Il
rimpianto delle opportunità perse
Nonostante i
pregiudizi e gli
elogi, Roma per me era un mistero da svelare ed era proprio per questo
che
volevo visitarla. L’occasione mi venne servita su un piatto
d’argento quando il
mio relatore di tesi mi consigliò di scegliere proprio La
Sapienza per
conseguire il mio master in Tecnologie e gestione dell'innovazione,
quindi
presi la palla al balzo e, dopo aver superato egregiamente il test
d’ammissione,
affittai una stanza nell’appartamento del mio amico di
vecchia data, Niccolò, che
si stava specializzando in Ingegneria informatica alla Roma 3.
Ero
eccitatissima all’idea di
vivere un intero anno in una delle città più
famose del pianeta, rinomata non
solo per la sua centralità nello spettacolare Mediterraneo
ma anche per il suo
ruolo d’impatto storico in ogni epoca. Aggiungiamo poi che
per molte persone
dell’estero è considerata anche una delle
città più romantiche ed otteniamo un
connubio alquanto allettante al quale non si può di certo
dire di no.
All’inizio
non nego di essermi
persa volentieri per le vie di Roma, essendo restia a chiedere
informazioni ai
passanti ma anche perché non mi andava di disturbare il mio
nuovo coinquilino
ogni due per tre. Eppure anche in quel frangente ero felice di potermi
godere
quei piccoli e semplici particolari che andando di fretta in una
routine che
non mi sarebbe mai appartenuta avrei perso, come un ghirigoro insolito
su un
antico muro o una fioriera elaborata che costituiva l’arco
d’entrata ad una
viuzza di negozi di nicchia. Ad ogni modo, tra distrazioni piacevoli ed
impegni
irrevocabili, fui costretta a muovermi di continuo dal centro alla
periferia
della città e viceversa, così nel giro di un mese
mi ritrovai a conoscere alla
perfezione la mappatura dei trasporti più usati dagli
universitari. Mi ricordo
però che un giorno, a causa di un professore che mi
trattenne eccessivamente
oltre l’orario per convincermi di diventare la sua assistente
una volta
conseguito il master, persi la mia solita corsa e dovetti aspettare
alla
fermata dell’autobus per più di tre quarti
d’ora la coincidenza con la metro
che mi riportava vicino casa. E fu proprio in quell’occasione
che ebbi uno dei
dialoghi più lunghi e incisivi della mia vita, che mai
dimenticherò.
Ricordo che
l’aria era insolitamente
fredda e pesante per essere fine autunno e i pochi alberi che
campeggiavano nel
centro città erano nudi e distorti in modo parecchio
contorto. Che sentissero
anche loro freddo come me? Sinceramente avevo timore che piovesse
perché il
cielo si coprì ben presto di nubi scuri e il vento si
alzò, ma fortunatamente
uno studente che mi aveva dovuto riconoscere mi offrì
gentilmente di dividere
il suo ombrello con me, sedendoci vicini e chiacchierando
così per tutto il
tragitto fino alla fermata della metropolitana. Dovetti ammettere che
fu molto
simpatico e alla mano, mi trovai molto bene a parlare con lui,
scoprendo che
frequentava una facoltà molto affine all’oggetto
dei miei studi, Biotecnologie,
alla Roma 3 e che era stato proprio nella mia area universitaria per
chiedere
un parere giuridico su alcuni brevetti specifici per invenzioni che
aveva
intenzione di inserire nella sua tesi di laurea. Molto scrupoloso, se
dobbiamo
essere più attenti; non era da tutti farsi tanti problemi
per una nota a piè di
pagina. Comunque ci dovemmo dividere alla fermata: io abitavo in
periferia e mi
sarei dovuta fare ancora un’ora e mezza di viaggio, lui
sarebbe andato dalla
sorella che abitava lì vicino.
Mi
salutò calorosamente e con
una dolcezza in viso che pochi posseggono mi trasmise un senso di pace,
ma solo
quando ormai stavo per timbrare il biglietto del tram prima del
tornello mi
resi conto come una stupida che non ci scambiammo i contatti e che
nemmeno ci
presentammo con il rispettivo nome per poi poterci ritrovare almeno sui
social.
Ormai era fatta e non potevo più tornare indietro, o meglio
diluviava e pensai
convinta che aveva già imboccato chissà quale via
e a quanta distanza poi,
quindi oltrepassai il tornello un po’ sconsolata e mi misi a
poca distanza
dalla linea gialla di sicurezza aspettando il mio mezzo di trasporto,
rimuginando sulla mia troppa leggerezza che alle volte prevaleva sul
resto.
Cincischiavo con il filo delle mie cuffiette e con la colonna sonora
del film
The Maze Runner pompato nelle orecchie, un po’ annoiata,
notando solo allora la
poca affluenza di persone in zona. Effettivamente non era un orario
molto
vissuto quello e, forse per timore o sentore di un qualche possibile
pericolo,
un brivido gelato mi risalì per la spina dorsale facendomi
fremere.
A causa del
nervosismo mi misi a
picchiettare con la punta del tacco delle francesine a terra e con una
sola
cuffietta nelle orecchie che mi incitava a correre più
veloce possibile per
evitare di essere presa dal mostro che voleva assassinarmi, quando mi
sentii
stringere alle spalle da due mani calme e ferme e come una molla
scattai in
avanti verso la linea del tram urlando a squarciagola. Per immensa
fortuna, che
difficilmente potevo godere di solito, mi sentii strattonare verso il
petto
caldo di qualcuno prima che il veicolo ad alta velocità mi
colpisse con la sua
potenza d’impatto. A pensarci non mi importava chi mi tenesse
tra le braccia ma
il fatto che ero salva mi bastava e avanzava eccome, infatti continuavo
a tremare
e le gambe a stento mi reggevano.
