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Autore: BekySmile97    29/06/2018    2 recensioni
Xaetsos rimase in silenzio, pensando a sua madre, ai suoi piccoli fratelli e sorelle senza colpa, ai vecchi che l’avevano accolto sotto la loro protezione quando tutta l’oasi sembrava volerlo morto... Gli spuntò sulle labbra un sorriso ironico, pensando a quante risate si fossero fatti gli Dei nel vedere che era stato lui, l’ibrido, l’unico a sopravvivere.
“Dove stavi andando?” gli chiese l’uomo, asciugandosi una lacrima che era scivolata lungo il suo volto nero.
“Lumien.”
L’uomo sospirò, grattandosi la testa pelata. “Io non sono diretto lì, però.”
“Non ho intenzione di seguirti.”
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Storie da Hydus '
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 Colosso 
 
Sabbia.
Sottile, calda, dorata.
Infida.
Scivolava negli occhi e bruciava i polmoni, abbracciando quei poveri sprovveduti che avevano osato addentrarsi da soli nel deserto e accogliendoli sotto di sé; non sarebbero bastati a proteggerli né i lunghi e pesanti caffetani scuri, né lo spesso strato di veli posto su ogni singola bocca riarsa, piegata dal desiderio di bere. La sabbia era imparziale e disposta ad accogliere chiunque si fosse mostrato impavido davanti a lei: mercanti, straccioni, mercenari, nobili… amava tutti indistintamente.
E Xaetsos ricambiava il suo amore in modo incondizionato.
In realtà, quando ancora camminava per le strade polverose dell’oasi, cercando di nascondersi dagli sguardi accusatori e schifati che gli rivolgevano gli altri, facendosi il più piccolo possibile, l’aveva odiata.
Non aveva fatto niente quando era stato assalito da un gruppo di uomini, che gli avevano sfregiato il volto con i loro pugnali ricurvi, così da mostrare a tutti quanti chi fosse in realtà quel ragazzino alto e muscoloso, dalla pelle scura e lucida come i chicchi di caffè che le carovane di passaggio continuavano a portare verso il nord della regione. Aveva passato i giorni successivi a piangere lacrime calde e amare, mentre le ferite faticavano a guarire, morse dalla sabbia che s’infilava ovunque.
Non l’aveva aiutato in quei momenti in cui il padre, ubriaco d’odio, entrava nella sua tenda per riempirlo di calci e di percosse, lasciandolo buttato a terra come uno straccio, pieno di lividi e tagli che bruciavano a contatto con la sabbia rovente. Non gli aveva dato alcuna pace nemmeno quando veniva costretto a digiunare per giorni, con davanti a sé solo una brocca d’acqua sporca e calda.
“Gli esseri umani odiano gli ibridi.”
Quelle sei parole erano diventate la sua ossessione, la spiegazione per ogni dolore a cui veniva ripetutamente sottoposto. Gli altri lo odiavano per la sua natura, e lui non poteva far altro che chinare la testa e ingoiare tutte quelle lacrime che sentiva pronte a cadere, ferme dietro le sue ciglia, troppo preziose per essere regalate alla sabbia.
A quella maledetta sabbia.
Il Nord, in quei giorni, gli era sembrato un paradiso. Il suo cuore voleva l’Oltre, quell’insieme di regni sconosciuti su cui giravano infinite storie di cavalieri, gelidi inverni e mostri, ma sapeva che sarebbe stata un’impresa al di fuori delle sue capacità già solo raggiungere Lumien, la città nascosta dal deserto. Eppure ci aveva provato lo stesso, spinto dal desiderio di scappare da quel mondo che lo tollerava solo perché era il bastardo del suo signore e sovrano.
“Andartene? E dove? Nessuna carovana accetterebbe tra le sue fila un mostro del genere” aveva affermato il padre quando Xaetsos, con voce sottile, gli aveva chiesto di poter abbandonare l’oasi.
“Ricordati sempre che noi umani non vogliamo aver niente a che fare con voi sporchi ibridi. Se non fosse per l’amore che provo per tua madre, ti avrei già cacciato” aveva aggiunto nel momento in cui il ragazzo aveva provato ad aprire bocca per replicare, sputandogli in faccia e tornando nella tenda in cui viveva con il resto della famiglia.
Sua madre…
Anche Xaetsos l’aveva amata, in un modo incondizionato e puro.
“Tuo padre… il tuo vero padre…” gli raccontava ogni volta che entrava nella sua tenda, pronta a medicarlo e a riempirlo di carezze e baci, per salvarlo dalla crudeltà del marito nell’unico modo che conosceva. “Lui… sarei dovuta scappare via con lui. Non credo mi abbia mai amata, visto che ero il suo trofeo nascosto, la bellezza del deserto che era riuscito a conquistare, la ragazza promessa che aveva violato… ma avrebbe amato te.”
