il suo piano quel pomeriggio iniziava col caricare lo zaino in spalla e poi andare a svegliare Robert. Erano amici da una vita, lui e Rob, e scavavano con gli altri detenuti da settimane.
Marcus aveva fama di uccidere senza fare rumore. Non usava quasi mai pistole o fucili, lo faceva a mani nude o col suo coltello da lancio di rara fattura: manico liscio, cinquecentosettanta grammi di peso e una lama da trentanove centimetri, un gioiellino che portava sempre addosso. Nascosto.
All’ora stabilita attraversò furtivo l’unico percorso asfaltato della zona, quello che serviva per gli autocarri che ogni giorno arrivavano e caricavano pietre, terra, cadaveri.
Raggiunto il prefabbricato in cui dormiva il suo complice, scostò la porta col piede.
La voce di Robert, ancora nella sua branda, giunse roca: «È una maledetta domenica, Marc, fammi dormire! Devo recuperare, cazzo!».
«Dici bene, Rob. Ma dimentichi un dettaglio: è quella maledetta domenica. Alzati.» Marcus tirò via la coperta e lasciò l’amico nella più completa nudità. «Datti una mossa.»
Era sull’uscio, quando sentì Robert mormorare: «Parli sul serio? È quella domenica, oggi?».
 
Marcus fece di corsa un centinaio di metri e raggiunse silenzioso la recinzione elettrica. L’informazione era esatta, solo due guardie. Gente che godeva a schiavizzare i detenuti e a depredare la montagna, meritavano la morte, immobilizzarli non era abbastanza, pensò. E poi non aveva scelta, rischiare che allertassero le altre squadre era fuori discussione. Lì la pietà non esisteva per nessuno. Colpì il primo sorvegliante alle spalle, gli bastò un movimento fulmineo per trapassargli la carotide da parte a parte ed estrarre la lama. Si mosse radente il recinto e trafisse il secondo uomo al petto tranciando il cuore con precisione chirurgica. Agguantò la scatola della centralina e con un cacciavite e una pinza disattivò la corrente. Spalancò parte del recinto e si allontanò rapido.
Si era alzato il vento. La sabbia del deserto premeva contro la pelle sudata di Marcus come un lenzuolo appiccicoso, notoriamente fastidiosa al pari di uno sciame di mosche che ti colpisce all’improvviso.
Sonnolento, Robert lo raggiunse poco dopo alle spalle della cava, abbastanza distante da inquadrare la recinzione come una cartolina liquida.
Marcus fissava l’orizzonte. Le nuvole intorno alle frange del Canyon s’increspavano come lance di fuoco che strappano il cielo. Una volta lontano, si diceva, non avrebbe più visto un tramonto così. Ma era l’unica cosa che gli sarebbe mancata di quel posto maledetto.
Ascoltò Robert lamentarsi, sbadigliare e infine intercettò il suono di uno zippo e il puzzo di fumo di una sigaretta che ora s’infilava dentro alle sue narici. Marcus detestava i fumatori ma un assassino non ha il diritto di fare la morale a un fumatore. Però a un fumatore assassino sì.
«Spegnila», sentenziò, «Stanno arrivando».
Indicò un pennacchio di polvere a poca distanza dal recinto provocato dalla jeep che si faceva strada tra dune e conche, molleggiando come un bufalo al galoppo.
«Prendi le pepite» aggiunse.
La jeep era a un chilometro, dosso più dosso meno. Dietro di lui, Robert, non aveva risposto né si era mosso.
«Che stai aspettando? Tirale fuori» ripeté.
Robert schiacciò la cicca sotto allo scarpone. «Ho perso la cognizione del tempo in questo cazzo di deserto».
Da un sacchetto di tela legato con una cordicella estrasse cinque pepite.
«Dove sono le altre?» chiese Marcus.
«Io dico che queste gli bastano» rispose Robert. «Dico che le altre sono per noi, per il culo che ci siamo fatti dentro a quella dannata montagna.»
Marcus brandì l’arma e gli arrivò addosso in un attimo. Lo tirò per i capelli e costrinse la sua testa a piegarsi all’indietro spingendo la lama sulla sua gola.
