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Autore: G RAFFA uwetta    25/06/2018    5 recensioni
“Non poter far a meno di qualcosa significa che non la possediamo, ma che ne siamo posseduti.” – Enrico Maria Secchi.
Siamo sicuri che la ‘favola bella’ esista davvero?
E se Merope fosse diversa da come l’abbiamo sempre immaginata? Da come ce l’hanno sempre raffigurata?
Merope sa che è nata per esaudire il proprio Desiderio e ha tutta l’intenzione di portare a termine i suoi propositi: a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo, anche quelli più sorprendenti.
Dal testo: — Chi sei? — chiese Merope, — Fuori dalla mia proprietà! — L’uomo, un vecchio centenario, rise. — Tu non saresti in grado di farmi nulla: sono Salazar Serpeverde, — si presentò, lo sguardo fiero e superbo, — uno dei quattro Fondatori della più prestigiosa scuola di stregoneria... —
Questa storia si è classificata seconda al contest Raccontami una fiaba – II edizione indetto da Freya Crescent sul forum con il pacchetto cenerentola.
Storia partecipante al ‘Mille e una fiaba contest’ indetto da Emanuela.Emy79 sul forum
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cecilia (fidanzata di Tom Riddle Sr), Merope Gaunt, Orfin Gaunt, Salazar Serpeverde, Serpeverde, Tom Riddle Sr.
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Mezzanotte e dintorni



Non poter fare a meno di qualcosa significa che non la possediamo, ma che ne siamo posseduti.” – Enrico Maria Secchi.



Per me stesso e per quello stolto di Godric Grifondoro! Hai finito di spiare quei due e ti decidi a passare all’azione? — gracchiò improvvisamente una voce alle spalle di un esile corpo femminile rannicchiato dietro un ammasso informe di ortiche. Presa alla sprovvista, Merope si alzò di scatto, sibilando spaventata, lasciando scivolare tra l’erba incolta il grosso anello d’oro che si stava rigirando tra le dita appassite; il suo busto si torse così velocemente che perse l’equilibrio e cadde tra le verzure urticanti, mentre malediceva se stessa e la mala sorte. Districandosi dal fogliame, fece appena in tempo a veder svanire nel nulla una figura eterea, impalpabile, con un sorriso crudo stampato sul volto incartapecorito. Da oltre la siepe, giunse l’eco della voce soave di una bella ragazza che stava civettando, camminando a braccetto, sotto l’ombra protettiva dei faggi, assieme all’affascinante Tom Riddle; mentre ignari la oltrepassavano, digrignò i denti, rosa dalla gelosia.

Merope! Avanzo di capra, ho fame! — Dalla finestra di una catapecchia imbrigliata tra i rovi del Tranello del Diavolo, sbucò la faccia rinsecchita e arcigna di suo padre, Orvoloson Gaunt, — Sei una nullità, — continuò stizzito, — stupida buona a nulla di una Magonò, appena rientri ti faccio assaggiare la mia frusta! — intimò inasprito, facendo roteare minaccioso, nell’aria densa del mezzodì, la sua bacchetta.

Merope sospirò piano, raccolse l’anello nascondendolo in fondo alla tasca dell’abito sudicio e, dipingendosi sul volto scarno un’espressione distratta, quasi sognante, sfoggiando il suo miglior sorriso bambinesco, rientrò lentamente in casa, grattandosi le pustole che si andavano formando sul corpo emaciato, masticando parole di scusa, come se stesse assaporando la Puzzalinfa della Mimbulus Mimbletonia che cresceva in fondo al prato. Orfin, il fratello, l’aspettava sulla porta ghignante: — Ho fatto la spia, sorellina — sputò gongolante a un passo dal suo orecchio mentre lo superava guardinga, — ora vedrai che bella sorpresa ti riserverà nostro padre.

Come per tutte le cose che accadono, anche Merope era nata per adempiere il proprio Destino, o almeno era quello che suo padre, un uomo ignorante e crudele, troppo attaccato alle proprie origini magiche per vedere oltre il suo ‘essere donna’, voleva farle credere ogni volta che la massacrava di botte, perché, secondo lui, era solo questo che meritava. Così si ritrovò a vivere una vita di stenti nella sua stessa casa, appartenuta a un’antica famiglia di Purosangue caduta in disgrazia, e, quando rimase orfana della madre, ogni speranza di mostrare il proprio talento morì con essa, tanto più che il fratello contribuì largamente ad alimentare l’odio del genitore verso la sua persona. Trascorreva le giornate ai piedi del focolare sognando una vita diversa, magari corteggiata dal bellissimo giovanotto che abitava al di là del boschetto di betulle.

Non era stupida, Merope, seppur ignorante nelle arti magiche, aveva sviluppato una morbosa passione per gli intrugli, così, nelle lunghe serate solitarie, mentre il padre cadeva addormentato in preda ai fumi dell’alcol e il fratello raggiungeva il villaggio Babbano per seminare terrore, la ragazza riuniva davanti a sé diverse erbe raccolte lungo i fossi per combinarle in vari decotti e unguenti, che poi aggiungeva in piccole dosi ai miseri piatti che presentava in tavola, con la speranza che i suoi aguzzini morissero avvelenati.

Nel proprio cuore covava un amore fanciullesco verso l’affascinante vicino di casa, fatto di rimpianto miscelato a un bisogno viscerale di essere amata, compresa. Per lei, lo scandire delle stagioni era diventato un doloroso solco nel petto, un traguardo irraggiungibile, un ostacolo insormontabile: il sogno che si liquefaceva sotto il giogo dei gesti tirannici del padre.

Quel giorno, uguale a tanti altri per come era iniziato, portò un viandante ad arrancare lungo il sentiero di sassi sotto il sole cocente. L’uomo, vestito in modo buffo, si fermava spesso a sventolare nervoso un grande fazzoletto macchiato davanti al viso arrossato, si muoveva a scatti, come se non fosse abituato a camminare a lungo, roteando gli occhi, socchiusi per la troppa luce, in ogni direzione. Al terzo bivio, dopo essersi guardato attorno con fare circospetto, oltrepassò la staccionata in legno scrostato addentrandosi, incolume, tra i folti cespugli di rovi. Arrivò ansante sull’uscio di un rudere e, dopo aver controllato un appunto sul foglio che teneva dentro una valigetta di cartone, senza bussare, si infilò lesto nel primo pertugio che trovò spalancato, venendo subito inghiottito dalle dense ombre.

Il locale in cui sbucò era tetro, uno spesso strato di caligine ricopriva i muri e i resti di cibo ammuffivano nei piatti vicino a un lavello che gocciolava acqua scura; c’era un grande tavolo sudicio, che occupava buona parte del locale, con sopra dei boccali in peltro annerito che rotolavano lenti su se stessi vomitando a scatti il liquido biancastro ivi contenuto. La sua attenzione, ancor prima di proferire verbo, fu attratta da due figure che si accanivano su una terza rannicchiata sul lurido pavimento.

Te la fai con un Babbano? — sibilava livido di rabbia uno dei due mentre l’altro lo incitava eccitato. — Expelliarmus, — gridò, e due bacchette finirono nelle sue mani, — Incarceramus, — aggiunse. Delle corde presero vita dal nulla e, come serpenti, avvolsero in spire i corpi recalcitranti dei due avventori. — Appena in tempo, — disse sollevato mentre allungava il braccio verso la ragazza ancora stesa a terra, — tu devi essere Merope, — sussultò lievemente alla vista di quel corpo macilento, trattenendo a stento una smorfia disgustata, — sono venuto più in fretta che ho potuto, — le sorrise triste, a mo’ di scusa. — Non è stato facile convincere i miei superiori, il messaggio che hai spedito non era molto chiaro. — In sottofondo le voci dei due disgraziati si sovrapponevano tra loro.



Liberami! — imperava il più vecchio, — Non toccare mia figlia con quelle luride mani da ‘sanguesporco’! — Contemporaneamente il più giovane urlava: — Appena mi libero ti faccio vedere io, — il volto scimmiesco contorto dall’odio, — Chi è quest’uomo? — chiese il padre di Merope contorcendosi come una coda di lucertola appena mozzata, — Che messaggio? — gli parlò sopra Orfin, rivolgendosi in cagnesco alla sorella.



Merope, testa bassa e gli occhi nascosti dietro una frangia bisunta, sorrise fiera di se stessa. Si era rivelato arduo convincere il fratello a insegnarle a scrivere poche righe, con la scusa che se fosse successo loro qualcosa non sarebbe stata molto d’aiuto. Aveva sopportato ogni angheria e perfidia da parte di Orfin; per intere settimane aveva dovuto dormire all’addiaccio, con solo una misera coperta che le copriva a malapena il busto, ma ne era valsa la pena: alla fine aveva ottenuto ciò che si era prefissata e il messaggio era stato spedito all’insaputa dei suoi parenti.

Ora, appoggiata allo stipite della porta di casa, le dita magre che rigiravano pigre l’anello d’oro del padre, guardava senza emozione gli uomini del Ministero portare via ciò che restava della sua famiglia.

Devo riconoscere che sei stata furba. — Alla sua sinistra, lo strano personaggio della mattina era intento a scrutarla, le iridi di un verde intenso sembravano perforarla da parte a parte, fermi e duri. — Chi sei? — chiese con astio, — Fuori dalla mia proprietà! — intimò battagliera. L’uomo, un vecchio centenario, rise. — Tu non saresti in grado di farmi nulla: sono Salazar Serpeverde, — si presentò, lo sguardo fiero e superbo, — uno dei quattro Fondatori della più prestigiosa scuola di stregoneria... — A quelle parole la ragazza si chiuse in se stessa pensierosa. – Non ho mai sentito parlare di lui, eppure mi sembra un volto familiare, percepisco come se tra di noi ci fosse un filo invisibile che ci lega. Emana potere, lo avverto, di gran lunga più pericoloso e misterioso di quello di mio padre.