A questo punto, Xaetsos faceva sempre una smorfia, muovendo con la bocca anche la rete di cicatrici che costellava il suo volto. “Lui non ti amava, ma tu ami lui. Non riuscirò mai a capire questa cosa.”
“È normale, mio colosso, è normale.”
Colosso, lo chiamava. Quel figlio diventato adulto troppo in fretta, ricordo di uno sbaglio dolcissimo e di una vita che avrebbe amato.
“E anche lei è morta” pensò, lasciando che il suo sguardo vagasse sulle dune dorate, riarse dalla calura, su cui camminava da giorni. Solo.
“Solo io sono rimasto… solo io…”
Xaetsos alzò lo sguardo verso il sole, ormai allo zenit, chiedendosi ancora una volta perché lui solo si era salvato. Perché la sabbia l’aveva graziato? Perché gli aveva donato la possibilità di continuare la sua vita, al contrario di tutti quegli uomini e donne che vivevano nell’oasi? Forse era stato solo uno scherzo crudele voluto dagli Dei, annoiati dallo scorrere lento e ripetitivo della vita di quei piccoli esseri umani.
“Solo io… solo io…”
In quei giorni aveva silenziosamente ringraziato il padre per le lunghe punizioni in cui gli aveva impedito di mangiare e di bere. L’avevano involontariamente fortificato, facendogli sperare di riuscire a raggiungere Lumien con le sue sole forze e una borraccia di acqua sporca, l’unica cosa che era riuscito a ritrovare tra i cumuli di sabbia assieme a qualche telo per costruirsi un riparo durante la notte; anche i profili delle montagne, rimasti sempre alla sua destra, gli avevano dato speranza, guidandolo verso il Nord, verso la salvezza.
“Solo io… solo…”
Ma in quel momento, mentre tentava di scalare l’ennesima duna modellata dal vento, con la sabbia che gli scivolava tra le dita e lo riportava sempre in basso, si rendeva conto di essere stato troppo ottimista. Se la sabbia l’aveva salvato, il sole non gli avrebbe mai permesso di raggiungere la salvezza. Il caldo gli aveva riarso la bocca e seccato la lingua, facendolo ansimare a ogni più piccolo passo.
“Solo… solo…”
Xaetsos si accasciò a terra, incapace di continuare. Un profondo silenzio accolse la sua caduta.
Lasciò vagare lo sguardo sulla sabbia, respirando affannosamente alla ricerca delle energie necessarie per continuare quel viaggio intrapreso contro la sua volontà. Voleva bere.
“Solo… sol…”
Il pensiero rimase fermo, cristallizzato, quando vide in lontananza una figura rossa, macchia di sangue in mezzo al deserto. Forse era solo un miraggio, segno ormai che la pazzia si era impossessata della sua mente, ma non poteva rimanere lì, fermo, sdraiato sulla sabbia.
In qualche modo riuscì ad alzarsi, la sabbia che gli bruciava i palmi delle mani, e s’incamminò verso la figura, strisciando i piedi e stringendo i denti ogni volta che sentiva la testa farsi più leggera, invitando il corpo a tornare per terra. Non poteva cedere. Quell’uomo in rosso era reale, come gli urlavano i particolari che man mano si mostravano ai suoi occhi: le mani nere come il carbone che spuntavano fuori dalle lunghe maniche rosse del caffetano, i piedi nudi con cui calcava la sabbia, il vistoso turbante dorato con cui copriva tutto il suo volto…
Xaetsos aprì la bocca, tentando invano di urlare, di chiedere aiuto, ma dalla sua gola uscì solo un suolo gutturale, secco e flebile, che quasi non udì lui stesso. Allungò istintivamente la mano destra verso la figura, protendendosi in avanti, ultimo spasmo prima di cadere definitivamente; la sabbia gli entrò nella bocca, riempiendola, e scivolò sotto i suoi abiti, mentre gli occhi annebbiati cercavano disperatamente l’uomo in rosso, ora invisibile a causa delle dune.
“Perché?” penso Xaetsos, la testa leggera e il profondo desiderio di mettersi a dormire. “Perché lotto ancora?”
Lasciò che i suoi occhi si chiudessero con lentezza, beandosi per un’ultima volta di quella sabbia dorata, tanto odiata e tanto amata, che aveva fatto da cornice a tutta la sua vita.
 
~
 
“Visto? Respira ancora.”
Xaetsos aggrottò la fronte, aprendo con delicatezza gli occhi scuri. La prima cosa che vide fu il tessuto marrone, ben tirato e attraverso cui filtravano raggi di luce pomeridiana, che costituiva la tenda in cui si trovava, seguito poi da un paio di lunghi piedi scalzi, neri come il carbone, che procedevano avanti e indietro, comparendo e scomparendo alla sua vista con regolarità.
