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Autore: Kanako91    05/07/2018    3 recensioni
Númenor, 3088. Regno di Ar-Sakalthôr.
Dopo la rinuncia della sorella maggiore, la secondogenita del Re è disposta a tutto per ottenere lo Scettro e, minacciata dalle manovre del Consiglio e di suo fratello, si dà alla fuga.
Ma Gimilzôr ha mandato sulle sue tracce il suo uomo più letale con una missione: farle cambiare idea o ucciderla.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ar-Gimilzôr, Ar-Sakalthôr, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ricordi perduti dalla Terra del Dono'
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Regina senza Scettro - Parte III. La pena


Dizionario Neo-Adûnaic:

Le parole Adûnaic in questo dizionario sono traduzioni di termini canonici (Quenya e Sindarin) elaborate da me, melianar e tyelemmaiwe. Non sono ufficiali e non possono essere riutilizzate senza permesso né senza attribuzione.
In caso di * (asterisco) anche la parola nella traduzione è opera nostra.


Anazûlê: “Terra dell’Est”*, ossia la Terra di Mezzo
Azûlada: Rómenna
Azûlatar: Orrostar
Durnûkad: Orneros*, città dell’Orrostar
Khâdatar: Forostar
Mittabar: Mittalmar
Narkuzîth: Sorontil
Nimrulôdi: Eldalondë
Unzûkadar: Ondostó




Regina senza Scettro

III. La pena






Era il primo pomeriggio, quando la porta della sua camera da letto tremò alla chiusura di quella degli appartamenti. Ecco il segnale. Balkahîli si alzò dal letto pronta ad affrontare la visita giornaliera di sua madre con le due schiave per farle il bagno. In una settimana rinchiusa nei suoi appartamenti – e di preciso in una stanza – quelle erano le uniche facce che vedeva, al di fuori della sua ancella a pranzo e cena.

Gimilzôr non si era degnato di passare.

Né lui, né altri.

Non male, rispetto alla sua previsione dopo la cattura, mentre i soldati la trascinavano tra i tunnel segreti. Si era figurata uno scontro finale con suo fratello e poi una morte atroce, nelle gentili mani dei suoi uomini, ma alla fine si era ritrovata in questa stanza, la sua camera da letto, con due guardie fuori alla porta e altre quattro nel corridoio.

L’isolamento la snervava: era la tortura più misericordiosa che potessero riservarle.

Meglio di trovarsi ancora faccia a faccia col cane di Gimilzôr, il ricordo perpetuo di quanto era stato facile illuderla, farle assaporare la libertà. Aveva assaggiato un gusto paragonabile al potere che le avrebbe dato stringere le mani intorno allo Scettro e le era stato strappato. Di nuovo.

La porta si aprì e non fu sua madre a spuntare, ma un volto che le somigliava molto, fino ai capelli neri raccolti in un turbante di trecce, catenine e gioielli.

Phazakhêri, l’Erede-che-aveva-rifiutato, entrò nella camera da letto e si guardò intorno.

«Hai riarredato» disse, lo sguardo sulla scrivania – vuota, le avevano tolto qualsiasi strumento di scrittura! – messa di sbieco all’esatto centro della camera, i divani sparsi, i cuscini gettati ai quattro angoli o strappati, le piume ovunque.

Infine le rivolse un’occhiata e tirò su un angolo della bocca. «Questo taglio corto ti dà carattere».

Balkahîli sbuffò e incrociò le braccia sul petto.

«Cosa vuoi? Sei venuta a farmi una lezioncina?»

Phazakhêri raggiunse la scrivania, con passi lenti, il lungo abito dal taglio sudrone che ondeggiava a ogni passo, lo strascico e le lunghe maniche striscianti dietro di lei.

«Servirebbe a qualcosa? No».

Balkahîli inarcò le sopracciglia, in attesa di una vera risposta.

«Sei più sobria di quanto ricordassi» disse Phazakhêri, accarezzando il ripiano della scrivania.

«Difficile non esserlo, quando l’unica bevanda diversa dall’acqua che accompagna i miei pasti è la spremuta».

La mano di Phazakhêri si fermò all’altezza del cassetto centrale e lo aprì.

«Inutile che guardi: hanno svuotato tutto».

Lei sospirò. «Rilassati, sorellina, non sono qui per me».

«Continui a fare commenti sullo stato della mia cella e del mio aspetto, è troppo indiretto persino per te» disse Balkahîli. «Izrîn sta bene? Perché non sei con lei, nella villa per cui hai detto addio a tutto ciò che ti spettava, invece di onorarmi della tua presenza?»

«Potresti avere più di quel che ho voluto io, se solo ti applicassi».

Sì, lo Scettro, avrebbe voluto risponderle. La stessa risposta che aveva dato al Consiglio. Ma si fermò. Non era servita allora e non era a lei che doveva portare tali argomentazioni.

Il cane aveva abbaiato parole sensate, non poteva negarlo.

«Non posso accettare quest’ingiustizia» disse. «Se cedo ora, cosa mi farà accettare? È nostro fratello minore, come può pensare di dirmi cosa dovrei fare con la mia vita?»

Il viso di Phazakhêri si ammorbidì.

«Potrei darti la risposta di nostra madre, ma eviterò di rimarcare cose che conosci già, nonostante le proteste» disse lei. «Pensi che cedere ora ti obbligherà a cedere ad altro. Però quale rinuncia più grande potrebbe obbligarti a fare? Lo Scettro è quel che hai voluto da quando eri una bambina».

Balkahîli tornò a sedersi sul letto. Già, cosa poteva chiederle ancora? La vita? Senza lo Scettro all’orizzonte, non vedeva altre ragioni per tenerci tanto.

La sua vita era stata un’attesa per lo Scettro e nient’altro.

«Si tratta di una grande rinuncia, lo so, ma ti apre molte altre strade» disse Phazakhêri. «Alcune delle quali non hai mai considerato».

Incontrò lo sguardo di sua sorella. «È questo che hai fatto tu?»

«Non ho mai voluto lo Scettro, sorellina. Nemmeno quando ero ancora l’unica figlia. Per me il sacrificio sarebbe stato accettarlo».

«Ti avrebbero obbligata a sposare un uomo».

Phazakhêri scrollò le spalle. «Non lo avrei fatto, sarei stata una seconda Telperien. Ma avrei dovuto occuparmi di situazioni sgradevoli e sarei stata ricordata come “la Regina che lasciò regnare il Consiglio al suo posto”».

«Non saresti la prima nella storia a farlo» disse Balkahîli, «ma, hai ragione, ti avrebbero ricordata solo per quello e saresti stata un’ulteriore prova a sfavore delle Regine Regnanti».

Phazakhêri sorrise. «Sì, per somma gioia dei Nimruzîrim. Sono loro che fanno più rumore contro di noi e che Vanimeldë non fosse un esempio di pietà li aiuta a credere che la tara sia tutta di noi luridi infedeli».

«Per una che vuol stare lontana dai giochi di palazzo, stai facendo discorsi molto politici».

Le strizzò un occhio e si poggiò contro la scrivania. «Come ti dicevo, non sono venuta per me» disse e lanciò un’occhiata verso la porta rimasta socchiusa. «Abbiamo compagnia».

Qualcosa cambiò nell’aria della stanza e Balkahîli rivolse lo sguardo nella stessa direzione. L’aria rilassata che sua sorella le aveva infuso svanì appena superò la soglia loro padre.

Non lo vedeva dall’ultima – fatale – seduta del Consiglio e il tempo era stato inclemente con lui: il volto era segnato dalla preoccupazione; i capelli, un tempo di un castano ricco e venato d’oro dal sole preso come marinaio, sembravano più grigi che mai.

«Attû?»

Balkahîli si vergognò del tono petulante con cui lo aveva chiamato. Si sentiva di nuovo una bambina, vulnerabile dopo un rimprovero che non capiva.

Lui si richiuse la porta alle spalle e strinse una mano intorno all’altra, davanti a sé, la pelle che mostrava le prime macchie. Riconosceva quei segni. Erano gli stessi che avevano segnato l’inizio del tramonto di Ar-Zimrathôn.

«Perché sei qui?» gli chiese.

«Speravo di sentirti cambiata» disse, scandendo le parole come se lei fosse tarda di comprendonio. «Ma mi hai ricordato perché, dopo averti ritenuta la mia erede per tutti quegli anni, mi sono reso conto dell’errore».

Balkahîli strinse i pugni fino a sbiancare le nocche.

«Non sei disposta a sacrificare nulla per lo Scettro. Non intendi metterci più impegno di quello che richiede sbattere i piedi e protestare con chiunque ti dica la verità. Credi che basti il mio consenso e di non dover faticare più di così».

«Sei tu il Re, perché dovrei pestarti i piedi e imporre le mie idee quando sei tu a reggere lo Scettro?»

Attû scosse la testa. «Non hai mezze misure».

«Non hai mai pensato di avvisarmi prima di lasciare che Gimilzôr deviasse il Consiglio?»

