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Autore: Kanako91    21/06/2018    3 recensioni
Númenor, 3088. Regno di Ar-Sakalthôr.
Dopo la rinuncia della sorella maggiore, la secondogenita del Re è disposta a tutto per ottenere lo Scettro e, minacciata dalle manovre del Consiglio e di suo fratello, si dà alla fuga.
Ma Gimilzôr ha mandato sulle sue tracce il suo uomo più letale con una missione: farle cambiare idea o ucciderla.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ar-Gimilzôr, Ar-Sakalthôr, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ricordi perduti dalla Terra del Dono'
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Regina senza Scettro - Parte II. Il ritorno


Dizionario Neo-Adûnaic:

Le parole Adûnaic in questo dizionario sono traduzioni di termini canonici (Quenya e Sindarin) elaborate da me, melianar e tyelemmaiwe. Non sono ufficiali e non possono essere riutilizzate senza permesso né senza attribuzione.
In caso di * (asterisco) anche la parola nella traduzione è opera nostra.


Anazûlê: “Terra dell’Est”*, ossia la Terra di Mezzo
Azûlada: Rómenna
Azûlatar: Orrostar
Durnûkad: Orneros*, città dell’Orrostar
Khâdatar: Forostar
Mittabar: Mittalmar
Narkuzîth: Sorontil
Nimrulôdi: Eldalondë
Unzûkadar: Ondostó




Regina senza Scettro

II. Il ritorno






Il cavallo di montagna legato al suo, Minulzôr caricò la principessa in sella davanti a sé, per quanto la testa di lei tendesse a mettersi in mezzo. Era troppo alta per quella posizione, ma lui non intendeva sedersela alle spalle. Doveva averla a portata di mano e intrappolata tra le braccia.

Per il resto della giornata, viaggiarono verso Est. Solo il giorno successivo si sarebbero diretti verso Sud, lungo il confine con l’Azûlatar. Minulzôr preferiva viaggiare nella sua regione natale non solo perché gli era familiare il territorio, ma anche perché nell’altra la figlia dei signori di Durnûkad era nella cerchia della principessa e le aveva offerto copertura per la fuga. La posizione dei suoi genitori non era chiara quanto avrebbe dovuto essere.

Se c’erano maggiori probabilità di incontrare altri suoi alleati lungo la strada, era proprio attraversando il confine.

Non che Minulzôr fosse ignaro dell’amicizia tra Imrazîr e la principessa, ma almeno i Signori di Unzûkadar non erano schierati e soprattutto la via del ritorno passava attraverso le sue terre. Conosceva la gente e l’ospitalità del Khâdatar sudorientale.

Avanzando al passo e con un doppio carico, il suo cavallo ci avrebbe impiegato più tempo e lui preferiva trascorrerlo al sicuro. Soprattutto se la principessa intendeva distrarlo con chiacchiere inutili.

Gli raccontò come aveva iniziato il viaggio, con una lunga digressione sul cambio di cavallo e una serie di improperi contro la “bestia stupida” che aveva con sé.

«In quale storia hai letto un espediente simile?» le disse, esasperato dagli attacchi a un cavallo che non aveva nessuna colpa se non quella di non provenire dalle stalle reali.

«Perché dovrei averlo letto da qualche parte e non dovrebbe essere una mia idea?»

«Perché è un’idea stupida. Sarebbe meglio per te non rivendicarne la maternità».

La principessa sbuffò e cambiò argomento. Di preciso, si dilungò sul bisogno di fare un bagno caldo. Su come fosse stanca di puzzare di cavallo, di brughiera e di sudore – non che Minulzôr fosse infastidito in particolar modo, ma si guardò bene dall’interromperla.

«Soprattutto se devi uccidermi, permettimi almeno di essere pulita».

Minulzôr sollevò gli occhi al cielo. «Mi sto pentendo di non averti affogata nel torrente».

«Almeno sarei stata in acqua» disse lei, con tono leggero. «Certo, mi sarei persa questa cavalcata davanti a te». E con quelle parole, strofinò la schiena contro di lui.

Non la degnò di una risposta.

Il che non la fece desistere.

«Basterebbe davvero poco a farmi sentire di nuovo umana, dopo questi giorni difficili».

«Forse hai la concezione sbagliata di trovarti in gita, principessa» le disse. «Non ti sto portando a passeggio, non ho intenzione di fare quel che pare a te né di tenerti compagnia. Sei la mia prigioniera fino ad Ar-Minalêth».

