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Autore: calock_morgenloki    10/07/2018    9 recensioni
"Ti stanno venendo le rughe, sai? Proprio lì, attorno agli occhi." disse Sherlock e il dottore scosse la testa, rivolgendogli uno sguardo di affettuoso rimprovero.
"No, quelle sono pieghe..." Il sorriso di John scemò fino a spegnersi, mentre si metteva a braccia conserte e abbassava lo sguardo, "Le rughe non hanno fatto in tempo."
Quando lo riportò sul suo viso, Sherlock si sentì morire. Si ritrovò a dover distogliere gli occhi, fissandoli sulle venature del tavolo, la mascella serrata. Entrambi restarono in silenzio per un poco, poi Sherlock sentì il dottore sospirare mentre si portava alle sue spalle.
"La verità è che ti sei dimenticato dei miei difetti, Sherlock..." mormorò John, appoggiando il petto alla schiena del detective e il mento alla sua testa. "Succede sempre a quelli che se ne vanno, no? La prima cosa che vi dimenticate di noi sono i difetti."
"Ma tu non ne hai." mormorò Sherlock con un accenno di sorriso e John scoppiò a ridere.
"È il tuo modo di dirmi che l'ho sparata grossa?" chiese Sherlock, divertito.
"Non grossa," sussurrò John, affondando di nuovo il volto tra i suoi capelli, "enorme."
{Johnlock; Post S4}
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Still Here.

 

Musing through memories, losing my grip in the grey
Numbing the senses, I feel you slipping away
Fighting to hold on, clinging to just one more day
Love turns to ashes, with all that I wish I could say
- "Still Here"; Digital Daggers

 

Sherlock odiava i funerali. Erano tristi, inutili, oltremodo deprimenti... Non ne aveva mai compresa l'utilità. Servono per dare l'ultimo addio ai nostri cari, gli aveva detto sua madre quando era un bambino e una nonna Pearl bara-munita stava per essere sepolta sotto cinque metri di terriccio umido, Così possono affrontare il viaggio verso l'aldilà sapendo di essere amati e di avere qualcuno quaggiù che ancora prega per loro. Sherlock, dall'alto dei suoi otto anni, non ci aveva mai creduto e ora che aveva intrapreso la strada per i sessanta, ci credeva ancora meno.

Nei suoi cinquantacinque anni di vita aveva imparato che i funerali non erano certo fatti per i morti, al contrario. Erano fatti per chi restava, per coloro che in qualche modo avevano ancora una vita dopo la dipartita del defunto in questione. Certamente al cadavere non importava un fico secco se qualcuno proclamava l'Ave Maria davanti alla sua tomba o una canzone dei Beatles. Non avrebbe potuto sentire in ogni caso e forse era meglio così: aveva sperimentato l'esperienza di assistere al proprio funerale e ai discorsi davanti alla lapide e... Beh, era stato difficile da sopportare. Ripetere l'esperienza fino a che ogni persona che teneva a lui fosse morta a sua volta non era un pensiero entusiasmante.

Ciò non toglieva che però ci fosse andato, a quel funerale. Anzi, non solo ci era andato, ma era arrivato prima di tutti ed era rimasto ben oltre la fine, restando rigidamente seduto sulla scomoda panca in legno della chiesa, lo sguardo fisso nel vuoto, e in piedi davanti alla fossa scavata nella terra gelida e bagnata dalla pioggia, fregandosene della gocce che gli bagnavano i ricci corvini ormai venati di bianco e l'abito elegante. Aveva anche messo la cravatta.

Aveva fatto un discorso. Un elogio al morto pieno di belle parole, ricordi su una vita di avventure e sul vuoto che quella morte aveva creato, un vuoto impossibile da colmare. Aveva ripetuto tutto quasi meccanicamente, senza però negarsi un sorrisetto al pensiero di tutte quelle vicessitudini appartenenti al passato. Qualcuno aveva pianto. Non lui, ovviamente. Lui aveva stretto mani e fatto cenni, limitandosi a parlare solo durante quel discorso. Avevano parlato anche altre persone, ma lui non le aveva ascoltate veramente. Non lo aveva fatto per cattiveria, davvero: semplicemente non ce l'aveva fatta.

Mentre calavano la bara nel profondo rettangolo scavato nel suolo, aveva semplicemente stretto Rosie, la testa di lei appoggiata alla sua spalla, gli occhi lucidi e i capelli biondi pregni di pioggia. Anche lei aveva rinunciato all'ombrello. Al momento non era davvero la loro priorità. Lui non aveva pianto neanche allora: si era limitato a stringere quella che da anni considerava sua figlia e che lo considerava suo padre, senza che nessuno dei due riuscisse a distogliere lo sguardo dalla bara che iniziava ad essere poco alla volta ricoperta di terra.