«Sei adulta, Balkahîli, non puoi aspettare che io ti dica cosa fare e ti sgridi quando sbagli» disse lui. «Perché credi che ti consulto ancora nel momento di prendere decisioni complesse? Cerco di coinvolgerti nel governo, di darti l’opportunità di dimostrare che, sotto la donna che sei diventata, c’è ancora la bambina che mi offriva i suoi consigli ingenui e non richiesti dopo la udienze!»

Balkahîli cercò gli occhi di Phazakhêri, ma lei guardava fuori dalla porta finestra, attraverso le tende tirate e i loro ricami floreali.

«Non critico i tuoi passatempi, Balkahîli» disse attû. «Non saresti la prima né l’ultima Erede dedita ai piaceri della vita invece che al governo, ma in questi tempi non possiamo permettercelo. Ti ho dato gli strumenti per capirlo da te, ma in assenza di risposta adeguata da parte tua ho dovuto prendere provvedimenti».

Si ritrovò con la gola secca e il bisogno di abbassare lo sguardo. Era come ricevere uno schiaffo, ma questo bruciava più di quelli che aveva ricevuto da sua madre perché, in tanti anni, attû mai aveva alzato una mano su di lei.

«Mi fidavo di te» riuscì a biascicare. Di nuovo una bambina petulante.

La serratura della porta cliccò e Balkahîli sollevò lo sguardo verso attû.

«E io credevo in te» le disse. «Ma mi sono dovuto ricredere».

Con quelle parole, uscì dalla camera da letto, lasciando la porta aperta perché Phazakhêri lo seguisse.

Cosa che lei non fece. Non poteva rimanere sola con la sua umiliazione?

«Attû ha detto tutto» disse Balkahîli, gli occhi sulla sorella. «Non ho più bisogno di quella lezioncina».

Phazakhêri le rivolse un sorriso, infilò la mano nella fusciacca colorata intorno alla vita e ne estrasse un cofanetto di legno laccato. Balkahîli sgranò gli occhi, mentre sua sorella lo infilava nel cassetto centrale della scrivania.

«Posso rifiutare i giochi di palazzo, ma non permetterò che chi è più portato di me ne resti tagliato fuori» le disse e richiuse il cassetto senza rumore. «Fanne buon uso, sorellina. Hai alleati che non credevi di avere».


* * *


Il servitore richiuse la porta alle spalle di Minulzôr, prima che lui potesse fare marcia indietro. Gimilzôr sedeva alla scrivania ma non era solo: era chino su un rotolo con squadra e compasso, mentre Gimilkhâd indicava con un dito e un tocchetto di grafite diversi punti sulla carta.

«Disturbo?»

Gimilzôr sollevò la testa. «Niente affatto, avvicinati pure».

Anche Gimilkhâd si distolse dal rotolo e il volto si illuminò in un sorriso.

«Minulzôr!»

Girò intorno alla scrivania e gli andò incontro per abbracciarlo. Minulzôr gli cinse le spalle e gli scompigliò i capelli neri come quelli del padre, quasi fosse ancora il marmocchio di un tempo.

«Non sapevo fossi tornato da Azûlada» gli disse. «Già terminato il tuo progetto navale?»

Con una risata Gimilkhâd sciolse l’abbraccio e mosse un passo indietro.

«Attû mi ha richiamato qui per vedere come procede, proprio quando ero bloccato su un problema» disse, con un sorriso fiducioso al padre. «Stavo cercando un modo per far stare meno schiavi possibile ai remi senza perdere la velocità delle navi, ma c’è sempre qualche conto che non torna».

Gimilzôr incontrò il suo sguardo. Quindi stava procedendo con il piano.

«Sarò curioso di vedere la tua opera in mare». Minulzôr tirò una pacca sulla spalla del ragazzo – felice di vederlo così sereno, preoccupato perché l’ultima cosa che voleva era l’avanzare della falsa congiura per incastrare lei.

«Appena inizieranno i lavori, ti inviterò al cantiere, puoi scommetterci».

Gimilzôr si alzò dalla scrivania, spostò gli strumenti di lavoro e riavvolse il rotolo.

«Fai le correzioni che ti ho suggerito» disse lui, «ora devo parlare un attimo con Minulzôr».

Gimilkhâd si affrettò a prendere le sue cose e uscì con un saluto sorridente a entrambi.

A porta chiusa, Minulzôr parlò.

«Inziladûn?»

Gimilzôr tornò seduto, con una smorfia. «Ad Adûneth, con Inzilbêth. Ma non era di questo che volevo parlarti».