Quando lei emise un verso oltraggiato e tacque, Minulzôr fu sul punto di pentirsi di quelle parole. Era una sciocchezza, se mai ne aveva pensata una, e avrebbe dovuto solo ringraziare la pace che, infine, lei gli stava accordando.

Dopotutto, le aveva detto bene: la loro non era una gita di piacere.

Doveva evitare qualsiasi situazione che lo ingannasse a proposito. A partire dalla sensazione che gli provocava averla seduta davanti a sé sulla sella, tra le sue braccia, l’odore così terreno della sua pelle appena sotto le narici.

Lui era migliore di così.

A metà pomeriggio la principessa si riscosse dal suo mutismo per annunciargli che doveva svuotare la vescica.

Minulzôr smontò da cavallo e, prima che lui potesse aiutarla, lei saltò giù e si incamminò verso degli arbusti più in là.

«Ferma lì» le disse.

Lei gli lanciò uno sguardo oltre la spalla. «Non vorrai assistere mentre faccio quel che devo, spero».

Minulzor infilò la mano nella sacca appesa alla sella e aggirò il cavallo per raggiungerla. «Ho una corda abbastanza lunga da poter stare a distanza sufficiente per rispettare il tuo – improvviso – pudore».

La principessa storse la bocca, infastidita, e Minulzôr le avvolse un capo della corda intorno alla vita e gliela assicurò con il nodo degli schiavi. Lei lo adocchiò e lui avrebbe quasi potuto vedere la sua testolina ruminare un piano.

«Non ti conviene provare alcun trucco» le disse. «Senza sapere come scioglierlo, l’unico risultato che otterresti sarebbe trovarti assicurata con un nodo ancora più stretto»

Lei tirò su col naso, il ritratto dell’indignazione, e riprese a dirigersi verso gli arbusti, le spalle squadrate come se stesse cercando di trattenere il suo temperamento.

Sistemata la questione – sentendola tranquilla, Minulzôr ne aveva approfittato per liberarsi a sua volta – tornarono ai cavalli e si rimisero in cammino.

Con l’arrivo della sera, cercò un posto adatto a sostare per la notte, protetto ma senza troppi nascondigli in cui lei avrebbe potuto rifugiarsi. Non che intendesse lasciarla dormire per i fatti suoi, ma le precauzioni non erano mai troppe.

Trovato dove accamparsi, fermò i cavalli, avvolse di nuovo la fune alla vita della principessa e assicurò l’altro capo intorno alla sua.

«Tutte queste attenzioni» disse lei, seguendolo mentre sistemava i cavalli e preparava il campo per la notte, «si direbbe quasi che sono un pericoloso criminale abile nella fuga».

Minulzôr distese una coperta per terra e vi sedette, per poi tirare uno strattone alla corda. La principessa vacillò e crollò a poca distanza da lui.

«Preferisco non sottovalutare nessuno» le disse.

«Non è uno spreco di energie?»

«Non quando una disattenzione può fare la differenza tra la vita e la morte».

La principessa sbuffò, incredula, e si tirò a sedere sulla coperta.

«Come se fossi in grado di ucciderti o di fuggire».

Minulzôr la guardò di sbieco, mentre chiudeva la sacca. «Non credere che mi beva questa tua sceneggiata».

Lei inarcò le sopracciglia e lui le drappeggiò il mantello intorno alle spalle.

«Ora distenditi e dormi» le disse e la spinse sul fianco. «Ripartiremo alle prime luci».

La principessa gli lanciò un’occhiata diffidente e gli diede la schiena, per poi stringersi nel mantello. Minulzôr si distese al suo fianco, pancia in su, gli occhi aperti sul cielo.

Temeva il momento del sonno. Temeva il silenzio della mente.

Durante la giornata si era tenuto occupato – distratto – tra le chiacchiere della principessa e i ragionamenti sul da farsi. Era questa capacità a renderlo un buon cacciatore e un così valido alleato di Gimilzôr.

Ma questa volta lo aveva fatto soprattutto per distrarsi.

Da lei, dalla sensazione di quel corpo contro il suo.

Mi arrendo.

Era stato troppo stordito da quel che aveva avuto tra le braccia, per accorgersi che lei aveva mollato.

E non era stata una questione della sua – quasi – nudità, non bastava un corpo femminile a confonderlo. Dopotutto era usanza diffusa in estate non far caso al pudore: quello era appannaggio di chi era ancora fedele agli Avalôi.

A sconvolgerlo tanto era stata la sua ribellione. La lotta per sfuggirgli, per liberarsi.

