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Autore: Manto    23/06/2018    4 recensioni
Exhȳdria: Termine della lingua greca, indicante il vento che porta tempesta.
Vento che sconvolge la realtà e cambia la prospettiva, che muta l'ordine; caos che protegge la vita per amore, o la distrugge per vendetta e disperazione.
Questo è ciò che sono i due personaggi qui proposti, anime tese alla solitudine e alla distruzione dei limiti; anime che forse non sapranno mai cosa sia davvero la felicità, né la libertà.
❤ La shot “Anima Scarlatta” si è classificata seconda al contest “Raggio di Luna” indetto da mystery_koopa sul forum di EFP, e ha vinto i premi "Rivelazione maschile" per il miglior personaggio maschile e "Sui Generis" per il miglior utilizzo del genere fantasy.
Genere: Angst, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Exhȳdria


{Exhȳdria: Termine della lingua greca,
indicante il vento che porta tempesta.
}




♦◊♦


And I always said, we should be togheter
I can’t sleep alone, because there’s something in here
And if you are gone,
I will not belong here



And my heart is a hollow plan
For the devil to dance again





Breath of Life”, Florence + The Machine


♦◊♦




I ● Il Cacciatore di Stelle




Il piccolo focolare, vivido cuore nella notte; e poi il fumo che saliva verso le schegge di cielo che le fessure nel tetto facevano penetrare, le pareti quasi spezzate dalla furia delle rose rampicanti, l’anello di giovani querce che circondava la radura. L’intero mondo incrociava le proprie forze sopra quella casa: il legno profumava dell’alba come del tramonto, ogni mattino il letto dei suoi abitanti era intessuto di petali e rugiada; anche le fiere indomite trovavano protezione nella struttura dalla porta dipinta di blu e oro, condividevano lo spazio con gli umani fissandoli con occhi di giada e silenziosi movimenti nelle ultime tracce di oscurità. Né l’inverno né la quieta pioggia turbavano il sonno e la pace: quel nido esisteva per proteggere la vita e rispettarla, e la Natura faceva lo stesso.
Ricordi di fuoco e fumo, sentore di viole selvatiche ed echi di voci intrecciate nelle sere d’autunno: se solo avesse potuto tornare indietro…

Oppure dimenticare tutto quanto. In realtà, a differenza di quel luogo che ancora esisteva così com’era stato costruito, lui non era più l’anima che la memoria spesso piangeva; erano sogni di un altro, quelli.
Mi accetteresti ancora, mio dolce rifugio? Chi ti rendeva tale se n’è andato per sempre… ma tu sapresti riconoscere l’uomo che sono stato?





Era nato senza un nome; dei tanti con cui le genti, gli eventi e il Tempo gli avrebbero marchiato la pelle, nessuno gli sarebbe mai appartenuto.
Solo quelli che ho ricevuto da me stesso.
Inizialmente, la realtà su cui aveva aperto gli occhi non aveva necessitato di alcun tipo di delimitazione, né fisica né verbale: era stato un unico, incessante fluire di forze ed energia oltre lo spazio e il tempo, un battito racchiuso in un punto e allo stesso tempo ovunque, dove sia la luce che il silenzio avevano trovato un’indistruttibile armonia; era stata l’esistenza ai suoi inizi, materia in evoluzione e continua espansione.
Sì, era stato uno dei primi uomini: più longevi, forti e valenti di quelli che i secoli successivi avrebbero visto crescere, ma comunque mortali — e per questo, destinati a scomparire dalla memoria; a contatto con l’immortalità e la perfezione, condannati a non farvi parte.
Fino a quando l’intero universo era rimasto addensato in quella spirale di pura essenza, la coscienza di tutti
non aveva avuto modo di svilupparsi; infatti solo in seguito, con l’avvento della creazione vera e propria e il definirsi di una nuova realtà, anche le opposizioni avevano preso corpo e, come necessario, ordinato il flusso del divenire.
Parola, silenzio.
Carne, metallo, minerale.
Calore, gelo.
Luna, stella.
Femmina, maschio; e poi estate, inverno, protezione, tristezza.
Felicità, rabbia.
Empatia.
Devozione.
Lealtà.