Minulzôr si avvicinò alla scrivania, mentre l’altro apriva un cassetto e ne tirava fuori un plico di lettere. Prove false? Stava andando tutto con più rapidità di quanto si aspettasse.

«Avevo ragione a temere una manovra da parte di mia sorella» disse Gimilzôr, porgendogli il plico. «Non ho idea di come abbia ottenuto materiale di scrittura, ma guarda tu stesso. Sono di stamattina».

Minulzôr sfilò il fermaglio che teneva i fogli insieme, lo stomaco annodato. Poteva aver commesso davvero un passo falso simile, la principessa? Dopotutto poteva immaginare anche lei che qualsiasi lettera avesse scritto sarebbe finita in mano al fratello, e non ai destinatari corretti.

Che stesse cercando di mettere fine a tutto?

Lanciò un’occhiata a Gimilzôr e scorse lo sguardo sulle parole.


Caro Imrazîr,

La prigionia non mi dona. Pensavo che stare tutto il giorno nella mia camera da letto potesse portare benefici al mio aspetto, soprattutto dopo quell’infruttuosa scampagnata nella brughiera, ma mi ritrovo a pensare.

Sai quanto detesti pensare.

Ma sono lì che guardo le sete di Anazûlê del mio baldacchino e mi chiedo: come mai dobbiamo spendere il doppio per acquistarle dai tessitori del Gran Re dell’Harad, quando potremmo produrcele da noi, con l’utilizzo delle popolazioni locali che lavorano anche per lui? È qualcosa che bisognerebbe fargli notare, non trovi?

Senza parlare di come–


Minulzôr premette le labbra tra loro per trattenere una risata. Passò alla lettera successiva per trovarvi lo stesso genere di chiacchiericcio. Anche in quella dopo, e quella dopo ancora.

Aveva davvero temuto, per un attimo, che la principessa non si rendesse conto della situazione?

«Stai ridendo, lo posso vedere» disse Gimilzôr.

Minulzôr sollevò lo sguardo dalle lettere. «Non sono lettere per i suoi amici, ma per te. Ti sta suggerendo come potrebbe esserti utile: trattati di pace con la tribù lungo i confini nord-est dell’Umbar, accordi commerciali con il Gran Re dell’Harad, stabilizzazione delle nostre colonie, e altro». Fermò di nuovo le carte col fermaglio e le porse al principe. «Mi trova d’accordo».

Gimilzôr esitò a riprenderle.

«Cosa vuoi dire?»

Minulzôr posò le lettere sulla scrivania. «Inviala nell’Umbar con mandato reale, nominala Console dello Scettro e falle assestare la posizione delle colonie in Anazûlê».

Gimilzôr lo scrutò, le mani intrecciate davanti a sé sulle carte sparse. Il volto era composto in una maschera impenetrabile, distante da lui. Era quello il volto di un vero Re di Anadûnê, il volto di chi poteva incutere timore anche nell’amico di una vita.

Forse Minulzôr ne era intimorito perché ora aveva qualcosa da perdere.

«Cosa mi assicura che farà quel che le dirò e che non raccoglierà supporto per minare il mio potere?»

«Manda me con lei».

La maschera minacciò di scivolare con uno spasmo delle dita, ma tornò subito al suo posto.

«Ho bisogno di te qui» disse Gimilzôr. «Mia moglie è succube di quella donna e non potrei accettare che succeda lo stesso al mio primogenito».

Ma Inziladûn era già troppo distante dal padre perché Minulzôr potesse farci qualcosa. Lui non era adatto a recuperare figli ribelli, lo aveva già dimostrato con la principessa. Era un cacciatore, non un cane da guardia.

Cosa sei al di fuori del suo cane? Quali interessi hai al di fuori di ciò che serve a mio fratello?

Era tempo che Gimilzôr si occupasse da sé degli affari di famiglia. Qualsiasi cosa fosse capitata a Inzilbêth durante la gravidanza e il parto di Gimilkhâd, toccava al marito capirlo e rimediare. Un primo passo poteva essere eliminare la Saggia da cui lei si faceva consigliare e guidare nelle preghiere.

«Non posso, khôr» disse Minulzôr. «È giunto il tempo di ritirarmi».

Gimilzôr sussultò e sbatté le palpebre.

«Come rientra la tua partenza per l’Umbar, a guardia di mia sorella, in questo piano?»

Gli abiti morbidi e ariosi della corte erano di poco conforto quando si trovava sotto lo scrutinio di Gimilzôr. Forse perché nascondeva un segreto che avrebbe fatto infuriare il principe.

Poteva avere a noia la sorella, ma non per questo avrebbe gradito sapere che, lungo la via del ritorno, non si era limitato a farle da carceriere.

«Ricordi i miei progetti di andare a vivere nell’Umbar? » disse Minulzôr. «Sento che è giunta l’ora di realizzarli. La mia missione è sempre stata quella di sostenerti nella tua rivendicazione dello Scettro e ora, senza tua sorella a opporre resistenza, hai la strada spianata. Non hai più bisogno di me».

Gimilzôr aprì la bocca per ribattere.

«Puoi aggrapparti a me per abitudine, ma sei in grado di muoverti da solo».

«È stata lei, vero?»

Minulzôr corrugò la fronte.

«Le sono bastati due giorni». Gimilzôr premette le mani, una nell’altra, contro la bocca. «Prima hai iniziato con le obiezioni ai miei piani per giustificare una sua condanna a morte, poi a supportare l’esilio, e ora questo».

Minulzôr strinse i pugni.

«Non lo faccio per lei, né per te» disse. «Per una volta, sto ascoltando me stesso».

Con un sospiro, Gimilzôr si alzò dalla sedia e girò intorno alla scrivania per raggiungerlo. Gli strinse le braccia intorno alle spalle. Minulzôr rimase immobile, interdetto. Era l’ultima reazione che si sarebbe aspettato, dopo quelle parole.

Ma, alla fine, strinse anche lui Gimilzôr in un abbraccio.

«Non mi ha strappato lo Scettro, ma un amico sì».

Non aveva idea di quanto avrebbe trovato di gran lunga peggiore la verità. Minulzôr non se ne vergognava. La principessa aveva ragione: c’era qualcosa al di sotto della fedeltà con cui aveva servito Gimilzôr in tutti quegli anni.

Si tirò indietro, per guardarlo negli occhi.

«Sarò sempre tuo amico».


* * *


La lettera di Gimilzôr, arrivata quella mattina con la colazione, doveva essere uno scherzo.


... così, ho reputato più utile per il regno che tu soprassieda all’Umbar come Console dello Scettro e faccia in modo che le voci sulle agitazioni lungo i confini restino voci, assicurandoti la pace dentro e fuori le colonie.

Partirai tra sette giorni, con Minulzôr. Non hai altra scelta. Lui farà in modo che tu arrivi a destinazione e che ci rimanga.

Oltre a essere la migliore guardia del corpo che potresti mai meritarti.


Console nell’Umbar? Come poteva essere passato dal volerla morta ad accogliere la richiesta nelle sue lettere?

Balkahîli ripiegò il messaggio e lo depose sul piattino, indecisa se saltare per la stanza o preoccuparsi. Scese dal letto, si avvolse nella vestaglia e raggiunse la porta-finestra sui giardini interni, la mente che si arrovellava sulla seconda parte.

Gimilzôr avrebbe mandato Minulzôr con lei.

Non bastava la beffa di averla fatta sedurre dal suo cane, ora avrebbe dovuto sopportare la sua presenza nell’Umbar. Ogni volta che gli avesse posato gli occhi addosso, avrebbe ricordato i suoi baci febbrili e la forza con cui aveva affondato in lei, la corteccia ruvida sulla pelle – un giusto contrappeso alla delizia che le aveva provocato il suo corpo contro e dentro di lei.

Si strinse nelle braccia, il labbro inferiore tra i denti, mentre un brivido le risaliva il corpo al solo ricordo.

Non sarebbe stata costretta a passare tutto il tempo con lui, vero? Avrebbe avuto un palazzo abbastanza grande da evitare di vederlo spesso.

Sempre che fosse sopravvissuta al viaggio in mare senza fare qualche sciocchezza per rivivere quelle memorie. Avrebbe potuto chiudersi in cabina durante tutta la traversata. Al sicuro e lontana dalle tentazioni.

Bussarono alla porta.

Non aveva mai ricevuto tante visite come in quegli ultimi giorni. Non fosse stato per la lettera di Gimilzôr, avrebbe creduto si stessero preparando tutti a darle l’ultimo saluto.

«Entra».

La porta si chiuse, piano, e chiunque fosse entrato con tanto silenzio non si annunciò.

Balkahîli si voltò.

Le mancò il fiato.

Minulzôr.

Erano spariti gli abiti da cacciatore: indossava una tunica verde scuro, sopra camicia e pantaloni morbidi di qualche tonalità più chiari. I capelli rossi non erano più fermati dietro la nuca, tirati in una coda punitiva, ma scivolavano oltre le spalle, pettinati e disciplinati – supplicavano che lei li scompigliasse al più presto.

Pur fuori dagli abiti di cuoio e cotone che indossava sempre, non l’avrebbe mai ingannata. La schiena rimaneva dritta, la postura militare anche sotto le sete nobiliari, il mento alzato con orgoglio.

Quel che era cambiato di più, però, era il suo sguardo. Scorreva su di lei, come per accertarsi che non mancasse nulla.

C’era nostalgia a un passo dalla soddisfazione.

Balkahîli deglutì, nel tentativo di liberarsi del nodo che le si era formato in gola.

Non si sarebbe mai aspettata né quell’espressione nei suoi occhi, né la stretta al petto nel rivederlo. Avrebbe dovuto essere ancora arrabbiata per essere stata ingannata.

Avrebbe dovuto accoglierlo con un cuscino in faccia.

Ma non ne era in grado.

«Hai ricevuto la notizia?» disse Minulzôr, fermo a pochi passi dalla soglia.

Lei annuì.

Minulzôr rilassò le spalle. «Ho lasciato il mio posto, mi sono ritirato dal servizio del principe».

Partirai tra sette giorni, con Minulzôr… la migliore guardia del corpo che potresti mai meritarti.

Allora capì.

«Tu».

Minulzôr corrugò la fronte, ma rimase dov’era. Così toccò a Balkahîli raggiungerlo, con poche, ampie falcate e battergli le mani al petto.

«Cosa credevi di fare!»

Svanita la sorpresa dei primi colpi, lui le afferrò i polsi. «Che ti prende?»

«Come ti è saltato in mente di scambiare un servizio per un altro? Potresti andare ovunque e ti stai facendo mandare nell’Umbar con me, stupido cane!»

La stretta si fece più serrata e Balkahîli trattenne il fiato. Fu difficile mettere insieme l’espressione pietrificata di lui con il modo in cui la teneva. Non capiva se fosse arrabbiato, ferito o sconvolto.

Come gli era saltato in mente?

Credeva fosse necessario per quel che avevano fatto sulla via del ritorno?

Strattonò i polsi e lui li raccolse in una mano, la presa per nulla allentata, e le afferrò il mento per obbligarla a guardarlo negli occhi.

«Non partirò al tuo servizio, principessa» disse lui. Il suo tono calmo non avrebbe dovuto lasciarle alcun dubbio.

«Ti sei fatto esiliare. Con me».

Lui abbozzò un sorriso rassegnato e allentò la presa.

«L’Umbar non è un esilio. Non c’è altro posto dove vorrei essere».

Balkahîli si liberò, ma non per colpirlo ancora. Quegli occhi prosciugarono la rabbia con la stessa velocità con cui era divampata.

«Ho provato per giorni a convincerlo di trovare un’altra soluzione» le disse, in un sussurro. «Quelle lettere sono arrivate al momento giusto».

Balkahîli chiuse gli occhi, gli prese il viso tra le mani e lo tirò a sé, per premere la fronte contro la sua e mescolare il respiro col suo.

«Se avessi saputo che avresti fatto un’idiozia simile», inspirò il suo odore, pulito e fresco come di una pineta, «non le avrei mai scritte».

Le mani di lui esitarono, prima di posarsi intorno alla vita.

«Invece sì».

Le labbra di Minulzôr cercarono le sue, determinate come l’abbraccio in cui la avvolse. Aprì la bocca alla sua e si abbandonò a lui, travolta dal sollievo per il futuro che si era spalancato davanti a lei e dalla gioia di non dover percorrere quella strada da sola. Phazakhêri aveva ragione. Se non avesse scritto quelle lettere, avrebbe perso per sempre questi baci al gusto di infinite possibilità, che la facevano sentire davvero capace di tutto.

Balkahîli strattonò i lacci della tunica di Minulzôr, alla ricerca di un contatto con quella pelle che non aveva ancora potuto toccare come avrebbe voluto.

«A tuo fratello non piacerà nemmeno un po’» disse lui, senza accennare a fermarla.

«Meglio».

Una risata gli rombò in petto, mentre lei lo spogliava e lo attirava a sé. Un suono che Balkahîli intendeva sentire ancora a lungo. Per tutta la durata di quell’esilio mascherato.

Così come aveva danneggiato da sola i suoi prospetti per lo Scettro, ora intendeva gettare le basi per un consolato di successo. E avrebbe iniziato come intendeva continuare: sul letto ancora sfatto dalla notte, insieme a Minulzôr.


* * *


Il canto delle cicale entrava dalla finestra aperta, insieme al calore del sole di metà mattinata. Dopo sei anni, era ancora una vista nuova per Minulzôr, abituato com’era sempre stato ad alzarsi con l’odore dell’alba nelle narici.