"Io comincio ad andare alla macchina." gli aveva detto Rosie quando tutti se n'erano andati, "Ne ho abbastanza dei cimiteri."

Sherlock aveva annuito, senza distogliere lo sguardo dalla lapide mentre la ragazza accarezzava con tristezza mista ad affetto le lettere dorate scavate nel marmo bianco, subito prima di rialzarsi, spolverarsi la terra dalla gonna a pieghe e andarsene. Era lì da allora.

"Hai fatto un bel discorso. Pregno di emozioni. Ho quasi rischiato di piangere, sai?" disse una voce molto più che familiare alle sue spalle. Sherlock sogghignò.

"Tu piangi sempre. Hai sempre avuto la lacrima facile, anche quando qualche settimana fa abbiamo visto quel film con il cane che muore." rispose, mentre John gli si affiancava. Il dottore si mise a braccia conserte, rivolgendogli uno sguardo affettuoso.

"Beh, c'eri già tu a fare il duro: non potevamo esserlo tutti e due, no?"

"No, infatti." mormorò Sherlock. John sospirò, frizionandosi le braccia per scaldarsi mentre la pioggia cessava definitivamente di cadere. Guardò verso l'alto, per poi commentare:

"Beh, per lo meno la cerimonia è finita. È stato-"

"Orribile."

"No, non orribile." John assottigliò le palpebre, cercando le parole adatte mentre osservava la lapide, "Triste. Ecco, sì, triste. Piangevano tutti, specialmente durante il tuo discorso."

"Anche al tuo matrimonio con Mary l'hanno fatto. Non ho mai capito perché, comunque, neanche a distanza di anni."

John rise, scuotendo un poco il capo.

"Tu con le faccende di cuore hai sempre avuto un brutto rapporto, amore mio." disse, stringendosi attorno al braccio di Sherlock e appoggiando il capo alla sua spalla. Il detective fece una smorfia.

"Questa non è una faccenda di cuore. C'entrano solo le persone e la loro tendenza a dimostrarsi incomprensibili."

"Non lo sono, Sherlock."

"Beh, per te no, forse. Ma per me..."

Sherlock lasciò che il resto di quella frase si dissolvesse nell'aria, ad un tratto conscio di quello che sarebbe stato il suo futuro da quel momento in poi.

"Cosa succederà adesso?" sussurrò, "Sarà tutto così diverso. Le indagini e... E il resto. Non sarà più la stessa cosa."

John sospirò di nuovo, stringendosi nelle spalle.

"Lo so. Ma un modo per andare avanti salterà fuori, vedrai. Te la sei sempre cavata in ogni situazione, questa volta non farà eccezione."

"Però stavolta è diverso, non riguarda solo me... Rosie? Come la mettiamo con lei?" chiese il detective e John voltò il capo in direzione dell'ingresso del cimitero, dove la figlia stava aspettando di tornare a casa, al 221B. Sherlock lo vide stringere le labbra sottili in una linea compatta.

"Non sarà facile per lei, lo sai. La conosci meglio di chiunque altro."

"Non meglio di te."

"Forse sì, invece. Dopo tutto, è come se fossi suo padre anche tu." mormorò John, tornando a guardarlo negli occhi. Gli rivolse un debole sorriso, un po' triste. "Dovresti provare a parlarle, sai? Secondo me funzionerebbe."

"Non credo proprio, John."

"Hai sempre avuto un grande ascendente su di lei: quando sei tu a dire qualcosa, ti ascolta sempre senza fare storie... Sei il suo eroe, Sherlock: se c'è qualcuno che può aiutarla adesso, quello sei tu."

Sherlock restò in silenzio, riportando lo sguardo sulla lapide. Prese un respiro profondo, stringendosi nel cappotto.

"Non lo so, John. Una volta forse ne sarei stato in grado, ma ora..." Sherlock riportò lo sguardo su John, "Ora non lo so più."

Il dottore gli rivolse uno sguardo triste, appoggiando la guancia alla sua spalla. Sherlock gli strinse più forte la mano, cercando di ricacciare indietro le lacrime imminenti.

"Resterai con me, John?" gli sussurrò. Il dottore sorrise debolmente.

"E dove altro potrei andare?"