Immortalità. Rovina.
In poco tempo erano sorte le prime città, e con esse erano state approntate le arti e tecniche necessarie per renderle splendide e abbandonare del tutto i rifugi naturali; i Creatori avevano istruito gli umani su come dominare il fuoco, il ghiaccio e le tenebre, boschi e laghi avevano aperto il ventre per nutrire la vita… e lentamente, le creature tanto amate e volute dai Supremi avevano iniziato a muoversi con le proprie forze e a non avere più paura del proprio simile, a unirsi, affinare ed espandere la conoscenza ogni giorno di più, fino a posare il proprio sguardo sul fascino dell’impossibile.
Lui non aveva mai sentito il bisogno ossessivo della pietra e dell’ossidiana, i suoi passi e tutto l’interesse erano subito stati per il rigoglio arboreo e il suono delle cascate, incastonato nella veglia come nel sonno: per questo motivo aveva costruito il suo focolare
[1] tra le braccia di una radura e aveva edificato nel legno degli alberi più resistenti le mura che lo custodivano, per questo aveva dipinto l’accesso con il corpo blu degli iris e la sfumatura solare dei narcisi acquatici, in un sottile dialogo tra ingegno umano e regno naturale; per questo, quando i Beati avevano ordinato a tutti di trovarsi un nome, aveva scelto quello che più era vicino al cuore, così che la parola Daire(♦) potesse conoscere il mondo insieme al suo possessore.
Daire, la Sentinella delle Foreste; Daire dagli occhi viola, un’ombra nelle iridi e un piede sempre distante da quello degli altri… gli altri che erano tutti, tranne l’uomo nato nel suo stesso istante — la percezione di avere un corpo concreto, la realtà piena di colori fissi, stabili; infine, una presa calda, estranea ma benefica, intorno alla sue dita. Mano che stringe un’altra mano, terrore di solitudine e ricerca di vicinanza —, l’unico che avesse conosciuto la notte al suo fianco. Le memorie più intense, così come tutti gli istanti di pace, erano sempre state legate a quel giovane continuamente desideroso di libertà.

Per molto tempo hai camminato accanto a me, sei stato mio amico
[2]; abbiamo vissuto vicino anche quando i nostri desideri sono mutati.
Il mondo l’abbiamo conosciuto attraverso due sguardi, i sentimenti hanno preso forma tra noi; nel tumulto della città io ancora ti sentivo, nel cuore del bosco tu riuscivi a chiamarmi.

«Daire è una parola che esprime appieno quello che sei: solitario, silenzioso, osservatore come i fiori che ora ci circondano.
La gente delle città è diversa.»
«Non credi che sia io quello diverso, in realtà?»
«C’è qualcosa di più forte che scorre in te.»
«Siamo tra gli alberi; la tua sensazione nasce dal loro respiro. Probabilmente ti sei già dimenticato come sia vivere vicino alla terra.»
«La Natura ha una voce diversa dal marmo; questo, però, lo sapevo già. No, ciò che sento è totalmente opposto.»
Innumerevoli volte gli specchi lacustri avevano riflesso le loro figure: quella più alta e avvolta in neri abiti di uno, i tratti gentili e gli occhi cangianti, dolci, dell’altro. Severità e indulgenza, gemma del buio e riflesso dell’aurora, attaccamento al ciclo del mondo e impulso di cambiamento: diversi nelle azioni, sempre uniti nei pensieri.
«Dovresti trovarti un nome; non posso chiamarti in mille modi, devi avere una parola che appartenga solo a te.»
«Siamo unicamente questo? Parole, oppure anche corpi, desideri, altro?» Un sospiro. «I nostri creatori… ci hanno dato una forma, hanno permesso alla nostra mente di aprirsi e apprendere; e, credo, hanno racchiuso in noi qualcosa di ancora diverso. Tu, per esempio, hai sempre saputo sentire la voce delle foglie e del suolo: sai spiegarmi perché? Difficilmente potresti farlo: lo senti perché è dentro di te.
Abbiamo definito
affetto il senso di calore che proviamo per un nostro simile; rabbia quando vogliamo distanziarci da lui, perdono quando quello che ha fatto scaturire la rabbia non cancella l’affetto… ogni cosa è collegata, ma qual è la fonte? C’è qualcosa che ci guida, ci aiuta; non si può trovare fuori, è nascosta sotto la nostra pelle e vive nel profondo.»
Lui avrebbe conosciuto il significato di
anima solo più tardi; invece, quel giovane con cui aveva condiviso il primo respiro già l’aveva compresa.
Anche se non completamente capita, aveva comunque percepito la realtà nella voce del compagno: una porta capace di dare accesso a una nuova forma di verità e conoscenza, più intima e totalizzante.