«L’hai pensata tutta da solo, questa cazzata? Prendi le altre pepite!».
Robert tossì. «Sono nostre! Ce le siamo guadagnate!»
«Non si può fare, Rob!, dobbiamo rispettare la regola d’ingaggio! Io non ho mai rapinato un committente!» disse Marcus.
«Ci hanno offerto due spiccioli in confronto a dieci pepite da mezzo chilo l’una! E poi le altre non ce l’ho, sono nella miniera, dove le abbiamo sotterrate.»
«Cazzo, Rob! Le hai lasciate là sotto, tu sei un fottuto irresponsabile! Lo sai che se non gli diamo tutto l’oro stabilito quelli l’ammazzano e non ci lasciano andare!».
Robert se lo scrollò di dosso: «Era un lavoro per tre, lo abbiamo fatto in due! Ci siamo spaccati la schiena notte e giorno perché Sonya ha preteso di unirsi a noi e in miniera non l’hanno potuta infiltrare! Meritiamo una ricompensa più grossa di quella merdosa somma pattuita!».
«Sonya è addestrata e quelli l’hanno tenuta in ostaggio per settimane! Non ho intenzione di restare bloccato qui perché tu non sei capace di rispettare i patti!»
Gli occhi di Robert lo fissavano consapevoli del problema e già alla ricerca della soluzione che non gli sarebbe venuta in mente. Lui non era uno stratega, era un rullo compressore che all’occorrenza ti salva la vita ma non sa pianificare una fuga. Una volta gliel’aveva salvata, la vita; Marcus era in debito con lui, non poteva dargli una coltellata anche se stava mandando tutto a puttane. Non restava che elaborare un piano b e farlo in fretta, la jeep aveva appena superato la recinzione.
Marcus disse: «Se qualcosa va storto gli freghiamo la jeep e ce la filiamo. Ma ricorda: devi tramortirli, non ucciderli, noi non lavoriamo così. E non fare niente finché non l’avrò liberata».
Il fuoristrada sostò dietro di loro.
Robert annuì: «Sì, amico, conta su di me».
Sfilò la sua pistola mitragliatrice dalla cintola, una Beretta93R, e la tenne dietro alla schiena.
La voce catarrale di José, un messicano corpulento con un fucile automatico in braccio, si scandì netta nel silenzio del deserto: «Non è stato facile farci assegnare alla ronda, oggi. Non ci credeva nessuno che avessimo tanta voglia di lavorare, perciò facciamo in fretta. Prima che qualcuno venga a controllare. Dov’è l’oro?».
Marcus gli andò incontro incolore. «Prima voglio vederla».
«Fatela scendere» ordinò José.
Due uomini smontarono tenendo per le braccia una bionda in mimetica da combattimento legata e imbavagliata che, alla vista di Marcus, sgranò gli occhi. Marcus invece li aveva serrati al punto da sembrare un felino in procinto di attaccare.
«Dov’è l’oro?» ripeté il messicano, puntandogli contro il fucile.
Marcus afferrò il sacchetto e lo tese senza avvicinarsi.
Il messicano lo osservò. «Cos’è, hai voglia di morire?» caricò l’arma. «Ci siamo accordati per dieci pepite. Potevi dirmelo che non sai contare».
Seguirono attimi di stallo scanditi dall’eco stridulo emesso da uno stormo di avvoltoi che gravitava intorno alla miniera alla ricerca di carogne e dal fischio del vento che sbatteva contro le pareti della montagna e mulinava polverizzato intorno al gruppo.
Doveva essere un piano semplice: dieci pepite ai traditori e il compenso per loro tre. Liberare l’ostaggio e lasciare quel posto. Semplice. Niente pepite niente compenso, niente scambio niente libertà.
«Questo è tutto quello che siamo riusciti a trovare» mentì Marcus. «Non abbiamo altro».
José condivise un’occhiata veloce coi suoi complici. «Vi concedo un’altra settimana. Ma voglio venti pepite, stavolta.»
Marcus cercò di resistere all’impulso di ammazzarlo a mani nude. «Vai a farti fottere!»
