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Autore: Sandie    04/07/2018    4 recensioni
Genzo torna in Giappone lasciandosi alle spalle Amburgo e tutte le sue certezze crollate in pochi mesi.
Ritrovati la sua famiglia e gli amici di sempre, nel suo futuro ci sono le Olimpiadi di Madrid e decisioni importanti che apriranno un nuovo capitolo della sua vita. Un destino che condivide con Taro.
I loro percorsi si intrecciano con quelli di Kumi ed Elena: due ragazze che, come loro, dovranno costruire una
nuova vita, diversa da quella immaginata.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Genzo Wakabayashi/Benji, Kumiko Sugimoto/Susie Spencer, Taro Misaki/Tom
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo I

Ritorno a Nankatsu

 


“Tutto parte da un sogno. Che va curato, innaffiato e amato,

poi frammentato in passi concretizzabili,

“umanizzato” e spogliato della sua connotazione poetica

per diventare reale. Però resta SOGNO.”

 

 

L'aereo della Lufthansa, proveniente da Amburgo, era da poco atterrato su una delle piste dell'Aeroporto Internazionale di Narita.

Hiroji, in piedi a braccia incrociate poco lontano dalle porte automatiche, cercava con lo sguardo la persona che, a breve, sarebbe dovuta comparire tra la moltitudine di passeggeri scesi dagli aerei giunti nell’aeroporto giapponese e che avevano compiuto le procedure di controllo.

Non dovette attendere molto, perché dopo pochi minuti vide un ragazzo dai corti capelli neri, alto e imponente, molto somigliante a lui, spiccare tra la folla di viaggiatori, trascinando un trolley di medie dimensioni.

Gli andò rapidamente incontro e quando fu abbastanza vicino da essere facilmente visibile, agitò una mano.

Il giovane rispose al cenno con un sorriso e velocizzò il passo, felice di rincontrare quella persona a lui molto cara.

«Genzo!» lo salutò Hiroji, mettendogli una mano sulla spalla, non appena lo ebbe raggiunto.

«Ciao.»

«Come ti senti?»

Genzo annuì lentamente «Bene.» Era una risposta sincera. Era spossato per via del lungo viaggio, ma rimettere piede sul suolo giapponese lo faceva sentire quasi sollevato.

Hiroji sorrise. Sì, Genzo aveva un’aria abbastanza distesa, lo sguardo era stanco ma la gioia di essere di nuovo in Giappone, di essere lontano da un’atmosfera che in Germania si era fatta insostenibile e di riabbracciare la sua famiglia, sembrava prevalere sulla delusione e sul nervosismo accumulati in quell’autunno difficile. Anche se, un mese prima, gli aveva confidato di essere disposto a lasciare Amburgo pur di poter tornare in campo, ciò non aveva reso lo strappo indolore.

 

Nel frattempo, un manipolo di persone armate di taccuini, penne, registratori, microfoni e telecamere si stava dirigendo a passi rapidi verso di loro. Si trattava di un gruppo di giornalisti, cameraman e fotografi che dovevano aver appreso da colleghi tedeschi del ritorno in Giappone di Genzo Wakabayashi che, non godendo più di alcuna considerazione da parte dell’allenatore della sua squadra di club, aveva deciso di mettersi a disposizione del c.t. Kozo Kira per il torneo asiatico che si sarebbe disputato di lì a poche settimane, la cui vittoria garantiva la qualificazione ai successivi Giochi Olimpici.

I giornalisti e i commentatori giapponesi non vedevano l’ora di avere dichiarazioni da parte dello stesso portiere, che confermassero oppure smentissero le voci che lo davano in procinto di lasciare la squadra amburghese, per trasferirsi in una delle importanti squadre europee che avevano mostrato interesse nei suoi confronti, tra le quali la più accreditata a rilevarne il cartellino sembrava essere proprio il Bayern Monaco, la più forte e titolata squadra tedesca, in cui giocava la stella della Nazionale Karl Heinz Schneider, al momento indiscussa capolista in Bundesliga con sei punti di vantaggio sulla prima inseguitrice.

Genzo non aveva nessuna intenzione di parlare di quell’argomento con la stampa e Hiroji appoggiava in pieno la sua decisione.

Quest'ultimo alzò una mano, per far capire che non avrebbero ottenuto alcuna intervista, ma a quelli sembrò non importare: uno di loro, giovane e decisamente intraprendente, si era già affiancato al calciatore piazzandogli il microfono sotto il mento, chiedendogli se il suo repentino ritorno in Giappone significava un addio alla sua squadra. 