Per un attimo, era stato posseduto dall’istinto di gettarla a terra e immobilizzarla col peso del suo corpo.

Il che sarebbe bastato a stravolgere la sua mente fredda e lucida di cacciatore umano. Era sempre stato il suo orgoglio, la lucidità con cui sapeva cacciare. Non si abbandonava alla fretta e all’impazienza. Aveva reso intellettuale un’attività che di solito si basava solo sull’istinto e sul lato più animalesco dell’uomo.

Neppure a letto voleva sopraffare. Voleva consenso, compiacenza, resa totale, che i desideri fossero allineati alla perfezione o quasi.

Ma ora quella parte di sé che aveva sempre tenuto a bada era emersa.

«La nostra famiglia discende da un uomo della Linea di Elros che ha abbandonato la moglie nobile quanto lui, per sposare un’ancella di stirpe ignota», gli aveva sempre rammentato suo nonno. «Due tipi di sangue opposto si mescolano in noi e l’unica traccia visibile è nel rosso dei capelli che emerge in ogni generazione. La nostra bravura sta nel far prevalere la natura più elevata, su quella più bassa».

Anche a decenni dalla morte di suo nonno, Minulzôr aveva quelle parole impresse a fuoco nella memoria. Gli bastava spiare il suo riflesso da qualche parte per ricordare quel monito.

La principessa stava attentando al suo equilibrio.


* * *


Ripresero il cammino verso Sud, Balkahîli sempre seduta davanti a Minulzôr, la schiena contro il suo petto ampio, avvolta nelle sue braccia. Era disarmante. Non era mai stata seduta in quel modo a cavallo, se non quando era stata bambina e suo padre l’aveva portata nelle sue visite ufficiali.

Se con attû era stata piena di gioia ed entusiasmo, con Minulzôr la tensione le irrigidiva le spalle e il collo. Non osava appoggiarsi a lui. Per tutte le provocazioni che gli lanciava, non voleva misurarsi con il suo rifiuto totale se si fosse lasciata andare contro il suo petto.

Anche se le sembrava la soluzione di tutti i mali, fisici e non.

Svegliarsi di fianco a lui l’aveva scossa più di quanto si fosse aspettata. Non aveva sperato di addormentarsi, ma lo aveva fatto, avvolta nel mantello impregnato del suo odore, la schiena riparata dal calore del suo corpo.

Quando aveva aperto gli occhi negli attimi prima dell’alba, si era ritrovata davanti la sua spalla e il suo profilo disegnato dal chiarore del giorno in arrivo. Era stato addormentato, la rigidità della mascella dimenticata, il viso rilassato come non lo aveva mai visto.

Si era sollevata sui gomiti a osservarlo. Aveva notato per la prima volta che le ciglia erano più corte di quel che pensasse, ma in compenso folte e scure. Le labbra, quando non erano serrate, avevano una morbidezza nelle forme ben precise che sarebbero state l’invidia sul volto di qualsiasi donna, mentre su di lui contribuivano, per contrasto, a dare mascolinità ai tratti.

Tanto era stata distratta, che Minulzôr aveva socchiuso le palpebre e le aveva puntato addosso gli occhi verdi.

Unica benedizione in quel momento imbarazzante era stata l’assenza di suoi commenti.

«Ripartiamo subito» le aveva detto, per poi raccogliere mantello e coperta, assicurarli al cavallo e ricominciare una nuova giornata di viaggio.

Le ultime parole che le rivolse per tutta la mattinata. A dire il vero, nemmeno lei aveva tutta questa voglia di parlargli. La novità di poterlo tormentare a parole era finita in fretta, già il giorno precedente. Così tacque, finché non saltarono la sosta per il pranzo.

«Digiuno?» gli chiese.

«Di meglio».

Non avrebbe cavato altro da lui, ma un’oretta dopo Balkahîli capì cosa intendeva. Tra le colline dolci che si avvicinavano alle radici del Minul-Târik, emerse una costruzione.

«Oh, infine, civiltà!»

Un lieve spostamento d’aria vicino all’orecchio. Una risata?

«Il mio mezzadro ci ospiterà e darà da mangiare senza problemi» le disse, «sono solo lui, sua moglie e una domestica tuttofare».

«Quindi, potrei farmi preparare l’acqua per il bagno».

Quando lui non rispose, Balkahîli si girò a guardarlo, il viso a poca distanza dal suo. Con quel mento squadrato e le guance lisce.

