Exhȳdria
{Exhȳdria:
Termine della lingua greca,
indicante
il vento che porta tempesta.}
♦◊♦
And
I always said, we should be togheter
I
can’t sleep alone, because there’s something in here
And
if you are gone,
I
will not belong here
●
And
my heart is a hollow plan
For
the devil to dance again
“Breath of Life”, Florence + The Machine
♦◊♦
I ● Il Cacciatore di Stelle
Il piccolo
focolare, vivido
cuore nella notte; e poi il fumo che saliva verso le schegge di cielo
che le fessure nel tetto facevano penetrare, le pareti quasi spezzate
dalla furia delle rose rampicanti, l’anello di giovani querce
che
circondava la radura. L’intero mondo incrociava le proprie
forze
sopra quella casa: il legno profumava dell’alba come del
tramonto,
ogni mattino il letto dei suoi abitanti era intessuto di petali e
rugiada; anche le fiere indomite trovavano protezione nella struttura
dalla porta dipinta di blu e oro, condividevano lo spazio con gli
umani fissandoli con occhi di giada e silenziosi movimenti nelle
ultime tracce di oscurità. Né l’inverno
né la quieta pioggia
turbavano il sonno e la pace: quel nido esisteva per proteggere la
vita e rispettarla, e la Natura faceva lo stesso.
Ricordi di fuoco e fumo,
sentore di viole selvatiche ed echi di voci intrecciate nelle sere
d’autunno: se solo avesse potuto tornare indietro…
… Oppure
dimenticare tutto quanto. In realtà, a differenza di quel
luogo che
ancora esisteva così com’era stato costruito, lui
non era più
l’anima che la memoria spesso piangeva; erano sogni di un
altro,
quelli.
Mi accetteresti ancora, mio
dolce rifugio? Chi ti rendeva tale se n’è andato
per sempre… ma
tu sapresti riconoscere l’uomo che sono stato?
●
Era
nato senza un nome; dei tanti con cui le genti, gli eventi e il Tempo
gli avrebbero marchiato la pelle, nessuno gli sarebbe mai
appartenuto.
Solo quelli che ho ricevuto
da me stesso.
Inizialmente,
la realtà su cui aveva aperto gli occhi non aveva
necessitato di
alcun tipo di delimitazione, né fisica né
verbale: era stato un
unico, incessante fluire di forze ed energia oltre lo spazio e il
tempo, un battito racchiuso in un punto e allo stesso tempo ovunque,
dove sia la luce che il silenzio avevano trovato
un’indistruttibile
armonia; era stata l’esistenza ai suoi inizi, materia in
evoluzione
e continua espansione.
Sì,
era stato uno dei primi uomini: più longevi, forti e valenti
di
quelli che i secoli successivi avrebbero visto crescere, ma comunque
mortali — e per questo, destinati a scomparire dalla memoria;
a
contatto con l’immortalità e la perfezione,
condannati a non farvi
parte.
Fino
a quando l’intero universo era rimasto addensato in quella
spirale
di pura essenza, la coscienza di tutti non
aveva avuto modo di svilupparsi;
infatti solo in seguito, con l’avvento della creazione vera e
propria e il definirsi di una nuova realtà, anche le
opposizioni
avevano preso corpo e, come necessario, ordinato il flusso del
divenire.
Parola,
silenzio.
Carne,
metallo, minerale.
Calore,
gelo.
Luna,
stella.
Femmina,
maschio; e poi estate, inverno, protezione, tristezza.
Felicità,
rabbia.
Empatia.
Devozione.
Lealtà.
… Immortalità.
Rovina.
In
poco tempo erano sorte le prime città, e con esse erano
state
approntate le arti e tecniche necessarie per renderle splendide e
abbandonare del tutto i rifugi naturali; i Creatori avevano istruito
gli umani su come dominare il fuoco, il ghiaccio e le tenebre, boschi
e laghi avevano aperto il ventre per nutrire la vita… e
lentamente,
le creature tanto amate e volute dai Supremi avevano iniziato a
muoversi con le proprie forze e a non avere più paura del
proprio
simile, a unirsi, affinare ed espandere la conoscenza ogni giorno di
più, fino a posare il proprio sguardo sul fascino
dell’impossibile.