Il vecchio se ne stava lì, immobile, come se avesse piegato l’eternità a sua immagine e quel contrattempo fosse solo un diversivo alla noia, continuando la sua filippica atta a impressionarla. — Non avresti potuto quando ero in vita, figuriamoci ora che sono morto, — concluse. Merope sgranò gli occhi, un velo di eccitazione a illuminarle il volto. – Potrei servirmi di lui, – pensò folgorata da un’idea malsana, – non potrà di certo uccidermi visto il suo stato, – sogghignò interiormente. – Farò in modo che mi riveli i suoi segreti così che io possa realizzare il mio sogno. – Un sorriso sgradevole le piegò le labbra screpolate. – A questo punto, nessuno mi potrà più fermare!

Hai finito di arrovellare il cervello? — la interruppe sprezzante, — Chiedi e ti sarà dato. Se lo meriti, — aggiunse subito dopo. — Non perdi tempo, mi piace, e io, d’altro canto, ne ho perso fin troppo! — Merope raddrizzò la schiena, in un guizzo di antico orgoglio. — Stamani, mi hai sorpreso mentre mi nascondevo dietro la siepe, — disse senza vergogna, — voglio quella Babbana morta, — rivelò spiccia, — Cecilia, — la voce intrisa di disprezzo, — deve essere annientata, di lei non dovrà rimanere neanche il ricordo! — Il vecchio annuì distratto, perso in lontani ricordi, poi i suoi occhi divennero due lame fredde, cupe e senz’anima. — Io aiuto te e tu aiuti me, — sentenziò, gli occhi fissi sull’anello che teneva in mano.

Aspettò il suo cenno d’assenso prima di scivolare all’interno della costruzione, una volta entrato fece una smorfia disgustata alla vista del sudiciume e altezzoso proferì: — Non pensare che io possa rimanere in questo letamaio! Sarò pure morto ma è indecoroso per la mia persona. — La guardò con occhio critico avvicinarsi a un secchio contenente un liquido oleoso e maleodorante, prendere uno straccio talmente lurido che rimase rigido tra le sue dita. La ragazza immerse la mano, strizzò bene e passò il cencio sul tavolo senza proferire verbo.

Usa la magia! — l’interruppe spazientito, — O devo dedurre che sei una Magonò? — disse oltraggiato, quasi avesse bestemmiato. — Se solo avessi dimostrato una qualunque capacità magica sarei stata venduta o uccisa: loro temono il potere della donna, — lo rimbeccò alzando le spalle indifferente, nascondendo ai suoi occhi il dolore di una vita passata nei tormenti. — Se le cose stanno così, non se ne fa nulla, — disse perentorio, — senza rancore. — Si girò e il suo profilo si assottigliò nella luce chiara che entrava dall’uscio spalancato. — Aspetta! — urlò la ragazza; nel disperato tentativo di fermarlo, si lanciò in avanti finendo per sbattere contro un mobiletto senza una gamba, che traballò sotto l’impeto dell’urto. — Non puoi andartene, abbiamo un accordo, — cercò di convincerlo mentre le dita afferravano l’aria. — Farò qualunque cosa, — farfugliò, — conosco un posto dove per poche falci mi venderebbero una bacchetta contraffatta. — Il vecchio si girò trafiggendola con uno sguardo spietato. — Non c’è modo che tu possa imparare granché, forse giusto un paio di formule, ma per quello che ho in mente dovrebbero bastare. Ripasserò quando ne avrai trovata una. — la liquidò, sparendo alla sua vista.

I giorni passarono pigri, tra lezioni di magia, – Salazar Serpeverde si rivelò un ottimo insegnante – la ricerca di erbe e immersioni nei fumi bollenti di alcune pozioni.

Con finta casualità, prese l’abitudine di far visita a un piccolo giardino all’italiana, passando più e più volte davanti a un delizioso chiosco frequentato dal giovane Tom Riddle, – ancora lui non lo sapeva – suo futuro sposo. Osservò con morboso distacco ogni piccolo gesto della sua rivale, Cecilia, imprimendo a fuoco vivo nella memoria il timbro lezioso della sua voce. Spesso, quando la notte prendeva il sopravvento, lasciava che la propria fantasia vagasse libera, oltre i cancelli imposti da suo padre, dalla società a cui apparteneva.

A volte, si immaginava intenta a spazzolarsi i lunghi capelli seduta in riva al fiume, accanto a lei Tom le leggeva delle poesie intrise d’amore. Se chiudeva gli occhi avvertiva il profumo di gelsomino languire sotto lo sguardo attento delle stelle mentre lei, abbracciata al suo uomo, danzava leggiadra come una farfalla; mentre grilli e cicale frinivano pigri nel sole, lei correva sommersa dal frusciare ipnotico del grano e si lasciava raggiungere da Tom...

Stai sognando a occhi aperti! — Merope voltò il capo di scatto e immerse gli occhi in quelli duri e carichi di biasimo del vecchio: immediatamente soffocò i propri pensieri, non voleva mostrarsi debole, non adesso che era così vicina alla meta. — Sto pregustando la vittoria, — rispose prontamente riprendendo a mescolare il liquido pastoso sobbollente nel calderone. — Non mi hai ancora detto perché ti hanno allontanato da Hogwarts, — chiese la ragazza per distrarlo, sapendo bene che al vecchio piaceva parlare di sé. — Salazar le girò attorno, controllò il colore della pozione, annuì e le rispose con voce arrogante: — Non ero d’accordo su alcune questioni gestionali ma, in particolare, Priscilla mi sorprese a testare questa pozione, — indicò con un gesto del capo il pezzo di carta bisunta alla sinistra di Merope, — sui Nati Babbani. — Gli occhi di Salazar luccicarono sinistri, intrisi di puro odio.

Controlla se hai tutti gli ingredienti per la pozione Extrapolate vitae1, — intimò, — deve essere creata con estrema precisione perché possa dare frutto. Una volta ultimata devi far cadere nel calderone il pezzo di pergamena con la frase che ti ho dettato: Ut malediceret tibi: vos gerunto quod ad me pertinet at fetus2. — Il vecchio ghignò cattivo; Merope, perplessa, allungò le dita e prese il pezzo di carta, fece scorrere gli occhi arrossati dagli effluvi del calderone elencando mentalmente gli ingredienti:

gocce di veleno di disphoidus typus3 – 12 μl4

soluzione di natron5 – 9 litri, maneggiare con cura usando dei guanti molto spessi.

Triade della morte6’ – 3 funghi per ogni specie

semi di tasso7 – 279 mcg di polvere affumicata con la corteccia della stessa pianta

Albizia julibrissin8 – 6 hg di resina estratta dalla pianta.

Che significa questa frase? A che serve aggiungere la pergamena? — chiese curiosa Merope. — Di questo non devi preoccuparti. — rispose acido il vecchio; stizzito si voltò e, in un fruscio silenzioso delle vesti, sparì oltre la porta, lasciandola nuovamente sola.

La campana in fondo alla valle suonò e i suoi rintocchi raggiunsero nitidi l’orecchio attento di Merope; poco distante, Cecilia passeggiava pigra aspettando di essere raggiunta dal giovane Tom, al limitare del prato antistante villa Riddle. Cautamente, lanciando un debole Confundus, costrinse la ragazza a inoltrarsi nel fitto bosco finché non cadde inciampando su una radice sporgente, ferendosi alla caviglia, e rotolò di qualche metro lungo un morbido pendio fino al letto di un rigagnolo asciutto. Merope, fulminea come un serpente letale, raccolse ogni singola ciocca dei capelli della ragazza rimasta imbrigliata tra i rami e i rovi.

Lesta, raggiunse la giovane che, dolorante, si massaggiava la gamba piagnucolando senza sosta. – Ma quanto sono fragili queste fanciulle Babbane, – pensò con distacco alle proprie cicatrici sparse sulla schiena e sull’addome, – per un piccolo taglio credono di essere a un passo dalla morte. – Stampandosi in faccia la sua solita aria svagata, si avvicinò con cautela, manifestando una gentilezza che non le apparteneva. — Ha bisogno? — chiese porgendo la mano dalle unghie ingiallite e spezzate. La ragazza alzò gli occhi spaventata, troppo assorta nel suo dolore per accorgersi della presenza di Merope, guardò disorientata la mano per poi allontanarsi disgustata. — Non toccarmi! — strillò impaurita. — Come desidera, — le fece eco l’altra; accennando un vago inchino, si voltò e prese a risalire il dosso.

Aspetta! — Si era già addentrata nel folto del sottobosco che la voce ansiosa di Cecilia la raggiunse, — Saresti così gentile da andare a chiamare il figlio del padrone della bella casa che confina qui vicino? — chiese senza degnarla di uno sguardo, poi aggiunse sprezzante, — fai il mio nome, Cecilia, vedrai che Tom Riddle ti crederà. — Merope si morse il labbro, sicura che se avesse aperto bocca si sarebbe lasciata sfuggire l’euforia che galoppava al centro del suo petto. Ritornò sui propri passi e, tenendo basso il capo, dopo aver rovistato nella bisaccia che teneva a tracolla, estrasse un canovaccio unto.

