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Autore: Hotaru_Tomoe    21/06/2018    4 recensioni
[Doctor Strange]
Qualche mese fa, prima dell'avventura di Everett nel Regno di Wakanda, Stephen gli consegnò un anello molto speciale.
Everett ne comprende appieno l'importanza dopo i fatti di Infinity War.
Everett Ross x Stephen Strange
ATTENZIONE: la storia contiene spoilers su The Avengers Infinity War
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Giù in strada, un’auto suonò il clacson, rompendo il silenzio.
Ross sussultò: era talmente abituato al rumore e al caos di New York, che la quiete che vi regnava ora era quasi disturbante.
Se l’idea di Thanos era quella di regalare prosperità all’universo, uccidendo metà dei suoi abitanti, aveva fallito in pieno, almeno per quel che riguardava la Terra.
I superstiti erano ancora sconvolti e smarriti, molte persone erano in lutto per la perdita di amici cari e familiari, il numero dei suicidi era aumentato in maniera allarmante, e per chi era rimasto, il lavoro era più che raddoppiato: c’era una carenza costante di medici, infermieri, vigili del fuoco, personale di servizio e poliziotti, mentre i criminali approfittavano delle falle nella sicurezza. In molti Stati erano morti leader politici e chi era subentrato aveva deciso che la democrazia non era poi questa gran cosa.
Insomma, nulla era cambiato rispetto a prima e Ross dubitava che sugli altri pianeti la situazione fosse molto diversa: le persone difficilmente cambiavano la propria natura più intima.
Guardò fuori dalla finestra: metà delle luci della città era spente e la vista era deprimente al pari del silenzio.
Gli Avengers (quel che ne restava, cioè) avevano lasciato il pianeta da diverse settimane: Tony Stark affermava di avere un piano per sconfiggere Thanos e far tornare tutto come prima, ma più il tempo passava, più era difficile continuare a sperare.
Si frugò nella tasca sinistra della giacca e ne trasse un sacchettino di velluto blu: dentro c’era l’anello che aveva comprato per Stephen: una semplice fascia in oro bianco con incisa all’interno la sua promessa: “In qualunque universo, sono tuo”.
E l’anello che gli aveva dato Stephen era sempre al suo dito.
Everett lo appoggiò al petto e l’incantesimo si attivò.
Era diventato una sorta di rituale per lui, alla fine della giornata, un modo per tenere a freno la disperazione, per farsi avvolgere e consolare dal sentimento che li univa.
Era un ex militare, era stato addestrato a gestire il senso della perdita, ma perdere Stephen era stato devastante.
Si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi.
“Mi manchi in un modo che non pensavo sarebbe stato possibile - mormorò - Mi manca il tuo atroce senso dell’umorismo, il tuo metterti in mostra come un pavone, per far vedere come sei bravo con la magia, la tua strafottenza davanti al pericolo, mi… mi manchi.”
Everett portò un dito alle labbra e sospirò: sì, gli mancavano anche i suoi baci, la sua voce profonda, il profumo di incenso e spezie orientali che emanavano i suoi vestiti e la sua pelle, la sua barba che gli pizzicava la pelle quando baciava il suo corpo.
Un discreto bussare alla porta lo distrasse momentaneamente dalla malinconia.
“Sì?”
Era Lindley, uno dei suoi collaboratori superstiti.
“Comandante, ho finito per stasera, le lascio questi rapporti da controllare.”
Data la scarsità di personale, Ross era stato promosso a capo della sua divisione.
“Lasciali sulla mia scrivania, saranno revisionati per domani mattina.”
“Quindi posso andare?” chiese Lindley, e la sua voce tradiva una nota di impazienza.
“Certo, vai pure: sono sicuro che Tessa ti sta aspettando.”
Lo schiocco di dita di Thanos non aveva separato Lindley dalla sua fidanzata e, quando ci pensava, Ross non poteva evitare di provare una punta di invidia, anche se sapeva di essere meschino.