Forse solo allora sono nato davvero.
«E comunque… se vuoi un nome, chiamami Glauco
(♦), come il cielo. Se tu hai scelto la forza delle tue amate querce, io abbraccerò le nuvole.»
«Così sia, allora. Ora so che è a Glauco che devo chiedere se vuole lasciare la città, e vivere con me.»
«La stessa cosa che Agia ha detto a Telefo questa stessa mattina.»
«Non considerarti così importante!» Una risata fusa insieme allo scherzo, anello dell’amicizia. «Famiglia… non è solo un uomo e una donna, sai?
Famiglia sei anche tu per me; solo con te sento di non essere incompleto.»

E solo.
Lunghi capelli di bronzo mescolati a ciocche ebano; le fronti vicine più del consueto, l’opale e l’ametista collegate da un silenzioso dialogo. «E tu sei sempre stato il mio riferimento, pur nel
l’errare. Lasciami andare, lasciami conoscere quello che si muove al di là dell’orizzonte; lo sai che tornerò, non temere mai il contrario.»
«Allora non mi resta che attenderti.»
Nel tempo, erano state molte le volte in cui Glauco aveva ascoltato la sua richiesta; e il vero fuoco della casa, il centro della sua essenza, era divenuto proprio il volto brunito dal sole e sorridente con cui l’allegro girovago era stato solito sporgersi attraverso l’uscio e annunciare il suo arrivo, consentendo il ritorno della luce. In quei momenti, la perfezione aveva vissuto anche in mezzo a loro.

Illusione, madre di tutti i mali… a volte credo ancora alle tue colpe.




Inizialmente, anche la Morte non aveva avuto un vero nome.
Passato neppure un secolo dalla Creazione, tra mura arse dal mezzogiorno e archi di pietra rosata si era iniziato a mormorare di alcuni uomini che, nel sonno o nel mezzo di una qualsiasi azione, erano collassati al suolo per non rialzarsi più: gli occhi fissi alle alte volte celesti o serrati sotto le palpebre, i protagonisti di quegli inspiegabili fatti avevano recato confusione e incomprensione, ma non paura — non ancora.
Gli dèi che avevano vissuto in mezzo a loro erano stati interpellati, come sempre quando qualcosa di sconosciuto aveva turbato il cammino; e quei volti riflettenti i giochi del cielo notturno o il colore cupo del mare, distanti
ma compassionevoli, avevano raccontato di un viaggio che alcune anime — ormai quel termine era stato appreso, ma ogni volta lui era stato scosso come da un timore ancestrale — avevano intrapreso verso nuovi luoghi, e che per lunghi anni questo non avrebbe consentito il loro ritorno.
Il fatto non avrebbe dovuto recare timore o sconforto, in quanto a quella seppur lunga separazione si sarebbe unita una promessa di ricongiungimento; e in tal modo l’Oscura era stata introdotta celata da panni splendenti, mentre i corpi dei caduti erano stati prelevati dagli stessi Supremi e portati in un luogo adatto all’attesa del proprio spirito.