«Molto gentile permettermi di non morire puzzando di cavallo e di cane».

L’occhiata fredda che le lanciò Minulzôr le assicurò che non sarebbe cambiato niente, anche se non era quello l’effetto voluto.

«Credi che stia facendo la fatica di portarti indietro solo per ucciderti?»

Balkahîli scrollò le spalle e tornò a guardare la casa mezzadrile in avvicinamento.

«Non capisco il senso di questo viaggio, infatti» gli disse. «Quando sarebbe molto più semplice eliminare la minaccia lontano dagli occhi della corte».

E invece la stava portando da testimoni. Asserviti a lui, certo, ma lei non aveva dubbio che se uno dei suoi alleati avesse offerto loro una somma abbastanza grossa, avrebbero potuto parlare. Magari in cambio di una mezzadria altrove. O terreni di proprietà. Sarebbe stato fin troppo semplice.

«Ammetto che ti stai mettendo d’impegno per farmi cambiare idea» disse lui. «Ma sei la figlia del Re e la sorella dell’Erede, non pensi di meritare più di una morte anonima?»

Proprio ciò che non voleva sentire.

«Smettila».

Minulzôr obbedì, ma lei poteva sentire sulla pelle le sue perplessità.

Non stava a lei chiarire. Voleva solo concentrarsi sul pasto caldo e – forse – il bagno profumato che la aspettavano in quella casetta di legno e pietra.

«Non possiamo andare più veloci?»

Il cavallo di Minulzôr era fatto per grandi battute di caccia, era imparentato con quelli della famiglia reale. Avrebbe retto una breve cavalcata con due persone sopra.

Quanto alla stupida bestia... Gettò un’occhiata oltre la spalla, per trovarla fin troppo sveglia e attiva per il suo solito.

Ben le stava una corsa a rotta di collo.

Se lei non avesse lasciato il suo cavallo, credendo di fare una mossa furba, sarebbe stata abbastanza lontana da evitare la cattura. Ricordarlo a questo punto le peggiorava ancora l’umore.

Voleva arrivare alla casa mezzadrile.

Subito.

Serrò le mani intorno alla criniera del cavallo.

«Come desideri, principessa».

Il gelo nella sua voce le fu di conforto, ma mai quanto il colpo di reni all’ordine di aumentare il passo e la corsa che ne seguì. Le redini in una mano, Minulzôr le avvolse un braccio intorno alla vita e seguirono il movimento del cavallo come un tutt’uno.

Una tortura dopo tutto quello che avevano fatto entrambi per evitare un simile contatto.

Non voleva armonia, solo contrasto. Opposizione.

Come quella tra i loro obiettivi.

Principessa.

Usava quel titolo come lei usava “cane” nei suoi confronti. Non si sentiva presa in giro quanto avrebbe dovuto.

Raggiunsero la casa e andò loro incontro il mezzadro, seguito dalla moglie.

«Mio signore, non aspettavamo una visita».

Minulzôr smontò da cavallo e, passato un braccio intorno alla vita di Balkahîli, la aiutò a scendere con fredda efficienza.

«Siamo di passaggio» disse al mezzadro. «Avete qualcosa da darci da mangiare?»

La donna studiò Balkahîli da capo a piedi e annuì. «Mentre preparo qualcosa di caldo, la signora potrà farsi il bagno».

Lei sorrise, grata per quel piccolo lusso. «Sarebbe fantastico».

«Vieni, ti mostro la stanza in cui potrete riposare».

Quel plurale non le piacque. Minulzôr era solito passare da queste parti in compagnia femminile?

Non erano pensieri su cui indugiare.

Seguì la donna in casa, mentre gli uomini restavano fuori per sistemare i cavalli nella stalla. Incontrarono una domestica nerboruta, a cui la moglie del mezzadro diede ordine di portare la vasca e l’acqua calda nella stanza degli ospiti.

La stanza in questione era grande come il disimpegno dei suoi appartamenti al palazzo reale, e riusciva a ospitare su un rialzo di legno un letto a due piazze, un tavolino per la toeletta, un grosso comò e un baule per gli abiti. Il pavimento era coperto da tappeti grezzi che davano alla stanza un’aria accogliente, per quanto campagnola.

Per le ore in cui sarebbe rimasta lì, poteva andare bene.

La domestica entrò nella stanza con una vasca di legno e le preparò il bagno, in un via vai con secchi d’acqua, con l’aiuto della padrona. Quando fu tutto pronto, le donne uscirono e Balkahîli si dedicò, infine, a quel che l’arrivo di Minulzôr aveva interrotto, appena il giorno prima.