 

 

 

 

 

 

Il viaggio di ritorno fu penoso. Rosie si stringeva nel cappotto grigio, lo sguardo ostinatamente puntato da qualche parte oltre il vetro del finestrino, e Sherlock, seduto accanto a lei, la osservava in silenzio: voleva parlarle, dirle qualcosa, ma non ci riusciva. Era come se avesse la bocca impastata, piena di sabbia e impossibilitata a produrre qualsiasi suono. Rosie sbuffò.

"Sto bene, tranquillo. Non c'è bisogno che ti preoccupi tanto."

"Hai diciassette anni, è normale che lo faccia. Specialmente alla luce di..." mormorò Sherlock, lasciando in sospeso la frase. Rosie voltò la testa nella sua direzione e portò gli occhi blu su di lui, inarcando un sopracciglio in quell'espressione così tipica di John. "Alla luce di cosa? Del funerale? O della morte di-"

"Di quello che comporta, Rosie. Di tutto."

Rosie restò in silenzio per qualche istante, poi riportò lo sguardo fuori dal finestrino. Sherlock lanciò uno sguardo supplichevole a John, seduto di fronte alla figlia. Il dottore sospirò, stringendosi nelle spalle. Subito dopo, si protese in avanti, quel poco che bastava per portare una mano sul ginocchio della figlia, accarezzando con delicatezza la stoffa elastica del collant.

"Mi mancherà." sussurrò Rosie ad un tratto, senza però distogliere lo sguardo dall'esterno. La voce era ridotta da un flebile e tremante mormorio e Sherlock giurò di averla anche sentita gonfia di lacrime, che, per orgoglio od ostinazione, la giovane Watson non aveva ancora versato se non in privato, lontano dagli occhi di tutti.

"Lo so. A me manca già." rispose Sherlock e Rosie a quel punto si voltò a guardarlo. Sherlock aveva sempre detestato vederla piangere: quando era bambina, lui e John cercavano di rassicurarla e quando possibile di farla ridere per far andare via le lacrime, perché nessuno dei due era mai stato capace di assistere al suo pianto. Ma quella volta...

Beh, quella volta c'era davvero ben poco che potesse fare per riportarle il sorriso e anche Rosie lo sapeva perfettamente. Forse fu per questo che quella volta, vederla con gli occhi ad un tratto lucidi dalle lacrime che avevano già iniziato a scorrerle sulle guance e il viso contratto in una smorfia sofferente, si rivelò ancora più insopportabile.

Rosie serrò le palpebre e iniziò a singhiozzare, piegandosi in avanti e prendendosi la testa tra le mani, mentre il pianto ormai inarrestabile le sconquassava il petto, facendole sobbalzare le spalle. Sherlock rivolse uno sguardo terrorizzato a John, anche ad anni di distanza non sapeva cosa fosse meglio fare, e il dottore scosse il capo, ricambiando con un'occhiata triste e accarezzando dolcemente la testa della figlia; con quel gesto, il muro che Sherlock aveva prontamente costruito per arginare il suo dolore si incrinò, iniziando a creparsi in più punti. Forse anche Rosie l'aveva fatto, forse anche lei aveva costruito un muro- il problema era che il suo era già crollato e Sherlock sapeva che avrebbe dovuto aiutarla a rimettere a posto i pezzi. Non era quello che faceva un padre?

Un po' esitante, il detective le passò un braccio attorno alle spalle in un abbraccio incerto e impacciato, che però trovò comunque riscontro in Rosie: la ragazza si strinse a lui, affondando il viso nel suo petto e artigliando le dita al suo cappotto in una presa tanto secca e frenetica quanto disperata; Sherlock le circondò la schiena e la vita con le braccia, tenendola stretta a sé, e le depositò un lieve bacio tra i capelli biondi, mentre lei continuava a piangere.

"Fa male, fa così tanto male..." sussurrò tra le lacrime e Sherlock annuì, cercando lo sguardo di John per farsi forza e non crollare a sua volta.

"Lo so. Ma andrà bene, prima o poi, vedrai... Andrà bene." mormorò, ma nonostante tutta la sua buona volontà, la voce gli si incrinò lo stesso. Rosie lo notò e rafforzò la presa sul suo cappotto, stringendosi di più a lui. Sherlock non poté far altro che appoggiare la guancia alla sua testa, scambiandosi con John uno sguardo che non necessitava di altre parole.

 

 

 

 

Sherlock ci aveva visto giusto: niente era più come prima, in un modo o nell'altro era cambiato tutto. Sherlock stesso si sentiva diverso, sebbene non avesse fatto nulla per raggiungere quel risultato. Era successo tutto in modo naturale, come una foglia che appassisce, muore e cade dal suo albero.