«Parlerò quando sarà il momento.» fu la sua laconica risposta. Il cronista, per nulla soddisfatto, stava per porgli un’altra domanda quando Hiroji si frappose tra i due.

«Mio fratello ha detto che parlerà, ma non oggi. Dovete rispettare la sua volontà. E ora, se volete scusarci ...» disse calmo, ma con uno sguardo che aggiungeva ulteriore eloquenza alle sue parole.

Una mano si posò sulla spalla del giovane che stava cercando di intervistare Genzo. Si trattava di Nozaki, uno dei cronisti di calcio più noti e apprezzati in Giappone. Con quel gesto, invitò il collega a farsi da parte e ad attendere con pazienza il giorno in cui Genzo avrebbe deciso di parlare, perché l'avrebbe sicuramente fatto. In breve, tutti i giornalisti, sebbene riluttanti a farsi sfuggire il Super Great Goal Keeper, lasciarono passare i due fratelli.

«Grazie.» disse, non mancando di rivolgere un breve sguardo di gratitudine anche all'esperto reporter.

«Non dirlo nemmeno. Ora hai bisogno soltanto di tranquillità.»

 

Sebbene fosse ancora inverno, la giornata era piacevole: il cielo era sereno, illuminato da un pallido sole i cui raggi mitigavano l’aria gelida.

Raggiunsero la Lexus nera parcheggiata a poca distanza dall’aeroporto. Hiroji aprì il baule e Genzo vi caricò il suo trolley.

«Ken aveva insistito così tanto per poter venire anche lui che stava riuscendo a convincermi. Ma Annie non ha voluto sentire ragioni.» spiegò, mentre prendevano posto sui sedili anteriori «Ha preso l'influenza due settimane fa e ora ha solo un po' di raffreddore, ma lei teme una ricaduta e si ostina a tenerlo in casa.»

Kenichi, detto Ken, era il figlio di Hiroji, un vivace e affettuoso bambino di cinque anni con una venerazione per lo zio da cui aveva ereditato la passione per il calcio, ispirandogli il sogno di diventare anche lui un fortissimo calciatore, nel ruolo di attaccante perché così avrebbe potuto segnargli un gol. Tatsuo Mikami gli aveva spiegato che i portieri, solitamente, giocano a lungo e forse Genzo sarebbe stato ancora tra i pali della Nazionale giapponese quando Kenichi fosse cresciuto abbastanza da poter giocare anche lui a un livello importante.

Annie era la moglie, una ragazza inglese conosciuta al King's College, dove entrambi studiavano. Si erano sposati sei anni prima, dopo aver conseguito le rispettive lauree e un anno dopo era nato il loro primogenito.

Genzo ridacchiò «Sempre ansiosa quando si tratta dei bambini, eh?»

Hiroji fece una piccola smorfia divertita «Dice che finché lo sente starnutire, non si fida di lasciarlo uscire di casa. Per fortuna i domestici la aiutano con lui e con Aiko. A proposito, è sempre più bella, la nostra piccola Aiko. Sembra una di quelle bambole di porcellana che piacciono tanto alla mamma.»

Genzo sorrise, ricordando la sera di otto mesi prima in cui Hiroji, con la voce quasi irriconoscibile per la gioia che stava provando, gli aveva telefonato per comunicargli la nascita della bambina. Quella notizia era stata la ciliegina sulla torta al termine di una serata splendida, in cui era tornato in campo dopo il grave infortunio alle mani che lo aveva reso indisponibile per quasi tutta la stagione. L'Amburgo aveva sconfitto il Bayer Leverkusen e lui aveva dimostrato di essere tornato in piena forma, grazie a due ottime parate. 

Una piccola perla in un campionato modesto che aveva lasciato qualche rimpianto, ma anche un certo ottimismo per l'annata seguente. 

Il matttino dopo, Genzo aveva raggiunto a Londra la sua famiglia, tutta riunita ad eccezione del fratello mezzano Keisuke, che si trovava negli Stati Uniti dove studiava al Massachusetts Institute of Technology e aveva fatto giungere le sue felicitazioni con una bellissima e-mail.

Sembrava fosse passato un secolo: nessuno poteva immaginare che solo pochi mesi dopo, lui nell’Amburgo sarebbe diventato, di fatto, un separato in casa.

L'errore commesso nella partita contro il Bayern Monaco aveva aperto una frattura nel rapporto tra Genzo e l'allenatore Zeeman, che si era progressivamente allargata fino a diventare insanabile.

Il torneo asiatico era l’occasione per prendersi la sua rivincita: avrebbe giocato, mantenuto il ritmo partita in vista delle Olimpiadi e messo ulteriormente in mostra le sue capacità, tenendo vivo l’interesse delle squadre che già stavano sondando il terreno, pronte a fare un’offerta qualora il portiere fosse stato messo sul mercato. 

Per il momento, il presidente e i dirigenti dell’Amburgo non avevano preso nessuna decisione. Era tutto in sospeso; ora, e per almeno sei mesi, Genzo Wakabayashi avrebbe dedicato le sue energie solo alla Nazionale giapponese Under 23. Ma si sapeva già che il suo futuro sarebbe stato altrove.

Il ragazzo sospirò, mentre gli eventi degli ultimi mesi invadevano di nuovo la sua mente, anche ora che si trovava dall'altra parte dell'emisfero e stava guardando i paesaggi, le abitazioni e gli edifici del suo Paese d'origine che scorrevano veloci, con l'ampia distesa dell'Oceano Pacifico a fare da splendido sfondo.

Per tutto il mese precedente, aveva fatto il massimo per cercare di convincere Zeeman a dargli almeno una possibilità cercando, per l'ultima volta, di conciliare il sentimento con la ragione ma, per tutta risposta, non era stato schierato nemmeno nelle partite di Coppa di Germania. Schweitzer era diventato, ormai, il titolare inamovibile. 

Zeeman aveva messo in atto ciò che aveva già pensato di fare dopo la partita persa contro il Bayern Monaco, per castigare quell'iniziativa personale che aveva originato il gol di Schneider. Allora erano stati i compagni di squadra, Kaltz in testa, attribuitosi la responsabilità di aver, di fatto, messo la squadra in difficoltà con la sua espulsione, a prendere le sue difese e a convincere anche il tecnico a non punirlo in modo così severo.

Genzo era stato così schierato in campo nelle gare successive e aveva protetto la porta della sua squadra senza sbavature e con la consueta affidabilità. La situazione sembrava essere tornata alla normalità. 

Zeeman aveva però continuato a far giocare la squadra con il solito atteggiamento passivo e rinunciatario. Genzo risultava, quasi sempre, il migliore in campo, il che significava che la prestazione del resto della squadra non era stata certo brillante. Gli articoli dei cronisti sportivi parlavano di un Wakabayashi sempre estremamente affidabile e di una difesa attenta ed efficace, ma anche di un gioco pressoché inesistente che produceva soltanto scialbi pareggi e vittorie risicate. 

Dopo poche giornate, gli avversari avevano imparato a prevedere e annientare sul nascere la tattica della squadra amburghese, basata su una difesa solida e su azioni di contropiede nate da errori degli avversari, oppure da lunghi rinvii o lanci in avanti, alla ricerca del giocatore più avanzato e libero da marcature.

I difetti erano evidenti e vennero messi definitivamente a nudo un freddo sabato pomeriggio a Gelsenkirchen. Uno Schalke 04 ben diverso da quello sconfitto all'esordio per 5-1 dal Bayern, li aveva travolti per 3-0.

Genzo aveva deciso di affrontare il suo allenatore e di ribadirgli, con rispetto ma anche con fermezza, la sua disapprovazione verso un modo di giocare che, ne era certo, avrebbe condotto la squadra verso una stagione incolore. L'Amburgo era già scivolato al quinto posto in classifica e la qualificazione alla Champions League rischiava di diventare un'utopia.

«L’allenatore sono io, Wakabayashi.» aveva risposto perentorio «Se volevi vincere i Meisterschalen e le coppe, potevi andare al Bayern Monaco. Erano disposti a sborsare una cifra enorme per averti. Schneider si era persino scomodato venendoti a parlare di persona pur di convincerti, e tu hai deciso di rimanere ad Amburgo. Per me va bene Wakabayashi, ma non pretendere di aspirare a traguardi irraggiungibili. Non siamo attrezzati per vincere la Bundesliga né per arrivare in Champions League, mettitelo in testa.»

Da allora, Genzo era sceso in campo senza entusiasmo e senza stimoli.

Le posizioni del portiere e dell’allenatore erano inconciliabili. Inoltre, Genzo era indubbiamente un giocatore molto carismatico e i suoi compagni avevano in lui una fiducia incrollabile: difficilmente avrebbero ignorato o trasgredito le sue direttive, se avesse deciso di fare di testa sua. Aveva deciso, così, di relegare il titolare in panchina e di schierare tra i pali quello che, fino a quel giorno, era stato la sua riserva. Jens Schweitzer era un tedesco suo coetaneo, non aveva certo il suo talento ma svolgeva il suo compito diligentemente e stava sfruttando un'occasione in cui, con ogni probabilità, non aveva mai osato sperare.