Che stai facendo? — squittì Cecilia chiudendosi a riccio; una smorfia di dolore le deformò per un attimo il bellissimo volto. — Le spalmo un decotto preparato da me, — sussurrò all’altra, — non abbia timore, — sibilò davanti alla sua espressione dubbiosa, — non l’uccideranno un po’ di erbe macerate al sole. — Sogghignando perfida, le spalmò l’unguento puzzolente sulla caviglia e poi attese, in silenzio, che l’effetto della calendola, mischiato a quello soporifero della lavanda9, facesse effetto.

Con morboso interesse guardò la bella ragazza perdere lentamente conoscenza e afflosciarsi delicatamente su se stessa, composta, quasi avesse un pubblico a cui offrirsi; per accertarsi che fosse del tutto addormentata, le diede un calcio tra le costole che poggiavano al tronco di un vecchio albero rugoso. La spogliò dei suoi abiti pregiati, storcendo il naso per il delicato profumo di rose che emanavano, e se li mise addosso, direttamente sulla propria pelle corrosa dalla sporcizia. Deliziata, assaporò il fruscio leggero della stoffa compiuto a ogni movimento, la dolce carezza del tessuto sul piccolo seno: si sentì libera e potente.

Per anni aveva domato il proprio Desiderio, l’aveva nascosto nelle viscere del cuore, seppellito sotto strati di lividi, soffocato dagli abusi, ma ora, tutto quello, stava per finire!

Impaziente, estrasse dalla bisaccia una fiaschetta contenente un liquido pastoso e vi immerse un capello strappato a Cecilia, attese qualche secondo e poi ingollò con un sol fiato il nauseabondo decotto. Dopo aver trattenuto il primo conato, avvertì subito le carni trasformarsi, espandersi e ritirarsi, modellarsi attorno alla propria anima: era esattamente come le aveva anticipato il vecchio, come si ostinava a chiamare Salazar Serpeverde, nonostante lui l’avesse maledetta più volte. Merope, investita di una gioia furiosa, indossò l’anello del padre, – Il vecchio, giorni prima, le aveva spiegato che il diamante incastonato non era altro che la Pietra della Resurrezione, uno dei tre Doni della Morte, ecco perché appariva ogni volta che lei indossava il monile. Non che a lei importasse, comunque. – e si ritrovò, in men che non si dica, pronta a portare a termine la prima fase del proprio piano.

Cosa stai facendo? Torna indietro! Non erano questi i patti. — sibilò furioso Salazar, appena apparso richiamato dalla pietra; — dovevi immergere anche il ciondolo! — Rimase inascoltato.

Merope raggiunse in fretta la casa di Tom, aggirò un gruppetto di giovani intenti a bere assenzio, accomodati sotto un gazebo scarlatto, ricambiò distrattamente il saluto di due vecchie comari e, un attimo prima che la luna apparisse all’orizzonte, si sedette su un divanetto sotto il pergolato.

Cecilia, — Sull’uscio della porta gli occhi scuri di Tom la trapassarono; trattenne il fiato, colpita dall’intensità di quello sguardo fisso su di sé. — Finalmente sei qui, — sospirò languido raggiungendola in un balzo, — mi avevi promesso un ballo e io obbedisco sempre ai tuoi desideri. — Le sorrise compiacente prendendole delicatamente la mano. Merope scattò in piedi, forse con troppa irruenza, ma il suo cuore galoppava forsennato, senza tregua, stordendola.

Si lasciò trascinare avvinghiata a quelle forti braccia e, per la prima volta in vita sua, credette di essere amata. — Sei silenziosa, — le disse Tom, parlando direttamente in un orecchio; si limitò ad arrossire mentre un lieve guaito le sfuggiva dalle labbra ansanti. Percepiva un fuoco bruciarle la pelle, nel punto in cui le dita del giovane premevano sulla schiena, ondate di caldo le infiammavano il corpo facendola boccheggiare in cerca d’aria, si muoveva goffa, come se stesse sotto metri d’acqua e non tra le braccia del suo amato. Ogni cosa che la circondava si affievolì, perse consistenza finché il fulcro di tutta la sua esistenza non divenne la luminosità e vitalità che era certa di risvegliare negli occhi di Tom; un istante dopo, mentre le labbra piene di Tom sfioravano le sue, perse anche se stessa.

Riemerse dalla bambagia quando avvertì il suo braccio sinistro scuotersi a causa di uno spasmo doloroso, le dita accartocciarsi e gonfiarsi simultaneamente. Con forza, si strappò dalle braccia di Tom, in fondo alla gola il ristagno del sapore dei loro baci, negli occhi la promessa che sarebbe stata sua e sua soltanto. Scosse la testa e si diede della stupida: – lo voglio così tanto, lo desidero così intensamente che ho scordato che sto sguazzando nel corpo di ‘quella’! – ringhiò tra sé. — È ancora giovane la notte, rimani. — la pregò suadente Tom, ma Merope borbottò un rifiuto con voce rasposa, incapace di riorganizzare le emozioni contrastanti che la stavano assalendo.

Alle spalle del giovane, la figura sfocata di Salazar sembrava viva. In un’altra occasione, Merope l’avrebbe anche deriso, ma ora, nella frenesia di allontanarsi, le apparve come un vecchio triste, solo, la copia sputata del padre, mentre si agitava con veemenza scagliandole addosso un vasto repertorio di ingiurie. La ragazza non poteva sapere che Salazar aveva aggiunto la pergamena per rafforzare la maledizione sull’anello con l’intenzione di ucciderla, certo che quel rifiuto umano non potesse essere in alcun modo una sua discendente.

Tom riuscì ad afferrarle la mano e le accarezzò le dita, persuasivo: — Rimani, — insistette. Merope, protetta dalle ombre, tentennò ancora un secondo, assorbendo il calore di quel semplice gesto, poi, frustrata, conscia che ormai di Cecilia avesse ben poco, si voltò di scatto, sfuggendo al suo contatto, rifugiandosi nel bosco; tra le dita impazienti di Tom rimase intrappolato l’anello di Salazar Serpeverde.

Ritornò ansante da Cecilia e la trovò ancora nella stessa posizione, la rivestì velocemente dei suoi abiti non prima di aver fatto una scorta abbondante dei suoi capelli, e, con l’aiuto delle tenebre, levitò il corpo fino alle porte del paese adagiandola su una panchina nei pressi del campanile. Passò più volte una piccola manciata di sali sotto il naso della ragazza e, una volta che si fu ripresa, le sussurrò melliflua: — Si vocifera che Tom abbia un anello antico e lo darà solo a colei a cui appartiene il suo cuore: magari sei proprio tu la prescelta, sei così bella, — insinuò sfiorandole lo zigomo; non le lasciò il tempo di replicare, dileguandosi nella notte.

Al buio, coricata sul materasso macilento, Merope lasciò la propria mente fantasticare sull’agonia che avrebbe colpito l’odiata Cecilia nel momento stesso in cui il suo adorato Tom le avesse infilato l’anello al dito. Infatti, quella stessa mattina, aveva lasciato cadere l’anello nel calderone e l’aveva guardato affondare nella viscosità della pozione, ideata da Salazar stesso, per uccidere tutti i Nati Babbani.

Due giorni dopo, era pomeriggio inoltrato quando Merope decise che era arrivato il momento di far visita a Cecilia. Furtiva, aggirò il muro cieco della sartoria del villaggio, raggiunse la recinzione che costeggiava l’orto della canonica e camminò in mezzo ai filari d’uva, finché non giunse ai piedi della quercia secolare, imboccò lo stretto vicolo acciottolato e si fermò sotto il davanzale di una modesta costruzione in mattoni rossi. Scosse con decisione il portone in ferro e attese impaziente che una donna ormai sfiorita dal tempo le aprisse.

Dov’è la malata? — l’apostrofò senza preamboli; la donna sbiancò scuotendo il capo, i lunghi capelli stopposi a incorniciare il viso stanco. — Non capisco, si sbaglia, non c’è nessun malato. — biascicò; intanto, lentamente, arretrava verso una porta bianca rimasta socchiusa nella fretta di raggiungere il cancello. — Io so che c’è! — insistette, spintonandola di lato, gli occhi bramosi inchiodati all’uscio da cui uscivano nitidamente dei brevi lamenti. — Dimmi dov’è! — chiese di nuovo, ormai a un passo dalla soglia. — La prego si fermi. — supplicò vergognosa la donna, nel disperato tentativo di nascondere ciò che si celava dietro i battenti. In quell’istante la voce tormentata di Cecilia le raggiunse: — Madre! Madre! Vi prego, fateli tacere. — Merope, con un largo sorriso di trionfo, varcò la soglia.

Cecilia era accartocciata su se stessa, in ginocchio sul letto sfatto, le mani premute sulle orecchie, scuoteva la testa convulsamente, come a scacciare dei fastidiosi insetti. La sua pelle, solitamente lucida e fragrante di giovinezza, appariva spenta e in alcuni punti violacea, frastagliata, dalle cui crepe fuoriusciva del liquido pastoso e maleodorante; l’anello10 riluceva sinistro, tra le dita contratte e annerite, come un monito di morte. — La porto via, — disse alla madre della ragazza rimasta poco più indietro, rigida e sconfitta, con una mano premuta sulla bocca nel vano tentativo di trattenere i singhiozzi.