Lui
non aveva mai sentito il bisogno ossessivo della pietra e
dell’ossidiana, i suoi passi e tutto l’interesse
erano subito
stati per il rigoglio arboreo e il suono delle cascate, incastonato
nella veglia come nel sonno: per questo motivo aveva costruito
il suo
focolare[1]
tra le braccia di una radura e aveva edificato nel legno degli alberi
più resistenti le mura che lo custodivano, per questo aveva
dipinto
l’accesso con il corpo blu degli iris e la sfumatura solare
dei
narcisi acquatici, in un sottile dialogo tra ingegno umano e regno
naturale; per questo, quando i Beati avevano ordinato a tutti di
trovarsi un nome, aveva scelto quello che più era vicino al
cuore,
così che la parola Daire(♦)
potesse conoscere il mondo insieme al suo possessore.
Daire,
la Sentinella delle Foreste; Daire dagli occhi viola,
un’ombra
nelle iridi e un piede sempre distante da quello degli
altri… gli
altri che erano tutti, tranne l’uomo nato nel suo stesso
istante —
la percezione di avere un corpo concreto, la realtà piena di
colori
fissi, stabili; infine, una presa calda, estranea ma benefica,
intorno alla sue dita. Mano che stringe un’altra mano,
terrore di
solitudine e ricerca di vicinanza —, l’unico che
avesse
conosciuto la notte al suo fianco. Le memorie più intense,
così
come tutti gli istanti di pace, erano sempre state legate a quel
giovane continuamente desideroso di libertà.
Per molto tempo hai
camminato accanto a me, sei stato mio amico[2];
abbiamo vissuto vicino anche quando i nostri desideri sono mutati.
Il mondo l’abbiamo
conosciuto attraverso due sguardi, i sentimenti hanno preso forma tra
noi; nel tumulto della città io ancora ti sentivo, nel cuore
del
bosco tu riuscivi a chiamarmi.
«Daire
è una parola che esprime appieno quello che sei: solitario,
silenzioso, osservatore come i fiori che ora ci circondano.
La
gente delle città è diversa.»
«Non
credi che sia io quello diverso, in realtà?»
«C’è
qualcosa di più forte che scorre in te.»
«Siamo
tra gli alberi; la tua sensazione nasce dal loro respiro.
Probabilmente ti sei già dimenticato come sia vivere vicino
alla
terra.»
«La
Natura ha una voce diversa dal marmo; questo, però, lo
sapevo già.
No, ciò che sento è totalmente opposto.»
Innumerevoli
volte gli specchi lacustri avevano riflesso le loro figure: quella
più alta e avvolta in neri abiti di uno, i tratti gentili e
gli
occhi cangianti, dolci, dell’altro. Severità e
indulgenza, gemma
del buio e riflesso dell’aurora, attaccamento al ciclo del
mondo e
impulso di cambiamento: diversi nelle azioni, sempre uniti nei
pensieri.
«Dovresti
trovarti un nome; non posso chiamarti in mille modi, devi avere una
parola che appartenga solo a te.»
«Siamo
unicamente questo? Parole, oppure anche corpi, desideri,
altro?» Un
sospiro. «I nostri creatori… ci hanno dato una
forma, hanno
permesso alla nostra mente di aprirsi e apprendere; e, credo, hanno
racchiuso in noi qualcosa di ancora diverso. Tu, per esempio, hai
sempre saputo sentire la voce delle foglie e del suolo: sai spiegarmi
perché? Difficilmente potresti farlo: lo senti
perché è dentro di
te.
Abbiamo
definito affetto
il senso di calore che proviamo per un nostro simile; rabbia
quando vogliamo distanziarci da lui, perdono
quando quello che ha fatto scaturire la rabbia non cancella
l’affetto… ogni cosa è collegata, ma
qual è la fonte? C’è
qualcosa che ci guida, ci aiuta; non si può trovare fuori,
è
nascosta sotto la nostra pelle e vive nel profondo.»
Lui
avrebbe conosciuto il significato di anima
solo più tardi; invece, quel giovane con cui aveva condiviso
il
primo respiro già l’aveva compresa.
Anche
se non completamente capita, aveva comunque percepito la
realtà
nella voce del compagno: una porta capace di dare accesso a una nuova
forma di verità e conoscenza, più intima e
totalizzante.
Forse solo allora sono nato
davvero.
«E
comunque… se vuoi un nome, chiamami Glauco(♦),
come il cielo. Se tu hai scelto la forza delle tue amate querce, io
abbraccerò le nuvole.»
«Così
sia, allora. Ora so che è a Glauco che devo chiedere se
vuole
lasciare la città, e vivere con me.»
«La
stessa cosa che Agia ha detto a Telefo questa stessa mattina.»
«Non
considerarti così importante!» Una risata fusa
insieme allo
scherzo, anello dell’amicizia.
«Famiglia… non è solo un uomo e
una donna, sai?
Famiglia
sei anche tu per me; solo con te sento di non essere
incompleto.»
E solo.
Lunghi
capelli di bronzo mescolati a ciocche ebano; le fronti vicine
più
del consueto, l’opale e l’ametista collegate da un
silenzioso
dialogo. «E tu sei sempre stato il mio riferimento, pur nell’errare.
Lasciami andare, lasciami conoscere quello che si muove al di
là
dell’orizzonte; lo sai che tornerò, non temere mai
il contrario.»
«Allora
non mi resta che attenderti.»
Nel
tempo, erano state molte le volte in cui Glauco aveva ascoltato la
sua richiesta; e il vero fuoco della casa, il centro della sua
essenza, era divenuto proprio il volto brunito dal sole e sorridente
con cui l’allegro girovago era stato solito sporgersi
attraverso
l’uscio e annunciare il suo arrivo, consentendo il ritorno
della
luce. In quei momenti, la perfezione aveva vissuto anche in mezzo a
loro.
Illusione, madre di tutti i
mali… a volte credo ancora alle tue colpe.
Inizialmente,
anche la Morte non aveva avuto un vero nome.
Passato
neppure un secolo dalla Creazione, tra mura arse dal mezzogiorno e
archi di pietra rosata si era iniziato a mormorare di alcuni uomini
che, nel sonno o nel mezzo di una qualsiasi azione, erano collassati
al suolo per non rialzarsi più: gli occhi fissi alle alte
volte
celesti o serrati sotto le palpebre, i protagonisti di quegli
inspiegabili fatti avevano recato confusione e incomprensione, ma non
paura — non ancora.
Gli
dèi che avevano vissuto in mezzo a loro erano stati
interpellati,
come sempre quando qualcosa di sconosciuto aveva turbato il cammino;
e quei volti riflettenti i giochi del cielo notturno o il colore cupo
del mare, distanti ma
compassionevoli,
avevano raccontato di un viaggio che alcune anime — ormai
quel
termine era stato appreso, ma ogni volta lui era stato scosso come da
un timore ancestrale — avevano intrapreso verso nuovi luoghi,
e che
per lunghi anni questo non avrebbe consentito il loro ritorno.
Il
fatto non avrebbe dovuto recare timore o sconforto, in quanto a
quella seppur lunga separazione si sarebbe unita una promessa di
ricongiungimento; e in tal modo l’Oscura era stata introdotta
celata da panni splendenti, mentre i corpi dei caduti erano stati
prelevati dagli stessi Supremi e portati in un luogo adatto
all’attesa del proprio spirito.
Nessuno, forse nemmeno la
mente acuta di Glauco, avrebbe potuto scoprire la realtà
velata
sotto le parole; ma se inizialmente la possibilità non era
stata
considerata, le idee erano rapidamente mutate quando, dopo e insieme
alla Morte, erano giunte altre degenerazioni.
La Malattia aveva iniziato a
manifestarsi con asfissia, bolle cremisi capaci di stravolgere le
forme dalle membra, insonnia e pazzia; la Fame, invece, era venuta
per piegare le ginocchia e ridurre a fantocci anche i più
forti.