L’acqua calda la accolse come un abbraccio e con un sospiro Balkahîli si lasciò andare nella vasca, immerse la testa fino a restare senza fiato e riemerse.

Non era più sola.

Seduto sul bordo del rialzo, Minulzôr le dava le spalle.

«Vuoi unirti a me?» gli chiese, più per provocarlo, che per un reale desiderio di condividere il bagno.

Lui le lanciò un’occhiata oltre la spalla. «Non temi cosa potrei farti?»

«Magari è proprio quel che voglio» gli disse e ammiccò.

Minulzôr la fissò, impassibile.

Non voleva proprio scherzare, eh?

Balkahîli tirò fuori un piede dall’acqua e allargò le dita. «Perché dovresti toglierti il brivido della caccia e il gusto del sangue?» Scrollò le spalle e lo sguardo di lui le cadde sul petto al movimento. «Sarai un bravo cane, potrei anche permetterti una leccata».

Con un grugnito, Minulzôr tornò a guardare il muro davanti a sé.

«Non fingere di non essere pronto a uccidermi, se dovessi darti rogne» gli disse.

«Non l’ho mai fatto».

«Allora perché mi fai discorsi sul valore della mia vita? So di essere di intralcio alle ambizioni di Gimilzôr, ma – guarda caso – ne ho di mie e si concentrano sullo Scettro».

Minulzôr si girò del tutto verso di lei, una gamba piegata di lato e l’altra giù dal rialzo. E lo sguardo intento su di lei.

«Perché?»

Balkahîli abbassò il piede in acqua.

«Mia sorella lo ha rifiutato e ora è mio di diritto» disse lei. «Quale altra motivazione dovrei dare? Quelle di Gimilzôr non sono migliori: perché sì, perché è il maschio, perché è il favorito di mamma. Be’, nostro padre è il re e ha sempre trattato me come erede scelta».

«Anche Ar-Adûnakhôr amava sua figlia, nonostante avesse il grosso difetto di pregare agli Avalôi» disse Minulzôr. «Lei avrebbe potuto cambiare la rotta del regno, ma ha saggiamente deciso di lasciare lo Scettro al fratello.

«Non saresti la prima né l’ultima principessa reale a essere invitata a lasciare lo Scettro alle più capaci mani di un fratello minore. Sta a te però decidere come accettare l’inevitabile».

Balkahîli si tirò a sedere e strinse il bordo della vasca.

«Non si basa il governo su cosa un sovrano ha tra le gambe» disse. Era stufa della questione! «Che altre due principesse, prima di mia sorella, abbiano ceduto, non vuol dire che lo dovrò fare anch’io. Mio padre ha scelto me, prima ancora che Gimilzôr decidesse di sfogare le sue frustrazioni matrimoniali davanti al Consiglio».

Scuotendo il capo, Minulzôr si alzò e raggiunse la porta.

«Se tuo padre ti considera la sua erede, dov’era quando Gimilzôr ha rivendicato lo Scettro in Consiglio?»

Ah, la domanda che temeva più di ogni altra.

Lei per prima non conosceva la risposta.


* * *


«Quindi vuoi farmi credere che non c’entri nulla che Gimilzôr sia il figlio maschio, con il supporto che riceve come pretendente allo Scettro?»

Avevano prolungato la sosta fino al mattino dopo, Minulzôr non era certo di saper spiegare perché. Gli era sembrata una buona idea mentre aiutava Hidrik e lasciava che gli mostrasse le migliorie apportate alle colture dei terreni.

E la principessa, dopo il bagno, era stata così taciturna che lui aveva avuto la sensazione di aver smosso qualcosa in lei.

Impressione sbagliata, a giudicare dal discorso che aveva appena riesumato, mentre attraversavano il confine col Mittabar.

Era stato uno sciocco a credere che il silenzio e l’isolamento in cui si era rinchiusa per il resto della sosta dal mezzadro fosse segno di riflessioni profonde. Per quanto ne sapeva, lei aveva trovato indegno avere a che fare con la moglie di Hidrik e si era rintanata nell’unico posto sicuro e incontaminato dalla plebaglia che conosceva.

«Se mi stai facendo questa domanda, non hai capito nulla di quello che ti ho detto» disse Minulzôr.

La principessa girò la testa di lato e lui sentì, più che vedere, l’occhiataccia che gli lanciò.