Stava cercando di mantenere le apparenze, Sherlock: si radeva, pettinava, metteva la stessa cura di sempre nella scelta degli abiti da indossare, ma dentro stava poco a poco crollando. La casa sembrava vuota ora, e questo di certo non aiutava: sembrava che con la morte del corpo, ogni scalino, mobile e stralcio di carta da parati si fosse fatto carico di quell'anima spogliata dalla carne. Era semplicemente insopportabile.

Quella mattina stava andando peggio del solito: Sherlock era già di per sé in uno dei suoi stati d'animo segnati dall'apatia, ma il dolore della perdita e la tristezza che ne derivava rendevano il suo umore ancora più cupo e melanconico, senza che potesse fare nulla per evitarlo. Erano passate tre settimane dal funerale, ma a lui sembrava una vita intera e il suo riflesso nello specchio sembrava concordare: le piastrelle bianche dei muri sembravano bronzee in confronto alla sua carnagione smunta e cerea, decorata solo da un paio di profonde occhiaie violacee. Sherlock strinse le mani attorno al bordo del lavabo, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro profondo.

Percepì dopo qualche istante un paio di braccia forti e familiari cingergli la vita, il profilo di un paio di labbra sottili posarglisi sulla spina dorsale in un bacio casto e leggero. Sherlock sorrise appena mentre John diceva, muovendo le labbra contro la stoffa leggera della sua camicia:

"Dovresti mangiare di più. Sei dimagrito."

"Non ho fame."

"Beh, dovresti sforzarti. Non mi piace vederti così, guarda come ti sei ridotto."

"Potresti sempre imboccarmi."

John arricciò le labbra in una smorfia e Sherlock fu sicuro che stesse alzando gli occhi al cielo.

"Sei un uomo adulto, anche se a volte non lo dimostri: non posso obbligarti a fare tutto."

"Mmh, di solito ci riesci sempre alla perfezione."

"Ho dei validi metodi di persuasione, che posso dirti?" mormorò John e Sherlock ridacchiò. Restarono fermi in quella posizione per un po', Sherlock ad occhi chiusi e John stretto a lui, fino a che Holmes non sollevò la testa e le palpebre, osservando il loro riflesso allo specchio. John sorrideva lievemente, ma era un sorriso triste, il suo. Era malinconico, stava soffrendo e Sherlock percepì un moto di nausea attraversarlo quando John mormorò:

"Tutto questo non può durare per sempre. Lo sai anche tu."

"Lo so. Ma non ora, io... Non ce la faccio ancora. Ho solo bisogno di più tempo."

"Aspettare renderà solo le cose più difficili, Sherlock." sospirò John, "Potresti cominciare con gli oggetti. Sai, inscatolare tutto e metterli via in soffitta: avere tutta quella roba in giro non farà altro che ricordarti che-"

"Lo farò. Davvero, io..." Sherlock si interruppe, chiudendo gli occhi e massaggiandosi la radice del naso con pollice e indice, "Lo farò. Solo non ora. E ti prego, non chiedermelo di nuovo."

"Va bene, va bene... Come preferisci. L'importante è che non ti faccia stare male."

"Mi farebbe comunque stare male, tutto mi fa stare male: non posso mettere ciò che sento in una scatola e portare tutto in soffitta. Tutto ciò che provo resterà per sempre qui e non se ne andrà mai." sibilò Sherlock a denti stretti. Sentiva gli occhi pungere, la gola serrata... Dio, odiava piangere, ma in quelle settimane sembrava che non riuscisse a fare altro quando era solo: in pubblico era fuori discussione, doveva mostrarsi forte e padrone di se stesso- se non altro per il bene di Rosie, che era già abbastanza occupata a raccogliere i cocci del proprio dolore senza doversi preoccupare anche dei suoi. Ma quando si chiudeva la porta alle spalle e restava solo, senza nessuno che potesse dargli ragione di resistere, tutto ciò che aveva trattenuto fino a quel momento esplodeva, come una granata rimasta per troppo tempo sotto la sabbia e finalmente innescata.

John portò una mano sul suo viso, accarezzandogli con dolcezza lo zigomo con il pollice. Gli occhi fissi nei suoi, sembrava condividere il suo dolore, sembrava... Sembrava che lo provasse anche lui.

"Ce la farai, Sherlock." gli sussurrò, "Sei molto più forte di quanto credi."

"Che cosa devo fare, John?"

John scosse la testa, sfiorandogli il naso con il suo.

"Niente, amore mio... