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Autore: Alexis Laufeyson    08/07/2018    0 recensioni
Tsarn ha iniziato ad osservare gli umani dal momento in cui è caduta all'Inferno assieme alla Stella del Mattino. Li odia, perché non capisce come Dio possa concedere il perdono anche alla peggior feccia per poi non degnare i propri figli dannati di un solo sguardo, ma desidera anche poterli osservare da vicino. Lei è l'Ira, il Vizio peggiore e figlia prediletta della Cupidigia, ed è per questo che la Stella la invia sulla Terra, una mattina nebbiosa del 793 -non si aspetta di certo di essere osteggiata, lei.
La Carità è la Virtù più alta, spada e paladina di Dio, pura ed innocente e ingenua ambasciatrice dei Cieli, ma nonostante la facciata, neanche lei può essere cieca davanti allo sfacelo umano. Finge di non vedere, però, inizialmente incolpando il Vizio e Lucifero per tutto il Male commesso, tuttavia la realtà è ben diversa, e di certo non si aspetta di scoprirla per mano di un demone.
Tra le pagine della storia, una macchia nera si espande sul buon nome del Paradiso: una relazione clandestina che sa di lacrime e fumo e alla quale, tuttavia, si inchina persino la Città Eterna.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«Perché l’amore non è parte del mondo dei sogni.
L’amore appartiene a Desiderio,
e Desiderio è sempre crudele.»
(Neil Gaiman)
 
 




5 Novembre 1643, Via di Ripetta, rione Campo Marzio, Roma, Stato della Chiesa, Italia

Definire la Via di Ripetta come l'Inferno in Paradiso era come paragonare acqua e vino: troppo semplice e a tratti inutile, poiché lì, proprio sotto l'occhio della Santa Madre Chiesa, si consumavano gli atti più lussuriosi e infidi tra le gambe di qualsivoglia prostituta imbellettata (o prostituto, nonostante gli idiomi umani preferissero negarne l'esistenza persino nella parola). Persone senza passato né futuro, lucciole nella notte che si vendevano per vivere il presente a spese di chi, volgarmente parlando, non sapeva tenerlo nei pantaloni, ma a far ridere di più Tsarn -che si trovava lì per puro divertimento- era il vedere parroci e prelati acquattarsi negli angoli più bui e cedere alla tentazione del sesso.

Akrasía l'aveva abbandonata all'angolo della via non appena aveva visto il libido brillare negli occhi di un uomo -e non per la vista di un bel seno di donna- e ora vagava sola tra sodomiti e lussuriosi, accompagnata dal vento dell'est e con i gemiti del piacere nelle orecchie, un sorriso ad incurvarle le labbra e il cuore leggero. La maschera che indossava era quella di una donna androgina senza petto né curve ma con la pelle d'avorio e gli occhi di ghiaccio, ed era così reale che il freddo gelido dell'autunno ormai al termine le provocava brividi sulle braccia nude.

Viva -da quanto non si sentiva così?

Due uomini giovani si godevano all'angolo di un palazzo, voluttuosi e peccaminosi e veri, e i loro corpi combaciavano come le due perfette metà di un frutto proibito. Tsarn respirò il loro desiderio come aveva un tempo respirato l'incenso di una chiesa, ma questa volta non furono i polmoni a bruciare.

Tra le gambe, la voglia di essere intera era un prurito che non sapeva come domare.

Distolse lo sguardo, solo per allacciarlo involontariamente in un paio di occhi caldi color della terra bruciata che brillavano di -sollievo? Sul serio?- e riconobbe la Virtù solamente dal sorriso.

Agape aveva scelto di crearsi un corpo, quella volta, un corpo di donna pieno ma casto dalla pelle bruciata dal sole, avvolto da un abito povero che tuttavia non toglieva nulla alla dolcezza del volto tondo e della voce cristallina con la quale la salutò. Sembrava contenta di vederla, e se solo non fosse stato troppo improbabile, Tsarn avrebbe giurato che era persino impaziente.

«Sei qui per misericordia?» Domandò, tentando di rimanere distaccata (puro istinto, perché, anche se non l'avrebbe mai ammesso apertamente, nel profondo aveva sperato di rincontrarla).