“Mi
dispiace davvero tanto, non
volevo farti spaventare.”
Forse la
percepii come una delle
frasi più rincuoranti della mia vita perché
riconobbi la voce del ragazzo che
avevo lasciato poco prima sotto la pioggia e mi fu semplice alzare il
viso
verso il suo respiro tiepido e sorridergli per ringraziarlo. Non so in
realtà
cosa gli scattò dentro in quel momento, ma ero troppo
contenta di essere al
sicuro tra braccia che reputavo sicure anche se sconosciute, per questo
non replicai
quando percepii le sue labbra sulle mie, anzi approfondii
tranquillamente quel
bacio carico di tensione e passione dovuta a quello strano e repentino
salvataggio.
Staccati
l’uno dall’altra lo
vidi arrossire curiosamente, io tenni il rigore che mi
contraddistingueva
capendo però che dare un bacio così in fretta non
fu una mossa molto intelligente,
quindi mi scostai quel che bastava per mettere delle distanze tra noi
evitando
ulteriori complicazioni e con più lucidità
osservai il blocco notes che mi
stava porgendo.
“Lo
hai dimenticato nel bus e
inconsciamente l’ho infilato nella tracolla. Me ne sono
accorto solo quando mi sono
messo a cercare le chiavi di casa. Perdonami.” mi
spiegò teneramente abbassando
lo sguardo a guardarsi le punte dei piedi.
“Tranquillo.
Anzi, grazie mille,
sei stato di una gentilezza unica. Per me significa tanto questo
blocco.” finii
col dargli un leggero bacio sulla mascella destra e veloce salii sulla
mia
corsa prima di perderla salutando il mio nuovo incontro fiduciosa di
non averlo
turbato troppo.
Mi voltai e mi
trovai in un
abitacolo semi deserto, vi erano solo una coppia di anziani che si
stringevano
la mano affettuosamente, lei con la testa sulla spalla di lui, un
quartetto di
studentesse di Medicina che ripetevano assiduamente senza successo la
muscolatura toracica e una sorta di emo/hipster/trash, non sapevo ben
definirlo
con il suo stile strapazzato, che si drogava di musica da delle cuffie
rosse
con su disegni di fiamme nere. Io mi sedetti isolata in uno dei due
sedili vuoti
di fronte ad altri due liberi stendendo ineducatamente le gambe su
quello
accanto e appoggiando la schiena al palo vicino nella speranza di
riposarmi le
gambe gonfie della giornata trascorsa in università. Eppure
non passarono
nemmeno trenta secondi che qualcuno attirò la mia attenzione
sedendosi proprio sui
quei sedili difronte ai miei.
Fato? La dea
bendata, o chi per
lei, si stava prendendo troppo gioco di me quel giorno.
Alto, piazzato,
di bella
presenza, seduto composto nonostante le gambe divaricate, giacca nera
in
eco-pelle, capelli mossi lasciati al loro stato ribelle, occhiali da
sole calati
per nascondere le occhiaie dovute agli after continui,
l’ultimo I-phone uscito
tenuto con entrambe le mani ben delineate che neanche Michelangelo
avrebbe
potuto dipingere così bene e quel portamento che non passava
di certo
inosservato. Dopo qualche minuto di silenzio mi ero già
dimenticata del resto
del vagone e mi ero incantata nel gesto delle sue dita, le quali
ravvivavano
quegli spettacolari filamenti mori che adornavano il suo capo e
sfuggivano al
suo controllo. Non c’era altro che lui, anch’io mi
ero silenziosamente
annullata nell’alternarsi di luci e ombre proiettate tra il
tunnel sotterraneo
della metro e l’interno del vagone.
Mi accorsi tardi
che mi ero
soffermata troppo a lungo a scrutarlo involontariamente
poiché incrociai i suoi
occhi scuri da sopra le lenti quanto alzò lo sguardo dal
cellulare per
risistemarsi nel sedile scomodo e riporre l’oggetto nella
tasca posteriore dei
pantaloni. Era qualcosa di assurdamente terrificante e magnifico, il
suo
sguardo: sapevo qualora fossi caduta nell’eternità
di quella bellezza che ne
avrei pagato le conseguenze. Così mi volsi lentamente con
nonchalance verso il
finestrino, come se tutto ciò che mi circondava era in
realtà di poca importanza
per me, e mi accoccolai meglio nei due sedili poggiando la testa allo
schienale
nella speranza di non suscitare interesse. Ma fu inutile, mi sentivo
perennemente osservata in modo impertinente da quegli occhi non
più coperti dalla
montatura verde petrolio, sentivo il suo persistente pensiero fisso su
di me e
la sua insistenza a non mollare la presa. Ciò mi faceva
alquanto innervosire.
Tirai fuori il
mio tablet per
controllare le bozze del nuovo articolo che avrei dovuto consegnare al
giornale
per il quale lavoravo part-time, cercando ancora di ignorarlo, ma lui
non aveva
intenzione di cedere anzi il suo sguardo seguiva ogni mio gesto con
estrema
attenzione e curiosità.
“Potresti
smetterla, per
cortesia?” chiesi improvvisamente senza pensarci con
più dolcezza possibile e
con una naturalezza inumana. Non ne ero certa ma probabilmente
sgranò
leggermente gli occhi e piegò la testa sorpreso dalla mia
reazione. La conferma
l’ebbi quando distaccai l’attenzione dalle righe
davanti a me e mi volsi verso
il ragazzo che continuava ad osservarmi ancora più
interessato di prima.
“Come
non detto!” sospirai
arresa in una frazione di secondo e ricominciai ad occuparmi del mio
lavoro.