“Lo so, lo so… dovevo fidarmi subito di voi. Pensavo fosse solo uno dei vostri scherzi bislacchi, ma mi sbagliavo.”
Il ragazzo provò a girarsi supino, ma non fece in tempo neanche a iniziare a torcere il busto che un paio di mani lo afferrarono, portandolo seduto, e gli porsero una borraccia, aiutandolo a bere. Xaetsos non avrebbe mai immaginato che l’acqua potesse essere così buona. Chiuse gli occhi e la lasciò scivolare nella sua gola riarsa come un balsamo, riacquistando pian piano la lucidità perduta.  
“Grazie…” borbottò, la sua voce ancora roca, aprendo gli occhi e portandoli sull’uomo che si era seduto davanti a lui a gambe incrociate. La pelle scurissima, nera come la pece bollente e piena di rughe che s’intrecciavano le une con le altre, contrastava con gli occhi verdi brillanti e la barba bianca, portata corta, che gli contornava il volto allungato; il capo, invece, era lucido come una biglia, senza neanche un capello.
L’altro fece un gesto con la mano, quasi a dire che non aveva fatto nulla di che, e si rivolse alla sua destra. “Ringrazia me quando dovrebbe ringraziare voi!”
Xaetsos seguì lo sguardo dell’uomo, cercando di capire chi fossero gli altri suoi salvatori, ma incontrò solo l’anonima stoffa della tenda e un cesto di vimini coperto, abbandonato sulla sabbia.
“Ma con…” fece per chiedere, ma l’uomo si portò l’indice alle labbra, intimandogli di fare silenzio, e si alzò, andando a raccogliere la cesta.
“Ragazze mie, non dovreste essere così curiose. Ora vi presento, state tranquille” borbottò, sedendosi di nuovo davanti a lui e aprendo il cesto con misurata lentezza. Una serie di sibili accolse il suo gesto.
“Sibilla, Medusa…” disse, estraendo dalla cesta due serpenti. Xaetsos spalancò gli occhi, indietreggiando e trattenendo il respiro: il più piccolo dei due era nero, sottile, e aveva iniziato a scivolare sul braccio destro dell’uomo, attorcigliandosi sopra; l’altro, più lungo, era rimasto accoccolato tra le sue gambe, un nastro crema dagli intarsi marroni sul carminio della tunica.
L’uomo sorrise, mostrando una fila di denti rossi e affilati. “Vi presento… come hai detto che ti chiami?”
Xaetsos impallidì, iniziando a balbettare. “Io… io mi chiamo…”
“Sibilla e Medusa ti danno dei problemi?” chiese l’altro tagliente, stringendo gli occhi verdi.
“No… è che…” borbottò l’altro, ingoiando aria a pieni polmoni e scuotendo la testa con forza. “Xaetsos… mi chiamo Xaetsos.”
L’altro tornò ad aprirsi in quel sorriso rosso, accarezzando con delicatezza il serpente aggrovigliato sul suo braccio.
“E voi come vi chiamate?” chiese il ragazzo, cercando di non guardare i due rettili. Miei Dei, dov’era finito?
“Dhwos. Ma dammi del tu.”
Xaetsos annuì e buttò una nuova occhiata all’ambiente che lo circondava, alla ricerca di eventuali armi da afferrare per difendersi nel caso in cui quel matto seduto davanti a lui l’avesse attaccato. Oltre alle due stuoie su cui erano seduti, però, pareva non esserci niente, esclusa una lanterna spenta, appoggiata vicino ai lembi che costituivano l’ingresso, da cui filtravano i cocenti raggi del sole pomeridiano.
“Che hai fatto alla faccia?” chiese l’altro, rompendo il silenzio che si era venuto a creare.
Il ragazzo scrollò le spalle, non sapendo bene come rispondere. Voleva solo ringraziarlo e rimettersi in cammino verso Lumien, non fare conversazione.
Dhwos, però, non era dello stesso avviso.
“Ha a che fare con quei capelli?”
Xaetsos si portò involontariamente una mano in testa, afferrando una ciocca rosso scuro e iniziando ad attorcigliarla sulle dita. “Anche.”
“Cosa sei?” insistette l’altro, continuando ad accarezzare le sue beniamine. “Che incrocio?”
“Mia madre era un essere umano” rispose l’altro, proseguendo a tormentare i capelli di un rosso cupo. “Mio padre un cirment.”
L’uomo spalancò gli occhi, iniziando a ridacchiare felice.
“Hai sentito, Sibilla mia?” chiese al serpente nero, avvicinando il suo volto al muso del rettile. “Abbiamo trovato un dominatore del fuoco.”