“Grazie, comandante - Lindley raggiunse la porta, ma lì esitò un istante - Ascolti, perché una di queste sere non viene a cena da noi? Tessa è un ottima cuoca e mi chiede sempre di invitarla.”
“Ci penserò. Un giorno in cui non ho troppo da fare” rispose, indicando i rapporti da revisionare. Ma Ross sapeva benissimo che quell’invito non lo avrebbe mai accettato, che avrebbe sempre trovato una scusa: rapporti, telefonate da fare, email a cui rispondere. L’invidia era davvero una brutta bestia.
Lavorò ancora un paio d’ore, mangiando gli avanzi del pranzo, finché si rese conto di non riuscire più a concentrarsi su quello che leggeva.
Si alzò e andò in un ufficio adiacente, che aveva adibito a camera da letto, sistemando un cuscino e delle coperte su un divano.
Di stanze vuote ce ne erano in abbondanza nel palazzo e lui, di tornare a dormire al Sanctum, su quel letto che non odorava più di Stephen e di spezie orientali, proprio non se la sentiva.
Si cambiò, indossando la tuta da jogging e poi la fondina della pistola sotto l’ascella, per forza di abitudine, e in quel momento un altro ricordo di Stephen lo investì.
Non erano ancora insieme, non ufficialmente almeno, ma si vedevano a cena quasi ogni sera.
Quella sera in particolare, quando Ross si sedette a tavola e si slacciò i bottoni della giacca, Stephen vide il calcio della pistola che portava sotto di essa e sospirò.
“Credo che dovrò abituarmi a frequentare qualcuno che è sempre in servizio.”
“È un problema?”
“No, dopotutto nemmeno uno stregone ha degli orari d’ufficio.”
“Già. In questo siamo simili… è un bene, no?”
Stephen allungò la mano sul tavolo e sfiorò la sua.
“Ho delle buone sensazioni.”

Ross scosse la testa, quasi a voler scacciar via quel ricordo, e si allacciò il sacchettino che conteneva il suo anello al collo. Non se ne separava mai, perché voleva continuare a credere che Stephen poteva tornare all’improvviso, da un momento all’altro, e la prima cosa che voleva fare era mettergli quell’anello al dito.
Infine si ficcò le cuffiette nelle orecchie, selezionò una playlist a caso, uscì dal palazzo e iniziò a correre.
Proprio come il lavoro, correre lo aiutava a non pensare.
Giunto all’incrocio fra la Lexington e la Trentaquattresima Est, notò due uomini che stavano caricando dei mobili da ufficio su un vecchio furgone.
Anni di esperienza sul campo lo misero in allarme: c’era qualcosa di strano. Erano passate le 22, i due uomini erano guardinghi, nervosi e avevano affastellato i mobili sul furgone alla meno peggio, come se avessero una fretta indiavolata.
Rallentò e si avvicinò a uno dei due con un sorriso amichevole.
“Buona sera.”
L’uomo fece un salto e lasciò cadere a terra la sedia che stava caricando sul furgone, quasi a voler confermare i suoi sospetti: quei mobili non erano loro.
“Che cavolo amico! Mi ha fatto prendere un colpo.”
“Mi dispiace. Cosa fate, traslocate?”
“Sì” rispose l’uomo, evasivo, riprendendo a caricare le sedie.
“Quindi immagino che non avrà nessuna difficoltà a mostrarmi i documenti che attestano che state portando via mobili dal vostro ufficio.”
“Ecco, io… i documenti sono…”
D’improvviso Ross estrasse la pistola dalla fondina e allungò il braccio dietro di sé senza voltarsi: dallo specchietto retrovisore del furgone aveva visto il complice avvicinarsi alle sue spalle con una lampada in mano, pronto a colpirlo.
“Ti conviene posarla, figliolo. Adesso.”
L’altro uomo impallidì e fece come gli era stato ordinato.
“Va bene, va bene, la poso.”
“Ora vieni qua davanti e tieni le mani bene in vista. Non sono dell’umore adatto per le sorprese.”
“Nessuna sorpresa, signore.”
Ross compose il 911 chiedendo una pattuglia, e l’altro uomo protestò vivacemente.
“Sul serio? Non stavamo facendo nulla di male! Tutti quelli che lavoravano in quell’ufficio sono svaniti, non useranno più questa roba.”
“Non mi importa - rispose Ross a denti stretti - le leggi non sono state abolite e un furto è ancora un crimine.”
Poco dopo la pattuglia portò via i due ladri, mentre Ross si fermò a riportare i mobili nell’ufficio da cui erano stati rubati.

Il giorno dopo si trovò a pranzo con un collega.
“Ho sentito quello che hai fatto ieri sera. Guarda che se il lavoro non ti basta, ti posso passare un po’ del mio, non c’è bisogno che ti improvvisi vigilante.”
“Ti piacerebbe - rispose Ross - E poi non mi sono comportato da vigilante, ho solo fatto rispettare la legge.”
“Secondo me avresti potuto lasciar correre: quei due stavano solo portando via dei mobili che nessuno userà più.”
“No, non devi parlare in questo modo!”
“Perché? È la verità.”
“No: Tony Stark ha detto che esiste un modo per cancellare quello che ha fatto Thanos.”
“Lui e gli altri Avengers hanno lasciato il pianeta da settimane e non abbiamo più saputo nulla. Ormai…” scosse la testa.
“No! - sbottò Ross con veemenza, e il suo collega lo guardò stupito.
“Non pronunciare quella parola - proseguì Ross - perché se lo fai, significa che ti sei rassegnato che questo sarà il nostro futuro, significa che hai abbandonato la speranza.”
“Forse l’ho fatto.”
“Ma io no.”
Perdere la speranza significava accettare l’idea che Stephen non sarebbe più tornato, e Ross non poteva accettarlo. Era pronto adesso, nella tasca della giacca c’era un anello che aspettava solo di essere infilato al dito di Stephen.
Non poteva finire così.

Le settimane successive non portarono alcun cambiamento o novità, finché un giorno, mentre era seduto alla sua scrivania, un portale si aprì davanti a lui e ne uscì Wong.
Era trafelato, aveva una ferita sanguinante sul braccio e alle sue spalle c’era un paesaggio verdastro dall’aspetto decisamente alieno.
“Wong?”
“Adesso non ho tempo di spiegare, ma mi serve l’anello che Strange le ha dato.”
“Cosa? No, mai!”
Istintivamente, Ross portò la mano dietro la schiena.
“Deve ascoltarmi: abbiamo capito come riportarli indietro, tutti quanti, ma per farlo mi serve l’anello e l’incantesimo che Strange ha creato.”
“Ma…”
“So quanto è importante per lei, non glielo chiederei se non fosse assolutamente necessario.”
Ross si sfilò l’anello e lo porse a Wong, seppur con molta riluttanza.
Ma era ciò che avrebbe fatto Stephen.
“Posso venire anch’io?”
Wong scosse la testa.
“La sua SIG-Sauer non sarebbe di nessun aiuto né a lei né a noi dove sto andando, mi creda.”
Detto questo, attraversò nuovamente il portale e lo richiuse.

Ross attese, attese e attese ancora, ma per quel giorno non successe nulla: Wong non aveva specificato quanto tempo ci sarebbe voluto e nemmeno se il piano avrebbe avuto successo, e l’attesa era davvero snervante.
Passarono altri tre giorni e restare aggrappati alla speranza era sempre più difficile: forse il piano era fallito, forse Thanos era troppo forte e li aveva uccisi tutti, forse era giunto davvero il momento di rassegnarsi e riportare l’anello alla gioielleria.