Le città si erano presto
trasformate in un crogiolo di domande e paure, in sgomento davanti
alle pene che avevano colpito indiscriminatamente uomini e donne, i
nuovi nati come i più vecchi; in molti avevano fatto ritorno
alla
protezione delle grotte o degli alberi per cercare un qualche tipo di
sopravvivenza, ma anche qui erano stati inseguiti dai figli della
Privazione, creature ancora senza nome ma con la voracità di
una
maledizione, chiamate Disperazione e Pianto.
«I
Beati non rispondono più alle nostre parole; osservano e
ascoltano
in silenzio, ma non riescono a salvarci. Che cosa sta
succedendo?»
I
sussurri di Glauco erano risuonati nell’ombra di una sera
rovente,
tra giacinti seccati dall’arsura prolungata e una luna senza
contorni, rinchiusa tra il fumo che saliva dai palazzi —
«Il
fuoco non potrà purificare tutto questo!»
— e le onde di sabbia recate dal vento del lontano deserto,
impietoso e soffocante.
«Sei
certo che vogliano farlo?»
«Daire…»
Nessuna
risposta, se non un’occhiata più intensa delle
altre. Per giorni
il suo sguardo aveva seguito con attenzione il divenire delle
foreste, colpite da morbo e sofferenza come tutte le altre forme di
vita; molto di ciò che era stato infettato si era consumato
e aveva
perso la propria voce, e il rincorrersi delle stagioni lo avrebbe
sanato solo parzialmente.
I
corpi degli
esanimi,
negli ultimi tempi sempre più numerosi, erano stati portati
via dai
Supremi e nessuno li aveva più visti; ma le selve non
avevano mai
nascosto nulla, mostrando invece che un’anima fuggita sarebbe
stata
perduta per sempre: l’involucro di legno che
l’aveva racchiusa si
sarebbe consumato fino a scomparire, anche desiderandolo da
sé lo
spirito non sarebbe riuscito a ritrovarlo, poiché non ci
sarebbe
stato nulla a cui ricongiungersi.
Quel
pensiero improvviso lo aveva sconvolto, ma non come si sarebbe
aspettato: nel profondo, qualcosa gli aveva sussurrato che
già da
molto tempo ne era certo, forse per il continuo contatto con il ciclo
naturale…
forse
per altro.
Ma era ancora troppo presto
per capire.
«…
Daire, che cosa vuoi dire?»
«Non
lo so…» Ancora
troppo fiducioso. «Non
lo so davvero.»
Glauco
aveva annuito, e la notte aveva perso ogni luce residua.
«Partirò
il prima possibile. Voglio cercare un rimedio a tutto questo; non
posso stare qui a guardare senza tentare di fare qualcosa.»
Non
avrebbe potuto mai fermare quell’amico dalla tempra
d’acciaio;
come sarebbe stato impossibile spiegare razionalmente
l’inquietudine
scaturita da quella decisione, il primo dei tanti presagi che
l’avrebbero segnato.
Come
per proteggerlo, nei giorni successivi le foreste si erano chiuse
intorno a lui e alla casa; dopo settimane d’assenza, la
pioggia
aveva ricominciato a scendere e ad allentare il morso delle
pestilenze, concedendo la fallace speranza che il peggio fosse
passato.
La
verità dei fatti, della miseria, aveva comunque trovato il
sentiero
per raggiungere la sua porta: aveva bussato nello stesso momento in
cui l’aveva fatto la figura emaciata, tremante e debole, che
aveva
intriso di cremisi le volute blu ed era poi precipitata bocconi sulla
soglia. Di ritorno da una pesca infruttuosa, lui l’aveva
trovata
così: rannicchiata sul pavimento tra coltri strappate nel
delirio
della malattia, circondata da rivoli di sangue e puzzo di urina, la
persona che un tempo era stata la sua guida lo aveva fissato con
occhi non più azzurri ma opachi, la luminosa pelle scura
divenuta
grigia e tutta la bellezza svanita. Le ossa avevano scricchiolato
quando lui era accorso a sostenere quel corpo stanco; e il suo
sguardo si era riempito del desiderio di non vedere più
nulla.