La decadenza a cui si era abituato, però, aveva il gusto della pelle di Balkahîli.

Strofinò il naso contro il ventre morbido su cui aveva la guancia e accarezzò con le dita una linea liscia e pallida sulla pelle, uno dei dolci segni della gravidanza conclusasi quattro mesi prima.

Con un grugnito, lei inarcò la schiena e distese le braccia sopra la testa.

Minulzôr le baciò l’ombelico e si sollevò sui gomiti per guardarla stiracchiarsi, i capelli – di nuovo lunghi – un groviglio selvaggio. Nelle sete e con i gioielli delle colonie, la donna a cui aveva dato la caccia nel Khâdatar sembrava svanita del tutto per lasciare di nuovo il posto alla principessa viziata della corte di Ar-Minalêth. Un’impressione sbagliata: il vino lo beveva ancora, certo, ma mentre affascinava messi del Gran Re dell’Harad e li convinceva dell’utilità di avere buoni rapporti con gli ospiti pallidi giunti dal mare.

Come avrebbe dovuto fare tra un paio di ore.

«Mi fai perdere tempo utile» gli disse lei, la voce languida.

Gli risalì il braccio con una carezza e serrò le dita tra le ciocche di capelli alla base della nuca. Minulzôr si protese verso il suo viso, incapace di trattenere un sorriso al suo invito.

«Che senso avrebbe essere già pronta, quando rischieresti di disfare acconciatura e stropicciare gli abiti nell’attesa?» Allungato sopra di lei, la vita circondata dalle sue gambe, si abbassò sui gomiti e premette il bacino contro il suo. «Ti annoieresti a morte».

Con un sorrisetto, Balkahîli sollevò la testa e gli baciò il collo.

«E ora intendi perdere altro tempo» le disse e si strofinò contro di lei, per sentirla scuotere da un tremito. Le passò un braccio sotto la schiena e si rotolò sul materasso fino a posizionarla sopra di sé.

Lei piantò le mani ai lati della sua testa e ondeggiò i fianchi contro di lui, il labbro inferiore stretto tra i denti. I seni oscillarono, gonfi di latte–

Una goccia cadde sul suo petto.

Minulzôr incontrò lo sguardo di lei e scoppiò a ridere. Balkahîli grugnì seccata.

«Altro problema che avresti incontrato a essere già pronta» le disse e, con una pacca sul sedere, la spostò di lato e scese dal letto.

«Non vedo l’ora di svezzarlo» la sentì borbottare, mentre passava nell’altra stanza.

Nella culla, lontana dalla finestra, Balkazar era ben sveglio, gli occhi scuri e tondi aperti e un ciuffo rossiccio che spuntava dal telo in cui era avvolto. Gli sorrise nel riconoscerlo.

«Buongiorno, piccolo» gli disse Minulzôr, dopo aver ricambiato il sorriso, e lo sollevò dalla culla, per stringerlo tra le braccia, la testolina contro la sua spalla nuda. Dita piccole dalle unghie morbide gli tastarono la pelle e Balkazar tentò di darle un morso senza denti, alla ricerca del cibo che voleva ma non aveva ancora urlato per ottenere.

Accarezzandogli la schiena, Minulzôr tornò nella camera da letto dove Balkahîli si era sistemata seduta contro la testiera del letto, circondata da cuscini. C’era sempre una certa preoccupazione nei suoi occhi quando si trattava di loro figlio, un’insicurezza non dissimile da quella che aveva scorto in lei durante il loro ritorno ad Ar-Minalêth dal Khâdatar.

Lui non aveva dubbi che lei sarebbe stata capace di prendersi cura di Balkazar. La riluttanza con cui lo avvicinava era dettata da paura di sbagliare e affetto.

La capiva.

Ma Minulzôr era al suo fianco per un motivo, no?

Sedette di fianco a lei e le porse Balkazar, che si agitò per saltarle tra le braccia.

«Direi che lui è più contento di te» la prese in giro.

Balkahîli sospirò e se lo attaccò al seno, scrutandolo in viso, l’espressione sobria. Minulzôr le accarezzò la guancia, attirando su di sé quello sguardo.

«Che ne dici se scriviamo a Gimilzôr per dirgli che ha un nipote?»

Lei chiuse gli occhi. «Ho paura che la prenderebbe come una minaccia».

«Ormai è Erede del Re, non ha motivo di temere».

«Lo conosci meglio di me, sai che in un momento di paranoia potrebbe interpretare l’esistenza di nostro figlio come una minaccia futura alla sua famiglia».