Ross stava camminando lungo il corridoio, diretto verso l’ascensore, quando qualcosa cominciò lentamente a materializzarsi sul pavimento davanti a lui: inizialmente era solo un mucchietto di polvere, ma lentamente prese la forma di un essere umano e infine una donna di colore apparve sul pavimento.
“Lucinda!” gridò Ross: era una sua collega uccisa da Thanos. Si inginocchiò accanto a lei e la mise a sedere, appoggiandola al muro.
“E… Everett? Dove sono? Cosa succede? Non ricordo…”
“Non muoverti. Respira adagio, così, brava.”
“Io non…”
“Tranquilla, va tutto bene, sei tornata.”
Ross si alzò in piedi e si guardò attorno: tutte le persone polverizzate mesi prima stavano riapparendo: stordite, confuse e ancora incredule, ma vive.
Questo significava una sola cosa…
Corse verso il suo ufficio, spingendo via chiunque cercasse di fermarlo, e spalancò la porta, ma non ebbe il tempo di fare niente, perché qualcosa lo avvolse completamente, sollevandolo da terra e facendolo piroettare su se stesso, qualcosa fatto di stoffa rossa che profumava di incenso e spezie orientali.
“Mantello! Sei tu!”
“Lo so che sei felice di rivederlo, ma adesso mettilo giù” disse una voce a lui ben nota, una voce calda, sensuale e profonda, che in quel momento tremava leggermente, forse per l’emozione, forse per la stanchezza.
Il Mantello della Levitazione lo posò a terra, si allontanò e finalmente, dopo lunghi, terribili mesi di angoscia e solitudine, Ross rivide Strange.
I suoi vestiti erano lacerati e lasciavano intravedere diverse ferite, era sporco di terra, emanava un disgustoso odore alieno, ma era vivo e solido davanti a lui.
“Sei qui…” sussurrò incredulo.
“Sono qui. Te l’avevo promesso” rispose Strange, e un sorriso gli illuminò il volto.
“Ce ne hai messo di tempo” provò a scherzare, ma in realtà stava trattenendo a stento le lacrime.
“Sì, be’... c’è stato qualche imprevisto” ridacchiò Stephen, grattandosi una guancia.
“Tu… vieni qui!”
Si mossero nello stesso istante. Stephen gli prese il viso tra le mani, si fermò un istante a guardarlo negli occhi, poi si chinò su di lui e lo baciò, impetuoso e affamato, mordendogli le labbra, succhiandogli la lingua, accarezzandogli il palato e le gengive.
Le loro labbra si separavano e si univano ancora e ancora e fu come ritrovare la strada di casa dopo essersi smarriti in una landa desolata. Ross lo abbracciò, seppellendo il viso nel suo petto e tastandogli la schiena per assicurarsi che non fosse solo un sogno crudele o una illusione.
“Ti prego, dimmi che è tutto finito.”
“È tutto finito, abbiamo vinto.”
Le braccia di Stephen gli circondarono le spalle e la sua bocca si posò tra i suoi capelli, mentre Everett lo strinse più forte, ma l’altro protestò con un gemito di dolore, e Ross sollevò il viso in una muta domanda.
“Devo chiederti di fare piano - disse Stephen con un sorriso di scuse - Credo di avere una o due costole incrinate, una gamba rotta e forse una emorragia interna.”
“Cosa? E perché non sei in ospedale? - urlò Ross - Sei un pazzo incosciente.”
“Volevo vederti prima, ne avevo bisogno.”
“Anch’io - rispose Everett, posandogli una mano sul petto - Ma adesso hai bisogno di un medico.”
“No, non sono ferite ordinarie, in ospedale potrebbero fare poco. Ho bisogno della magia del Sanctum.”
“Cosa stai aspettando, allora? Apri un portale e andiamo.”
“Sei sicuro? Con tutta la gente che è tornata in vita, a breve scoppierà il caos. Sei sicuro di non voler restare qui?”