Il serpente iniziò a sibilare, solleticando con la sua lingua rosata il naso schiacciato dell’interlocutore e facendolo ridere di gusto.
“Su, Medusa!” esclamò, afferrando l’altro rettile e alzandolo in aria. “Mostra un po’ di entusiasmo! Abbiamo trovato un dominatore del fuoco, del fuoco! Ti rendi conto di che regalo ci hanno fatto gli Dei?”
Medusa, indifferente alle parole dell’uomo, scivolò via dalle sue mani, tornando con un tonfo nella sua posizione iniziale.
“Dhwos, credo che tu non abbia capito bene” disse Xaetsos, riportando l’attenzione su di lui. “Sono un ibrido, non un cirment vero e proprio.”
Gli occhi verdi dell’uomo si rabbuiarono. “Non sai controllare il fuoco?”
“No… cioè sì. Circa.”
Dhwos si umettò le labbra, facendogli cenno di andare avanti.
“Non…” Xaetsos sospirò, iniziando a torcersi le mani. “Non so crearlo e posso maneggiarlo solo per pochi attimi, prima di bruciarmi io stesso. L’unica cosa che ho di un cirment sono i capelli e la stazza.”
L’altro rimase in silenzio, squadrando prima Sibilla e poi Medusa. Sembrava impegnato in una conversazione silenziosa con i due rettili, le labbra carnose che facevano per aprirsi e iniziare a parlare prima di richiudersi di scatto, assumendo una piega dura. Alla fine, sospirando, prese i due serpenti e li rimise con delicatezza nella cesta, chiudendola e riportandola al suo posto.
“Devi raccontarmi cosa ti è successo” disse, la voce improvvisamente stanca. “Noi… io, in realtà, avrei bisogno del tuo aiuto. Ma prima devi raccontarmi ogni cosa di te.”
Xaetsos rimase in silenzio, non sapendo bene cosa fare. Fuori, intanto, aveva iniziato a fischiare il vento, facendo sbattere i lembi di tessuto dell’apertura della tenda e infilandosi all’interno, sollevando la sabbia.
L’uomo si alzò di nuovo e andò a serrarli, tornando poi a posizionarsi davanti al ragazzo.
“Sono un bastardo” borbottò Xaetsos, puntando il suo sguardo sui sandali che gli coprivano i piedi. “Mia madre era stata sedotta da un cirment e alla mia nascita non ha avuto cuore di uccidermi. Ha convinto suo marito a tenermi, ma sarebbe stato meglio morire: ero ripetutamente picchiato, punito, perché sono un ibrido. E gli esseri umani odiano gli ibridi.”
“E per quale motivo vagavi da solo in mezzo al deserto?”
Xaetsos alzò i suoi occhi scuri sull’uomo seduto davanti a lui, che lo scrutava preoccupato, una mano a massaggiarsi le tempie.
“Circa dieci giorni fa c’è stata una tempesta” rispose, sentendo ancora sferzare sulla pelle del viso la sabbia. “Sembrava non fosse nulla di terribile, all’inizio. Poi il vento è aumentato sempre di più, e ha sradicato le tende e le palme da dattero della nostra oasi, lasciandoci nudi sotto la sabbia, che continuava ad aumentare, ad aumentare… era ovunque.”
Xaetsos iniziò a disegnare dei cerchi sulla morbida sabbia fresca vicino ai suoi piedi, perso nei ricordi. Com’era diversa da quella che l’aveva quasi ucciso.
“Tre giorni. Tre giorni è durata, con tutti noi piegati vicino al suolo, che tentavamo di coprirci con qualcosa, per poter mangiare o bere quel poco che non era stato sepolto.”
Il ragazzo tornò a guardare Dhwos, le iridi verdi velate da una patina di lacrime.
“Alla fine, l’unico che si è rialzato sono stato io.”
Xaetsos rimase in silenzio, pensando a sua madre, ai suoi piccoli fratelli e sorelle senza colpa, ai vecchi che l’avevano accolto sotto la loro protezione quando tutta l’oasi sembrava volerlo morto... Gli spuntò sulle labbra un sorriso ironico, pensando a quante risate si fossero fatti gli Dei nel vedere che era stato lui, l’ibrido, l’unico a sopravvivere.
“Dove stavi andando?” gli chiese l’uomo, asciugandosi una lacrima che era scivolata lungo il suo volto nero.
“Lumien.”
L’altro aggrottò la fronte, perplesso. “Perché? Le montagne sono molte più vicine: ci sono un sacco di piccoli villaggi o vecchie città in cui ti saresti potuto rifugiare.”
Xaetsos scosse il capo con foga, rimanendo in silenzio. Non poteva andare verso le montagne.
L’uomo sospirò, grattandosi la testa pelata. “Io sono diretto lì, però.”