«Hai la convinzione sbagliata di potermi fare lezioncine su qualcosa che non ti riguarda» disse lei. «Rispondi alla mia domanda».

Magari poi avrebbe taciuto.

«Non puoi negare che il tuo matrimonio metterebbe lo Scettro a portata di mano di qualcuno inadatto a regnare, ma con un gran desiderio di farlo».

«Forse non è chiaro che non intendo sposarmi».

«Hai bisogno di un erede».

La principessa sbuffò ed emise un verso esasperato. «Non mi sembra giusto che, per una regina che ha sposato un uomo che ha usurpato il suo Scettro, ora dobbiamo pagarne tutte le conseguenze» disse lei. «Le Regine che l’hanno preceduta hanno dimostrato di essere fatte di ben altra stoffa. E non si può nemmeno dire che i miei antenati maschi abbiano fatto di meglio».

«Sono eccezioni».

«Forse, impegnato com’eri nella caccia e nell’agricoltura, non hai imparato la matematica come l’ho imparata io: la probabilità è uguale tra i Re e le Regine Regnanti, solo che le Regine sono state così poche, che i loro errori sembrano enormi e letali, quando non si può dire che i Re siano stati tutti paragoni di abilità di governo.

«Se vogliamo prendere l’esempio maschile simile a quello di Tar-Vanimeldë, prendiamo Tar-Súrion. O, più vicino a noi, Ar-Zimrathôn. Tu forse eri ancora un ragazzino e non lo ricordi, ma persino nella mia ingenuità giovanile io avevo notato la dinamica tra lui e mia nonna.

«Per non parlare di quanto gli amanti, e gli amanti uomini, di alcuni nostri re abbiano avuto potere. Eppure l’unica che ricordiamo è Tar-Vanimeldë!»

Così come era divampata, la principessa si acquietò. Anche un po’ senza fiato. Situazione curiosa, per come la conosceva.

Se l’altro giorno, durante la loro discussione, gli era sembrata infervorata, ora doveva ricredersi.

C’era qualcosa in questo discorso. Una scintilla che nell’indolente e lasciva principessa dei suoi ricordi non c’era.

«Quel che dici ha senso» le concesse. «Perché non hai fatto questi discorsi al Consiglio?»

Minulzôr attese una risposta che non giunse mai. Proseguirono finché il sole non fu dritto sulle loro teste, si fermarono a vuotare la vescica e mangiarono con gli sguardi sulla meta: le radici del Minul-Târik, tra cui si intravedeva lo scintillio della cupola della Casa del Re.

Ma la principessa non gli rispose.

Era sufficiente menzionare il Consiglio e suo padre, che lei smetteva di parlare.

Rimontarono a cavallo e ripartirono. Questa volta non le avrebbe concesso altro tempo per rimuginare.

«La tua fuga è stata una mossa azzardata. Un capriccio, per alcuni. Pensi davvero di tornare alla stessa situazione che hai lasciato?»

La schiena di lei si irrigidì. «Non sarei fuggita, se non fosse stata a rischio la mia vita».

Minulzôr schioccò la lingua contro il palato.

«Sei fuggita al primo verdetto sfavorevole del Consiglio, invece di portare davanti alla stessa assemblea le tue ragioni. Non ciò che farebbe una sovrana che sa usare gli strumenti di governo per le sue argomentazioni».

La principessa gli lanciò un’occhiata di sbieco.

«Cosa avrei dovuto fare, aspettare di mandar giù la mia dose di veleno?»

«È proprio quel che ho nella mia sacca» le disse e la sentì sussultare. «Ma non intendo usarlo».

Avvicinò le labbra all’orecchio di lei che spuntava tra i capelli corti.

«Hai colto un aspetto di me: non potrei concludere la caccia senza il gusto del sangue. Così come tu non te ne andresti mai senza lottare con le unghie e con i denti».

Le sfuggì un sospiro tremulo, il genere di verso che poteva immaginarla emettere se le avesse infilato una mano nei calzoni e l’avesse accarezzata. Un verso che gli infiammò i lombi.

Dannazione.

«Non è l’unico aspetto di te che ho colto, non è così?» disse lei.

C’era un sorriso in quelle parole. Avrebbe dovuto aspettarsi che sentisse ogni reazione del suo corpo, tanto era vicina a lui.

«Perché stai perdendo tempo a spiegarmi le ragioni per cui non avrò mai lo Scettro?» gli chiese. «Non sei un cane fedele quanto credevo?»