“Il
problema è che non riesco a
non ammirare l’opera magnifica di un pittore.”
azzardò questo complimento
fallendo miseramente di entrare nelle miei simpatie e scaturendo in me
una
risatina smorzata, ma in compenso mi fece udire una voce
così cristallina e
sicura di sé che non sembrava appartenergli. Sembrava che la
sua anima fosse
distorta dalla sua persona, come se delle onde elettromagnetiche lo
attraversassero e dissociassero le due cose rendendole distinte e non
più
complementari.
“Guarda
che non mi riferivo a
te, ma alla tua cover.” disse quasi acido indicando
“Il bacio” di Klimt sul
retro del mio tablet. Che figura di cavolo che stavo per fare! E per
giunta non
seppi che altro dire se non un apatico e debole
“Ah” fuoriuscito per sbaglio
dalle mie labbra. Insomma, se volevo risultare migliore di lui avevo
toppato
alla grande. L’unica cosa da fare ora era proseguire il
viaggio in un silenzio
imbarazzante aspettando che scendesse alla sua fermata.
Quando il mezzo
si fermò per la
prima volta sospirai tra me e me aspettando l’istante in cui
il ragazzo avesse
alzato il suo fondoschiena e fosse sceso, ma per mia sfortuna
restò lì e solo
l’altro ragazzo in fondo al vagone si tolse le cuffie e
scese. La seconda
fermata mi rese così tesa e piena di nervosismo non vedendo
nessuno lasciare
l’abitacolo che mi costrinsi a stare seduta composta su uno
solo dei due
sedili. Alla terza finalmente vidi che la coppia di anziani si
alzò, seguita
dalle studentesse, per lasciare il vagone e il ragazzo difronte a me
che
riponeva nuovamente il telefono nei pantaloni per alzarsi anche lui. I
miei
muscoli si distesero e si rilassarono in quel momento, come se mi fossi
liberata di un enorme peso, ma si contrassero nuovamente con
più tensione di
prima vedendolo spaparanzato sul sedile accanto al mio con la schiena
appoggiata
al palo imitando la me di poco prima. Non saprei definirmi se non
scioccata in
quel momento per la scena che mi si propose in tutta la sua stranezza e
inadeguatezza. Mi sentivo a disagio per la sua irriverenza e purtroppo,
dovevo
ammettere anche, ineguagliabile bellezza ma ero anche irritata dalle
stesse
qualità poiché mi sentivo impotente ed inferiore
in confronto alla sua
massiccia presenza.
Ebbi
l’impressione di soffocare
non appena vidi le porte chiudersi, era come se l’aria in
quel luogo si fosse
prosciugata e lui avesse una sorta di predisposizione a sopravvivere in
quelle
ardue condizioni. Ma fu ancora peggio quando azzardò di
nuovo a chiedermi, in
un tono meno grave: “Studi arte? Perché alla
Sapienza non vi sono corsi di
laurea del genere.”
Stranamente
ripresi a respirare
e cacciai con un istinto quasi schizofrenico il tablet in borsa quando
vidi che
continuava ad indicare in modo insistente la cover. Mi girai con tutta
l’eleganza di cui disponevo al momento, nonostante
l’irritazione che mi
assaliva, e lo fissai tra l’incuriosita e la scioccata.
“Chi
ti dice che studio alla
Sapienza?” chiesi mal celando un po’
d’astio.
Lui sorrise
beffardo non
facendosi ingannare dal mio tono di voce e incrociando le braccia al
petto
replicò: “La domanda era un’altra. In
ogni caso, per assicurarti che non sono
uno stalker, oggi ero in università e ti ho visto presiedere
ad una conferenza
di economia passeggiando per i corridoi.”
Mi aveva vista,
tanto valeva
dirgli subito la verità piuttosto che rigirarci intorno,
magari avrei ricevuto
qualche informazione utile su di lui. “Sto conseguendo il
master in Tecnologie
e gestione dell'innovazione nell’Ateneo, per
l’appunto. La cover è solo
l’espressione della mia sensibilità verso le cose
degne di ammirazione
estetica.” aggiunsi precisando.
“Parli
più come una legale e non
come chi cerca di conciliare il commercio e lo sviluppo
tecnologico.” avanzò
leggermente deluso portandosi a sedere composto con i gomiti poggiati
sulle
ginocchia ed osservandomi fisso negli occhi “Comunque,
soddisfo la tua
curiosità repressa dal tuo orgoglio e ti informo che non
sono uno studente
della Sapienza bensì della NABA milanese.”
Ed ecco svelato
il mistero per
il quale il mio insolito interlocutore era tanto interessato alla mia
cover. Si
dice che le persone cerchino sempre i propri simili e pensando che io
avessi
quella stessa propensione all’arte che deve avere uno
studente della Nuova
Accademia delle Belle Arti di Milano aveva così attaccato
bottone. Ma a
pensarci bene, che ci faceva alla Sapienza di Roma? Esclusi il fatto
che fosse
romano, il suo accento era prettamente calabrese nonostante qualche
interferenza sonora dell’idioma lombardo.
“E la
Sapienza a quale onore
doveva la tua presenza? Vorresti iscriverti lì?”
chiesi minando la
conversazione con frecciatine tra le righe nella speranza che si
allontanasse
da me poiché avevo ancora timore di lui, o comunque mi
dicesse qualcosa con cui
potermi tranquillizzare. In realtà non capivo il reale
motivo perché io
diffidassi inconsciamente di lui, ma ero sempre e comunque in allerta.
“Assolutamente
no! Il futuro e
grandioso chirurgo che sarà mio fratello mi ha ordinato di
portagli la pennetta
USB lasciata a Catanzaro, sapendo che sto salendo nuovamente a
Milano.”
confessò scimmiottando il fratello e la sua scelta di vita
“E perché un’economa
calabrese avrebbe scelto proprio quell’Ateneo?”