Cecilia alzò la testa di scatto, — Sei tu! — boccheggiò riconoscendo la voce di Merope; i suoi occhi, neri e vuoti, grondavano ruggine. — Che mi hai fatto, strega? Da quel giorno nel bosco non faccio altro che vomitare e rinsecchire. — Il suo petto sussultò e un rivolo rossastro le scivolò lungo il collo. — La porto via con me, — ripeté Merope e poi, rivolgendosi a Cecilia, — Sicura di quello che affermi? Perché a me sembra che tu sia stata in grado di camminare, dopo. — La ragazza abbassò il capo stanca, una nuova ferita squarciò la coscia chiazzando di rosso vivo un altro angolo della vesta gialla che indossava.

Esca da casa mia! — intimò la madre di Cecilia. Cercando di ghermire Merope, le afferrò il mantello che la copriva strattonandolo malamente cosicché scivolò ai suoi piedi; sbigottita, la donna rimase impalata in mezzo alla stanza a guardare quella figura emaciata deriderla. — Conosco cose che potrebbero ucciderla soltanto sfiorandola con i propri occhi, — inventò lì per lì, — ma, per grazia sua, Cecilia possiede qualcosa che bramo e che voglio per me. In cambio, col suo permesso, — barattò conciliante, — l’accudirò in un luogo solo a me conosciuto.

Merope osservò attentamente la lotta interiore ingaggiata dalla donna alternarsi in smorfie sul pallido viso: gli occhi le si annebbiarono dai dubbi che vennero prontamente vaporizzati dal fuoco della speranza, l’amore materno battagliare deciso e uccidere il suo poco buon senso, infine, la vide abbassare il capo sconfitta. — Perfetto. — Merope cercò di soffocare l’entusiasmo rilasciando un lungo respiro, quasi avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo. — All’imbrunire mi muoverò, lei, a quel punto, dovrà solo recarsi in paese e far sapere a tutti che sua figlia è andata via, magari presso un lontano parente di Londra, sta a lei far in modo che tutti le credano. — Ritenuto chiuso il discorso si girò, tirò fuori dalle tasche un cilindro contenente un infuso alla camomilla e lo porse alla malata. Cecilia, seppur incerta lo prese: un secondo dopo annegò in un sonno agitato; non vide mai più la luce del giorno.

Assieme ai pochi averi che la madre di Cecilia le aveva affidato, Merope mise nella bisaccia pochi oggetti: il medaglione che tanto piaceva a Salazar; alcune boccette già pronte di Pozione Polisucco, – così l’aveva chiamata il vecchio mentre le spiegava come crearla, raccomandandole di aggiungere sempre 15 fiori di cannella11, nel momento stesso in cui l’avrebbe dovuta bere, per amplificare il tempo della durata. – la scorta dei capelli di Cecilia; un paio di gioielli appartenuti a sua madre, tutti gli altri li aveva barattati per la bacchetta e alcuni ingredienti rari, e le istruzioni per come eseguire alcuni decotti. Non si voltò indietro, quando oltrepassò l’uscio di casa, la bacchetta dimentica sul tavolo, non sprecò nemmeno un secondo a salutare Cecilia che macerava nei suoi stessi fluidi, rinsecchita e debole, ormai prossima alla morte, con l’anello del padre colpito dal primo raggio del sole nascente.



Quando era rientrata nella catapecchia, la notte appena trascorsa, l’aveva lasciata cadere in terra davanti al camino freddo e si era seduta al tavolo ancora ingombro dai resti degli ingredienti. — Guardati, stupida ragazza, — aveva sibilato sferzante, — così bella e ricercata sempre pronta a deridermi. Dimmi, ora, — aveva chiesto con scherno. — a chi credi che andranno le attenzioni di Tom? — Poi aveva riso, prima con calma, via via, sempre più forte. Si era inginocchiata sul lurido pavimento e aveva iniziato ad infierire contro quel corpo indifeso, colpendo più volte le piaghe purulente, facendola urlare, seppur fosse preda di un sonno profondo. Ogni minimo particolare dell’agonia di Cecilia le si era impresso nella mente come un segno di giubilo, come una colomba che si alzava in volo al rintocco delle ore. I minuti erano passati inclementi e avevano portato disfacimento e distruzione, esattamente come per lei i lunghi anni, rinchiusa in quella casa, avevano scavato tetri tunnel illuminati solo dal dolore.



Raggiunse il colle vicino appena in tempo per prendere lo strano mezzo che usavano i Babbani per spostarsi nelle lunghe distanze, comprò il biglietto per Londra, come la madre di Cecilia le aveva spiegato, e si addormentò serena, il volto emaciato irradiato da un sorriso predatore. Sognò di nuvole e fumo grigio, di prati in fiore e il cinguettio festoso dei cardellini, di baci al fiele rubati e di corti capelli neri che incorniciavano un viso furioso, le urla stridenti di un neonato. Si destò di soprassalto sudata e in preda al panico, con la fredda sensazione che, quel sogno, fosse un Presagio di Morte.

Le ci volle un po’ per ricordare dove era e soprattutto dove stava andando; tirò un sospiro profondo per farsi coraggio, in fondo che ne sapeva lei del mondo al di fuori di casa Gaunt, e chiese informazioni per raggiungere la casa londinese della madre di Tom che il padre aveva riaperto per allontanarlo dal villaggio; scese a un bivio. Immediatamente fu investita dalla caoticità della città e, impaurita dalla confusione dei rumori che arrivavano da ogni dove, si rifugiò dentro un androne, nascondendosi nell’angolo più buio finché il suo cuore smise di battere furibondo e il desiderio di raggiungere Tom non le morse la carne come un mastino rabbioso. Scivolò in quella sera uggiosa rasente i muri, trepidante, con passo impaziente e la voglia di vederlo che prudeva l’anima, insistente. Una volta arrivata a destinazione, rimase parecchi minuti appostata dietro una recinzione, a fissare il massiccio portone in legno scuro dietro il quale sapeva esserci Tom.

Ricordava bene l’accesa discussione avvenuta qualche sera prima a casa Riddle, dove il padre infuriato obbligava il figlio ad andare a Londra per evitare di essere vittima di uno scandalo.



Ma cosa ti frullava per la testa, — gli aveva detto contrariato, — ora suo padre pretenderà un ‘risarcimento’, se capisci bene a cosa alludo. — L’uomo, palesemente seccato, stava camminando avanti e indietro, mani allacciate dietro la schiena, davanti al giovane figlio, seduto mollemente sul divano intento a sorseggiare vino. — Non ti preoccupare, — gli aveva risposto con sufficienza Tom, — sono in grado di gestire la situazione. — Noncurante aveva appoggiato il calice sul basso tavolino a fianco. — Tu non farai proprio niente, — l’aveva contraddetto il padre, — ho dato ordini a Golfrin di riaprire la casa di tua madre a Londra, — stizzito aveva interrotto sul nascere le rimostranze del giovane, — andrai lì finché le acque non si saranno calmate: ci penserà McLound alla ragazza. — aveva concluso perentorio.



Impaziente, estrasse la fiaschetta contenente la Polisucco e bevve avidamente una lunga sorsata, precedentemente arricchita dai fiori di cannella, e attese che la pozione facesse effetto; attraversò la piazza antistante la staccionata, girò attorno alla zampillante fontana in marmo e, finalmente, colpì il legno del portone con il battete in ottone antico: a chi le aprì disse di essere un’amica del padrone di casa. La fecero accomodare in una saletta elegante, tende in pizzo fresco di bucato e seta preziosa ad abbellire le pareti, un divanetto damascato e il camino spento e vuoto. Tutto quel lusso la fece sentire inadeguata come un piccolo fiorellino nero in mezzo a delle statuarie rose bianche; per un folle istante ci ripensò e, in preda al panico, spalancò la finestra respirando a grosse boccate l’aria pesante e caliginosa della notte londinese.

La porta alle sue spalle cigolò piano e il giovane Tom Riddle scivolò al suo interno, la noia stampata in volto. — Cecilia? — disse stupito quando lei si voltò, — Che piacevole sorpresa. Quando sei… — Non riuscì a finire la frase perché Merope gli saltò addosso, premendo le gelide labbra sulle sue. Si baciarono con passione e la lingua esperta del giovane violò la sua bocca e la sua pelle, insaziabile. Merope, febbricitante, con dita tremule, sciolse il cravattino del ragazzo: voleva toccarlo, graffiare la sua pelle, ingorda, sempre più ingorda, bramosa di lui e delle forti sensazioni che risvegliava in lei, vergine d’amore e di attenzioni.

Lo amò lì, contro il muro, l’uscio spalancato sul brusio degli invitati, incurante di essere vista e sentita, finalmente paga. Bruciò in fretta, Merope, come una candela sacrificata alla luna morente, il cuore che galoppava incontro all’estasi mentre la schiena raschiava contro il muro, le gambe schiuse come un’avida sgualdrina. Nessun tentennamento, nessun pentimento, solo il vorace desiderio che la rese audace, provocatoria, spazzando via ogni remora dall’anima; consumò in fretta e con cupidigia la lussuria perché, assetata di lui, non potette aspettare oltre, rendendosi schiava della sua stessa brama.

Sei qui da sola? — la voce composta di Tom la riportò bruscamente alla realtà; il ragazzo era di spalle intento a sistemare con abili gesti il cravattino specchiandosi sul vetro spalancato della finestra; Merope sbatté più volte le ciglia cercando di mettere a fuoco la stanza. Si scoprì seduta sul pavimento, la schiena appoggiata al muro e la testa pesante che ciondolava sul petto. Chiuse gli occhi per riordinare le idee e le vertigini l’investirono come una mandria di ippogrifi al galoppo: non ricordava affatto di essere scivolata in terra. In un gesto distratto, si portò dietro le spalle una ciocca di capelli, e rabbrividì ripensando al momento esatto in cui aveva perso la ragione; avvertiva ancora su di sé i residui d’euforia attraversarle la pelle.