«Perdonami,
Daire. Perdonami, ho fallito! Me ne sono andato per scoprire il modo
di salvarci… e sono ritornato per morire.»
«Morire?
Che cosa vuol dire?»
Un
sorriso confuso tra le lacrime, un mugolio riposto in un estremo
incontro delle rispettive mani. «Significa svanire, amico
mio;
significa che io partirò ancora una volta, e tu non dovrai
più
aspettarmi.
Ho
resistito fino ad adesso perché volevo sentire il tuo
abbraccio
un’ultima volta… perdonami, perdonami davvero! Ti
lascerò solo…
ti lascerò indietro, in questo viaggio. Sono così
cattivo!»
«Basta,
smettila di parlare! Stai delirando.»
Saliva
e bile avevano intriso i suoi abiti quando aveva sollevato tra le
braccia Glauco e lo aveva portato in una rapida corsa tra i sentieri
selvatici, verso la città più vicina e le sedi
dei Beati; ma al
limitare delle selve fu proprio uno di questi a venirgli incontro,
potenza delle acque fluviali e dei monti, gli stessi che andavano
sgretolandosi come un pianto di pietra. Davanti al dio lui si era
fermato e aveva proteso il compagno, fissandolo sconvolto e con
tanto, troppo, da perdere. «Siete i Creatori, ci avete donato
ogni
cosa… salvatelo, potete farlo!»
Le
onde nel corpo del dio non si erano mosse nemmeno quando lui gli si
era inginocchiato davanti nella prima e ultima delle suppliche, ma la
voce aveva perturbato l’aria. «Non è
possibile; voi creature
siete destinate a cessare la vostra esistenza, prima o poi, e la sua
sta per compiere l’ultimo passo. È nel vostro
fato.»
«Ma
Glauco deve ancora fare tanto per l’umanità!
È migliore di molti,
la sua vita vale anche più della mia! Vi prego…
concedete a lui di
sopravvivere, e questa grazia la ripagherò con tutto
ciò che
vorrete: sono disposto a dare la mia esistenza in cambio, se fosse un
vostro desiderio.
Non
voglio perderlo… non voglio.»
«Che
superbia! Tutti avete lo stesso valore, quel relitto non è
di certo
più importante di te. Dallo a me, ora.»
«Ma…»
«Consegnami
il tuo amico; rimarrà vivo ancora per pochi attimi, deve
essere
deposto insieme agli altri.»
«Deposto…»
La presa più stretta sulle braccia smagrite del prezioso
amico, a
trattenere i singulti già radi e silenti. «Ci
avete ingannato,
tutti voi Creatori; a me avete parlato di fine
dell’esistenza, ma
agli altri uomini avete detto di attendere i compagni. Non
c’è
nessuno da aspettare, vero? Sono morti, come dice Glauco, come
testimonia la natura che ci sta guardando: se ne sono andati per
sempre.»
Il
dio aveva esitato un istante, quindi aveva voltato appena il capo.
«Forse tu sei più accorto degli altri»,
aveva sussurrato, «ma di
certo questo non cambia nulla. A chi gioverebbe sapere la
verità?
Non sopravvivereste comunque. Dammi il corpo, ora.»
Non
era rabbia quella che allora aveva provato; non solo… no,
qualcosa
di più forte, come l’odio: l’odio che
per primo aveva portato
nel mondo. «Avevate forse paura di noi? Temevate di perdere
la
nostra obbedienza, l’amore, le nostre offerte?»
Da
dove era nata quell’affermazione —
perché la domanda aveva
assunto il tono di una risposta —, quell’ardore? Il
germe dello
scontro era sempre stato in lui, nel mormorio che aveva sentito
così
spesso?
«Piangi
le tue perdite senza incolpare gli altri e impara a rispettare i
padri, umano; le tue parole sono flebili come uno spiffero, senza
verità.»
Senza
che avesse potuto vederle, le braccia del Beato lo avevano spinto a
terra e avevano rapito il corpo di Glauco; e anche se ormai il
respiro del giovane si era ridotto a un’illusione, lui aveva
tentato di riprenderselo.