Mi sorpresi del
fatto che
riconobbe la mia origine così facilmente, d’altra
parte era improbabile che
fosse diversamente. Risposi arrossendo leggermente: “In
realtà è stato un
suggerimento del mio relatore di tesi, inoltre ho sempre desiderato
visitare la
capitale.” Il tutto risultò più una
confessione che una risposta vera e
propria, ma sorvolando il silenzio che stava per calare chiesi
imbarazzata: “Si
sente tanto la mia cadenza?”
“In
realtà no, si nota appena.”
sorrise con una luce vivace negli occhi scuri “Probabilmente
il fatto che hai
frequentato l’università al nord ti ha cambiato la
pronuncia.”
“Invece
supponi male. Mi sono
laureata alla Magna Graecia di Catanzaro, ma in contemporanea ho
frequentato un
corso di dizione. Odiavo il fatto che la mia cadenza mi oscurasse
alcune locuzioni
della lingua italiana. Ora mi diverto a parlare nel mio dialetto a casa
con
amici e parenti e gestisco meglio anche l’esposizione orale
agli esami.” dissi
rendendomi conto solo dopo di essermi rilassata e girata a mezzo busto
verso di
lui reclinando il capo sulla parete. Il tutto sorridendo come
un’ebete che si
era presa una piccola rivincita.
“Perché
non l’unical?” mi chiese
sorpreso.
Per me era una
cosa ovvia, ma
risposi ugualmente. “Per più di un motivo. Come
città distrae lo studente poco avvezzo
allo studio, soprattutto nel primo anno, nonostante dia
un’ottima preparazione
nelle materie ingegneristiche. Avrei inoltre speso soldi inutilmente:
l’Ateneo
in questione si trova troppo vicino per prendere una casa in affitto e
troppo
lontano per permettermi quattro ore di viaggio ogni giorno, andata e
ritorno, a
mio parere. E tanti altri piccoli aspetti che insieme fanno
tanto.”
“Sembri
una che pianifica tutto
nei minimi dettagli.”
“Sembri
uno bravo a estrapolare
informazioni dagli altri.” replicai subito
d’impulso constatando che non faceva
altro che ascoltare senza esporsi troppo.
Un
“Perspicace” risultò ovvia
come sua risposta, ma non mi scomposi. Anzi mi alzai e mi sedetti dove
prima
c’era stato lui, spaparanzandomi a mia volta con grande
menefreghismo e
poggiando i piedi sul sedile difronte, quello su cui ero seduta io. Non
sembrava affatto risentito, piuttosto l’avrei definito
sorpreso e divertito,
infatti mi imitò e mise a sua volta i piedi sul sedile
accanto al mio.
“Quindi
sei qui per fare lo
schiavetto a tuo fratello?” spiccai un po’ acida
con l’intento di scalfire
quella sua apparente difesa perfetta di superbia che ora si notava
meglio nel
suo sorriso beffardo. Ricevetti in cambio solo un altro sorriso
più euforico
che possedeva qualcosa di malevolo nel celare malamente quei perfetti
canini
bianchi.
E quando pensavo
che non mi
avrebbe più risposto cominciò a giocherellare con
l’orlo dei miei pantaloni in
maglina color tortora, stentai a star ferma sul sedile. Il contatto con
la mia pelle
nuda era freddo ma piacevole, evidentemente era esperto nel tastare i
punti
giusti, tant’è vero che non mi accorsi che
l’interezza delle dita della sua
mano destra avevano completamente avvolto la mia caviglia e aveva
tentato di
sfilarmi la francesina blu. Eppure era difficile farmi fessa: sfilai il
piede
dalle sue dita e velocemente gli bloccai il polso con il tacco
sulla
seduta del sedile blu.
“Sei
banale nelle domande e non
sai stuzzicare verbalmente il tuo interlocutore, ma non sei niente
male…
addosso. Anzi se ti togliessi qualcosa saresti ancora più
interessante.” tentò
di essere sensuale e accattivante ma risultò solo volgare
risalendo con l’altra
mano tra le mie cosce.
Stavolta risi io
beffarda, anche
perché si era rivelato per il Don Giovanni spudorato che
era, mentre in modo
fulmineo gli tiravo un calcio dritto sulla mascella con il tacco
sinistro. Lui
si ritrasse immediatamente portandosi le mani alla faccia dolorante, ma
poiché
avevo paura di una suo contrattacco mi fiondai in piedi davanti a lui
sperando
realmente che l’attacco fosse la miglior difesa.
“Sbagli
di grosso a pensare che
io sia una povera indifesa.” gli ringhiai altera bloccandolo
con un ginocchio
tra le sue gambe sull’ormai calda plastica blu.
“L’ho
constatato” biascicò a
causa del dolore, una volta ristabilizzatosi e ripreso dalla botta. Mi
fissò truce
con uno sguardo che non sapevo ben decifrare se fosse omicida o voleva
più
semplicemente scoparmi lì seduta stante, come se la mia
reazione lo avesse
ancora più eccitato o comunque indotto a sentire pulsioni
primitive verso di
me. Invece si addolcì improvvisamente afferrandomi
velocemente le mani e
traendomi a sé in modo stranamente protettivo e delicato,
facendomi poi sedere
sulle sue ginocchia. Rimasi pietrificata in primis ma poi mi
rassicurai, forse
troppo ingenuamente, alle sue parole.
“Mi
hanno respinto, è vero, ma
mai nessuna si era permessa di toccarmi… così.
Per questo non farò nulla di cui
potrei pentirmene. E tranquilla ti tengo ferma le mani solo
perché ci tengo ai
miei connotati e non vorrei che finissi per cambiarmeli.”