«Sono fedele a tuo fratello» le disse, concentrandosi su ogni parola invece di lasciarsi distrarre dal calore del corpo di lei premuto proprio dove lui stava andando in fiamme. «Ma la mia vita non gli gira intorno».

La principessa gli lanciò un’occhiata scettica.

«Cosa sei, se non il suo cane? Quali interessi hai al di fuori di ciò che serve a mio fratello?»

Minulzôr strinse le redini.

«Eppure ti stai interessando tanto a farmi capire perché ho fallito contro Gimilzôr.

«E la notte scorsa sei stato così attento a non finire sotto le coperte con me.

«Non vorrai dirmi che c’è qualcosa al di sotto del manto del cane?»

Come a sottolineare quel punto, si inarcò contro di lui. Un movimento così suggestivo, che la mano gli corse su per il ventre di lei fino a premere, aperta, sotto la sua gola.

«Non provocare il can che dorme, principessa» le disse, le labbra contro l’orecchio, e fermò il cavallo. «Potrebbe mordere».

Lei ansimò e gli afferrò le cosce.

«Fallo».

Con un verso di gola, le pizzicò la pelle della guancia tra i denti, le strappò un «sì» sorpreso. La mano scivolò dal collo al seno, lo strinse attraverso gli strati di stoffa, e lei inarcò la schiena, le dita gli affondarono nelle cosce. Le prese il mento tra le dita e le sollevò il viso per premere la bocca sulla sua.

La divorò.

Con le labbra, con i denti, con la lingua.

Quel che desiderava. Quel che non avrebbe dovuto avere.

Nonostante le risposte del suo corpo, non gli era chiaro se lei lo volesse davvero, o lo stesse manipolando solo per avere la meglio su di lui. Non avrebbe fatto alcun passo avanti senza chiarire la questione.

Minulzôr lasciò le sue labbra e smontò da cavallo.

La principessa si girò a guardarlo, gli occhi sgranati e scuri, il fiato corto.

«Non ho intenzione di impormi su di te» le disse, «né di nascondermi dietro le tue provocazioni».

Lei sbatté le palpebre, come se notasse per la prima volta quell’implicazione. Forse era vero.

«Possiamo continuare, se è quello che anche tu desideri» proseguì Minulzôr. «Se vorrai fermarti qui, non te lo rinfaccerò né mi vendicherò in alcun modo».

Lo sguardo di lei corse al suo inguine, alla ricerca di qualche conferma. Che fosse eccitato? Lo era. Che stesse parlando a mente fredda? Niente affatto. Non voleva nient’altro che affondare in lei e sentirla stringerglisi intorno.

Ma era meglio dei suoi antenati.

Non sarebbe stato un altro uomo di nobili natali incapace di governare i suoi istinti.

Lui sapeva controllarsi e lo avrebbe fatto pure adesso, anche se si stava rivelando l’impresa più difficile della sua vita.

La principessa piegò la testa di lato e giocherellò con il laccio della camicia che spuntava dal farsetto.

«Parole solenni, per un cane in calore» disse e Minulzôr sentì lo stomaco sprofondargli. Si stava prendendo gioco di lui.

Incontrò lo sguardo della principessa. Con un sorrisetto, lei passò una gamba oltre il dorso del cavallo e saltò a terra, dalla parte opposta rispetto a lui.

E corse tra gli alberi.

Stupido, stupido, stupido!

Aggirò il cavallo e le fu dietro. La risata di lei giunse da poco più avanti e solo allora si rese conto che, se la principessa avesse voluto davvero fuggire, si era trovata nella posizione giusta: sul suo cavallo, l’unico a loro disposizione dopo aver lasciato l’altro a Hidrik.

Gli si seccò la gola.

Si stava prendendo gioco di lui, sì, ma non come aveva creduto.

La raggiunse, le afferrò un braccio e la attirò contro di sé. «È un sì?»

Con un sorrisetto, la principessa gli prese il viso tra le mani e lo chinò verso di lei, verso la sue labbra, verso un altro bacio che sapeva di sfida. Lui la strinse tra le braccia, le tirò fuori non più provocazioni, ma ansiti al gusto di resa, totale, a lui, e a quel che la aspettava ad Ar-Minalêth.

Lei indietreggiò, tirandoselo dietro, finché non si scontrarono con un tronco. Gli discese la schiena, fino a stringergli le natiche e spingere il fianchi contro i suoi. Avida, senza alcun pudore. Avrebbe dovuto disgustarlo, ma Minulzôr si ritrovò a strattonare i lacci della camicia e chinare la testa su un seno, e poi l’altro, scoprendola all’aria del bosco, una visione così poco civilizzata e così adatta a lei che si accovacciò ai suoi piedi, le abbassò i pantaloni e proseguì a divorarla.

