Storie originali > Avventura
Ricorda la storia  |      
Autore: KoreDelia    01/07/2018    5 recensioni
Agata è una donna scialba e servile, imprigionata nella morsa di un marito violento, con la passione per il mare. Sarà proprio la passione del marito per il mare a liberarla dalla sua gabbia... O forse no?
[La storia partecipa al contest "Raggio di luna" indetto da mystery_koopa sul forum di EFP]
Genere: Angst, Avventura, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Agata si rimboccò i risvolti del maglione e affondò le braccia nell’acqua saponata del lavello, la schiuma che le arrivava fin quasi ai gomiti. Strofinava Agata, piatti sporchi e teglie incrostate con la sua spugna consunta, finché il bianco brillante delle stoviglie non le rimandava un’immagine di sé immacolata, alleggerita dal grigiore delle occhiaie e dalle sottili ragnatele che le solcavano la pelle.
Vivevano in ristrettezze economiche e non potevano permettersi una lavastoviglie, ma in fondo lavare era la mansione di una brava moglie, come le aveva sempre ripetuto sua madre.
 
“Vedi Agata, anche se il buon Dio non ti ha fatto dono di grande bellezza, troverai un uomo che si prenda cura di te. Tu gli cucinerai, pulirai la casa, gli stirerai i calzoni e le camicie, giacerai con lui ogniqualvolta ne avrà voglia e baderai che i vostri figli ricevano un’istruzione dignitosa, perché, vedi Agata, è questo che fa una brava moglie e non c’è niente che ti possa rendere più felice. Ora, da brava, di’ le tue preghiere a Gesù e vai a dormire.”
 
Agata aveva pregato a lungo e alla fine era stata ricompensata. Il suo matrimonio era stato modesto quanto il pizzo del velo di seconda mano che le aveva adornato la chioma, ora di un castano spento screziato da venature bianche.
Il ticchettio ritmico e lento della macchina da scrivere le giungeva ovattato alle orecchie attraverso i muri della cucina. Sentì suo marito imprecare e poi scatarrare nella sputacchiera. Luigi, questo il suo nome, si dilettava a scrivere storie di avventura nel tempo libero, con la vecchia Underwood del nonno.
Avventure per mare, per la precisione.
Battaglie navali, pirateria, isole del tesoro.
Aveva lavorato per ventidue anni come membro dell’equipaggio a bordo di imbarcazioni turistiche e bastimenti per trasporto merci, fino a quando un bozzello a molinella non gli aveva portato via la mano sinistra e restituito in cambio la mortificazione di una vita d’inerzia spesa all’interno delle mura domestiche e una scarna pensione di invalidità.
Il mare su carta e su tela era tutto ciò che gli rimaneva.
Il mare, un abisso profondo quanto le tenebre del suo animo.
 
“Cosa ne vuoi sapere tu, che sei buona solo a pulire lo sporco e a spendere i miei maledetti soldi.” Le ripeteva sempre lui.
 
Beveva come il peggiore dei marinai. E solo gli occhi di Dio assistevano Agata quando lui impugnava la cinghia con la sola mano che gli restava e la picchiava brutalmente sulla pelle lattiginosa. A volte per non essere accorsa subito alla sua chiamata, altre per aver comprato il liquore sbagliato, altre ancora per essere stata colta a fumare all’ombra delle lenzuola stese.
E poi c’erano quelle volte.
Quelle senza una buona ragione, se non dare sfogo a un’insoddisfazione purulenta macerata nel tempo.
Agata sussultò e rabbrividì a quel pensiero. Si asciugò frettolosamente le mani e con passo silenzioso si diresse in camera da letto.
I raggi del sole che filtravano attraverso i merletti della tenda disegnavano piccole figure geometriche sulla parete. Appeso a un chiodo arrugginito, sulla carta da parati rosa pastello, si stagliava il dipinto di un mare burrascoso sullo sfondo di un cielo imbrunito. Gli occhi della donna indugiarono sui particolari della spuma delle onde e del profilo scuro della terraferma in lontananza. Non sapeva spiegarsi come, eppure quel quadro la rassicurava. Forse era la vastità dell’oceano inesplorato, o magari l’isola, speranza di salvezza dai moti incostanti del mare.
Lontana, ma pur sempre visibile.
Rimase in piedi, ferma, a fissare l’acqua, la terra e il cielo rinchiusi nella cornice in legno smaltato, che rappresentavano tutta l’acqua, la terra e il cielo che le erano cocessi, fino a quando le sagome di luce sulla parete non scomparvero nell’ombra.
 
“Brava, guardalo bene, ficcatelo pure in quella tua testa senza cervello, perché è l’unica cosa che puoi fare.” Alla voce del marito Agata trasalì e si girò di scatto, riacquisendo improvvisamente la consapevolezza di dove si trovasse.
 