La mia risposta
fu più simile ad
uno sbuffo che ad un riso ironico, ma dopo tutto compresi che quello
era il suo
modo migliore per scusarsi e ringraziarmi per non avergli fatto ancora
male.
Così decisi io di scusarmi per avergli procurato quel livido
che già stava
spuntando tra la leggera barba incolta e tentai di alzarmi, ma le sue
mani e le
sue braccia mi tennero ferma dov’ero.
“Non
andartene. Mi piace il tuo
profumo ed anche le tue misure.” finì sorridendo e
ammiccando giocosamente,
riscuotendo solo disapprovazione da me, ma dovetti ammette che anche
lui aveva
un odore irresistibile. Stringendomi ancora a sé sentii la
morbidezza della sua
peluria giovanile sulla mascella e l’inebriante e persistente
profumo di
cannella e caffè; i muscoli ben definiti ma non da
culturista facevano di lui
un perfetto salvatore se si fosse presentata l’occasione e
quegli occhi, quei
stramaledetti occhi che tendevano al nero pece sapevano di casa e di
ricordi
che tendevano a riaffiorare pungenti.
“Anche
tu devi essere delizioso,
non ho dubbi.” finsi di beffarmi di lui, giusto per
alleggerire la tensione che
stava quasi svanendo, ma in realtà avevo dato voce ai miei
pensieri. Inoltre lui
si sentì forse anche autorizzato a guardarmi con quello
sguardo da cagnolino
che gli uomini assumono quando si perde la testa per il gentil sesso,
ma non
credetti proprio che si trattasse di quello.
In ogni caso,
riuscii a
sgattaiolare fuori dalle sue grinfie e a risedermi come ero prima,
rimisi
tranquillamente le gambe sul sedili di fronte e mi sistemai in
panciolle come
meglio potevo vista la durezza della plastica. Lui invece continuava a
fissarmi
curioso, come se ci fosse qualcosa che volesse chiedermi ma che non
aveva il
coraggio di fare, come se stesse cercando di scrutare qualcosa al di
là di
quella che apparivo all’esterno.
“Che
c’è?” sbottai non potendo
più sostenere il suo sguardo indagatore su di me.
“Non
ti si addice.” rispose
semplicemente con la più inimmaginabile
tranquillità.
Sapevo bene che
si riferiva sia
al mio modo di sistemarmi sul sedile che al modo rude di approcciarmi.
Ciò non
m’irritò, dopo tutto era vero, forse mi punse,
eppure non mi era mai importato
di ciò che pensava la gente sul mio conto. Stetti in
silenzio per un po’, senza
nessun apparente motivo, perché non sapevo se avrebbe
continuato a parlare, se
avrei dovuto rispondergli e soprattutto cosa e come rispondergli. In
sostanza e
soprattutto in apparenza era vero che non ero la solita ragazzina che
si faceva
beffa delle regole etiche della società ed alzava anche i
piedi sulle sedute,
ma non ero neanche quella precisina che sclerava se il suo outfit da
signora in
carriera non era perfettamente curato nei minimi dettagli per
dimostrare a chi
le stava davanti che lei era quello che era e nessuno poteva
contestarla.
Insomma, io potevo essere definita quella ragazza insolita
perché non si
amalgamava mai con un genere ben definito di persona poiché
oscillava, a
seconda delle giornate, tra più modi di essere, nonostante
facesse
completamente suo quello stile sempre diverso ogni giorno. Ebbene
sì, ero
influenzata dal tempo! Mi piaceva vivere alla giornata e decidere sul
momento
cosa ne sarebbe stato della mia vita. Ma questo lui non
l’avrebbe mai capito,
neanche in trent’anni…
“Non
sai nulla di me. Come fai a
dare giudizi?!” controbattei un po’ acida
corrucciando la fronte.
“È
molto semplice! Hai una
dialettica che invidio nonostante, ogni tanto, esca fuori la tua anima
ribelle.
Possiedi un eleganza, anche nello sguardo, che fa rabbrividire e al
contempo
stesso eccita e attira. Sai come mostrarti senza essere volgare e non
so se è
una tua tecnica ma sei di quella giusta ingenuità che induce
l’altro ad
avvicinarsi e ad aiutarti. Attiri davvero gli uomini in trappola,
persino io
poco fa credevo che non fossi capace di stuzzicare ed invece mi hai
volutamente
sfidare per avere una reazione da me. Poi osservandoti meglio, sei
effettivamente una donna di successo e non è possibile che
tu sia solo una specializzanda,
ma al contempo ti lasci trascinare dai tuoi stessi gesti da ormai
vecchia
teenager svampita e menefreghista.”
Cazzola! In
neanche mezz’ora
aveva capito tutto di me. Non potevo negare che il mio carattere
tendeva alla
sindrome di Piter Pan e si notava tranquillamente a miglia di distanza
ma come
avesse fatto a decriptarmi in così poco tempo resta ancora
un mistero per me.
Io che erroneamente tendo a sentirmi superiore agli altri, non
perché credo che
lo sia davvero bensì perché lo uso un
po’ come contrattacco alle avversità, non
avrei mai pensato di trovarmi di fronte un tipo del genere, in grado di
non
farmi ragionare in modo lucido sulla mia prossima mossa e depistandomi
su
quelli che, da lunghi minuti, credevo fossero indizi giusti per
comprendere chi
lui era. Ed invece era stato proprio lui a fregarmi e a vincermi sul
mio stesso
gioco nel minor tempo che mai nessuno avrebbe potuto fare.
Nonostante
ciò, la mia mente e
la mi memoria fremevano incessantemente per farmi riaffiorare un
determinato
ricordo dei tempi delle medie, come se in quel preciso momento mi
servisse e
fosse essenziale perché io potessi venire a capo del
dilemma. Peccato che il
mio cervello non connetteva poiché mi ritrovai il ragazzo a
pochissimo
centimetri di distanza da me intento a sovrastarmi su quegli stessi
sedili.
D’istinto
gli tirai un calcio
nel costato pregando di non avergli fatto troppo male, in fondo mi era
quasi
simpatico. Quasi. O meglio, mi incuriosiva la sua mente e non volevo
per niente
al mondo perdermi l’occasione di studiarla, anche
perché a quanto avevo capito
di lì a poco sarebbe tornato in quel di Milano e mi sarebbe
stato difficile
adempiere al mio intento. Lui si accasciò tenendosi la
pancia con entrambe le
mani e piegandosi sui sedili di fronte, ma ebbe comunque la forza di
avvisarmi
in tempo con un gesto della mano che sulla mia borsa si era poggiato un
enorme
ragno amaranto con venature grigie. Mi maledissi mentalmente
poiché capii che
voleva solo salvarmi da quella creatura velenosa e scattai indietro per
evitare
che mi saltasse addosso. Cercai il modo migliore di agire e non so come
ma con il
tacco feci cadere il ragno grande quanto un pugno a terra che subito
corse
verso il mio compagno di viaggio. Mi presi di panico non volendo che
gli
facesse ulteriori danni di quanto io non ebbi già fatto ed
afferrai
febbricitante il mio pesante blocco notes e glielo scaraventai addosso
con tutta
la violenza che potei. Lo beccai al primo colpo, povero ragno, ma il
ragazzo
ora era per così dire salvo.
“Scusami
davvero. Non era mia
intenzione farti del male, mi ero solo spaventata.” tentai
malamente di
rimediare al danno ormai commesso aiutando anche a far rialzare il
ragazzo che
come una saetta mi avvolse tra le sue braccia e mi spinse verso la
parete del
silenzioso vagone.
Con una luce che
indicava
un’immensa voglia di possedere mi disse: “Questo
almeno me lo devi.” e puntò
sulle mie labbra senza pensarci due volte.
Mi dispiaceva
davvero ma non lo
avrei baciato. Volsi il capo di lato e me lo scollai di dosso senza
remore. In
silenzio mi risedetti al mio posto e stranamente lui non
replicò imitandomi.
La linea dura di
chi ha perso
un’importante match era disegnata sul suo viso contrito ed io
mi sentivo
leggermente in colpa. Non sapevo che fare ed il silenzio stava per
consolidare
con noi un legame troppo forte che non avrei mai voluto,
così per distrarmi
cercai nella mia borsa proprio il blocco notes che poco prima avevo
scaraventato a terra ma di cui non ricordavo il gesto per qualche
motivo e
diventai quasi isterica tirando tutto fuori non trovandolo. Lui invece
dal
canto suo rise di gusto come un idiota e fu lì che il
ricordo riaffiorò.
Due ragazzini
nell’ora di
italiano che annoiati dalla lezione di una megera giocavano a tris
nonostante
le occhiatacce dell’insegnante poiché il ragazzo
non era al suo posto bensì
stava facendo compagnia a quella singolare ma ecclettica ragazzina di
cui era follemente
e segretamente innamorato. Destino voleva che la ragazzina, troppo
giovane per
essere giudiziosa, non voleva legarsi a nessuno così proprio
in quell’ora nel
momento di più assoluto caos degli alunni indisciplinati
quando il ragazzo
finalmente si dichiarò, lei rispose semplicemente che voleva
stare da sola. Nel
corso degli anni si pentì di quella scelta ed il ricordo di
lui, che in realtà
alla ragazza interessava come più che semplice amico,
purtroppo svanì lasciando
un enorme e significativo vuoto in lei.
Sbiancai e
rabbrividii capendo
perché quella persona tanto attraente per il genere
femminile mi affascinava.
Me, che non mi soffermavo mai alle apparenze e che ero diventata
più giudiziosa
di quello che doveva essere una ragazza della mia età. Persi
un battito mentre
mi sorrideva, subito dopo aver raccolto da terra l’oggetto
della mia inutile
ricerca, e si beffava di me rievocandomi alla mente ogni piccolo
momento e ogni
piccola sensazione passata insieme a lui. Volevo solo scappare da
lì. Pensavo fosse
ormai una sezione ormai relegata del mio passato.
“Secondo
me, dimenticheresti
anche la testa se non fosse attaccata al tuo collo.”
continuò a ridere di gusto
tenendo la risma di fogli rilegati con un laccio grigio tra le dita. Me
lo
stava per ridare in dietro quando un bagliore fulmineo passò
dai suoi occhi e
gli intravidi malizia pura. Rise beffardo e ritirò indietro
la mano, tentai
ovviamente di essere più veloce avendo compreso le sue
intenzioni e
strapparglielo via, purtroppo era più agile di me. Mi
bloccò con un ginocchio,
come se ora dovessi essere io a prenderle di santa ragione e mi
impedì anche
solo di sfiorarlo. Si sporse in avanti sfidandomi e tirando in dietro
il blocco
notes affinché io non potessi toccarlo, guardandomi con aria
di sfida.
“Ora
mi diverto!” disse ridendo.
“Non
oserai” sibilai in risposta
stringendo a fessure gli occhi.
“Oh
sì invece! Credi di potermi
fermare? Ho già aperto una pagina.” mi
avvisò mostrandomi il pollice tra due
fogli.
Rabbrividii al
pensiero che potesse
capitare proprio lui su alcune pagine di quel che era un raccoglitore
di
ricordi. Saltò indietro sulla seduta e perse quasi
l’equilibrio sbilanciandosi
per via del tram ancora in corsa, ma non fu sufficiente a destarlo dal
suo
intento; infatti si aggrappò al palo più vicino e
ruotando intorno ad esso si
catapultò dall’altra parte del vagone. E come lo
prendevo adesso? Non dovevo
assolutamente fargli vedere il contenuto, era un oggetto privato.