“Non ho intenzione di seguirti.”
Dhwos lo guardò rimanendo in silenzio, il soffiare del vento come unico rumore che riempiva il vuoto; il giovane, intanto, continuò a giocare con la sabbia, disegnando e cancellando spirali.
“Non vuoi neanche sapere perché ho bisogno del tuo aiuto?”
Xaetsos alzò lo sguardo sull’uomo, facendogli cenno di andare avanti. Anche se non voleva seguirlo, gli doveva dare almeno la possibilità di provare a convincerlo; dopotutto, l’aveva salvato da morte certa.
“La questione è molto semplice…” disse, battendo le mani sulle ginocchia. “Lungo le montagne esiste una città, scavata nella roccia, ormai abbandonata.”
Xaetsos drizzò le orecchie. Era forse…? No, non era possibile.
“Devo entrare in uno di quei palazzi…” continuò l’altro, evasivo. “Il problema sono le arpie che popolano i resti. Sono mostri pericolosi, da cui non sono in grado di difendermi.”
“E allora perché ti sei messo in cammino da solo?” chiese il giovane, squadrandolo perplesso. Più andava avanti con quella conversazione, più si rendeva conto che l’uomo con cui aveva a che fare era stato baciato dalla follia più di una volta.
Dhwos lisciò le pieghe del suo caffettano rosso, piegando le labbra carnose in una smorfia. “Sapevo che avrei incontrato qualcuno. Sibilla e Medusa non ci credevano, ma io ne ero più che certo.”
“Perché?”
L’uomo tornò a guardarlo, gli occhi verdi che scintillavano, aprendosi in un sorriso rosso, da bestia.
“I morti, me l’hanno riferito i morti.”
 
~
 
Nel corso della sua vita, Xaetsos aveva sempre guardato le montagne con timore.
           
La mattina apparivano marroni, un blocco lontano e indistinto che ricordava sempre a tutti dove si trovava l’est, dov’era l’Oltre, unico punto fermo in quel deserto che giorno dopo giorno cambiava davanti ai loro occhi. Al tramonto, però, i caldi raggi del sole le tingevano di un rosso cupo, sanguigno, facendole diventare la rappresentazione dei denti di tutti quei mostri di cui parlavano sempre gli anziani, mentre la luna, appena compariva nel cielo, disegnava nuove ombre sui loro profili, facendole sembrare un ammasso di giganti accartocciati su se stessi.
Da bambino, quando ancora i suoi capelli non erano così rossi del peccato della madre, ne aveva avuto paura.
Le percosse e i tagli, alla fine, gli avevano fatto capire che ciò di cui doveva aver paura era ben altro, non un mucchio di rocce buttate al limitare del deserto. Non era mai riuscito, però, a scacciare del tutto l’inquietudine che aveva attecchito nel suo cuore.
“Perché cammini a piedi nudi?” chiese a Dhwos, tornando a guardare la sabbia che scorreva veloce sotto i suoi sandali. Man mano che si avvicinavano alle montagne, sentiva crescere dentro di sé un denso grumo di paura, che gli pesava sullo stomaco.
“Il dolore mi permette di rimanere in contatto con l’Oltretomba” rispose l’altro, di qualche passo davanti a lui. “I morti m’indicano la via.”
Xaetsos scosse la testa, procedendo in silenzio.
Aveva sentito parlare dei negromanti, stregoni in grado di comunicare con il mondo dei defunti, uomini dai poteri divinatori immensi, capaci anche di giocare con il tessuto dell’universo, ma credeva fossero delle leggende prive di fondamento, inventate solo per mettere in guardia chiunque fosse stato benedetto del dono della magia. Quando Dhwos gli aveva detto che erano stati i morti stessi a riferirgli cosa fare, però, si era dovuto piegare alle sue parole: se avesse continuato il suo cammino verso Lumien, l’avrebbero ricondotto nelle braccia del negromante.
Nessuno poteva sfuggire alle profezie dell’Aldilà.
“E quanto credi ci vorrà ancora?” chiese, spezzando di nuovo il silenzio che chiudeva il deserto in una morsa malefica.
L’uomo sospirò. “Una giornata… forse poco più.”
Xaetsos continuò a camminare, il sole che batteva sopra di loro feroce, rendendo bollente la sabbia e accecandoli con i suoi raggi; le montagne, sempre più vicine, sembravano quasi un’oasi di pace, con tutte quelle creste portatrici d’ombra.
“Chi l’avrebbe mai detto, madre?” pensò, scuotendo appena la testa e lasciando che un sorriso si formasse sulle sue labbra secche. “Chi avrebbe mai pensato che avrei raggiunto il luogo dove sono stato concepito.”