Luigi era fermo sulla soglia.
 
“Non saprai mai cosa vuol dire andar per mare, vivere su una nave, vedere posti esotici. Tu, che non sei buona nemmeno a fare l’unica cosa che una donna dovrebbe essere capace a fare. Mettere al mondo dei figli. Ah, ma che ci parlo a fare con una cagna come te. Che ne dovrei fare di te, eh? Che ne dovrei fare di una a cui rimangono solo una brutta faccia e delle tette mosce?”
 
Luigi si accarezzò la spessa fibbia della cintura. Agata si strinse un lembo della gonna tra le mani e abbassò il capo, gli occhi fissi sugli zoccoli bucati.
Le braccia di lui ricaddero sui fianchi e con un sospirò uscì dalla camera da letto. Agata poté udire la sua voce.
 
“Io esco. Questa sera voglio il polpettone.”
 
Non l’aveva picchiata. Si fece il segno della croce, ringraziando Dio.
Come aghi di una bussola, i suoi occhi si depositarono nuovamente sul nord magnetico che quel quadro rappresentava.
Le acque presero a muoversi in flutti discontinui davanti al suo sguardo ipnotizzato.
Piano.
Prima qualche cresta schiumosa si erse sulle altre, poi tutto il mare si rovesciò in quella che sembrava una battaglia di onde e spruzzi.
Agata sbatté forte le palpebre.
Le acque mulinavano all'interno del quadro come se quello fosse stato una finestra affacciata sull'oceano. Agata sbatté le palpebre.
Un tuono temporalesco fece vibrare i vetri della finestra.
Agata sbatté le palpebre.
Una folata di vento che sapeva di salsedine investì la pelle secca del suo viso.
Era impossibile eppure...premette le unghie nella carne del braccio. Faceva male, dannazione.
Era reale.
La finestra, il mare, la burrasca.
Si lisciò l'orlo della gonna e si precipitò fuori dalla camera da letto.
Fu sorpresa di trovare del legno bagnato e scivoloso sotto i suoi piedi e non la pavimentazione in graniglia del corridoio.
Era all'aperto.
Una pioggia torrenziale le fece aderite addosso i vestiti in pochi secondi. Il suolo ondeggiava pericolosamente come scosso da un terremoto. Agata si guardò intorno con espressione sconvolta. Non riusciva a chiudere la bocca nonostante l'acqua le entrasse prepotente, costringendola a ingoiarne a sorsate.
Come ci era arrivata sul ponte di una nave?
Le vele ammainate erano legate a spesse corde sfrangiate, lasciando liberi alla vista i pennoni spogli. Fece appena in tempo ad afferrare una cima prima che la nave beccheggiasse e imbarcasse acqua a tribordo.
 
“Signora! Che fate qui? Tornate in cabina, subito!” Un uomo le si fece incontro. Indossava dei panatoli alla zuava di tela e un paio di stivali fortemente usurati. Che abbigliamento era mai quello?
 
“State contravvenendo agli ordini!”
 
“Ma, io...ecco...”
 
L'uomo le agguantò rudemente il braccio, i calli ruvidi del palmo di lui che sfregavano sulla sua pelle. Aprì la porta della cabina e la costrinse a entrarvi con uno strattone.
Agata finì a terra. Cercò di rialzarsi ma un'altra forte oscillazione della nave la fece ricadere sulle ginocchia. Il terreno danzava sotto di lei come un ballerino ubriaco. I muri parevano volerla fagocitare. Il rumore di oggetti che cadevano e di mobili che stridevano sul suolo irregolare la costrinsero a rimanere carponi e a proteggersi le orecchie e la testa con le mani.
Strizzò gli occhi come se le bruciassero.
Un untuoso senso di nausea si fece strada strisciando lungo le sue viscere. Era sempre più invasivo, come anche i capogiri dovuti ai moti delle onde. Mandò giù a fatica due conati.
Non riuscì più a trattenersi.
Vomitò, ripetutamente.
Gli spostamenti continui e violenti della nave le impedivano di alzarsi e allontanarsi dal liquido maleodorante che impietosamente le lambiva le mani e le vesti. Sfinita, e ormai incurante, si accasciò sulle assi marce della cabina. Udì una voce in lontananza, tanto sottile e confusa che sembrava appartenere a un altro piano dimensionale.
"Terra" ripeteva. "Terra!"
Terra.
L'isola il cui profilo buio si intravedeva all'orizzonte.
L'isola della speranza.
Con quel pensiero e un sorriso appena accennato sulle labbra, Agata perse i sensi.
 