Nessuno, forse nemmeno la mente acuta di Glauco, avrebbe potuto scoprire la realtà velata sotto le parole; ma se inizialmente la possibilità non era stata considerata, le idee erano rapidamente mutate quando, dopo e insieme alla Morte, erano giunte altre degenerazioni.
La Malattia aveva iniziato a manifestarsi con asfissia, bolle cremisi capaci di stravolgere le forme dalle membra, insonnia e pazzia; la Fame, invece, era venuta per piegare le ginocchia e ridurre a fantocci anche i più forti.
Le città si erano presto trasformate in un crogiolo di domande e paure, in sgomento davanti alle pene che avevano colpito indiscriminatamente uomini e donne, i nuovi nati come i più vecchi; in molti avevano fatto ritorno alla protezione delle grotte o degli alberi per cercare un qualche tipo di sopravvivenza, ma anche qui erano stati inseguiti dai figli della Privazione, creature ancora senza nome ma con la voracità di una maledizione, chiamate Disperazione e Pianto.
«I Beati non rispondono più alle nostre parole; osservano e ascoltano in silenzio, ma non riescono a salvarci. Che cosa sta succedendo?»
I sussurri di Glauco erano risuonati nell’ombra di una sera rovente, tra giacinti seccati dall’arsura prolungata e una luna senza contorni, rinchiusa tra il fumo che saliva dai palazzi — «
Il fuoco non potrà purificare tutto questo!» — e le onde di sabbia recate dal vento del lontano deserto, impietoso e soffocante.
«Sei certo che vogliano farlo?»
«Daire…»
Nessuna risposta, se non un’occhiata più intensa delle altre. Per giorni il suo sguardo aveva seguito con attenzione il divenire delle foreste, colpite da morbo e sofferenza come tutte le altre forme di vita; molto di ciò che era stato infettato si era consumato e aveva perso la propria voce, e il rincorrersi delle stagioni lo avrebbe sanato solo parzialmente.
I corpi d
egli esanimi, negli ultimi tempi sempre più numerosi, erano stati portati via dai Supremi e nessuno li aveva più visti; ma le selve non avevano mai nascosto nulla, mostrando invece che un’anima fuggita sarebbe stata perduta per sempre: l’involucro di legno che l’aveva racchiusa si sarebbe consumato fino a scomparire, anche desiderandolo da sé lo spirito non sarebbe riuscito a ritrovarlo, poiché non ci sarebbe stato nulla a cui ricongiungersi.
Quel pensiero improvviso lo aveva sconvolto, ma non come si sarebbe aspettato: nel profondo, qualcosa gli aveva sussurrato che già da molto tempo ne era certo, forse per il continuo contatto con il ciclo naturale…
forse per altro.

Ma era ancora troppo presto per capire.
«… Daire, che cosa vuoi dire?»
«Non lo so…»
Ancora troppo fiducioso. «Non lo so davvero.»
Glauco aveva annuito, e la notte aveva perso ogni luce residua. «Partirò il prima possibile. Voglio cercare un rimedio a tutto questo; non posso stare qui a guardare senza tentare di fare qualcosa.»
Non avrebbe potuto mai fermare quell’amico dalla tempra d’acciaio; come sarebbe stato impossibile spiegare razionalmente l’inquietudine scaturita da quella decisione, il primo dei tanti presagi che l’avrebbero segnato.
Come per proteggerlo, nei giorni successivi le foreste si erano chiuse intorno a lui e alla casa; dopo settimane d’assenza, la pioggia aveva ricominciato a scendere e ad allentare il morso delle pestilenze, concedendo la fallace speranza che il peggio fosse passato.
La verità dei fatti, della miseria, aveva comunque trovato il sentiero per raggiungere la sua porta: aveva bussato nello stesso momento in cui l’aveva fatto la figura emaciata, tremante e debole, che aveva intriso di cremisi le volute blu ed era poi precipitata bocconi sulla soglia. Di ritorno da una pesca infruttuosa, lui l’aveva trovata così: rannicchiata sul pavimento tra coltri strappate nel delirio della malattia, circondata da rivoli di sangue e puzzo di urina, la persona che un tempo era stata la sua guida lo aveva fissato con occhi non più azzurri ma opachi, la luminosa pelle scura divenuta grigia e tutta la bellezza svanita. Le ossa avevano scricchiolato quando lui era accorso a sostenere quel corpo stanco; e il suo sguardo si era riempito del desiderio di non vedere più nulla.
«Perdonami, Daire. Perdonami, ho fallito! Me ne sono andato per scoprire il modo di salvarci… e sono ritornato per morire.»
«Morire? Che cosa vuol dire?»
Un sorriso confuso tra le lacrime, un mugolio riposto in un estremo incontro delle rispettive mani. «Significa svanire, amico mio; significa che io partirò ancora una volta, e tu non dovrai più aspettarmi.
Ho resistito fino ad adesso perché volevo sentire il tuo abbraccio un’ultima volta… perdonami, perdonami davvero! Ti lascerò solo… ti lascerò indietro, in questo viaggio. Sono così cattivo!»
«Basta, smettila di parlare! Stai delirando.»
Saliva e bile avevano intriso i suoi abiti quando aveva sollevato tra le braccia Glauco e lo aveva portato in una rapida corsa tra i sentieri selvatici, verso la città più vicina e le sedi dei Beati; ma al limitare delle selve fu proprio uno di questi a venirgli incontro, potenza delle acque fluviali e dei monti, gli stessi che andavano sgretolandosi come un pianto di pietra. Davanti al dio lui si era fermato e aveva proteso il compagno, fissandolo sconvolto e con tanto, troppo, da perdere. «Siete i Creatori, ci avete donato ogni cosa… salvatelo, potete farlo!»
Le onde nel corpo del dio non si erano mosse nemmeno quando lui gli si era inginocchiato davanti nella prima e ultima delle suppliche, ma la voce aveva perturbato l’aria. «Non è possibile; voi creature siete destinate a cessare la vostra esistenza, prima o poi, e la sua sta per compiere l’ultimo passo. È nel vostro fato.»
«Ma Glauco deve ancora fare tanto per l’umanità! È migliore di molti, la sua vita vale anche più della mia! Vi prego… concedete a lui di sopravvivere, e questa grazia la ripagherò con tutto ciò che vorrete: sono disposto a dare la mia esistenza in cambio, se fosse un vostro desiderio.
Non voglio perderlo… non voglio.»
«Che superbia! Tutti avete lo stesso valore, quel relitto non è di certo più importante di te. Dallo a me, ora.»
«Ma…»
«Consegnami il tuo amico; rimarrà vivo ancora per pochi attimi, deve essere deposto insieme agli altri.»
«Deposto…» La presa più stretta sulle braccia smagrite del prezioso amico, a trattenere i singulti già radi e silenti. «Ci avete ingannato, tutti voi Creatori; a me avete parlato di fine dell’esistenza, ma agli altri uomini avete detto di attendere i compagni. Non c’è nessuno da aspettare, vero? Sono morti, come dice Glauco, come testimonia la natura che ci sta guardando: se ne sono andati per sempre.»
Il dio aveva esitato un istante, quindi aveva voltato appena il capo. «Forse tu sei più accorto degli altri», aveva sussurrato, «ma di certo questo non cambia nulla. A chi gioverebbe sapere la verità? Non sopravvivereste comunque. Dammi il corpo, ora.»
Non era rabbia quella che allora aveva provato; non solo… no, qualcosa di più forte, come l’odio: l’odio che per primo aveva portato nel mondo. «Avevate forse paura di noi? Temevate di perdere la nostra obbedienza, l’amore, le nostre offerte?»