Sono sola, — pigolò piano, cercando di camuffare la voce, — ho il permesso di stare qui, con te. — Lo guardò con occhi adoranti. — Non ti darò fastidio, — si affrettò a dire, scuotendo il capo come a confermare quanto detto, quando si accorse che Tom si era rabbuiato, — permettimi di vivere qui, in questa casa, di starti vicino, di esaudire ogni tuo desiderio, — lo supplicò. — E sia, — acconsentì il giovane, in fondo era così arrogante e sicuro di sé da pensare che sarebbe stato in grado di gestire la situazione, lontano dal padre. — Ti farò immediatamente preparare una camera. Golfrin! — Chiamò, e un uomo in abito scuro apparve sull’uscio e, dopo un attimo di sbigottimento, fece una lieve riverenza verso Cecilia che nel frattempo si era ricomposta e stava impacciata in mezzo alla stanza. — Desidera? — chiese con voce monocorde al padrone. — La signorina Cecilia si fermerà da noi, prepara la stanza blu, — gli disse conciso e sprezzante; poi rivolto alla ragazza: — Sali, più tardi verrò da te. — Merope non ebbe modo di aggiungere nulla perché Tom uscì subito dalla stanza, attraversò l’ampio atrio e si infilò tra due porte spalancate da dove fuoriusciva una lieve musica e il brusio dei suoi ospiti. — Scusate, — disse, — un piccolo contrattempo, nulla di ché…

Si abituò presto ai colori accesi della camera, lei che, fino a quel momento, aveva vissuto un’esistenza grigia, al materasso morbido e la coperta dai mille ricami, all’intimità che le offriva la stanza; Londra, invece, non le piacque per nulla. Tom, di giorno, l’accompagnava per le vie, per i musei, per le chiese e i negozi; Merope, in mezzo a tutta quella confusione, si aggrappava al suo braccio come un naufrago che è certo di aver perso la battaglia per la propria vita. Se non avesse saputo con certezza di essere lei, mascherata dentro il corpo di Cecilia, nulla le sarebbe apparso diverso da prima! Infatti, come quando lo spiava da dietro le siepi, doveva dividerlo con altri, doveva lottare perché un suo sguardo rimanesse incatenato a lei, doveva combattere perché ogni parola e pensiero di Tom le appartenesse.

Ma c’era un momento durante la notte, quando le campane suonavano il loro ultimo canto, prima di cedere al sonno, che era ‘loro’ e ‘loro’ soltanto. Nella piccola stanza blu, con la brezza soffocante che smuoveva di poco le tende, il letto a baldacchino col pizzo sgargiante, Merope ringalluzziva il suo sogno d’amore concedendosi senza pudore.

Domani pomeriggio ti porto a teatro, — le disse una sera mentre si infilava nudo sotto le lenzuola, — sarà presente anche Miss Clotilde Dirne–Ramera12, vorrei fartela conoscere. — Merope singhiozzò forte e scosse la testa assentendo, trattenendo l’urlo che le raschiava il fondo della gola; avrebbe ceduto a qualsiasi lusinga quando Tom, con la lingua, la deliziava nella sua intimità. — Starò via una settimana, — riprese poco dopo mentre si sdraiava sulla schiena sudata, una mano che le accarezzava il ventre,— le ho chiesto di ospitarti e ha acconsentito. Ti troverai bene, — concluse sbrigativo, troppo impegnato per dare altre spiegazioni e lei per starle a sentire.

Ragazze, — la voce acuta e stridente di Clotilde sedò all’istante la furiosa lotta intrapresa dalle giovani occupanti la sua casa, che si contendevano il possesso di un ventaglio verde in piume di struzzo. — Suvvia, — strappò decisa l’oggetto della discordia dalle dita scure di una ragazzina magra, — chissà cosa penserà la nostra nuova amica, — ammiccò verso Merope, — di tutta questa confusione. — La donna la prese sotto braccio e la condusse attraverso scale e corridoi arredati di rosso squillante, quasi volgare nel suo perpetuo ripetersi, su cui si affacciavano delle porte in mogano.

Si fermò al terzo piano dello stabile e spalancò un uscio sospingendola con urgenza all’interno della stanza; dal fondo del corridoio, con la coda dell’occhio, vide incedere verso di loro un uomo canuto che, con gesti bruschi, si lisciava il gilet sulla pancia prominente. — Ecco qui è dove dormirai, — le comunicò sbrigativa, il corpo grasso incastrato tra i battenti, — si pranza e si cena in fondo al corridoio che abbiamo appena superato, — sventolò la mano ingioiellata nell’aria, — quando sarà il momento verrà a chiamarti una delle mie ospiti. — Sorrise brevemente, poi, come a ripensarci, aggiunse seria: — Ti pregherei di non lasciare questa stanza senza invito, — la fissò dura, — per quanto tu abbia un posto privilegiato nella cerchia dei miei conoscenti, in quanto amica intima di Riddle, potrei risentirmi, — concluse vagamente minacciosa.

Non si preoccupi, — cercò di tranquillizzarla Merope, — se è possibile preferirei mangiare in camera, — propose speranzosa, la mente rivolta alla scorta di capelli che si era notevolmente assottigliata e all’urgenza di trovare un modo per legare Tom definitivamente a sé. — Ultimamente mi sento poco bene, non trattengo i cibi, — rivelò incautamente; Clotilde aggrottò un sopracciglio accuratamente disegnato sulla fronte rugosa. — Come desideri, — le disse pensierosa guardandole il ventre piatto messo in risalto dal vestito pervinca che indossava, — se cambi idea o ti serve qualcosa, quello, una volta premuto, farà accorrere un inserviente. — Indicò un pulsante nero incastrato nel muro accanto al letto. — Perfetto, — le rispose greve Merope.

Non ho ancora finito, — apostrofò piccata la ragazza, bloccando la donna sul posto, nell’atto di varcare la soglia. — Conosce il motivo per cui Tom starà via e quando tornerà? — chiese con sufficienza guardandola dritta negli occhi porcini. — Le iridi di Clotilde lampeggiarono infuocate ma sul volto grassoccio si dipinse uno stantio sorriso di circostanza, le unghie perfettamente laccate conficcate nella carne. — Non saprei, — le rispose annoiata, gli occhi grandi fintamente ingenui, — io mi limito a procurargli ciò che vuole. — Detto ciò, fece un breve inchino e si dileguò camminando ciondoloni sulle gambe tozze.

Era notte fonda quando Merope, annoiata dopo tre giorni chiusi nella piccola stanza, decise di uscire a camminare lungo il corridoio, le gambe gonfie e il ventre dilatato, fasciato dagli stretti abiti di Cecilia. Fuori brillavano due sole candele i cui cerchi di luce accarezzavano morbidamente i tessuti alle pareti accendendoli di rosso sangue; parevano respirare. Scivolò silenziosa sul folto tappeto che ricopriva il pavimento fino alle scale che si diramavano verso la soffitta; un attimo prima di inforcare il buio pertugio, sentì delle voci parlottare concitate sul piccolo ballatoio al di fuori delle mura della casa.

Hai sentito che Ann si sposa? — disse una voce invidiosa, — Lord Bright le ha procurato un marito, un lontano parente sembra, — sospirò romantica. — È il minimo che potesse fare, — sogghignò l’altra, — ora che aspetta un figlio suo. — Si lasciò andare a una risatina sarcastica. — Miss Clotilde non è affatto contenta, — riprese la prima, — avrebbe voluto risolvere la cosa a modo suo, — rabbrividì vistosamente. — Ann è stata furba, — le fece eco l’altra, — ha tenuto nascosto il pancione finché ha potuto e, una volta avuto di nuovo tra le grinfie il Lord, ha confessato tutto. — Scosse la testa con ammirazione. — È tutta colpa mia! Avrei dovuto capire, — confessò, — che non era influenza! — L’amica le batte comprensiva una mano sulla schiena, — Non faceva altro che star piegata in due sulla tinozza giù in lavanderia! — disse frustrata, pestando il piede in terra. — Ormai è fatta! — Cercò di consolarla, — Clotilde non è stata troppo cattiva con noi e la mistura che dobbiamo bere ogni sera, per evitare altri inconvenienti, non è poi così tremenda, — la rassicurò. — Mary-Sue dice che tra un paio di mesi si sarà scordata di tutto e allora… — Le due ragazze rientrarono portando con sé l’odore raffermo della notte e quello rancido del tabacco scadente continuando a parlare tra loro sottovoce; non si accorsero di Merope avvolta nell’oscurità come in un sudario.

Quindi aspetto un bimbo, — sospirò sorpresa mordendosi nervosa le labbra; chinò il capo verso il rigonfiamento passando la mano grigia in una maldestra carezza. — e se quello che hanno detto quelle due è vero, questo figlio farà in modo che Tom mi sposi! — farfugliò soddisfatta, già persa in nuovi scenari.



Merope non sapeva molte cose, praticamente nulla della vita, riconosceva soltanto il fermento che la sconvolgeva ogni qualvolta Tom entrava nella sua testa. Era successo per caso, un pomeriggio grigio col cielo plumbeo in cui piangeva lacrime di sale; si era fermata a osservare affascinata un ragno tessere la sua tela, appena fuori il piccolo cimitero con le lapidi in pietra rosicchiate dai licheni Tom, un bambino tutto sorrisi e capelli neri, l’aveva urtata mentre correva con le sue scarpette lucide; un uomo rigido lo seguiva chiamandolo a gran voce. I suoi occhi si erano sgranati all’inverosimile accendendosi come le mille stelle che la volta celeste donava a chi sapeva guardare, e lei era rimasta impalata, la ragnatela confusa tra i capelli stopposi, il fiato corto e il cuore che batteva furioso, le iridi dilatate puntate su Tom. Da allora, ogni suo pensiero e sospiro era stato pregno di lui e del folle desiderio che le infiammava l’anima.



Tornata in stanza, si sdraiò sul letto sfatto, le lenzuola impigliate nelle unghie sbeccate dei piedi. Rimase tutta la notte imbambolata a riflettere sulla nuova situazione: un bambino. Erano giorni che avvertiva dei movimenti nel basso ventre, come piccole onde che le irrigidivano la pelle, dei minuscoli bozzi che le gorgogliavano in pancia: un bambino. – Quale potente magia può creare ‘ciò’, – pensò esterrefatta. – Mio padre non ne ha mai fatto voce con me. – Si girò su un fianco, perplessa. – Non riesco a ‘vedere’ questo bambino, non riesco a dargli un volto, non so nemmeno cosa sia un bambino. – Con gesti lenti prese a grattarsi il polpaccio con la crosta ruvida del tallone. – Però so che lo userò per incatenare la mia esistenza a quella di Tom. – Ghignò.

Trascorse i restanti giorni annichilita dall’ansia, prostrata per il desiderio sempre più lacerante di rivedere il suo amato, confusa e frustrata dai mille e più pensieri che vorticavano incessanti nella sua piccola testa.

Pioveva a dirotto, con tuoni e fulmini che accecavano e stordivano i viandanti, quando finalmente Golfrin bussò alla sua porta. — Sono qui per riaccompagnarla a casa, — le disse ossequioso da dietro l’uscio, — l’aspetto di sotto. — E, silenzioso come era apparso, scese le scale con in mano il misero bagaglio che la ragazza gli aveva allungato da uno spiraglio della porta. Merope, euforica e carica di una nuova energia, finalmente stava per rivedere Tom; si sentiva potente e sicura di se stessa. Non prese subito la pozione – era l’ultimo sorso e voleva conservarlo per dopo – ma si nascose sotto un vecchio pastrano da viaggio col cappuccio che le copriva quasi tutto il volto.

Mentre attraversava l’atrio della casa di Clotilde, le porte spalancate sulla pioggia battente, alcune ragazze parlottavano concitate tra loro, aspettando che un lacchè, lo stemma disegnato sulla giacca elegante le parve quello dei Riddle, depositasse in pile ordinate i loro poveri averi. — È stato tutto magnifico... quanti regali... dei veri gentiluomini... — sospiravano eccitate ridendo come oche. — Mie care, — si intromise la voce aspra di Clotilde, — bentornate! — Dietro di lei stava Golfrin rigido e impettito. — Suvvia, suvvia, non ostruite il passaggio, — gesticolò con le braccia paffute, spingendo le ragazze oltre l’uscio a sinistra delle scale, un sorriso calcolatore dipinto sulle labbra laccate, — avremo modo più tardi di consultarci. — Il gruppetto, obbediente, si lasciò trasportare lasciando dietro di sé uno sgradevole silenzio, grave quanto una profezia inascoltata.

La carrozza su cui salì era pregna di profumo di donna, dell’odore acre del sudore e quello grezzo del sapone da bucato, una miscela che le fece rivoltare dal disgusto lo stomaco. Nell’abitacolo, i suoi pensieri poterono vagare liberi tra le strade buie di Londra, insinuandosi in ogni androne che la sua fervida fantasia riuscì a raggiungere. Si vedeva ‘signora’ tra le sue cortigiane, ammirata e invidiata, con accanto Tom seduto ai suoi piedi, adorante. Si immaginava camminare lentamente per le vie cittadine, con la gente che si fermava per riverirla, lei splendida e unica perché scelta da Tom sopra tutte le altre. Per l’impazienza di giungere a casa, scalciò il pavimento di legno con i piedi nudi, troppo gonfi per entrare nelle scarpette di raso, buttando continuamente uno sguardo nervoso fuori dal finestrino della vettura. Tra le dita stringeva convulsamente la fiala di Polisucco, unica ancora per non impazzire dal desiderio: si sentiva bruciare, fin dentro le ossa, di un’euforia incontenibile, un’estasi che le inaridiva il respiro.

Il viaggio fu stranamente lungo e, al contempo, troppo breve. Sapeva cosa fare, ne era più che certa e desiderosa, ma una strana reticenza, piovuta insieme al ricordo del padre, le ingarbugliò la lingua rendendola insicura, proprio mentre Golfrin apriva lo sportello. — Signorina Cecilia, — disse pomposo allungando una mano guantata di bianco, — il Lord ha espressamente chiesto che la conduca nella sua stanza. — Merope sbatté le ciglia frastornata, la luce proveniente dal patio per un attimo l’accecò; inconsapevolmente, fece scivolare tra le dita la fiala per portare il braccio a schermare gli occhi dalle iridi di un verde così sbiadito da sembrare bianco. Per un momento si ritrasse nell’ombra sicura della vettura, sospirò più volte per riprendere l’autocontrollo, si aggiustò il pastrano sulla testa e accettò la mano tesa. — Preferirei vedere Tom, subito! — imperò notando l’esitazione dell’uomo. — Come desidera, — si limitò a rispondere lui, accompagnando le parola con un inchino, — per di qua.

La stanza in cui la condusse era spartana, il poco mobilio era in legno scuro massiccio e il profumo di Tom era l’unica cosa ricca che impregnava l’aria. Fece vagare le dita sopra l’imponente scrivania, in un angolo erano perfettamente impilati tre libri dall’aria funerea, sormontati da un lume in ferro battuto; due poltrone dallo schienale rigido voltavano le spalle alla finestra che dava sul giardino interno della casa; un enorme quadro raffigurante dei corpi nudi al ‘bagno’ troneggiava alle spalle della seduta rivestita di velluto rosso a coste; un’alta libreria, tristemente vuota, completava l’arredo. Nell’attesa, i suoi occhi scivolavano di continuo sulle forme toniche dei corpi di giovani uomini protesi verso quelli più delicati delle donne, braccia e gambe intrecciate in una danza perenne, bella e selvaggia come il paesaggio che la accompagnava; sfumature e colori si accendevano al passaggio della carezza della fioca luce proveniente dalla finestra. — Non ti preoccupare, non ci metterò molto mia cara Denise, torna pure dai nostri ospiti. — Merope si girò di scatto, il cuore martellante nel petto, la gola asciutta. Tom, mano aggrappata al pomello della porta, si stagliò improvvisamente sull’uscio, il corpo completamente rivolto verso una giovanissima ragazza avvinghiata a lui nell’atto di baciarlo. Merope digrignò i denti dalla rabbia.

Avevo dato disposizioni diverse, — cominciò a parlare Tom, gli occhi accesi di bramosia fissi sulla figura che si allontanava; nemmeno si scomodò a entrare nella stanza. — considerato che hai chiesto di vedermi subito, Cecilia, desidero farti sapere che… — Merope non gli lasciò finire la frase e gli si buttò addosso goffa, il mantello che impediva i movimenti, cercando la sua bocca. — Ma! — esclamò sorpreso Tom, mentre con fermezza le bloccava i polsi, — Cosa stai facendo? — le chiese arrabbiato.

Merope respirò forte, la lingua impastata incollata al palato, rigida e allibita davanti all’atteggiamento scostante del giovane; era confusa: non capiva, non riusciva a comprendere il perché Tom la stava guardando con alterigia, mantenendo il vuoto tra loro. — Domattina presto tornerai da tua madre, — dalla nebbia dell’apprensione in cui era sprofondata, quelle semplici parole, vergate in aria come fiamme roventi, diradarono la foschia che per un momento le aveva offuscato il cervello.

No! Non puoi! — gridò con tutto il fiato che aveva in gola, attirando curiosa, verso la porta, la ragazza di prima, — Ho un bambino che cresce dentro di me, — gli disse accorata. Tom spalancò gli occhi e per un attimo tentennò, poi, stizzito, le afferrò il braccio scuotendola con rabbia. — Non è possibile, stupida sgualdrina, — le sputò in faccia, — sono stato attento. — Presa in contropiede dalla veemenza delle parole, Merope scattò all’indietro, quasi fosse stata colpita da un bolide vacante; il pastrano, rimasto incastrato tra le dita nervose del ragazzo, le scivolò inesorabilmente di dosso rivelando il suo vero aspetto.

Negli occhi neri di Tom passò l’inferno, il disgusto verso di lei gli dilatò così tanto le pupille da renderlo simile a una fiera pronta a sbranare. — Tu sei, — deglutì un paio di volte per il ribrezzo, — tu sei l’orrenda creatura che, — dietro di lui, Denise tratteneva il fiato con una mano delicata posata sulla piccola bocca rosa, — che infesta il bosco vicino a Little Hangleton! — esclamò visibilmente nauseato, guardando con orrore l’enorme rigonfiamento che deformava l’addome scheletrico di Merope. — Fuori da casa mia, bestia immonda, — tuonò, — vattene! — Fece un passo indietro, travolgendo Denise nella fretta di allontanarsi da lei. — Golfrin! Golfrin! Chiama le guardie! — urlò infervorato sparendo dietro l’angolo.