Si risvegliò con un fastidioso ronzio nelle orecchie e con la bocca impastata come frolla da infornare. I piedi le formicolavano e ogni fiotto di saliva inghiottita era come carta vetrata in gola. Una leggera brezza le spostò dalla fronte i ciuffi di capelli impiastricciati. Versi di gabbiani accompagnavano il mesto sciabordio delle onde. Sabbia tutto intorno a lei, sotto la schiena, attaccata alle sottane, tra le dita delle mani.
 
“State bene, signora?”
 
Voltò il capo verso il marinaio che le aveva parlato, irsuto e dalla pelle bruciata dal sole.
 
“S-sì, credo.” Agata si sollevò piano sugli avambracci e chiuse gli occhi per fronteggiare un'improvvisa vertigine. Li riaprì. “Dove siamo? Dove mi state portando?”
 
“Via, mia signora. Lo avete chiesto voi, non ricordate?”
 
“Via da dove?” Mai nella vita era stata tanto audace da porre domande a un uomo in maniera così spontanea.
 
“Ah, questo non lo so. Parlavate di un uomo, un uomo violento e pericoloso. Avete pagato la traversata a bordo della Vittoria e il capitano non ha visto nessuna ragione per rifiutarvi il passaggio.”
 
Ce l'aveva fatta.
Era scappata dunque.
Fuggita da quel bruto di suo marito. Quel vigliacco, cane schifoso, invalido e impotente di suo marito.
Agata rise, di un riso sadico e grottesco.
E pianse, di un pianto liberatorio e selvaggio.
Tutto insieme.
Gli uomini attorno a lei la guardavano di traverso, inquietati.
Non le importava. Era fuggita.
Fu aiutata a rimettersi in piedi. Tentò qualche passo sulle gambe traballanti, che risultò incerto e privo di grazia. La testa le girava ancora, gli occhi in preda ai nistagmi, e un alone di nausea le permeava ancora le membra. Doveva avere un aspetto orrendo così com'era, con gli abiti sudici e un nido bagnato al posto dei capelli.
Nonostante le pessime condizioni in cui la sua vista versava, riuscì a delineare un'immagine abbastanza definita della nave con lo scafo incagliato sul fondale roccioso della spiaggia. Di certo necessitava di riparazioni; non avrebbe mai potuto prendere il largo in quello stato. Sembrava un vascello molto antico, un galeone forse, di quelli che si vedono sui libri di storia o in qualche film di pirati. La polena, che rappresentava una sirena dal seno nudo e particolarmente voluttuoso, svettava su Agata imprigionandola nella sua ombra. I membri dell'equipaggio filavano di buona lena attraverso lo scheletro di paratie in vista della stiva, per recuperare quanto ancora ci fosse rimasto all'interno: non più di una decina di contenitori fra casse di legno fradicio e botti dalle bordature in ferro.
 
Scoprì presto, dalle voci arrochite dal vento dei marinai, che erano naufragati su quella che era stato confermato essere un'isola. Alcuni di loro erano andati in avanscoperta e avevano perimetrato la costa. Arenarsi in un posto deserto in mezzo all'Atlantico era per molti una sorte peggiore a quella della morte per mare. Non le capitava di rado di notare labbra screpolate muoversi, la lingua che schioccava leggermente all'interno, e sciorinare nel silenzio preghiere e invocazioni a Dio o a qualche santo.
Anche lei ne diceva di preghiere, genuflessa sulla sabbia rovente e con la gonna strappata appena sopra le ginocchia. Ma le sue erano di ringraziamento, per essere sfuggita a un'esistenza miserabile, in cui la bestia famelica dell'apatia snudava i denti davanti al suo collo, giorno dopo giorno. 
 
***
 
Agata spinse la lama del coltello a serramanico all'interno dell'occhiello sulla sommità della noce di cocco e ne estrasse il liquido, servendosi di una ciotola ricavata dalla corteccia. Con un sasso appuntito picchiò sul guscio ispido e lo ruppe, accedendo al cuore alabastrino e saporito.
 
La pelle della donna non era più pallida e livida per i colpi della cinghia, ma era di un bronzo dorato ora, così simile a quello dei monili di tesori nascosti. I suoi capelli erano corposi, schiariti dalle carezze del sole, e come il sole anche il suo viso era radioso. Il corpo, prima secco e floscio, si era irrobustito come una canna di bambù matura, merito del lavoro fisico e della caccia.
Nessuno avrebbe più riconosciuto in quella donna la vecchia Agata, l’insulsa moglie di un marinaio sventurato.
Gli uomini la desideravano, ora, nonostante la gioventù fosse scivolata via dalla sua carne.
Mai aveva tratto piacere dal suo corpo come ora.
Correva nella selva, ora.
Scuoiava animali, ora.
Era consapevole e potente, ora.
 