Da dove era nata quell’affermazione — perché la domanda aveva assunto il tono di una risposta —, quell’ardore? Il germe dello scontro era sempre stato in lui, nel mormorio che aveva sentito così spesso?
«Piangi le tue perdite senza incolpare gli altri e impara a rispettare i padri, umano; le tue parole sono flebili come uno spiffero, senza verità.»
Senza che avesse potuto vederle, le braccia del Beato lo avevano spinto a terra e avevano rapito il corpo di Glauco; e anche se ormai il respiro del giovane si era ridotto a un’illusione, lui aveva tentato di riprenderselo.
Inutilmente; e parimenti inutilmente le foreste avevano gridato con lui, uniche compagne del suo dolore, le sole a comprenderlo e affiancarlo.
Odio, disprezzo, furia, violenza: forze mai sentite prima avevano affiancato il suo penoso cammino verso la propria casa, avevano fatto fuggire tutte le fiere che là si erano rifugiate e costretto lui a cercare e conservare ogni traccia dell’amico scomparso.
Disumanità, follia, noncuranza; non sarebbe stato più lo stesso, avrebbe urlato fino a perdere la voce nell’impotenza… avrebbe scelto di morire, e avere almeno la consolazione di non lasciare solo il corpo di Glauco.
Per giorni lo aveva pensato e progettato, rifiutandosi di cibarsi e serrando ogni anfratto della dimora, così che nemmeno un raggio dell’alba sarebbe riuscito a raggiungerlo; per giorni aveva respirato nel livore, sul pavimento lurido, in attesa dell’agognata fine.
Più veloce di questa erano stati, tuttavia, i richiami del mondo: chi aveva avuto in sorte forma e anima sussurrante, silenziosa nell’osservare ma inarrestabile nell’agire, era riuscito a penetrare il vincolo del legno e a scivolare nella gelida struttura, alla ricerca del suo amico più fedele.
Rami e tralci di rose, boccioli e piccoli animali avevano deciso di non attendere nemmeno un istante e raggiungerlo immediatamente, anche a costo di essere scacciati o fatti a pezzi; e avvinghiati alle caviglie e braccia che per tanto li avevano curati, erano rimasti al suo fianco come avevano potuto, penetrandogli sotto la carne e alimentandolo tramite sé stessi.
«Che stupidità, rimanere accanto a chi ha abbandonato tutto.»
«
C’è tanto che ti sta ancora attendendo, non lasciarlo fuggire.»
«Morirò qui, come accaduto a Glauco!»
«
Amare parole, e non del tutto vere: suonano come una contraddizione, se dette da chi vuol essere immortale.»
Ogni voce, esterna o interna a sé, era stata poco più di un pungolo fastidioso; ma quella parola si era trattenuta nell’aria con le proprie forze, per farsi ascoltare a riascoltare. Inutile evitarla: era riuscita a restare comunque, a tormentarlo ancora.
Mi stai nutrendo anche tu?
«
Rialzati ed esci da qui: sei forte abbastanza per combattere.»
«Combattere…»
«
Non senti tutte queste grida? I Beati vi hanno ingannato, lo sai già; e sopporterai l’esistenza di questa menzogna? Fuori di qua ci sono tanti come te, e tutti hanno perso il proprio Glauco; ma a differenza tua lo aspetteranno invano, perderanno la vita con la speranza di rivederlo ancora, ringrazieranno gli dèi per ogni azione, ignari della verità.
No, tutto questo deve finire: i Creatori hanno tenuto ogni felicità per sé e dato a voi la vita per rendervi servi, ma chiediti questo: loro hanno bisogno degli uomini… gli uomini hanno davvero bisogno di loro?
»
No, non era stata la Natura a parlare, improvvisamente ne era divenuto certo: era stata l’incognita custodita nell’anima, quella stilla di diversità che Glauco aveva visto ma non era riuscito a spiegare.
Di ogni metà, di ogni dualità lui era sempre stato vicino a quella più oscura; capace di amare, capace
anche di uccidere.
«
Tu sei diverso, Daire, perché in te vivono la tempesta e la ribellione; vivi con la fierezza della libertà, la tua anima è indomabile quanto lo sono io.
Usami, prendi le tue forze da me; vendica la tua stirpe, vendica Glauco.
»
La nebbia dell’incoscienza aveva lasciato la sua mente, mano a mano la comprensione l’aveva sostituita.
«
Tu sei nato per cambiare il mondo; tu sei qui per portare giustizia.»
Giustizia: la sua si sarebbe fondata in una battaglia e sul medesimo sangue che gli aveva macchiato le mani, sarebbe stata diversa da qualunque principio di Glauco… forse anche dai propri.
Ma per cosa era sopravvissuto fino a quel punto? Aveva resistito ai mali che avevano divorato la gran parte dei suoi simili, energie ben più grandi di lui gli erano rimaste vicine per proteggerlo e sostenerlo; per quale motivo, se non fosse stato destinato a valicare tutti quei limiti?
La sua anima, il crogiolo di sensazioni e pulsioni: proprio nel momento dello smarrimento e della caduta, lei aveva aperto i propri occhi e si era riflessa nei suoi pensieri.