Aveva capito subito, nel momento stesso in cui Dhwos l’aveva nominata, che la città nascosta nella pietra verso cui erano diretti era la stessa che aveva riempito i suoi incubi da bambino. Sua madre, pensando di confortarlo, gli aveva descritto spesso quel luogo sepolto dalle montagne, spiegandogli quanto fosse stato lungo e faticoso il viaggio che l’aveva portata fin lì; quei racconti, però, avevano sempre rappresentato la conferma del suo essere uno sbaglio, un mostro che mai avrebbe dovuto calcare la sabbia dell’oasi. Forse anche per questo ricordava ancora perfettamente le parole usate dalla madre l’ultima volta che ne avevano parlato.
“Credo che gli antichi Dei abbiano messo tutto il loro amore nel creare un luogo simile” aveva sussurrato più volte, accarezzando distratta i capelli del ragazzino. “Le montagne e la sabbia, due facce della stessa medaglia, s’incontrano e si fondono in quella città nascosta, un cumulo di pietre che si nasconde nella roccia.”
Ricordandola, la vedeva lì, davanti a sé, gli occhi scuri persi a contemplare un mondo lontano, le labbra carnose piegate in un sorriso che le illuminava il volto.
“Ciò che c’è di più bello, però, è il silenzio. In nessun luogo al mondo, nemmeno in mezzo al deserto più morto, ho mai sentito una pace simile: ogni più piccolo scricchiolio rimbalzava da una parete rocciosa all’altra, propagandosi nel nulla e sfumando lentamente in un nuovo silenzio.”
“E non avevi paura?” le aveva chiesto, pensando a quanto potesse essere terrificante la sensazione di essere totalmente soli, esclusi dal mondo.
Lei aveva scosso la testa, facendo ondeggiare la cascata di ricci scuri sulla schiena. “No, perché c’era lui con me.”
“Avrei dovuto chiederle se gli somigliavo…” pensò improvvisamente, abbandonando i ricordi per abbracciare nuove riflessioni.
Nelle lunghe ore passate insieme alla madre, mai le aveva domandato di descrivergli quel predone che aveva amato; aveva sempre dato per scontato, ogni volta, di essere il ritratto di quell’uomo, con quei capelli rossi che lo marchiavano. Eppure… eppure quel legame sporco, sbagliato, avrebbe potuto essere più flebile di quanto pensasse.
Forse era più umano, che cirment.
Forse quell’odio con cui era vissuto non era così giustificato.
Avrebbe dovuto chiederlo.
“Ragazzo, tieni il passo!” esclamò Dhwos, ben più avanti rispetto a lui, distogliendolo da tutte quelle riflessioni. “I morti indicano la via solo a me, quindi smettila di cercarli.”
 
~
 
La città nascosta tra le montagne non aveva alcun nome.
Xaetsos aveva chiesto a Dhwos se lo conoscesse, ma l’uomo aveva scrollato le spalle, continuando a camminare tra le rovine con aria sicura, senza curarsi di quegli enormi edifici in pietra che si aprivano al loro fianco, mostrandosi in tutta la loro maestosità e bellezza. Templi dai grandi colonnati, case in mattoni scoperti, arene diroccate… Oltretutto il silenzio, come gli aveva narrato la madre nei suoi ricordi, era totale, interrotto solo dallo scalpiccio dei loro passi sul terreno duro e secco, ancora vagamente sabbioso.
“Distruggi ciò che non ha fondamenta solide, questo era stato il credo dell’imperatore” borbottò Dhwos improvvisamente, facendolo sobbalzare. La voce del negromante si perse tra le pareti rocciose, rimbombando e trasformandosi in infiniti sussurri.
“Ora, però, tra le macerie vaghiamo senza meta” concluse, fermandosi davanti a una stretta gola, che sembrava diretta nel cuore pulsante delle montagne.
“Che cosa hai detto?” sussurrò l’altro, affiancandosi all’uomo. “Cosa significa?”
“È la storia di questo luogo maledetto” gli rispose Dhwos, leccandosi le labbra carnose e guardando la crepa con fare affamato. “Attraversato questo corridoio, capirai cosa intendo.”
Detto questo, senza lasciare al giovane il tempo di replicare, s’incamminò, gli occhi puntati su qualcosa che solo lui pareva essere in grado di vedere.
Rabbrividendo, Xaetsos lo seguì, continuando a lanciare occhiate preoccupate attorno a sé. Si sentiva esposto, osservato, e quella sensazione pareva acuirsi man mano che andavano avanti a esplorare le rovine, ammassi di roccia vuoti, pieni di storie impossibili da capire. Gli unici messaggi rimasti, comprensibili anche a un ibrido come lui, erano i delicati affreschi che, talvolta, coprivano le pareti dei corridoi in cui si infilavano: quei disegni mostravano una civiltà antica, con uomini e donne che danzavano e presenziavano a banchetti alternati a scene di guerra e lotta in delle arene; c’erano anche delle iscrizioni, segni incomprensibili ai suoi occhi, che probabilmente narravano le gesta di chi era raffigurato.