Fuori dall’ufficio di Ross c’era già una cacofonia di gente che gridava e correva e di telefoni che squillavano.
Senza scomporsi, Ross spense il cellulare, poi si alzò in punta di piedi per baciarlo brevemente sulle labbra.
“Sono sicuro, sei tu la mia priorità adesso.”
“Ne sono lusingato.”
Strange aprì un portale per andare al Sanctum, ma prima che potesse entrare, Everett lo afferrò per un gomito.
“Solo un attimo.”
Era il momento giusto e non voleva attendere oltre, quindi prese la custodia dalla tasca, ne trasse l’anello e si inginocchiò davanti lui.
“Ehm…” iniziò, ma subito si bloccò, maledicendosi silenziosamente: anche se si era immaginato la scena nella testa centinaia di volte, adesso era sopraffatto dall’emozione e non sapeva cosa dire; in piedi davanti a lui Strange si morse le labbra per nascondere un sorriso.
“Non dire una parola” borbottò Everett.
“Non sto dicendo nulla” rispose Stephen, con aria innocente, e poi gli porse la mano.
“Sono pronto” disse semplicemente Everett, e gli infilò l’anello al dito, poi si alzò e accettò il bacio appassionato di Stephen.
“Anch’io ho qualcosa che ti appartiene” disse lo stregone, e materializzò l’anello di Everett nella mano, che egli si affrettò a indossare: anche se se ne era privato solo per pochi giorni, gli era mancato sentirlo attorno al dito, posto cui apparteneva.

Fu strano rimettere piede al Sanctum dopo quasi un anno, ma solo con Strange al suo fianco sembrava giusto farlo, perché solo con lui quel posto strano, che custodiva segreti e artefatti magici, poteva essere chiamato casa.
Entrarono in una stanza dei sotterranei, dove Ross non era mai stato, senza alcun mobile, ma con rune e simboli magici impressi sul pavimento in pietra e sulle pareti; Strange si portò al centro della stanza, dove un incantesimo a spirale che emanava una forte luce bianca lo avvolse, poi si sdraiò, restando sospeso nel vuoto, senza l’ausilio del mantello.
Ross sollevò un sopracciglio, ammirato, e Strange sorrise.
“Lo so. Se mai restassi disoccupato, potrei sempre andare a lavorare per A Taste of Magic.” [1]
La battuta, invece di farlo ridacchiare, gli provocò una inaspettata ondata di nostalgia; strinse le labbra e deglutì, prima di poter parlare: “Mi era mancato persino il tuo atroce senso dell’umorismo. Questo dovrebbe darti un’idea di cosa è stata la mia vita in questi mesi.”
“Mi dispiace” mormorò Stephen, tornando serio, ma Ross scrollò la testa: “Non devi. Hai salvato l’universo e hai mantenuto la tua promessa, è tutto ciò che conta.”
Le palpebre di Strange si fecero pesanti e nascose uno sbadiglio dietro la mano.
“L’incantesimo di guarigione mi farà dormire alcune ore.”
“Aspetterò qui con te.”
“Non serve.”
“Ma voglio farlo.”
Il Mantello lo toccò sulla spalla, poi si distese a mezz’aria a formare un’amaca, vicino a Strange, e con un lembo invitò Ross a sdraiarsi.
“È meglio se accetti il suo invito, Everett: dovrai essere in forma perfetta per quando mi sveglierò e ti trascinerò in camera da letto.”
“Fa’ silenzio” borbottò Ross, arrossendo, ma si sdraiò sul Mantello.
Strange chiuse gli occhi e si addormentò subito, mentre Ross restò a guardarlo, poi allungò la mano verso di lui e toccò la sua e, rassicurato dalla sua presenza, si addormentò a sua volta.
I due anelli brillavano, illuminati dalla luce dell’incantesimo.


NOTE:
[1] È un famoso ristorante di New York, dove si può assistere a spettacoli di magia durante le cene.

   
 
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