Inutilmente;
e parimenti inutilmente le foreste avevano gridato con lui, uniche
compagne del suo dolore, le sole a comprenderlo e affiancarlo.
Odio,
disprezzo, furia, violenza: forze mai sentite prima avevano
affiancato il suo penoso cammino verso la propria casa, avevano fatto
fuggire tutte le fiere che là si erano rifugiate e costretto
lui a
cercare e conservare ogni traccia dell’amico scomparso.
Disumanità,
follia, noncuranza; non sarebbe stato più lo stesso, avrebbe
urlato
fino a perdere la voce nell’impotenza… avrebbe
scelto di morire,
e avere almeno la consolazione di non lasciare solo il corpo di
Glauco.
Per
giorni lo aveva pensato e progettato, rifiutandosi di cibarsi e
serrando ogni anfratto della dimora, così che nemmeno un
raggio
dell’alba sarebbe riuscito a raggiungerlo; per giorni aveva
respirato nel livore, sul pavimento lurido, in attesa
dell’agognata
fine.
Più
veloce di questa erano stati, tuttavia, i richiami del mondo: chi
aveva avuto in sorte forma e anima sussurrante, silenziosa
nell’osservare ma inarrestabile nell’agire, era
riuscito a
penetrare il vincolo del legno e a scivolare nella gelida struttura,
alla ricerca del suo amico più fedele.
Rami
e tralci di rose, boccioli e piccoli animali avevano deciso di non
attendere nemmeno un istante e raggiungerlo immediatamente, anche a
costo di essere scacciati o fatti a pezzi; e avvinghiati alle
caviglie e braccia che per tanto li avevano curati, erano rimasti al
suo fianco come avevano potuto, penetrandogli sotto la carne e
alimentandolo tramite sé stessi.
«Che
stupidità, rimanere accanto a chi ha abbandonato
tutto.»
«C’è
tanto che ti sta ancora attendendo, non lasciarlo fuggire.»
«Morirò
qui, come accaduto a Glauco!»
«Amare
parole, e non del tutto vere: suonano come una contraddizione, se
dette da chi vuol essere immortale.»
Ogni
voce, esterna o interna a sé, era stata poco più
di un pungolo
fastidioso; ma quella parola si era trattenuta nell’aria con
le
proprie forze, per farsi ascoltare a riascoltare. Inutile evitarla:
era riuscita a restare comunque, a tormentarlo ancora. Mi
stai nutrendo anche tu?
«Rialzati
ed esci da qui: sei forte abbastanza per combattere.»
«Combattere…»
«Non
senti tutte queste grida? I Beati vi hanno ingannato, lo sai
già; e
sopporterai l’esistenza di questa menzogna? Fuori di qua ci
sono
tanti come te, e tutti hanno perso il proprio Glauco; ma a differenza
tua lo aspetteranno invano, perderanno la vita con la speranza di
rivederlo ancora, ringrazieranno gli dèi per ogni azione,
ignari
della verità.
No, tutto questo deve
finire: i Creatori hanno tenuto ogni felicità per
sé e dato a voi
la vita per rendervi servi, ma chiediti questo: loro hanno bisogno
degli uomini… gli uomini hanno davvero bisogno di loro?»
No,
non era stata la Natura a parlare, improvvisamente ne era divenuto
certo: era stata l’incognita custodita nell’anima,
quella stilla
di diversità che Glauco aveva visto ma non era riuscito a
spiegare.
Di
ogni metà, di ogni dualità lui era sempre stato
vicino a quella più
oscura; capace di amare, capace
anche di
uccidere.
«Tu
sei diverso, Daire, perché in te vivono la tempesta e la
ribellione;
vivi con la fierezza della libertà, la tua anima
è indomabile
quanto lo sono io.
Usami, prendi le tue forze
da me; vendica la tua stirpe, vendica Glauco.»
La
nebbia dell’incoscienza aveva lasciato la sua mente, mano a
mano la
comprensione l’aveva sostituita.
«Tu
sei nato per cambiare il mondo; tu sei qui per portare giustizia.»
Giustizia:
la sua si sarebbe fondata in una battaglia e sul medesimo sangue che
gli aveva macchiato le mani, sarebbe stata diversa da qualunque
principio di Glauco… forse anche dai propri.
Ma
per cosa era sopravvissuto fino a quel punto? Aveva resistito ai mali
che avevano divorato la gran parte dei suoi simili, energie ben
più
grandi di lui gli erano rimaste vicine per proteggerlo e sostenerlo;
per quale motivo, se non fosse stato destinato a valicare tutti quei
limiti?
La
sua anima, il crogiolo di sensazioni e pulsioni: proprio nel momento
dello smarrimento e della caduta, lei aveva aperto i propri occhi e
si era riflessa nei suoi pensieri.
Distruzione, solo per
ricostruire.
Buio, per rendere
nuovamente la luce.
Inganno, per portare
verità; creare qualcosa partendo dal suo opposto.
La
sua diversità, finalmente si era manifestata; risvegliata
nel
dolore, si sarebbe mutata nella sua arma più grande.
«Potrai
lottare da solo, ma non lo sarai veramente; ci sono così
tanti come
te… loro verranno, ti seguiranno.»
«Iniziamo,
allora.»
L’alba
non era ancora nata quando aveva abbandonato il suo nido di
tristezza; ma seppur nel buio i suoi occhi erano stati guidati con
sicurezza, così che i piedi avevano raggiunto la meta appena
prima
del giorno.
«Io
ti conosco», aveva sussurrato la divinità
fluviale, sentendolo
arrivare e riconoscendolo immediatamente, abbandonando i flutti per
andargli incontro; e lui aveva sorriso, chinando appena il capo
—
non certo per devozione, ma per rispondere all’illusione con
l’illusione.
«Sei
la spada e lo scudo degli uomini, tu.»
«Ti
ho cercato per chiederti dove hai portato il mio amico. Voglio
rivederlo», aveva sussurrato lentamente, a voce tranquilla:
l’inganno era stato ben costruito.
«Ti
manca ancora? Vi abbiamo creato molto
malinconici…», aveva
risposto l’altro, senza scomporsi. «Non posso
esaudire il tuo
desiderio; la malattia non è ancora scomparsa dal suo corpo
e
potrebbe infettarti.»
«Dimmi
almeno dove riposa.»
«Nelle
lande più lontane dalla città, sotto cumuli di
pietra; là nessuno
può entrare in contatto con i morti.»
«Bene.»
«Ricordati
che tu servi a loro, ma che non hanno potere su te.»
Quella
volta anche il dio aveva udito il sibilo delle foreste e notato le
lunghe ombre che avevano circondato entrambi per stringerne solo uno;
e il silenzio confuso lo aveva reso più umano, anche se
solamente
per un attimo. «Che cosa significa la tua presenza? Cosa vuoi
davvero?»
«Sarai
tu a dirlo», era stata la risposta; quindi le sue braccia e
l’energia di mille e mille corpi si erano allungate sul
Supremo e
lo avevano afferrato, trascinandolo fuori dalla sua sede e
stringendolo sempre più.
Come
previsto, questi era riuscito a resistere; ma il corpo aveva iniziato
a guizzare in ogni direzione, le onde a frantumarsi contro le sue
mani e la stessa voce a caricarsi di spavento.
«Non
è così simile a te, ora?»
«Sì;
fragile quanto un mortale.»
La
divinità era poi riuscita a scaraventarlo via e farlo
rotolare
lontano; ma dalle profondità del suolo un nuovo impeto era
giunto
per aiutarlo, e una lotta più dinamica aveva avuto luogo.
Conscio
dall’inaspettato pericolo rappresentato
dall’avversario, il Beato
aveva cercato di rimanere il più possibile vicino
all’acqua; ma
l’altro era pronto a tutto, proprio perché non era
rimasto più
nulla da perdere e c’era tutto da ottenere.