Per Genzo era iniziato un periodo di frustrazione e di senso d'impotenza: soffriva doppiamente per essere costretto a rimanere seduto in panchina per intere partite e assistere, ogni settimana, al gioco tutt'altro che propositivo ed esaltante della squadra.

Era riuscito a resistere grazie all'amicizia di Hermann: era stato sempre al suo fianco durante gli allenamenti e lo aveva coinvolto nelle uscite serali, tenendolo su con il morale con il suo modo di fare scherzoso e allegro. Gli era grato di tutto questo. Tuttavia, l'unico modo per risolvere la situazione era tornare a giocare.

Voleva le Olimpiadi, voleva partecipare al passo seguente verso la realizzazione di quel sogno iniziato dieci anni prima. 

Al ritorno dalle vacanze natalizie, si era messo nuovamente a disposizione, ma la situazione non era cambiata. Stava per chiedere al direttore sportivo di essere ceduto, quando aveva ricevuto una telefonata di Kozo Kira, intenzionato a convocarlo per il torneo di qualificazione alle Olimpiadi.

Aveva deciso così di accettare la mano tesagli dal commissario tecnico della Nazionale Under 23.

Alla scadenza della sessione invernale del calciomercato, il portiere aveva ottenuto dalla società il permesso di tornare in Giappone per prendere parte al torneo asiatico.
Il giorno dopo si era recato al centro sportivo e aveva svuotato il suo armadietto. E poche ore più tardi, era salito sull'aereo per Tokyo.

 

Dopo quasi tre ore di viaggio, Hiroji e Genzo giunsero a Nankatsu.

Il cancello automatico si aprì lentamente, e l’auto attraversò il vialetto di ghiaia che conduceva davanti all’imponente villa Wakabayashi. Era la prima volta, dopo anni, che Genzo ci tornava per rimanere per un lungo periodo. 

«Papà! Zio Genzo!» gridò felice un bimbo correndo incontro ai due uomini. Abbracciò il padre, poi corse dietro la macchina, dove il portiere aveva appena scaricato il trolley.

«Ciao campioncino!» lo salutò, scompigliandogli i capelli.

«Kenichi!» una giovane donna castana, di media altezza e di costituzione snella anche se le sue forme erano ora un po’ arrotondate per via della recente gravidanza, si affacciò all'ampia porta d’ingresso della casa. Teneva in braccio una bambina molto piccola e aveva l’aria infuriata. 

«Quella canaglia! È bastato che Hitomi si assentasse per un attimo e non appena ha sentito il rumore dell’auto è scappato fuori.» protestò, uscendo sul portico.

«Non prendertela, Annie.» disse Hiroji posandole un bacio sulla fronte e sfiorando con una carezza una guancia di Aiko, che sorrideva contenta di rivedere il papà «Non mi sembra che Ken stia poi così male.» aggiunse, indicandole il bimbo che girellava entusiasta attorno a Genzo.

Anche il vecchio, fedele John, il cane di famiglia, si era unito alla festa per il ritorno del suo padrone e gli scodinzolava attorno, abbaiando felice.

«Avrebbe potuto almeno mettersi il giubbotto!» sospirò Annie, mentre salutava con un cenno il cognato che si stava avvicinando all’ingresso trascinando il trolley, seguito da Kenichi.

La bambina guardava Genzo con uno sguardo un po’ accigliato, quello che rivolgeva sempre a chi non vedeva molto spesso. Hiroji aveva ragione: era una bellissima bambina, con il volto roseo, i ciuffi castani e dei bellissimi occhi verdi. Somigliava molto ad Annie, mentre i capelli, i lineamenti e lo sguardo di Ken erano targati Wakabayashi senza possibilità di abbaglio.

«Guarda Aiko! Ecco lo zio Genzo.» disse, voltandosi leggermente perché il cognato potesse vederla meglio.

Il giovane tese una mano verso il viso della bambina «Ciao, Aiko.» disse, sfiorandole una morbida guancia con la punta delle dita.

La piccola emise un breve mugolio, per poi accoccolarsi nell’incavo della spalla della madre, stropicciando le piccole labbra in quello che sembrava un buffo sorriso. Annie non trattenne una risata.

Anche Genzo si mostrò divertito, specialmente dopo che Aiko era riemersa dall’abbraccio della mamma ed era tornata a fissarlo. Avrebbe avuto tempo e modo per abituarsi alla presenza costante del giovane zio.