Così lo
rincorsi e tentai di arrivare a prendere il plico, peccato che lui era
più alto
di me e nel tendermi verso la sua mano alzata i nostri corpi cozzarono.
A quel
contatto massiccio e possente retrocedetti all’istante per
tentare una via più
fattibile. Salii sulla seduta vicina e mi diedi la spinta per arrivare
al libro
senza toccare nient’altro di lui, anni e anni di ginnastica
artistica dovevano
pur servire a qualcosa, ma ancora una volta lui fu più
svelto di me e si
ritrasse in tempo. Allora adirata mi catapultai verso di lui che si
trovava già
dalla parte opposta del vagone e come una bambina piagnucolante tentavo
di
afferrare l’oggetto conteso.
“Un
diario segreto forse?
Confessioni piccanti o scomode? O dichiarazioni
d’amore?” mi scherniva tenendo
il plico in alto, lontano da me, e sorridendomi beffardo e alla fine,
con
entrambe le braccia in alto, riuscì ad aprirlo proprio sotto
i miei occhi che
tendevano all’insù.
In un primo
istante il silenzio
calò, potei vedere il suo volto mutare da
un’espressione galvanizzata ad una sorpresa
per poi essere meravigliosamente e seriamente interessata a
ciò che vedeva. Le
sue labbra carnose si schiusero in tono con i suoi occhi esterrefatti
che
osservavano rapiti quei fogli interamente bianchi vergati di bozze di
disegni
architettonici e non. La pagina che riuscì ad aprire
però raffigurava un
ragazzo col capo chino intento a scrivere su di un foglio una lista non
significante.
“È
meglio di ogni cosa che
potessi mai immaginare.” gli sfuggì ancora con le
braccia tese “Sai anche
dipingere per caso?” chiese tranquillo sedendosi e sfogliando
l’album ormai
scoperto.
Tentai ancora
un’ultima volta di
recuperarlo ma lui mi schivo di nuovo e mi arresi definitivamente.
Sbuffai
ormai stanca e mi sedetti di fronte osservandolo fogliare con
attenzione
maniacale le pagine bianche che per me erano solo scarabocchiate in
chiaro
scuro, ma lui evidentemente ci trovava molto più se si era
preso la briga di
stare in silenzio ad esaminare l’intero album.
“Ci
provo alle volte…” risposi
molto atona, senza più alcuna preoccupazione e sentimento
verso le sue azioni.
Aspettavo solo il momento in cui il tram fosse arrivato alla mia
fermata e
avrei potuto scendere tornando a casa.
Non negavo alla
mia coscienza
che mi faceva un qualche effetto stare lì con lui, dopo
tutto era uno dei miei
primi amori, se non il primo vero in assoluto. Ricordai anche episodi
successivi, quando ci incontravamo per i corridoi
dell’istituto
multi-disciplinare − io facevo
l’indirizzo economico/management e lui il
grafico – e mi evitava come la peste proprio per orgoglio
passato
imbarazzandomi come non mai. In cuor mio non sapevo come avessi fatto a
dimenticarlo eppure il mio subconscio, forse per autodifesa o per
importanza
reale, lo aveva cancellato letteralmente via; infatti non pensai mai
più a lui
dopo l’ultimo nostro avvistamento se non da diedi minuti a
quella parte. Il
pensiero di lui che di lì a poco mi avrebbe di nuovo
schernito riconoscendomi
era l’unica cosa che mi teneva ancora sull’attenti.
Improvvisamente
chiuse il libro
e me lo porse senza espressione in viso, o meglio sembrava che mi
scrutasse,
che cercasse qualcosa di più in me ma che non avrebbe mai
trovato. Riposi il
blocco notes nella mia borsa e mi sistemai meglio sulla seduta
accavallando le
gambe, sicuramente più rilassata di prima, presi un respiro
e voltai la testa
evitandolo come all’inizio della corsa, senza motivo
apparente, tentando ancora
di evitarlo. Anche se questa volta era differente: ora sapeva tante
cose di me
anche se non ricordava chi ero e quale ruolo avevo nelle nostre vite,
poteva
anche smettere di osservarmi e cercare di carpire
qualcos’altro di me. Ma come
al solito su di lui mi sbagliavo sempre su quale fosse stata la sua
prossima
mossa.
Mi osservava
insistentemente, lo
percepivo anche se ero voltata, e ciò mi arrossiva
irrazionalmente in modo
sempre maggiore. Non sapevo cosa fare o cosa realmente volevo fare
poiché era
capace, come in passato anche allora, di mandare il mio cervello in
tilt
catastrofico. Sapevo solo che di lì a poco sarei stata di
sicuro in una
posizione scomoda da affrontare.
“Il
tuo modo di osservare, il
tuo modo di inquadrare le cose che poi imprimi su carta, il tuo modo di
approcciarti, la tua finta arroganza, la tua infinita
sensibilità per le cose
degne di attenzione, il tuo modo di colorare in modo essenziale il
mondo che ti
circonda e il tuo fuggire da questo stesso mondo, mi ricorda in modo
così
aggressivo una persona che pensavo di aver lasciato indietro nella mia
vita. Ma
evidentemente mi ero sbagliato. Eppure oggi non capisco come persone
identiche
a te possano riuscire singolarmente ed eccellentemente a risplendere in
un
mondo di malati.”
Le sue parole mi
spiazzarono.