L'altra alzò le spalle, le gote umane colorate da un tiepido rossore: «Forse. Tu ne hai bisogno?»

Tsarn rise, riconoscendo in quelle parole un'ironia tutta nuova che scoprì piacerle: «Credevo che agli occhi di un Angelo il Vizio avesse sempre bisogno della Virtù.» Scherzò, poi le porse il braccio come aveva visto gli umani fare più volte, quella e altre notti. «Vogliamo camminare?»



***


Si erano sedute sulla riva di un Tevere limpido come uno specchio e con le luci di una città eterna dietro le spalle, e ora bagnavano le gambe nude nell'acqua per godere dell'innocente illusione di essere chiunque -Agape non se lo sapeva spiegare, eppure da quando si avvolta nella maschera del proprio corpo mortale aveva mutato persino le preoccupazioni, e tutto sembrava così minuscolo di fronte alla maestosa bellezza di Castel Sant'Angelo.

Non era la prima volta che scendeva a Roma, perché era il luogo prescelto da Dio e come Angelo era suo dovere levarlo in gloria con la sola aura della sua divina presenza, ma mai il suo eterno sguardo era riuscito a cogliere la meraviglia dei rioni e del marmo che ne costituivano l'anima o a fermare nel tempo l'immagine pittoresca di migliaia di secoli che convivevano l'uno accanto all'altro.

Ed ora eccola come non avrebbe mai immaginato, in silenzio ai piedi della storia umana e con la sensazione in petto di essere piccola -vedeva con gli occhi finiti dei mortali tutto ciò che le era sempre sfuggito, la luce delle stelle riflessa nell'acqua, il cielo buio che accoglieva le guglie di alte chiese e cupole… la gloria terrena di una divinità degli stracci, anche, perché persino nei quadri della Vergine si leggeva la miseria di una semplice e popolana modella.

Ma era abbastanza per desiderare di essere altro.

«Alla Stella del Mattino non piacerà questo nostro incontro.» Esordì l'Ira, il volto alzato per guardare la volta celeste, ma nonostante le parole non c'era traccia di preoccupazione nella sua voce. Le sue gambe nude ciondolavano immerse nel fiume, e l'acqua smossa le schizzava la lunga gonna.

Agape inclinò un poco la testa: «Lucifero?» Domandò, perplessa: «Non lo temi?»

«Affatto.» L'altra accennò un sorriso, e abbassò gli occhi per poterla guardare: «Io lo rispetto, il che cambia completamente la prospettiva… lo servo solamente per mio volere, perché lui rappresenta tutto ciò in cui più fortemente credo. Ma non so perché ne parlo proprio con te.»

«Forse ispiro confessioni?» Azzardò, gioendo poi nel vedere sortito l'effetto sperato.

L'Ira rideva con la bocca nascosta dietro le mani per nascondere il proprio divertimento, e con piccole lacrime all'angolo degli occhi violetti di peccaminosa e androgina creatura.

Agape rise assieme a lei, ma poi un "non credevo che gli Angeli conoscessero l'ironia" smorzato dall'ilarità uccise il sorriso sulle sue labbra.
Angelo… no, non poteva chiamarsi tale, non se patteggiava con i demoni per riscoprirne la bontà e la bellezza nascosta.

«Non sono un Angelo.» vomitò quasi senza accorgersene: «Sto disubbidendo a Dio stando qui, non mi merito di esserlo.»

Sentì l'Ira sospirare accanto a lei e poi la sua mano gelida sulla spala: «D'accordo, ascoltami, perché quello che sto per dire sarà umiliante e non ho intenzione di ripetermi.»

Agape le rivolse un'occhiata perplessa: «Cosa?»

«Tu soffri, Agape, perché il bene che rappresenti qui sta morendo, nulla più e nulla meno. Se non fossi più degna di chiamarti Angelo solamente per questo, allora Dio non è nient'altro che tiranno e carnefice.» Un secondo sospiro: «Io sono quello che sono perché l'ho voluto, perché ero stanca di servire, ma tu… tu stai solamente amando, e non c'è desiderio più puro e divino.»

«Io..»

L'Ira la fermò on un gesto perentorio: «E adesso basta, ho pur sempre una reputazione da difendere.» Le labbra incurvate verso l'alto nonostante le parole, tornò a scrutare la volta stellata che già schiariva in attesa di un'alba dai contorni d'oro.

Baciarla le sembrò la cosa più giusta da fare, ma quando trovò la sua bocca scoprì di star rispondendo ad un bisogno durato secoli di logorante attesa; saggiò il suo sapore di polvere e fuoco, respirò il profumo sulfureo della sua pelle -non pensò che era l'Inferno quello sulle sue labbra, non pensò al peccato che stava commettendo. Era bello, ed era giusto, e la colpa non rientrava nel quadro perfetto che espandeva ogni suo senso.

L'Ira, dal canto proprio, l'accolse con sorpresa e incredulità, ma non la respinse. Invero, dischiuse le labbra, ubbidendo all'urgenza nel petto, nella testa -tra le cosce, per Lucifero! Era la carne che la chiamava, era il desiderio che urlava e la perfezione infinita della più pura Virtù che le si offriva cercando il suo abbraccio. E Agape -maledetto Dio che l'aveva creata- sapeva di ogni cosa, sapeva di stelle e sole e luna e cielo -di terra, e mare, dei fiori che aveva visto e mai toccato, del Tevere e della notte della Roma papale che le guardava e le avvolgeva, benedicendole col suo eterno abbraccio di marmo e storia.

Assecondò l'istinto di affondare le mani nella criniera dorata dei suoi capelli, voltandole la testa all'indietro per godere ancora di più del suo frutto proibito, ora che non c'erano barriere trascendenti a separarle; succhiò il suo labbro inferiore finché non divenne scarlatto, lo morse e lo vezzeggiò riscoprendone la dolcezza, poi insidiò la lingua nella sua bocca per poterla avere tutta, e Agape la lasciò fare, si lasciò baciare nel più intimo dei modi mentre le sue mani vagavano per conoscere, scoprire e marchiare quel corpo estraneo, quelle forme umane che fin'ora aveva solo visto..

L'Ira la abbandonò senza fretta, perché il respirare era una finitezza che non aveva potuto né voluto permettersi, e quando fu abbastanza distante da contemplare il suo viso, le sue mani carezzarono con nuova delicatezza le sue guance piene e rosee e morbide: «Non credevo che gli Angeli sapessero essere così intraprendenti.» Scherzò, ma senza malizia, e la risata di Agape sembrò quasi competere con le stelle.



***


Trono delle Virtù, Cielo di Marte, Paradiso

Si chiamava Tsarn.

L'aveva scoperto dopo averla baciata tanto a lungo da farsi bruciare le labbra. Un nome aspro e stridente per un Vizio di fumo, eppure le era sembrato perfetto e stupendo nonostante in quelle cinque lettere vi fosse la perdizione.

Era stato il sole nascente a porre fine al loro innaturale atto e a segnare l'ultima volta che l'aveva incontrata -secoli infiniti di distanza, tuttavia, non erano bastati a fa svanire il ricordo, e lei, seduta sul proprio trono, trovava il modo di sfuggire alle vicende terrene semplicemente revocando il suo viso e l'odore della sua pelle mortale.

Ma la tenerezza non era comunque abbastanza da renderla cieca davanti allo sfacelo e al battesimo di sangue di una nuova era, più libera e più prigioniera di se stessa, traditrice di tutto ciò che si era promessa di creare nel nome della Ragione -quella suprema, quella arbitraria che non sapeva fare altro che generare mostri.

Voltaire, Rousseau, Kant, tutti nomi vuoti da vanti al pianto di un bambino e al fischio di Madame Ghigliottina. La libertà, l'uguaglianza, la fraternità… smantellati pezzo a pezzo a assieme alla Bastiglia mentre la macchia nera a centro del suo petto grondava l'inchiostro del dolore più acuto, del veleno che la corrodeva da dentro e che non poteva succhiar via.

Persa, persa… dov'è la Carità? Dove sono io?
 


***

13 Brumaio, anno 2 della Repubblica, 1 Place de la Concorde, Parigi, Repubblica di Francia


 
«Marie Gouze 2, figlia di Pierre Gouze,
difendendo la legittima esecuzione di un traditore,
dimenticando le virtù che convengono al vostro sesso,
 e accusando di tremendi delitti il Governo,
vi siete macchiata del crimine di alto tradimento
nei confronti della vostra patria e della Rivoluzione.
Per tanto, nel nome della legge, il Tribunale ha sentenziato
per oggi, tredicesimo giorno di Brumaio
dell'anno secondo, la vostra condanna a morte
per decapitazione.»
 
 
 
E così terminava.

Una donna, una madre, una cittadina, uccisa dall'Ignoranza di una finta democrazia, e perché? Per aver rivendicato diritti che nessuno e aveva concesso, per aver proclamato di essere di più di un grembo da fecondare, di un volto di bambola da ammirare -lei che aveva gridato alla Rivoluzione, dalla Rivoluzione veniva ripagata con una moneta di acciaio.

Che razza di madre è una che divora i propri figli? 3

Tsarn si copriva il volto con un fazzoletto di pizzo, gli occhi puntati su quella figura fiera che nascondeva la propria paura, lo sguardo di indomita fiera che non abbandonava la Madama e la sua nuda e letale lama.

Vittima numero infinito, né la prima né l'ultima, Olympe de Gouges non temeva la morte né paventava l'Inferno, perché da subito, dal primo istante in cui aveva intinto la penna nell'inchiostro, aveva preveduto il proprio inevitabile destino.

Tsarn non era che una spettatrice di quella farsa: la Stella del Mattino l'aveva inviata perché potesse guardare fino in fondo l'antico gesto che li aveva scaraventati nell'eterno abisso. "Ora vedi" aveva detto: "Vedi perché ho voluto rinnegarlo?"

«Avete delle ultime parole?»

Tsarn aspettò di vedersi riflessa in quelle iridi grigie, di vederle brillare d'Ira per quella fine ingiusta, ira verso un governo che tradiva chi, per primo, gli aveva donato il potere e che l'aveva processata e condannata nella stessa giornata, ma no. Olympe de Gouges non rimpiangeva niente, semplicemente sorrise sicura mentre, a testa alta -ironia della sorte- gridava a tutta a piazza: "Figli della patria, vendicherete la mia morte." Quelle parole sarebbero riecheggiate in eterno, ma Tsarn l'ignorava, perché come si può credere all'immortalità di chi viene legata come una vacca al macello su una piatta tavola di legno?

Umiliata persino nei suoi ultimi istanti, Olympe de Gouges fu sdraiata e spinta perché la sua testa rasata entrasse nella bocca vuota della ghigliottina, che si richiuse su di lei con uno schiocco secco.

Fu tentata di distogliere lo sguardo da quel martirio -basta! basta!- ma lei la costrinse a non farlo.

Agape era lì, devastata come mai avrebbe desiderato vederla, il volto angelico un'unica maschera di sofferenza mentre, con le braccia protese, si lanciava davanti alla de Gouges per avvolgerla in un disperato abbraccio, forse desiderando farle da scudo contro quel Fato più grande persino di lei. «Pietà!» La sentì gridare, grosse lacrime a rigarle le guance splendenti di luce, uno sguardo supplichevole rivolto ad un secondo Angelo che teneva una grossa falce stretta tra le dita: «Fratello, in nome di Dio, abbi pietà di lei!»

La Morte, tuttavia, non sembrava ascoltarla né curarsi di lei. In religioso silenzio, stava lì. La mano di Dio, Azrael l'Inclemente che aveva preso la vita dei figli d'Egitto, che aveva mietuto senza mai concedere, non donò una sola parola alla sorella e, assieme a lui, anche Sanson levò la mano.

«Pater noster, qui es in cœlis-» Agape moveva le labbra in fretta per tentare di superare la spietatezza della ghigliottina, pregava un Dio in cui non sapeva più credere, inconsapevole che Tsarn, mescolata tra la folla negli abiti di una massaia, quel Dio lo stava maledicendo: «Santificatur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua, sicut in cœlo, et in terra-»

La lama tranciò la carne nel tempo di un secondo, e tra la grida esultanti di una folla assetata di sangue, il boia sollevò la testa purpurea della fu Olympe de Gouges.



***

La notte era calata presto su Parigi, e il coprifuoco aveva lasciato dietro di sé il silenzio tombale di una città maledetta. Tsan aveva atteso a lungo che la piazza si svuotasse, ma comunque nessuno era venuto a lavare via il sangue dal misero patibolo di lego quasi marcio che ora gocciolava in terra la vita di chi aveva osato alzare troppo la voce.

L'intero giorno aveva continuato a guardare, impotente e immobile, mentre la Carità versava tutte le proprie lacrime accovacciata sulla Madama, esecuzione dopo esecuzione, testa dopo testa, priva persino della forza di chiudere le bianche ali che ora, abbandonate, si aprivano come uno strascico sulle assi del palco, ma era riuscita ad avvicinarsi a lei, a salire gli scalini scricchiolanti del patibolo per inginocchiarsi al suo fianco solo in quel momento di totale silenzio: «Agape.» Chiamò, e l'altra le rivolse un'occhiata miserabile da dietro la piega del gomito: «Tsarn?» Singhiozzò, sollevandosi e tentando invano di asciugarsi le lacrime.

«Non puoi restare qui per sempre.» La voce bassa e il tono gentile, Tsan le posò una mano sulla schiena in un maldestro tentativo di conforto, confrontandosi con l'insolito gelo che sembrava provenire dalla sua stessa anima, e non fu quindi pronta per il vortice di candide piume che le si gettò tra le braccia alla ricerca di una consolazione che non sapeva come donarle.

«Non posso continuare così, non è giusto…» Mormorò Agape, le parole soffocate dalla stoffa del suo abito mortale: «C'è così tanto Male qui, e io non posso fare nulla…»

«Shhh….» Tsarn, congelata, non poteva fare altro che quello -perché?

«Sono dei Mostri, tutti quanti! L'hanno ammazzata, capisci? Era innocente e l'hanno ammazzata, e tutti gli altri assieme a lei!»
Erano parole amare, le sue, frasi cariche del veleno che si era accumulato ad ogni catastrofe e ad ogni opera umana, nelle trincee di guerra e sui patiboli, e Tsarn per un attimo percepì attorno a loro le quattro mura di solita pietra e la campana di cordoglio di quel tredicesimo giorno di Dicembre del millecinquecentosessantasei: «Homo homini lupus…  te lo dissi, non ricordi?» Sussurrò, assecondando il bisogno di carezzarle il capo, concedendosi ad un dolceamaro affetto che trascendeva lo spazio e il tempo e che le bestie di Dio stavano piagando senza neanche fermarsi e domandarsene la ragione.

Fa così male vederla così… perché, Lucifero? Perché deve soffrire per ciò che non le appartiene?

Agape soffocò un grido sulla sua spalla, aggrappandosi a lei in una presa ferrea, e vomitando ere intere di omertoso silenzio pur consapevole che non sarebbe servito a nulla. Ma le braccia di Tsarn erano forti, erano scudo e casa, e per un solo minuscolo momento credé di poter crollare e non dare spiegazioni: «Non posso continuare così… non servo più a nulla, Tsarn, a nulla!»

Tsarn l'allontanò con uno strattone per poterla guardare in volto, corrucciando le sopracciglia perché non poteva credere che simili parole fossero uscite dalla sua bocca, non in sua presenza: «Inutile, Agape? Guarda cosa hai fatto a me, guarda dove sono e abbi il coraggio di ripeterlo!»

Sono qui per te, stupida creatura! Guardami! Guarda cosa stai diventando per me e sii egoista, per una buona volta!

Nel vedere la rabbia dipinta sul suo volto, Agape si sgonfiò come una borraccia a cui venga tolta l'acqua, e le sue lacrime lasciarono il posto ad un'espressione più lieve e rassegnata -più stanca, quasi avesse perso qualsiasi desiderio di lottare. Le donò un sorriso mesto, scuotendo la testa finché gli ultimi fantasmi di pianto non caddero a terra come diamanti: «Tu non comprendi, non basti tu, non bastano pochi santi, Tsarn…» pronunciò il suo nome con un sentimento che le fece male, poi, improvvisamente, scostò la candida tunica per rilevarle la voragine nera che, al centro del suo petto, grondava Nulla e Dolore.

«Io sto morendo.»



***


Nulla, Confine tra i mondi

Si trascinò tra le pagine del Tempo come i vermi si trascinano sotto terra, nella mente un coro di voci indistinte che gridavano "ladra"  -buon Gesù, a cosa si era ridotta?

Rannicchiata nell'intermundia dove il giogo di Dio trovava confine, Agape sfogliava il grande libro delle Ore4, gli spiriti del Fato che la storia umana aveva chiamato Norne, Furie, Parche… Podestà -Megere cieche e stolte che si erano fatte rubare la Conoscenza alla stregua di bambini perché troppo occupate a contemplare. E cosa contemplassero, poi, era un mistero del quale ormai poteva solo ridere.

Discendere al cielo del Sole era stato facile, perché lei, somma Virtù, non aveva a chi rendere conto: emissaria del Paradiso, essenza stesa del Padre, la Carità sola poteva vantare il diritto del libro arbitrio all'interno del sacro Regno, anche se il suo cuore grondava Male e Morte -ma comunque nessuno l'aveva scoperta, né probabilmente l'avrebbe mai fatto; rubare il libo era stato altrettanto semplice -peccare, macchiarsi, tutto è semplice, la vera difficoltà sta nel sopportarne il peso.

L'Intermundia era un limbo di nero e roccia che raccontava la desolazione di un luogo che Dio non poteva illuminare: alla sua destra la bianca barriera dei sette cieli, a sinistra la porta d'ottone dell'infernale abisso, e intorno viscide creature che languivano striscianti nel fango. Un tempo lontano quei vermi erano stati divinità, idoli pagani che per secoli erano stati adorati, temuti, rispettati, dèi di oro avorio e sangue per i quali erano stati eretti immensi altari che ancora resistevano sorretti dalle proprie colonne di marmo, ma dei quali non restava nient'altro che la memoria. Si avvinghiavano sulle sua gambe, supplicando per una preghiera che avrebbe potuto alleviare la loro condanna, ma Agape li ignorava, e si teneva una mano premuta sul petto sperando di arginare il dolore della ferita che pure non le dava più così tanta pena: aveva il mondo tra le dita, il telaio intricato del Destino e ne stava leggendo la trama.

Disastri, stragi, genocidi -ogni cosa già scritta, accettata, ogni orrore perpetrato senza punizione… era vano ogni sforzo, allora? Se il libero arbitrio dell'uomo aveva siglato la più orrenda delle storie, perché non toglierlo? Perché non impedire tutta quella sofferenza?

E l'amore, la preghiera, la virtù, il vizio… dov'erano?

Dov'era tutto? Cos'era? Perché era? -Mostro, vittima, niente, tutto… Menzogna, verità, erano parole vuote, ma allora lei chi era?

Io sono Agape, sono una virtù, una figlia di Dio, espressione del suo Amore e della Carità. Io sono Agape, sono una Virtù, una figlia di Dio-

E lo odio.



***


10 Maggio 1933, Opernplat 5, Berlino, Germania

Nel milleottocentoventitre, Heinrich Heine scrisse: "Lì dove bruciano i libri, alla fine bruceranno anche l'umanità.". Più di un secolo dopo, a Obernplatz quegli stessi versi erano messi al rogo quasi fosse una crudele ironia, una di quelle che fanno venir voglia di ridere anche quando dentro si soffre il più stretto lutto e non si può fare altro che piangere.

Tsarn, tuttavia, non versava una lacrima, perché di ingiustizie ne aveva ormai viste troppe e il fuoco non era nient'altro ai suoi occhi che una monotona immagine. Non provava rabbia né dolore come nel lontano millesettecentonovantatre, tantomeno aveva smesso di curarsi di chi, in quel momento e in futuro -se mai ci sarebbe stato, un futuro- le avrebbe dato la colpa per i venticinquemila volumi sacrificati alle fiamme.

Era responsabile? Forse, per lo meno in estensione. C'erano Ira e Odio alla base del nascente pensiero nazista, ingiustificati e senza freno, ma c'erano comunque, e facevano leva sulla disperazione della gente che troppo aveva penato da quando Trattato di Versailles aveva messo in ginocchio la Germania intera -tre miliardi in debiti, e niente pane in tavola.

Non c'era da meravigliarsi che Hitler fosse salito al potere.