Entrarono in casa, dove il calciatore ricevette il caloroso bentornato dai domestici, con in testa la governante Hitomi, una donna minuta dal sorriso gentile e i modi garbati.

«Bentornato signore. Sono felice di rivederla qui.» disse, dopo averlo salutato con un inchino. Lavorava per la famiglia Wakabayashi da poco prima della sua nascita, ed era sinceramente affezionata al ragazzo che aveva visto crescere fino agli undici anni.

«Tra poco sarà servito il pranzo. Le ho preparato il katsudon

Genzo annuì con un sorriso. Era uno dei suoi piatti preferiti. Sostanzioso e saporito, era l'ideale per recuperare energie e buonumore.

«E io ho fatto l'apple pie.» aggiunse Annie, con un ammiccamento.

«Visto, Genzo? Hai due donne che ti viziano.» scherzò Hiroji, suscitando una risata generale.

Il giovane calciatore in particolare, rise di cuore, come non gli capitava da tempo. L'atmosfera di casa stava già facendo un benefico effetto.

«Salgo in camera a sistemarmi.» avvisò, prima di cominciare a salire le scale.


La sua stanza era sempre stata arredata in modo semplice, ed era rimasta come l'aveva lasciata due anni prima. Lasciò il trolley accanto al letto e camminò per qualche minuto, osservando le fotografie e i trofei disposti sulle mensole in un'ordinata linea retta, le medaglie, i gagliardetti e gli attestati appesi alla parete, sopra l'ampia scrivania.

Si soffermò a guardare la foto del campionato di Yomiuri Land, quella del Mondiale Under 16 e quella del World Youth, vinto proprio in Giappone, che lo ritraevano sorridente e fiero, con i suoi compagni e amici di sempre. Gli stessi con cui di lì a poco avrebbe condiviso la nuova tappa della strada verso la realizzazione del sogno di portare il loro Paese al vertice del calcio mondiale.

 

 

 



 ***  Note ***

 


La citazione presente all'inizio del capitolo è tratta dal libro "Cosa ti manca per essere felice?" edito da Mondadori e scritto da Simona Atzori, una ballerina e pittrice milanese che ha saputo realizzare i suoi sogni nonostante sia nata senza braccia.

 

Lexus: acronimo di Luxury EXportation United States, è il marchio di lusso della Toyota. Creato in origine per il mercato statunitense, ha finito per imporsi anche in quello giapponese. Questo è il modello LS460L.

King's College: è una prestigiosa università londinese, situata in una posizione magnifica, a poca distanza dal London Eye, dal Big Ben, dal Palazzo di Westminster... nel cuore pulsante della capitale britannica.

Die Deutsche Meisterschale (o semplicemente Meisterschale) è l'equivalente dello scudetto, il titolo che spetta alla squadra vincitrice del campionato. Letteralmente significa "il piatto dei campioni" e infatti questo trofeo consiste in un grande piatto d'argento impreziosito con gemme di tormalina e oro, che viene assegnato ogni anno alla squadra vincitrice della Bundesliga. Ha un diametro di 59 centimetri e pesa 11 chilogrammi; vi sono incisi i nomi di tutte le squadre che hanno vinto il massimo campionato tedesco dal 1903.

Fonte: dfl.de
Katsudon: pietanza tipica della cucina giapponese, è costituito da una cotoletta di maiale impanata e fritta (tonkatsu), uova (il tuorlo e l'albume vengono  mescolati e versati sul piatto da sbattuti e crudi e si cuociono grazie al calore del piatto) e condimenti vari da versare sul riso caldo. Piatto molto sostanzioso, è spesso decorato con erba cipollina per aggiungere un tocco di verde.

Fonti: Wikipedia e romanzo "Kitchen" (1988) di Banana Yoshimoto.

Apple pie: torta tipica britannica, preparata con mele (le Bramley sono considerate le più adatte), farina, burro, succo di limone, zucchero e, a scelta, cannella. Il latte viene usato per formare uno strato di glassa sulla torta.

Fonte: TheSpruceEats.com


"Captain Tsubasa" © 1981

I personaggi di quest'opera appartengono a Yoichi Takahashi, che ne detiene tutti i diritti insieme alle case editrici che la pubblicano in Giappone (Shueisha) e negli altri Paesi.


Buonasera a tutti i lettori.

Ho deciso di ripubblicare la storia dall'inizio perché vi ho apportato delle aggiunte che la cambiano rispetto alla precedente versione. È stato un dispiacere cancellare le relative recensioni, che ho però salvato nel mio pc.

Ho inviato un messaggio alle autrici dei commenti rimasti senza risposta.

Sandie

  
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