A un certo si fermò a osservare incantato un fregio, dove la pietra era stata modellata per rappresentare un uomo vestito con una lunga toga, una creatura alata sopra di lui che lo incoronava e una donna ritta in piedi al suo fianco, l’armatura piena di decorazioni e uno scudo sotto i piedi. Eccolo, il potente imperatore che aveva portato alla rovina quella civiltà nascosta nella roccia.
“Xaetsos, vieni qui” urlò Dhwos, più avanti rispetto a lui, con un tono tra l’estasiato e l’eccitato, catturando la sua attenzione.
Il giovane allungò il passo, abbandonando a se stesse quelle testimonianze, e, quando si avvicinò all’uomo, ritto in piedi davanti all’uscita di quel corridoio naturale, rimase a bocca aperta, spalancando gli occhi dalla sorpresa: nella piana sotto di lui si apriva, immensa e altissima, una maestosa porta scolpita nella pietra, introdotta da un quadruplo colonnato e con alla base tanti piccoli archi che si alternavano a statue prive del volto, spezzate. Il tutto era immerso in un mondo di sabbia, roccia e silenzio, spezzato solo dal loro respirare.
“Sì, sì…” iniziò a borbottare Dhwos, passandosi le mani sulla faccia e tra i capelli con gesti frenetici, a scatti. “… siamo arrivati, Medusa e Sibilla mia, siamo arrivati!”
Xaetsos deglutì, sussurrando appena, con voce sottile: “Ma dove?”
L’uomo si girò verso di lui, gli occhi verdi spalancati, fissi nel vuoto, e le labbra aperte in un sorriso rosso, estatico. Le mani continuavano a scivolargli sul volto e sul caffettano, mai ferme e tremanti, come mosse da qualcosa di ben diverso della sua volontà.
“Nella città della roccia” disse, alzando il volto verso il cielo e spalancando le braccia. “Unico passaggio con il regno dei morti.”
Il giovane smise di respirare. Lanciò nuovamente uno sguardo al varco che si apriva, maestoso, davanti a loro, e poi tornò a osservare Dhwos che aveva recuperato i due serpenti, lasciando che si arrotolassero sulle sue braccia, un nastro nero e uno marrone che scivolavano verso il suo volto estasiato.
“E…” bisbigliò di nuovo Xaetsos, inumidendosi le labbra. “… e a cosa… a cosa ti servo io?”
L’uomo scrollò le spalle, iniziando a ridere in modo sguaiato e facendo rabbrividire l’altro, mentre quel verso animale rimbalzava tra le pareti di roccia, propagandosi ovunque.
“I mostri, devi uccidere i mostri” disse con un sussurro, bloccandosi di colpo e afferrando la spalla del ragazzo, gli occhi verdi ancora persi nel nulla, fermi a osservare qualcosa che solo lui era in grado di vedere.
“Le arpie” continuò, sputando fuori quel nome come un singhiozzo. “Le donne uccello.”
Xaetsos, terrorizzato, stava per replicare che non avrebbe mai osato entrare in quel luogo, che se la sbrigasse da solo e che lo lasciasse andar via, ma le sue parole furono interrotte da un suono stridulo, come di uccello, che iniziò a ripetersi in modo cadenzato.
“Eccole” sussurrò Dhwos, aprendosi di nuovo in un sorriso rosso, malvagio, folle. “Vengono a noi.”
L’ibrido tornò a guardare la porta, da cui sciamò fuori un folto gruppo di figure alate, che continuavano a lanciare quei versi quasi fossero una cantilena; mentre si avvicinavano, volando sempre più veloci, riuscì a scorgerne il piumaggio di un grigio sporco, le ali composte da una sottile membrana e il volto che conservava ancora qualche vaga fattezza umana, quali in naso, schiacciato, e gli occhi gialli dalla pupilla allungata, che brillavano famelici. La più vicina emise un nuovo grido, mostrando le fauci piene di zanne.
Le gambe del giovane scattarono da sole, in automatico.
Iniziò a correre a perdifiato, lasciandosi alle spalle Dhwos, il regno dei morti e qualsiasi altra pazzia fosse uscita fuori dalle labbra di quell’uomo; al suo fianco scivolavano di nuovo gli affreschi di prima, le sottili colonne di pietra e le case diroccate che componevano la città in pietra. Il suo respiro affannato e il battere ripetuto dei suoi passi risuonavano ovunque, creando una cacofonia di suoni continui, infiniti.