Per tutto il tempo Merope rimase immobile, gli occhi slavati enormi come Pluffe, sgomenta di fronte alla reazione di Tom, una mano aggrappata al pendaglio di Salazar contenente l’ultimo capello di Cecilia; ai piedi, il mantello sembrava la bocca di un pozzo nero rigurgitante. – Perché? Perché? – urlava nella sua testa, – Tom! Tom! Sono io, non andartene! – supplicava, accecata dall’ossessione di avere Tom per sé. Si guardò intorno disorientata, non ancora ben cosciente di non avere più le sembianze di Cecilia, distrutta e defraudata del suo sogno.

Si mosse veloce, come un serpente letale, dietro al giovane, dimentica del ventre gonfio a un passo dallo scoppiare. Fece solo pochi passi, finì tra le braccia di Golfrin che la strinse in una morsa ferrea mentre scalciava e vomitava l’intero repertorio di ingiurie del padre. L’uomo, tanto grosso da parere una montagna, la trascinò come fosse un fuscello di gramigna, il volto impassibile e una goccia a solcare la fronte liscia. Attraversarono la casa con le urla dolorosamente acute di Merope che venivano amplificate dalle porte sbattute per non vedere e provare pena. Venne fatta uscire sul retro, come una mendicante, e buttata senza cura tra i rifiuti nel vicolo buio e puzzolente di piscio animale. Non demorse, Merope, picchiò i pugni sul legno fino a sanguinare, versando ogni lacrima possibile, urlando e spergiurando finché la lingua si rattrappì in fondo alla gola.

Si svegliò il giorno dopo, fradicia dell’acquazzone notturno, la testa che scoppiava e il cuore denso d’amarezza. Vagò per giorni in balia di se stessa, la visione di Tom che le riempiva la mente, e l’odio crescente verso il bambino, unico colpevole ai suoi occhi. Qualche settimana dopo, un’anima pietosa la depositò presso l’orfanotrofio Wool, ormai sciancata e pronta al parto; non aveva più con sé il medaglione, venduto tempo prima per pochi Galeoni. Durante la notte, Merope, debilitata dal dolore, in preda alla febbre e con gli occhi spiritati colmi della visione di Tom, inveì contro il bambino che stava per nascere, le parole sferzanti intrise di magia: — Maledico te! Perché sei tu la causa di tutto! Perché senza te sarebbe mio. Cresci solo e muori polverizzato dall’odio che tu stesso hai creato.



Mentre la gente si apprestava ad accogliere il nuovo anno, Merope morì folle con le labbra inumidite dalle maledizioni sputate con ferocia e l’anima inacidita da un amore vissuto solo nel suo cuore; nemmeno si avvide delle urla strazianti del suo bambino.





Cos’è tutto questo trambusto? — biascicò Merope, la gola intorpidita e il gusto acre delle mele acerbe che le ribolliva nello stomaco. — Dove sono? — chiese spaesata alle foglie che le svolazzavano sulla testa. Il cielo, sopra di lei, era un turbine incessante di colori rosso e lilla, di grigi spenti e fiamme di luce che esplodevano in farfalle luccicanti. Chiuse gli occhi frastornata, la testa che le pulsava selvaggiamente e le orecchie assordate da un insistente fischio; deglutì un paio di volte a vuoto, in cerca di saliva e risposte. Alla sua sinistra l’erba frusciò e volse il capo spaventata, troppo in fretta per evitare che le proprie orbite diventassero due ombre bianche.

Era ormai calato il sole quando il suo corpo si destò sussultando per il freddo. — Ma cosa? — ruminò infastidita, rotolandosi nell’erba umida in cerca di un appiglio per potersi alzare. Fece leva con le esili braccia, il corpo ancora indolenzito non le fu di aiuto, aggrappandosi al tronco più vicino finché non fu eretta, sebbene le gambe traballassero vistosamente. — Ma cosa è successo? — si chiese per l’ennesima volta allungando il collo verso la vallata dietro di sé. Nella frescura della notte, che le accarezzava le guance accaldate, fremette in attesa di un segno, di qualcosa che le schiarisse le idee: sentiva nel profondo del cuore come un punto sospeso che pungeva, che premeva per emergere.

Barcollando, fece qualche passo verso le luci che pattugliavano l’orizzonte alla sua destra, distinguendo, man mano che si avvicinava, l’eco di voci allegre. Distratta, forse dalla delicata musica che l’avvolse una volta raggiunto lo steccato bianco, che la pallida luna mordeva dall’alto del cielo, inciampò sui suoi stessi passi finendo, di nuovo, distesa a terra. Batté nervosa i palmi sui sassi; sbuffando irritata, alzò la sottile polvere che le finì dritta nel naso: un forte starnuto le procurò un enorme bitorzolo in piena fronte.

Accidenti! — urlò frustrata, ma poi, improvvisamente, qualcosa nella sua testa fece ‘crac’ e tutto l’universo sembrò riallinearsi. — Orfin! — ragliò alle stelle, — Che tu sia maledetto! — abbaiò in Serpentese13, — Non credere che questo tuo stratagemma mi impedirà di avvicinare Tom, — si rialzò in fretta, dirigendosi veloce verso un boschetto di betulle, oltre il quale c’era la sua casa. — stanotte sarà mio, mio per sempre. — Giunta a destinazione, freneticamente, incurante delle grosse spine della Is breà-verloren14, acuminate come artigli di drago, del loro sgargiante color vinaccia e del profumo velenifero, rovistò tra le foglie in cerca del prezioso pacchetto nascosto mesi prima.



Oh sì, so bene cosa hai fatto, Orfin! – pensò affaccendata Merope, fortemente indispettita per la capacità del fratello di scovare sempre i suoi nascondigli. Spesso, la vecchia fornaia al villaggio le donava dei biscotti quando la vedeva girovagare tra la polvere e lei, gelosa del prezioso tesoro, lo occultava ai suoi famigliari. Ma risultò non essere mai abbastanza astuta perché il fratello era sempre un passo davanti a lei. Pochi giorni prima, dopo aver subito l’ennesima violenza da parte del padre, perché Orfin gli aveva rivelato che voleva andare al ballo organizzato dal Babbano, vicino di casa, il fratello, non pago e conoscendo il profondo desiderio nutrito da Merope verso quel giovane, aveva preso le sue dovute precauzioni avvelenando i biscotti che lei custodiva in una fossa ai piedi del grande albero all’incrocio tra la loro proprietà e quella dei Riddle. Così si era ritrovata quella sera, dopo aver mangiato con gusto tutti i suoi biscotti, nuovamente vittima degli ‘intrugli-dispensa-incubi’ del fratello.



Con un forte sospiro di sollievo, srotolò un cencio dall’aria consunta e, con dita tremanti, estrasse una piccola fialetta nera: unico regalo, da parte di sua madre, che era sfuggito alle grinfie di Orfin. Lo rigirò tra le dita annerite dalla cenere guardando in controluce il liquido pastoso dimenarsi lento nella piccola costrizione. Sorrise beffarda al pensiero che il fratello, ormai, non poteva farle più nulla. Infatti, proprio quella mattina all’alba, un funzionario del Ministero era venuto ad arrestare entrambi i suoi carcerieri. Rientrò in casa col cuore più leggero, la mente rivolta al ballo e a Tom, che molto presto sarebbe stato suo.

Senza indugio, si ripulì come meglio poté e si infilò il miglior abito, una lunga tonaca pervinca presa tra gli abiti smessi della madre, e corse a perdifiato verso casa Riddle col petto che pulsava in sincronia con lo scorrere impetuoso del sangue, la collana con lo stemma di famiglia, rubata al padre, che le danzava sul petto, e la fiala stretta in mano. Fu facile mescolarsi agli invitati, muovendosi ai bordi della rumorosa massa a testa china, scivolando leggera tra loro come una biscia. Sapeva bene dove trovarlo, al chiosco giallo con l’edera rampicante, circondato da pochi e tra loro, sicuramente, Cecilia, la sua rivale.

Era bello, Tom, da mozzare il fiato con quegli occhi neri penetranti che le scombussolavano il ventre, bello come poteva essere un sogno vissuto fino in fondo, bello come i colori vivi che esplodevano in primavera; scosse la testa, Merope. – È tempo di agire, – pensò euforica. – devo essere precisa e non farmi scappare il momento giusto. – Voltò le spalle alla magnifica casa costeggiando la siepe di lauro finché non si portò a un passo dal gruppo, gli occhi febbrilmente fissi su Tom; sullo sfondo gli invitati ballavano nel giardino sul retro illuminato a giorno.

Come sono felice, — cinguettò Cecilia, — è tutto magnifico, grazie Tom. — La ragazza si appoggiò appena col busto al braccio teso del giovane Riddle. — Lo sai, ogni tuo desiderio è un ordine, — le rispose prontamente Tom, mettendole una mano sulla schiena; Cecilia rise scioccamente sfarfallando gli occhi. — Oh, ecco Golfrin, — riprese, andando incontro al cameriere che reggeva un vassoio con dei bicchieri di cristallo e un cestello contenente una bottiglia scura. — lascia pure qua, — l’apostrofò sdegnoso indicando un basso tavolino in ferro battuto; Golfrin, ossequioso, poggiò il vassoio, stappò la bottiglia e si dileguò, non prima di aver lanciato uno sguardo bieco nella direzione di Merope.