«L’ammazzo!» gridò il messicano puntando la canna del fucile verso la bionda.
Non era il caso di mettersi a sparare. Avrebbero svegliato tutti. Sarebbe diventata una guerra tra sorveglianti corrotti e decine di detenuti disperati.
Marcus osservò gli occhi di Sonya: lo fissavano come volessero attraversarlo ma non erano spaventati. Concluse di non avere molta scelta, doveva usare il coltello.
Il tuono di uno sparo echeggiò moltiplicato. La gola del Canyon aveva fatto da cassa di risonanza. Robert aveva fatto come al solito di testa sua e innescato il conto alla rovescia per tutti loro, le guardie non ci avrebbero messo molto ad arrivare. Ma era stato anche provvidenziale: il proiettile si era conficcato a un centimetro dai loro piedi sbuffando uno schizzo di terra che distrasse il messicano.
Marcus ne approfittò per bloccare l’uomo con la lama del coltello ben ferma sulla sua carotide. «Lasciatela andare o lo sgozzo!» gridò ai complici del messicano.
Robert, dietro di loro, puntò la pistola contro i due che immobilizzavano la bionda.
José ridacchiò. «Sei spacciato, gringo. Dove pensi di scappare, siamo in mezzo al Canyon! Vuoi giocare a nascondino nel deserto?»
Di nuovo Robert prese l’iniziativa e iniziò a sparare a ripetizione contro i due che la tenevano ferma rischiando di colpire anche lei. Finirono a terra, uno era ferito, l’altro stava puntando il fucile alla schiena della bionda e gridava: «La uccido!».
Troppe esplosioni. Marcus sapeva che a breve altri sorveglianti sarebbero arrivati e li avrebbero crivellati tutti, colleghi corrotti compresi.
Colpì con violenza il banditos alla testa e lo scaraventò a terra. Li aveva contati, quell’idiota di Robert non aveva più colpi. Mano a martello posizionò il pollice ben disteso lungo il dorso del manico del coltello. Impiegò una frazione di secondo a fare i calcoli: con un’impugnatura come quella la lama avrebbe dimezzato le rotazioni in aria prima di centrare il bersaglio. Meno rotazioni più violenza d’impatto. O così, o quello avrebbe sparato a Sonya.
Lanciò. Il suono della lama che taglia il vento fischiò tre volte poi si conficcò in mezzo agli occhi del messicano con un ultimo rumore sordo. Il corpo caduto come un sacco sollevò sbuffi di polvere e sabbia e nell’impatto anche la bionda perse l’equilibrio e ricadde all’indietro. Marcus corse su di lei e s’inginocchiò per slegarla.
«Fai in fretta, Marcus, prima che questi due si alzino», disse Robert, «Se ci diamo alla fuga prima che riprendano conoscenza guadagneremo tempo.»
Marcus non lo stava a sentire, non lo preoccupavano certo due messicani feriti e svenuti. Era indeciso sul bavaglio, meglio non toglierlo. Lei emetteva lamenti sconnessi, era di sicuro incazzata e lo avrebbe finito di esaurire. Ma a mani libere se lo tolse da sé il bavaglio.
«Siete due bastardi!» urlò inviperita. «Invece di dargli l’oro avete preferito tentare la sorte sulla mia pelle! Quello a sparare sulla sabbia e tu a tirare coltelli! È un miracolo che siamo ancora vivi!»
«Hai finito?» sospirò Marcus. «Se non la smetti ti restituisco ai messicani», si sporse per aiutarla ad alzarsi. Sonya afferrò la sua mano e si tirò su energica. Aveva le labbra spaccate, un livido vistoso sulla gota destra e una cicatrice profonda sul braccio. La sua mimetica era sporca di fango e terra e aveva un’espressione contrariata.
Nonostante tutto, Marcus la trovava irresistibile.
Lei indirizzò lo sguardo su Robert, rimasto indietro a sorvegliare ora i due messicani svenuti ora la linea di confine: pennacchi di polvere lontani avrebbero segnalato l’arrivo dei sorveglianti che dovevano aver sentito gli spari.