«Li ammazzeranno, lo sai? Tutti quanti. Adulti, bambini… non avranno pietà per nessuno.»

Agape si voltò verso di lei senza tradire alcuna emozione -o, per lo meno, tentava di non farlo- le mani raccolte in grembo e le ali chiuse pacatamente dietro la schiena; solo una lacrima, lucida e tremula, danzava alla luce scarlatta delle fiamme.

Tsarn ricambiò il suo sguardo e alzò le spalle con noncuranza: «Non sarà la prima volta.» Disse, ma l'altra scosse il capo: «Forse no, ma questa volta sarà diverso. Endlösung6 la chiameranno, e gli armeni, a confronto, non saranno che un minoranza.» Tentò di ridere, ma un singhiozzo ruppe la sua risata, trasformandola nel principio di un pianto incontrollato che però non la spezzò.

«Ho rubato il libro delle Ore.» Confessò, senza colpevolezza alcuna.

Tsarn sussultò -Che cosa?

«È buffo, ma tutto sembra già scritto… pensavo di poter cambiare qualcosa, di poter sperare, ma mi illudevo. Non hai idea di cosa hanno intenzione di fare, di cosa succederà ancora dopo questa guerra, di quanti soffriranno senza saperne neanche la ragione, e ciò che più mi fa rabbia è che la mia esistenza è nelle mani di questi parassiti e che Dio non sta facendo assolutamente niente per salvare me!» La sua voce s'era fatta più alta ad ogni parola, e ora urlava, lo sguardo fisso nelle fiamme e le labbra incurvate verso l'alto nell'espressione di una folle.

Crollava.

Si dissolveva.

Grondava.

«Hai sentito, Padre?» Gridò, infine, voltandosi di scatto e alzando il volto verso il cielo, le braccia spalancate in segno di sfida verso il Paradiso intero che, muto, la guardava da dietro le stelle: «Ti ho seguito ovunque, ti ho amato, e ora guardami! Guarda cosa hai fatto a tua figlia! Mai una volta hai alzato un dito in mio nome, nel nome di quella Carità che tanto ti vanti di concedere! Dove eri quando ho visto morire di peste una bambina di sette anni e un assassino camminare senza l'ombra di una piaga? Dov'eri quando ho visto i tuoi stessi monaci massacrati nel tentativo di proteggere te e la tua parola? Dov'eri mentre agonizzavano? A guardare, ecco dove eri! E ogni volta hai mandato me dicendomi che era colpa dell'Ira, della Cupidigia, del Diavolo, quando in realtà non siamo altro che tue pedine, tutti quanti.
«Non ti sei neanche degnato di punirmi per amare un Vizio! Sì, santi del Cielo, amo l'Ira perché è l'unica che mai si sia interessata a me, l'unica ad avere pianto assieme a me! Ed io, io sto morendo a causa  vostra e non voglio, perché so che non mi aspetta nulla dopo-»

Fu troppo.

Tsarn l'afferrò, soffocandola nel più stretto abbraccio e crollando a terra assieme a lei mentre il fuoco divampava sempre più alto e la folla alzava dritto il braccio destro, orgogliosa della propria svastica e inconsapevole di ciò che avrebbe portato, della follia umana che, come un novello Leviatano, avrebbe finito per ingurgitare fino all'ultima scintilla di bene perché non ci sarebbe più stata la Carità a salvarli.

«Non voglio svanire…» Agape si aggrappò a lei, e qualcosa di gelido iniziò a gocciolare sulle sue gambe, portando lentamente via con sé tutta la luce. Un fiume di nero Nulla macchiò la sua veste candida come sangue, e una pozza scura si espanse sotto di loro correndo veloce in rigagnoli che sembravano tentacoli e che, al tatto, parevano ghiaccio.

L'Angelo cercò riparo nell'incavo del suo collo, tra le sue braccia, sul suo grembo, nel disperato tentativo di diventare parte di lei e non dover più morire: «Non lasciarmi andare via, Tsarn.» la supplicò quasi potesse davvero fare qualcosa più che restare a guardare, e le risultò così facile baciarla, piegarsi sulle sue labbra e sentirne il sapore cinereo, esplorarla tutta come l'ultima volta ma senza malizia, senza Vizio, solo come una creatura che ne ama un'altra e non può fare nulla per salvarla… «Non morirai…» mentì: «Verrai con me, sarai con me, la Stella saprà accoglierti, io so che lo farà.»