Che era possibile avermi riconosciuta? Sperai proprio di no, sarebbe
stato
scomodo e inopportuno in quel momento. Mi voltai e lo fissai impaurita
negli
occhi, così scuri e profondi. Avevo sempre avuto paura di
sprofondarci dentro e
che lui se ne fosse accorto deridendomi. Ma in un momento di
lucidità mi
accorsi di essere in un brutto scherzo della vita. Io ero lì
ed anche lui, ma
fino ad allora non avevo ragionato per niente sulle nostre vite.
Insomma le cose
si erano capovolte senza accorgermene, non solo per noi due ma per
tutti coloro
che in passato mi mettevano soggezione. Nella vita eravamo cambiati,
ognuno
aveva preso le sue strade e aveva fatto le sue scelte. Ognuno di noi
era
diventato qualcuno ed io in passato avrei pensato di non poter arrivare
da
nessuna parte ed invece era successo esattamente il contrario.
Ora io non
potevo effettivamente
sapere come si sarebbero ancora evolute le cose, ma lì li
vedevo chiaramente
tutti seduti in quel vagone, tutte quelle persone che mi facevo sentire
in un
certo qual senso inferiore, tutti ad osservarmi muti e in silenzio
perché non
capivano come io avessi fatto ed in realtà era un mistero
anche per me. Eppure
ancora nessuno di loro era diventato qualcuno, nessuno aveva finito gli
studi,
io stavo già facendo una magistrale dopo una laurea a pieni
voti in tempo
record, nessuno aveva trovato casa, io avevo casa ed un lavoro in una
delle
università più prestigiose d’Italia a
soli ventidue anni con un appartamento condiviso
ma di tutto rispetto, loro ancora cercavano la propria strada da
percorrere, io
in pochi anni la mia strada me l’ero costruita.
Scoppiai a
ridergli in faccia
percependo ogni persona scomparire per il senso di fallimento che li
assorbiva
in fretta. Lui mi guardò allucinato con un punto di domanda
spiaccicato in
faccia pensando che fossi davvero impazzita.
“Da
dove ti esce fuori questa
perla filosofica ora?” gli chiesi calmandomi e diventando ad
un tratto così
seria da farlo spaventare.
“Ma
cos…” balbettò non capendo
cosa intendessi.
Così
mi avvicinai a lui e molto
provocante mi sedetti sulle sue gambe, aprendo le mie e facendo fiorare
i
nostri nasi, nonostante non sentissi nulla di ciò che doveva
essere attrattivo
in quella situazione. Lui al contrario sentendosi autorizzato mise le
mani sui
miei glutei per reggermi e sentì un po’ amaramente
il tram che rallentava la
sua corsa.
“Cosa
pensi delle opportunità
perse? Nessuno può poi migliorare la sua vita ed essere
migliore di come si era
previsto?” gli chiesi seria turbandolo gravemente e sentendo
la sua presa
allentare.
Solo dopo
qualche attimo di
tentennamento mi rispose, non tanto sicuro di ciò che stava
per dire. “Le
occasioni perse sono perse e non si può più
tornare indietro. È ovvio che la vita
sia migliore avendo fatto subito delle ottime scelte. Sì, si
può migliorare
dopo che si raddrizza il tiro ma non di tanto.”
Mi scostai
subito dopo la sua
risposta e mi rimisi in piedi afferrando le mie cose, avendo sentito il
mezzo
arrestarsi, ed una volta in piedi, uno di fronte l’altro, gli
sorrisi
tranquilla.
“Sei
acerbo! È per questo che
non riesci a vedere realmente come sono. E pensare che fino a poco fa
ridevi
sotto i baffi e ti prendevi gioco di me perché ti credevi
superiore, ma guarda
meglio chi ti sta davanti, soprattutto delle scelte che quella persona
ha fatto
e ti sentirai in realtà un deficiente. È vero che
le occasioni una volta
passate sono perse, ma una persona determinata e con un preciso
obbiettivo in
testa può capovolgere la sua vita da un momento
all’altro.” finii lasciandolo
interdetto e varcai la porta del tram scendendo come un felino dal
mezzo,
seguita da lui come se fosse un cagnolino.
“Ma
che hai in testa?” mi chiese
non comprendendo davvero a cosa mi riferissi, ma subito dopo gli si
accese una
lampadina in quell’angolo buio di materia grigia e mi porse
l’unica domanda che
realmente valesse la pena fare: “Chi diamine sei?”
“Come?
Non sei tu che carpisci
ogni cosa delle persone che ti stanno davanti? Eppure dovresti sapere
alla
perfezione chi io sia!” lo schernii. Lui
rabbrividì e intuii che qualcosa si
era spezzato e non era più lo stesso.
Il tram
ripartì veloce e
sfrecciò nell’aria come una freccia scoccata con
tutta la tensione nel braccio
che un arciere affamato possa avere in una magra caccia, allo stesso
modo lui
scattò in avanti scampando allo schizzo della rotaia contro
la pozzanghera a
terra e mi si avvicinò ancora confuso. Allora tirai fuori
dallo scompartimento
ripiegato sul fondo del blocco notes uno dei disegni che non vedevano
la luce
da anni ormai. Ritraeva una mano ben delineata che a sua volta scriveva
su di
un foglio con una calligrafia invidiabile un preciso nome, una firma,
Andrea.
Glielo porsi
dicendogli: “Le
cose si sono capovolte, Andrea.” mi voltai e girai
l’angolo sentendomi
osservata.
Me lo immaginavo che
esaminava
il foglio in tutte le sue sfaccettature, analizzandolo e chiedendosi
perché lo
conoscessi e perché io avevo una cosa così
identificativa per lui. Solo alla
fine avrebbe notato la firma alla base del foglio, infatti sentii i
suoi passi
veloci dietro di me, una voce affannata che gridava il mio nome:
“Taira”