Corse fino a quando non uscì da quel maledetto posto, ignorando le grida di quello che era stato il suo compagno di viaggio, unito alle urla delle donne alate. Corse fino a quando il fiato spezzato lo portò ad accasciarsi sulla terra rovente, sotto quel sole che l’aveva spinto tra le braccia di Dhwos. Senza cedere alla fatica, iniziò a procedere puntellando i gomiti sul terreno, continuando ad avanzare.
Nella sua testa si ripeteva che l’infamia della fuga era nulla in confronto a quella di essere un ibrido, che se gli Dei e morti gli avevano permesso di fuggire, allora era giusto che così fosse.
Intanto, nel cuore della città, Dhwos metteva piede nell’Oltretomba tanto agognato.
 
~
 
Sabbia.
Sottile, calda, dorata.
Infida.
Sempre uguale.
Come quel maledetto deserto, del resto. Come la gola riarsa, che bruciava a supplicava di ricevere almeno una piccola goccia d’acqua. Come le visioni che si alternavano nella sua testa, in cui gli veniva mostrato Dhwos, squartato dalle zanne delle arpie, il volto nero ridotto a brandelli di carne sanguinolenti, gli occhi verdi diventati due pozze scure, vermiglie e prive di vita, mentre i due serpenti iniziavano a banchettare con le sue viscere.
E lui, di nuovo, era l’unico sopravvissuto.
Probabilmente gli Dei si stavano sbellicando dalle risate, nascosti nelle loro abitazioni dorate e opulente, mentre lui ingoiava la sabbia e le lacrime che tentavano di rigargli il volto sporco, di scivolare sulle cicatrici roventi.
La sua codardia l’aveva salvato da dei mostri che, forse, avrebbe potuto sconfiggere, uccidere, massacrare, beandosi del loro sangue e godendo del rumore delle carni lacerate. La sua codardia l’aveva riportato a vagare nel deserto, solo, la pazzia che lentamente s’insinuava nella sua testa.
Forse era solo un ultimo regalo, una piccola vendetta da parte di Dhwos.
O forse erano gli Dei che, alla fin fine, si erano stancati di osservare dall’alto le sue sventure, portandolo a subire una morte crudele e quanto mai meritata.
La sabbia, intanto, rimaneva ferma, immobile, blocco immutabile di calore rovente e disperazione, il desiderio di acqua che montava a ogni passo. Era tornato all’inizio, col sole che batteva sulla sua testa stremandolo, costringendolo a lottare per ogni passo compiuto.
In lontananza, oltretutto, scorgeva una nuova figura, che procedeva in sella a un dromedario in mezzo alle due. Veniva verso di lui, diventando man mano sempre più grande.
Sorrise, Xaetsos, le labbra secche che si ruppero in quel tentativo.
No, gli Dei non si erano ancora stufati della sua esistenza.
Continuò ad avanzare, l’uomo ricoperto da un caffettano nero che si avvicinava a lui lentamente, smuovendo la sabbia e lasciando una traccia continua tra le dune, un lungo serpente immobile sotto il sole, morto.
Quando la figura nera lo raggiunse, lo scrutò con attenzione, gli occhi scuri, unica cosa che riusciva a scorgere del volto coperto da un velo, leggermente socchiusi a causa del riverbero della sabbia.
“Sei un ibrido” disse, la voce dal timbro cavernoso.
L’altro annuì, crollando a terra in ginocchio.
“Vi prego…” sussurrò, accasciandosi al suolo, le braccia stese davanti a lui. “Non uccidetemi. Nonostante non sia umano, posso farvi da schiavo.”
La risata dell’uomo lo colse impreparato, come una secchiata d’acqua gelata. Xaetsos alzò lo sguardo, sollevando appena la testa dalla sabbia.
“Anch’io sono un ibrido” replicò, chinandosi in avanti verso il ragazzo. “Se tu fossi stato un umano, probabilmente saresti già morto. Come ti chiami, ragazzo?”
Xaetsos rimase in silenzio, la bocca aperta in un’espressione di stupore. Ripensò a suo padre, all’oasi, alla vita che aveva condotto fino a quel momento; gli sembrò di sentire di nuovo i calci, la violenza, le ore passate a pregare anche solo per ricevere un bicchiere d’acqua.
Non poteva esistere qualcuno che non lo volesse morto, non poteva.
“Ti consiglio di rispondermi.”
Alzò lo sguardo sull’uomo, ora tornato in posizione eretta, che lo scrutava dall’alto, gli occhi che brillavano dalla curiosità. Forse il volto nascosto si era aperto in un sorriso.
“Colosso” sussurrò appena, ricordandosi di come sua madre lo chiamava quand’erano soli, unico dolce ricordo della sua vita precedente. “Mi chiamo Colosso.”
  
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