Distruzione, solo per ricostruire.
Buio, per rendere nuovamente la luce.
Inganno, per portare verità; creare qualcosa partendo dal suo opposto.

La sua diversità, finalmente si era manifestata; risvegliata nel dolore, si sarebbe mutata nella sua arma più grande.
«
Potrai lottare da solo, ma non lo sarai veramente; ci sono così tanti come te… loro verranno, ti seguiranno.»
«Iniziamo, allora.»
L’alba non era ancora nata quando aveva abbandonato il suo nido di tristezza; ma seppur nel buio i suoi occhi erano stati guidati con sicurezza, così che i piedi avevano raggiunto la meta appena prima del giorno.
«Io ti conosco», aveva sussurrato la divinità fluviale, sentendolo arrivare e riconoscendolo immediatamente, abbandonando i flutti per andargli incontro; e lui aveva sorriso, chinando appena il capo — non certo per devozione, ma per rispondere all’illusione con l’illusione.
«
Sei la spada e lo scudo degli uomini, tu.»
«Ti ho cercato per chiederti dove hai portato il mio amico. Voglio rivederlo», aveva sussurrato lentamente, a voce tranquilla: l’inganno era stato ben costruito.
«Ti manca ancora? Vi abbiamo creato molto malinconici…», aveva risposto l’altro, senza scomporsi. «Non posso esaudire il tuo desiderio; la malattia non è ancora scomparsa dal suo corpo e potrebbe infettarti.»
«Dimmi almeno dove riposa.»
«Nelle lande più lontane dalla città, sotto cumuli di pietra; là nessuno può entrare in contatto con i morti.»
«Bene.»
«
Ricordati che tu servi a loro, ma che non hanno potere su te.»
Quella volta anche il dio aveva udito il sibilo delle foreste e notato le lunghe ombre che avevano circondato entrambi per stringerne solo uno; e il silenzio confuso lo aveva reso più umano, anche se solamente per un attimo. «Che cosa significa la tua presenza? Cosa vuoi davvero?»
«Sarai tu a dirlo», era stata la risposta; quindi le sue braccia e l’energia di mille e mille corpi si erano allungate sul Supremo e lo avevano afferrato, trascinandolo fuori dalla sua sede e stringendolo sempre più.
Come previsto, questi era riuscito a resistere; ma il corpo aveva iniziato a guizzare in ogni direzione, le onde a frantumarsi contro le sue mani e la stessa voce a caricarsi di spavento.
«
Non è così simile a te, ora?»
«Sì; fragile quanto un mortale.»
La divinità era poi riuscita a scaraventarlo via e farlo rotolare lontano; ma dalle profondità del suolo un nuovo impeto era giunto per aiutarlo, e una lotta più dinamica aveva avuto luogo. Conscio dall’inaspettato pericolo rappresentato dall’avversario, il Beato aveva cercato di rimanere il più possibile vicino all’acqua; ma l’altro era pronto a tutto, proprio perché non era rimasto più nulla da perdere e c’era tutto da ottenere.
«Invidia», aveva gridato il dio durante l’ennesimo attacco, «invidia: ecco cosa ti spinge a ribellarti, perché non ti importa degli uomini, tu vuoi solo il tuo diletto! Non accetti la tua imperfezione… vuoi tutto…»
Il sorriso più maligno aveva intriso ogni ferita della Sentinella delle Foreste, gli occhi viola ormai privi di umanità: qualunque esito avrebbe decretato anche una parziale vittoria. «Hai ragione: l’unica persona a cui tenevo è morta, e dei miei simili non ho cura… e forse sono invidioso, come dici tu; ma non è diletto, questo.
Il diletto sarà renderti umano quanto me;
il diletto sarà diventare dio al posto tuo… e credimi, non mi distoglierai facilmente dall’intento.
E lo vedremo, sì che lo vedremo, se l’ordine può resistere alla devastazione! Lo vedremo, sarò ben felice di saperlo, quel nome con cui verrà chiamato Daire, colui che osò cacciare le stelle più alte!
»
«
Urlalo a lungo; urlalo ancora e sempre. È un nuovo giorno per tutti noi… ed è solamente l’inizio.»