Agata avvertì odore di bruciato. C’era del fermento provenire dall’accampamento.
Una nuvola di fumo grigio bucò la spessa coltre verde delle chiome degli alberi, innalzandosi nel cielo. La donna ingoiò l’ultimo boccone di cocco e si precipitò verso la spiaggia, in direzione della nube, le foglie che si sgualcivano e i ramoscelli secchi che scricchiolavano sotto i suoi piedi nudi.
 
“Cosa succede?”
 
Si arrestò davanti all’enorme pira, alimentata dal rum e da giunchi freschi, la cui combustione rilasciava volute di fumo più dense. Una nave era ormeggiata al largo, cullata dal lento moto delle maree, mentre due scialuppe si avvicinavano alla riva.
 
“Siamo salvi Agata! Hanno visto il nostro segnale di soccorso. Possiamo tornare a casa ora!”
 
Come tornare a casa?
No.
No!
Lei non ci sarebbe tornata a casa! Piuttosto sarebbe morta in quel posto come la donna che era diventata.
 
La prima scialuppa attraccò in corrispondenza di un tratto sabbioso della battigia. L’uomo che era in testa oltrepassò con un balzo il bordo dell’imbarcazione. L’andirivieni del mare cancellò le sue impronte sul bagnasciuga. La tesa del cappello scuro di lui impediva ad Agata di scorgerne i tratti del viso, eppure il suo portamento aveva qualcosa di famigliare.
 
“Tu, lurida degenerata!”
L’uomo alzò il braccio sinistro, contratto come quello di un manichino. Dalla manica ampia della camicia in lana follata spuntò un moncone cicatrizzato.
 
Agata sentì le gambe cederle e il cuore ebbe uno spasmo. Una paura ancestrale e infetta si diffuse nelle sue viscere come fiamme sul cherosene.
Luigi avanzava verso di lei, sempre più veloce.
Perché è qui? Come ha fatto a trovarmi?
Non poteva affrontarlo.
Il respiro si fece affettato. Si mise a correre, disperata, impotente. Sentì le forze che la abbandonavano, i muscoli perdere di tono e il suo viso spellarsi, lasciando sull’epidermide un campo minato di chiazze pallide e scrostate. Era lenta, fiacca.
Lui la raggiunse e le assestò uno schiaffo bruciante con la mano buona. Il dolore le esplose nel cranio come una detonazione, ma riuscì a reggersi in piedi.
 
“Dove pensavi di scappare, eh? Ingrata di una cagna sterile!”
 
Un altro colpo nell’addome.
Un rigurgito acido le salì lungo l’esofago, accompagnato da una fitta rimbombante. Perse l’equilibrio e si accasciò a terra su di un fianco.
 
“E adesso…” Luigi sollevò un lembo della camicia e scoprì la cintura. Lentamente armeggiò con la pesante fibbia lucida.
 
No, Santissima Vergine, la cinghia no! Reagisci Agata, reagisci, per Dio! Ora non sei più quell’Agata.
 
Le dita della donna smisero di tremare. Con un gesto fulmineo sfilò il coltello a serramanico dal bordo della sottana che le stringeva la vita e lo piantò nel polpaccio di lui. L’urlo che sputò l’uomo fu assordante quanto un colpo di cannone. Rovinò ai piedi di lei, l’unica mano stretta sul manico del coltello nel tentativo di estrarlo.
 
“Ora ti ammazzo!” Disse Luigi, le parole deformate dal dolore.
 
Agata fece saettare lo sguardo intorno a lei, mentre con le mani tastava il terreno alla ricerca di un’arma.
 
Sì, qui c’è qualcosa di duro.
Era pesante, dannazione. Si aiutò con entrambe le mani per sollevare…
 
Che cos’è?
Un masso!
 
L’energia sembrò fluire e pompare nei suoi muscoli, che stavano recuperando vigore. Si sentì avvolgere la caviglia da una mano possente. Abbassò lo sguardo. Luigi l’aveva afferrata ma il sangue che lo impregnava rese il palmo scivoloso e la donna riuscì a divincolarsi. Con tutta la forza che proveniva dalla nuova Agata, sollevò le braccia e fece ricadere il masso sul cranio di suo marito. L’osso cedette sotto il colpo della dura pietra.
Di nuovo alzò le braccia.
Di nuovo lo colpì.
Ancora.
Ancora.
Lo sguardo agghiacciante di Agata avrebbe potuto spegnere pure le fiamme dell’inferno.
 
Ansimava ferocemente, svuotata di una furia irrefrenabile, le mani colpevoli ricoperte di sangue. Suo marito a terra, dai lineamenti stravolti. Stretta nei palmi una voluminosa cornice in legno smaltato, con un angolo scheggiato color vermiglio, il telaio posteriore ridotto a brandelli. La tela lacera adagiata sui listelli del parquet della camera da letto, la pozza scarlatta di sangue che si fondeva con la tempera blu del mare.
 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: KoreDelia