«Sei una mina vagante , Rob. Ti farò rapporto quando usciremo da questo cazzo di deserto. Mai una volta che esegui un ordine, fai sempre di testa tua» lo aggredì.
Robert sfilò il sacchetto di pepite dalla mano del messicano svenuto e ridacchiò: «Queste ce le teniamo noi, un risarcimento per il disturbo.»
«Basta! Dobbiamo muoverci», intervenne Marcus. «Prenderemo il sentiero che porta al fiume, non manca molto per il Colorado River. Montate sulla jeep» ordinò.
La bionda scosse la testa. «Non possiamo seminarli, sanno chi siamo e dove trovarci, ci hanno ingaggiato loro.»
«Hai un’idea migliore, ragazza?», Marcus non era uno che ammazza se non è minacciato.
Improvvisamente la ricetrasmittente attaccata alla cintura del messicano svenuto gracchiò:
José, José, rispondi. Mi senti? Che succede laggiù? Abbiamo sentito degli spari. Servono rinforzi?
Robert si lanciò su José e gli mise un braccio intorno al collo, una stretta poderosa che lo svegliò immediatamente. Gli avvicinò la radio all’orecchio. «Dì che va tutto bene e che stavi sparando a un avvoltoio o ti spezzo il collo» sussurrò.
Quello non se lo fece ripetere, in fondo non conveniva neppure a lui ammettere di essere un traditore. Non lo avrebbero certo risparmiato.
Improvvisò: «È tutto a posto, Carlos. Sparavo agli avvoltoi, rosicchiavano i cavi scoperti, volevo evitare un cortocircuito, passo».
Bene, si udì, finisci il giro. E ammazza quei cazzo di rapaci, se ci riprovano. Passo e chiudo.
Robert lanciò la radio lontano e stordì di nuovo il sorvegliante colpendolo in testa col calcio della pistola. Poi infilò il sacchetto con l’oro nello zaino e se lo caricò in spalla.
Sonya lo studiò sospettosa: «Quante sono quelle pepite?».
«Cinque» rispose.
«Dovevano essere dieci» replicò lei, «non ci credo che non ne avete trovate. Dove sono le altre?».
«Nella miniera» ribatté d’istinto Robert.
«Nella maledetta miniera?» urlò Sonya. «Le pepite dovevano essere sotterrate sul retro della baracca per lo scambio. Era questo il piano.»
«Non potevamo portarle fuori tutte insieme!» Ora Robert si era agitato. «Ci sono dieci sorveglianti all’imbocco della caverna che, per una cosa del genere ci avrebbero torturati per settimane, prima di ammazzarci.»
«Quelli stanno lì da mesi a elemosinare a quella fottuta roccia una misera pepita» s’inserì Marcus. Era compito suo evitare che i due si scannassero. «Ci crepano tre o quattro minatori al giorno, per trovarle», continuò, «E noi usciamo di lì indisturbati alla luce del sole e con un sacco pieno di pepite, secondo te?».
Marcus stava coprendo l’amico, portare fuori le pepite in piena notte per lo scambio spettava a Robert e dire a Sonya che l’avrebbe lasciata morire pur di tenere per sé parte del bottino era una pessima idea. Dovevano restare uniti, ora più che mai.
«Basta, non vi sopporto più» sospirò lei. «Muoviamoci, andiamo a prendere le altre.»
Marcus si accigliò: «No, non se ne parla».
«Attenti!» gridò Robert.
Una raffica di colpi esplosi dal fucile del messicano ancora supino li mancò per pochissimo. I due si lanciarono a terra e rotolarono più in là mentre Robert si buttava sull’uomo per disarmarlo.
Sonya e Marcus superarono di corsa l’area del dormitorio. L’imbocco alla miniera era a poche decine di metri dalle baracche, unico nascondiglio possibile in mezzo al deserto. Ma Robert era rimasto indietro, stava ancora lottando contro José. A guardar bene, anche il complice ferito, laggiù, si stava muovendo. Arrivati ai piedi dello scavo osservarono la scena col fiato mozzo.
 

   
 
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