Lontano dalle abitazioni, dalla vista e dai dubbi; qui i Beati avevano rinchiuso gli sfortunati, senza concedere nessuna lacrima.
I tumuli si erano sgretolati sotto le sue dita nere, il sangue di cui i suoi capelli si erano intrisi aveva sciolto le pietre ed esposto fetore e decomposizione alla luce del giorno.
Li aveva fissati a lungo, quei fratelli e sorelle che non aveva mai conosciuto ma che improvvisamente aveva sentito uniti a lui; per i più giovani aveva pianto, per le donne aveva posto un fiore… per tutti loro si era recato nelle città e si era inoltrato nelle vie, portando in mezzo ai vivi la testa del dio che aveva sconfitto, e come nuova divinità non aveva chiesto nulla; nulla, se non l’ascolto. «Abbandonate le vostre case, smettete di aspettare le vostre famiglie», aveva gridato a occhi stupiti e pieni di paura, «andate ad apprendere la verità! Scegliete voi ciò a cui credere, liberatevi dalle catene. Combattete!»

E da allora mi definirono come colui che porta la notte
[4]: Daire, il principe del Caos, il fiore della Discordia.
La mia sorte, un’eterna guerra; il mio cammino, sempre più difficile.
Riesci ancora a sentirmi, Glauco? Riusciresti mai a comprendermi, a purificarmi?
Sei così lontano, ora…







NOTE





[1] Gli archeologi hanno constatato come, al pari di quanto accaduto nei contesti domestici delle civiltà più diverse, anche le case romane più antiche avessero una buca centrale, posta nella camera principale dell’abitazione, dove veniva acceso il fuoco; l’intera dimora era costruito intorno a essa, così da rendere il focolare il cuore pulsante della struttura.


[2] Rielaborazione di una citazione ripresa da Albert Camus.


[3] Nelle società più antiche, la morte era sempre violenta: fosse anche per vecchiaia, era vista comunque come una privazione improvvisa, quasi una maledizione.


[4] “He Who Brings the Night”, brano dei Two Steps from Hell, è un tema perfetto per il personaggio di Daire (tra l’altro l’abum da cui la traccia è tratta si intitola Power of Darkness, neanche a farlo apposta).





Riguardo a particolari nomi:


Daire: Riprende il termine dair, che in irlandese antico significa “Quercia”; associato a questo il termine “druido”.
In molte culture, la simbologia di quest’albero è ancestrale e affonda le sue radici nella religione: secondo Erodoto, il primo oracolo greco fu quello di Zeus (e di una discussa dea madre, che a volte si ricollega a Dione, dea celeste, a volte a Rea o Gaia) a Dodona, nell’Epiro, dove vi era una quercia sacra alle divinità citate.


Glauco: Riprende il termine greco γλαυκός, “Azzurro”. Glaucopide, dagli occhi azzurri, era comune epiteto di Atena.

   
 
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