«Invidia»,
aveva gridato il dio durante l’ennesimo attacco,
«invidia: ecco
cosa ti spinge a ribellarti, perché non ti importa degli
uomini, tu
vuoi solo il tuo diletto! Non accetti la tua imperfezione…
vuoi
tutto…»
Il
sorriso più maligno aveva intriso ogni ferita della
Sentinella delle
Foreste, gli occhi viola ormai privi di umanità: qualunque
esito
avrebbe decretato anche una parziale vittoria. «Hai ragione:
l’unica
persona a cui tenevo è morta, e dei miei simili non ho
cura… e
forse sono invidioso, come dici tu; ma non è diletto, questo.
Il
diletto sarà renderti umano quanto me;
il
diletto sarà diventare dio al posto tuo…
e credimi, non mi distoglierai facilmente dall’intento.
E
lo vedremo, sì che lo vedremo, se l’ordine
può resistere alla
devastazione! Lo vedremo, sarò ben felice di saperlo, quel
nome con
cui verrà chiamato Daire, colui che osò cacciare
le stelle più
alte!»
«Urlalo
a lungo; urlalo ancora e sempre. È un nuovo giorno per tutti
noi…
ed è solamente l’inizio.»
Lontano
dalle abitazioni, dalla vista e dai dubbi; qui i Beati avevano
rinchiuso gli sfortunati, senza concedere nessuna lacrima.
I
tumuli si erano sgretolati sotto le sue dita nere, il sangue di cui i
suoi capelli si erano intrisi aveva sciolto le pietre ed esposto
fetore e decomposizione alla luce del giorno.
Li
aveva fissati a lungo, quei fratelli e sorelle che non aveva mai
conosciuto ma che improvvisamente aveva sentito uniti a lui; per i
più giovani aveva pianto, per le donne aveva posto un
fiore… per
tutti loro si era recato nelle città e si era inoltrato
nelle vie,
portando in mezzo ai vivi la testa del dio che aveva sconfitto, e
come nuova divinità non aveva chiesto nulla; nulla, se non
l’ascolto. «Abbandonate le vostre case, smettete di
aspettare le
vostre famiglie», aveva gridato a occhi stupiti e pieni di
paura,
«andate ad apprendere la verità! Scegliete voi
ciò a cui credere,
liberatevi dalle catene. Combattete!»
E da allora mi definirono
come colui che porta la notte[4]:
Daire, il principe del Caos, il fiore della Discordia.
La mia sorte, un’eterna
guerra; il mio cammino, sempre più difficile.
Riesci ancora a
sentirmi, Glauco? Riusciresti mai a
comprendermi, a purificarmi?
Sei così lontano, ora…
NOTE
[1] Gli archeologi hanno constatato come, al pari di quanto accaduto nei contesti domestici delle civiltà più diverse, anche le case romane più antiche avessero una buca centrale, posta nella camera principale dell’abitazione, dove veniva acceso il fuoco; l’intera dimora era costruito intorno a essa, così da rendere il focolare il cuore pulsante della struttura.
[2] Rielaborazione di una citazione ripresa da Albert Camus.
[3] Nelle società più antiche, la morte era sempre violenta: fosse anche per vecchiaia, era vista comunque come una privazione improvvisa, quasi una maledizione.
[4] “He Who Brings the Night”, brano dei Two Steps from Hell, è un tema perfetto per il personaggio di Daire (tra l’altro l’abum da cui la traccia è tratta si intitola Power of Darkness, neanche a farlo apposta).
♦ Riguardo a particolari nomi:
Daire: Riprende il
termine dair,
che in irlandese antico significa “Quercia”;
associato a questo
il termine “druido”.
In molte culture, la simbologia di
quest’albero è ancestrale e affonda le sue radici
nella religione:
secondo Erodoto, il primo oracolo greco fu quello di Zeus (e di una
discussa dea madre, che a volte si ricollega a Dione, dea celeste, a
volte a Rea o Gaia) a Dodona, nell’Epiro, dove vi era una
quercia
sacra alle divinità citate.
Glauco: Riprende il termine greco γλαυκός, “Azzurro”. Glaucopide, dagli occhi azzurri, era comune epiteto di Atena.