Era vero, e Gimilzôr non avrebbe gradito neppure il matrimonio tra loro. Anche se Minulzôr sospettava che gliene fosse già giunta notizia.

Di una cosa era ancora più certo, però: «Tenere il segreto non lo renderà più bendisposto nei nostri confronti» le disse. «Potremmo mandargli ora gli auguri per la nomina a Erede del Re insieme a un ritratto di nostro figlio. E più avanti gli chiederemo di accettarlo nell’esercito, come capitano navale».

«Pensi gli basterà avere la nostra sottomissione?»

Minulzôr si posizionò con la schiena sui cuscini di fianco a lei e le avvolse le spalle con un braccio. Balkazar aprì un occhio, per sorvegliare i dintorni, e tornò a ciucciare con una manina sulla pelle pallida sopra l'areola. Non era del tutto ignaro che stessero parlando di lui, ma forse era solo una sua impressione.

Balkahîli posò la testa contro il suo collo e lui la strinse contro di sé.

«Stai ottenendo ottimi risultati, qui nell’Umbar, non può negarlo. E lo stai facendo per il regno, non per te. Continuerai a farlo quando lui sarà re. Non può che giocare a suo favore».

Lei accarezzò una gambina di Balkazar attraverso il tessuto del lenzuolo e lui richiuse l’occhio, la postura più rilassata.

«È una questione di orgoglio?» le chiese Minulzôr.

Balkahîli scosse la testa. «Ormai ci sono cose più importanti del mio orgoglio».

«Proprio per questo non ti sentirai al sicuro, non finché saprai che Gimilzôr ha dei conti in sospeso con noi».

«Con me».

Minulzôr le baciò la testa.

«Ti ho sposata e abbiamo avuto un figlio. Sono colpevole quanto te, ai suoi occhi» le disse. Non rimpiangeva nemmeno una di quelle scelte. «So come pensa, per questo trovo sia meglio informarlo subito e capire se vuole accettarci o meno.

«E se dovesse opporsi a noi, sono certo che nel Sud il Gran Re ci ospiterebbe».

Balkahîli emise un verso nasale. «Altro non vuole, se non l’occasione di avere degli Adûnâim nella sua corte per profittare delle nostre conoscenze».

«Come noi profittiamo delle loro. Grazie a te».

Lei sollevò il viso per incontrare il suo sguardo. Soppesando quella possibilità. Giungendo a una conclusione.

«Finito l’incontro con gli emissari sudroni, gli scriverò».

Minulzôr sorrise e, ne fu convinto, anche Balkazar lo fece.






Nota dell'autrice


*musica musica* Balkazar! CRYING AT THE DISCOTEQUE! *musica musica*
Chià ci teneva a dire la sua...

*unz unz*

Sfogata la botta di nostalgia canaglia ascoltando un po’ di hit degli Alcazar, anche questa avventura – per quanto breve – giunge al termine!
Non mi viene più in mente cosa volevo scrivere nelle note, sono giorni che cerco di ricordarlo e ora sono troppo stanca per scervellarmi oltre. Semmai uscirà fuori nei commenti.

Perciò passo ai ringraziamenti:

  • come sempre, un enorme grazie a Kiaealterego, alfabeta extraordinaire, che mi sopporta nella buona e nella cattiva sorte e sdrammatizza qualsiasi dramma le scodelli :)
  • grazie a Mel e Tyel per l’assistenza con i nomi, perché la mia pignoleria ha bisogno di sfogo e se mi mettessi da sola sull’Adûnaic non ne uscirei più e non scriverei un bel niente perché troppo presa dalla linguistica (già mi faccio troppo prendere dal worldbuilding base). In particolare, in questo capitolo Balkazar e Phazakhêri è una produzione congiunta, quest'ultimo con tanto di Neo-Adûnaic di mezzo!
  • e grazie ancora a Melianar, Tyelemmaiwe e Losiliel per avermi accompagnata in questa brevissima avventura con i loro commenti, a Feanoriel per i deliri privati e grazie anche a Fefyna e _Madame_ che hanno messo RSS rispettivamente nelle seguite e preferite: non avrei mai creduto che una storia simile potesse interessare a qualcun altro oltre a me stessa! ♥

E anche quest’anno posto a pochi giorni (tre) dal compleanno di Tyel: un anno Prima Era, un anno Seconda Era, il prossimo? Terza Era?

Ci vediamo tra due settimane, forse, se non schiatto prima per eccesso di straordinari!

Grazie a chi ha letto e alla prossima,

Kan


   
 
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