C'era il nulla nel suo petto, all'altezza di quello che gli umani chiamavano cuore e che avrebbe dovuto parlare d'amore -ma cosa ne volevano sapere, loro? Loro che nella morte trovavano la consolazione dell'Aldilà, che in realtà non tenevano davvero a nulla perché una vita brevissima era meglio godersela che donarla a qualcun altro; come potevano anche solo nominarlo, loro, l'Amore? Non sapevano cosa volesse dire davvero, perché loro non avrebbero mai stretto gli ultimi istanti dell'anima più pura consapevoli che nessun Paradiso né Inferno l'avrebbe accolta, perché quando un Angelo muore, muore per sempre.

Loro non avrebbero mai perso la propria dignità e il proprio orgoglio per un atto senza senso.

Pater noster



***


Fu all'alba che entrambi ascoltarono la sua preghiera disperata, quando tra le sue braccia Agape non era nulla più che un involucro spento e fragilissimo. Si mossero insieme, forse, o forse lo fecero senza consapevolezza, spinti entrambi da insolita pietà verso il quadro piangente che offrivano alle ceneri di Obernplatz -ma a lei la ragione non interessava: si mossero, e tanto le sarebbe per sempre bastato.

Tsarn della propria vita di Angelo serbava solamente la memoria frammentata di tutto ciò che non possedeva più, ma del giorno in cui Agape divenne Marara7 e ottavo Vizio ricordava ogni secondo.

E per ogni secondo, ora donava un bacio alla sua pelle nera.
 



1  Il 13 Brumaio dell'anno secondo corrisponde al 3 Novembre del 1793.
2 Vero nome della drammaturga francese Olympe de Gouges, una delle prime femministe della storia occidentale. Fervente rivoluzionaria, durante il regime del Terrore scrisse "La Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina" e si batté sempre per l'uguaglianza giuridica e legale delle donne. Fu condannata a morte per essersi opposta all'esecuzione di Luigi XVI, per aver indicato Robespierre come un tiranno in numerosi scritti e per aver offeso il Comitato di Salute Pubblica "dimenticandosi le virtù consone al suo sesso". Sulla carretta che la portò al patibolo affermò: "Le donne avranno pur diritto di salire alla tribuna, se hanno quello di salire al patibolo".
3 Pierre Victurnien Vernaud, prima di essere condannato per aver cospirato ai danni della Rivoluzione tentando in segreto di salvare il Re dalla condanna, disse: "La Rivoluzione è come Saturno: sta divorando i propri figli".
4 In alcune mitologie pagane più volte si parla di un tre donne incaricate di decidere il destino degli uomini. In questa storia ho voluto creare qualcosa di simile, approfittando della suddivisione del Paradiso operata da Dante, per la quale il Cielo del Sole sarebbe sede degli Spiriti Sapienti. Vi ho quindi posto le Ore che, nonostante provengano dalla tradizione greca, sono molto care all'arte rinascimentale cristiana, e pare veglino sul destino degli uomini. Nella storia, quindi, le Ore svolgono lo stesso compito delle proprie sorelle pagane.
5 Nome originale della piazza di Bebelplatz a Berlino (così chiamata dal 1947). Il 10 Maggio del 1933 essa vide il rogo di 25.000 volumi "pericolosi" da parte dei nazisti, evento ricordato da un monumento sotterraneo e da una targa posti proprio sotto e sulla piazza. Tra gli autori bruciati vi furono Albert Einstein, Bertolt Brecht, Charles Darwin, Herman Hesse, Jack London, Karl Marx e Sigmund Freud.
6 La "Soluzione finale". Il termine fu usato dai nazisti a partire dal 1940  per definire gli spostamenti forzati e le deportazioni della popolazione ebraica  e poi, dall'agosto del 1941, per riferirsi allo sterminio sistematico della stessa.
7 In arabo, "Malinconia". Fino al Medioevo, la Malinconia era considerata un peccato capitale, in quanto distoglieva l'uomo dall'opera di Dio.
 
 
   
 
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