Gli strinse i capelli tra le dita, tirò e lo pregò di fermarsi, di proseguire in altro modo, ma la ignorò. Lasciò che si sgolasse e si incurvasse contro il tronco, il bacino contro il suo viso.

Solo allora tornò in piedi e si slacciò i pantaloni.

La principessa gli diede la schiena, con uno sguardo oltre la spalla.

Un invito silenzioso, inequivocabile.

Aveva davvero creduto di poter essere meglio dei suoi antenati? Era un illuso.

Perché la prese contro quell’albero, il petto contro la sua schiena, i loro pantaloni attorno alle caviglie. Ansimarono e ondeggiarono all’inseguimento del piacere incalzante, come due contadini travolti dalla passione nel mezzo dei campi.

Gli incoraggiamenti che lei gli gridava, sfacciata, gli martellavano nelle orecchie, come i loro ansiti e gemiti e il battito del suo cuore. Più forte, più forte, finché persino il loro respiro non tacque.

Solo quel battere non si fermò.

Minulzôr sollevò la testa.

Non si trattava del suo cuore.

Mosse un passo indietro e tirò su i pantaloni. «Rivestiti» disse. «In fretta».

La principessa si voltò, le guance arrossate e la bocca aperta per respirare meglio, e tirò il laccio della camicia con mani malferme.

I battiti erano più vicini. Erano in tanti.

A poca distanza, il suo cavallo sbuffò. Minulzôr afferrò i pantaloni della principessa e glieli allacciò.

«Potevo fare–»

Lei sgranò gli occhi. Li aveva notati, infine.

Cavalieri.

Dopotutto glielo aveva detto. E lui si era dimenticato di avvisare di averla presa in carico.

Se dopo tre giorni non avrò tue notizie, manderò i miei uomini a cercarla. A meno che tu non mi chieda il contrario.

Nessuno avrebbe potuto mai accusare Gimilzôr di non mantenere la parola data.

La principessa gli afferrò un braccio.

«Sono qui per me? Cosa vuol dire?»

Con uno strattone, Minulzôr si liberò dalla sua presa. «Se pensi che questo abbia cambiato qualcosa, sbagli» disse e proseguì, fuori dalla boscaglia.

Il suono degli zoccoli sulla strada battuta era vicinissimo. Sollevò la testa sui cavalieri di Gimilzôr che si aprivano a cerchio intorno a loro. Prese la principessa per un polso.

«Siamo qui su ordine del principe Gimilzôr» disse un cavaliere, fermandosi davanti a loro.

Minulzôr spinse la principessa verso di lui.

«Come richiesto».

La presero in carico, i polsi legati, seduta sul cavallo, e si allontanarono, verso Ar-Minalêth. La principessa non distolse mai lo sguardo da lui, la testa alta, le labbra tirate in una linea dritta, ogni rossore sparito dal suo viso.

Avrebbe capito che era meglio così. Che Gimilzôr avrebbe potuto cambiare idea. L’avrebbe potuta risparmiare. Magari l’avrebbe allontanata, ma non le avrebbe tolto la vita.

Gli starebbe stata pure grata, un giorno.

Bastarono pochi passi perché Minulzôr si rendesse conto che le aveva mentito.

Era cambiato tutto.






Nota dell'autrice


Eeeeeeeee rieccomi!

Siamo a metà storia – di già??? – e penso che un altro po’ di dinamiche siano più chiare.

La coppia a cui fa riferimento il nonno è una coppia di cui starei scrivendo la storia (long) da due anni abbondanti, ma ehm, I can’t long right now e non l’ho ancora conclusa. Prima o poi arriverà, suppongo.

Quanto agli accenni ad altri re “succubi” dei loro compagni, puro headcanon che spero di esplorare in qualche modo. Anche questo, prima o poi.

Ho troppi progetti e troppo poco tempo. E qui sto blaterando perché non posso dire molto sulla storia, I suppose?

A parte, ecco: le lime. Io ci provo sempre a scriverne, a provare il brivido delle descrizioni poco esplicite e molto evocative, ma la mia passione per i dettagli tende sempre a trascinarmi altrove.

Ci vediamo tra due settimane con la terza e ultima parte!

Grazie a chi ha letto e alla prossima,

Kan


   
 
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