Prendete, uno per uno, amici miei, — disse Tom allungando i calici ai presenti; sorrise complice quando lo porse a Cecilia. — ho un annuncio da fare e voglio che voi siate i primi a sentirlo. — Prese la bottiglia e cominciò a versare il liquido ambrato; il suo bicchiere rimase incustodito mentre gli amici gli si serrarono addosso cicalando allegri. – È il momento. – pensò agitata Merope; con cautela, si avvicinò e, fulminea, versò la metà del contenuto della fiala nel calice, allontanandosi prontamente un secondo prima che Tom si girasse.

Prima di tutto brindiamo a oggi che mi vede un uomo fortunato circondato da tutto questo, — alzò il braccio facendo spaziare lo sguardo per tutta la sua tenuta, da lato a lato, passando per l’imponente casa arroccata al centro del vasto prato, — a me! — e bevve. Poco distante, le dita sudate quasi le fecero cadere la fiala, Merope fece lo stesso. — È fatta! — ringhiò esultante dalla siepe dietro la quale si era rifugiata, — Ora non mi resta da vedere se mia madre aveva ragione. — si avvicinò di qualche passo facendosi lambire dalla luna piena che svettava nel cielo.

Mia cara Merope, — sua madre l’aveva chiamata una sera al suo capezzale, l’odore di morte che strisciava sibillino lungo i muri color pesca della camera nuziale, — ho questa da darti, — le aveva sussurrato all’orecchio, sbirciando il marito poco distante parlottare con il Medimago, mentre le allungava una scatoletta di legno scuro. — Conservala. — Poi si era girata e aveva chiuso gli occhi, troppo provata per dire altro.

L’hai nascosta? — l’aveva apostrofata ansiosamente poco tempo dopo, — Brava! — aveva approvato accarezzandole la testa corvina, — Né tuo padre né tuo fratello dovranno mai sapere che la possiedi, giuralo! — le aveva imposto con sguardo duro, seppur velato di un’angosciante tristezza.

È una pozione, — aveva ripreso il discorso una notte con la tempesta che bussava alla porta e Merope che fissava con gli occhi sgranati i lampi illuminare il cielo. — è antica, viene tramandata dalla mia famiglia da almeno ventisette generazioni: ora è tua. Se mai ti potesse servire, fanne buon uso, — aveva sospirato, stringendo le palpebre all’insorgere di un nuovo spasmo doloroso.

Madre, — Merope, la piccola mano appoggiata al braccio troppo scheletrico della donna, la stava scuotendo piano, — a cosa serve? — aveva chiesto curiosa, gli occhi accesi e sfavillanti di vita rincorrere i propri sogni. — Oh! — aveva tossito un paio di volte, cercando di trovare dentro di sé la forza per parlare. — È la pozione Hominem Imperare15. — le aveva risposto con il fiato corto, — Serve a ‘governare’ chiunque a cui la farai bere, — aveva sospirato pesantemente, — un sorso a testa, mi raccomando. — Poi, visibilmente provata, aveva chiuso gli occhi. Merope, pensando che il discorso fosse concluso, si era allontanata distratta dal gatto bigio che faceva le fusa davanti al camino acceso.

Devi essere forte, e volerlo intensamente o la pozione perderà il suo effetto. — ma le parole erano rimaste inascoltate, perse tra le pieghe del cuscino.



Nel frattempo, Cecilia guardava Tom con occhi sfavillanti, appoggiata con grazia al palo che sorreggeva la struttura, facendo ondeggiare distrattamente il liquido nel proprio bicchiere. — E ora, amici, vi annuncio che… — Per un istante gli occhi di Tom si fecero opachi, assenti, il suo corpo longilineo vacillò, come sospinto dalla brezza marina che risaliva rude lungo la riva. Allarmati, i più vicini a lui cercarono di prestargli soccorso ma Tom scosse la testa nera più volte; Cecilia si avvicinò sorridendo incoraggiante.

Dunque stavo dicendo, — scosse ancora una volta il capo, come se tentasse di riordinare le idee, — che sono innamorato, si innamorato, — confermò con voce stucchevolmente zuccherosa; Cecilia, seppur sorpresa dal tono e dalle parole usate da Tom, lo affiancò felice. — di Merope. — Detto ciò, tra lo sbalordimento generale e lo sguardo indignato per essere stata presa in giro di Cecilia, quasi corse, follemente attratto verso la figura al centro del prato che si stagliava trionfante sotto il giogo della luna.

È uno scherzo, — strillò Cecilia. — Ma è un mostro! — se ne uscì un tizio con dagli enormi baffi. — Sei impazzito! — lo rincorse suo padre, adirato.

Voglio lei, voglio lei! — cantilenava Tom abbracciato a Merope, — Andiamo? — suggerì, non prima di averla baciata con passione davanti a tutti. — Andiamo! — rispose felice, sfidando chiunque a contraddirla. Intanto, gli uomini intorno a loro presero a parlottare tutti insieme, storditi e indecisi su come affrontare l’assurda situazione; in un angolo, Cecilia piangeva lacrime di fiele per la vergogna.

Merope, approfittando della confusione creata dalla rivelazione del suo Tom, lo condusse fuori dalla proprietà dei Riddle, strinse forte il ciondolo di Salazar, facendo attivare l’incantesimo della Passaporta castato da suo padre tempi addietro: in uno sbuffo di fumo sparirono lasciando dietro di sé lo scompiglio.

Nel cuore in subbuglio della ragazza crebbe la certezza che finalmente tutto sarebbe andato per il verso giusto, non di certo come le aveva profetizzato il fratello.



La Vita oltre le ‘cose’ appartiene al Destino; le ‘cose’ della Vita appartengono soltanto a noi. – uwetta.



Note dell’autrice: questa storia è stata difficile da scrivere: c’erano molti aspetti da considerare, da far collimare; nonostante tutto mi sono affezionata a questa Merope determinata, così ostinata e ‘preda del proprio sogno’ da dimenticare tutto il resto. Spero di non essere uscita troppo dal seminato, almeno nel mantenere i personaggi dentro il canon, seppur dovessi adeguarmi alle norme richieste.

Buona lettura e sono graditi i commenti. Storia corretta seguendo le indicazione della giudice.

Questa storia partecipa al contest Raccontami una fiaba – II edizione indetto da Freya Crescent _ sul forum con il pacchetto cenerentola: Merope/Tom sr/Cecilia – voglio una Merope più crudele, sicura di sé e calcolatrice mentre pensa a come liberarsi di Cecilia e conquistare Tom. Stupitemi con la scelta del sortilegio, in fondo non è stato accertato nel canon l’utilizzo del filtro d’amore.

Leggenda: – che Merlino non mi fulmini! – Salazar Serpeverde è la fata madrina; così come sua madre che le regala la pozione.

L’anello dei Gaunt, ereditato da Salazar, è la scarpetta di cristallo; così come il ciondolo, sempre di Salazar.

Le antagoniste di Cenerentola – intese come ostacoli al suo sogno – sono il padre, il fratello, che avrà un ruolo importante, e naturalmente la rivale Cecilia.

Tom Riddle sr è il principe azzurro, unico e indiscusso.

Il Ballo vero e proprio avviene solo alla fine del racconto; però la Pozione Polisucco, a mio avviso, funge benissimo a questo inconveniente.

Inoltre, per scrivere la storia, ho tenuto come traccia la frase ‘I sogni son desideri’ tratta da una canzone dell’omonimo film animato della Disney.





1Letteralmente dal latino: ‘estrapolare’ la vita. Ho usato questa parola per rendere più accentuato l’effetto della maledizione fatta all’anello di Salazar Serpeverde. Mi sono presa il disturbo di darne il merito a Merope, anziché al giovane Tom Riddle. La pozione è inventata da me.

2Dal latino: maledico te che indossi ciò che appartiene a me e alla mia progenie.

3È un serpente verde, detto anche serpente degli alberi ( penso che sia quello rappresentato sullo stemma di Salazar ) il cui veleno, in proporzione alla tossina contenuta, è il più velenoso al mondo. In realtà, quando morde, ne inocula talmente poco, oltre al fatto che i primi sintomi compaiono molto tardi, che quasi sempre l’uomo aggredito ha tempo di farsi curare. Cit. https://www.animali-velenosi.it/serpenti/boomslang-dispholidus-typus/

4Microlitro.

5Sale usato dagli egizi per mummificare i cadaveri.

6Chiamati così tre funghi velenosissimi della famiglia delle amanita. Cit. http://best5.it/post/5-funghi-velenosi-mortali/

7Pianta velenosa in quasi tutte le sue parti.

8Detta anche acacia di Costantinopoli, l’unico motivo per cui l’ho nominata – avrei potuto usare altre piante – è che, assieme al salice, sono gli alberi che apprezzo di più in Natura.

9Ho pensato che il Distillato Soporifero, unito a un unguento, possa mantenere intatte le sue proprietà, seppur mitigate.

10Cecilia scuote la testa perché la Pietra della Resurrezione ha rievocato i morti ma, essendo Babbana, ne avverte solo le voci.

11Inventato da me.

12Entrambe le parole, tradotte dalle rispettive lingue tedesco e spagnolo, vogliono dire meretrice.

13In fondo anche Lord Voldemort lo parla, da qualcuno deve aver pur preso.

14Letteralmente amore in irlandese – perduto in tedesco, pianta inventata da me.

15Questa pozione – inventata da me – si può intendere come un surrogato dell’Imperius che costringe il ricevente a obbedire al volere del dominatore. Per ‘volere’ intendo la volontà di una persona nel tenere legata a sé un’altra; indipendentemente dal motivo per cui lo fa.

   
 
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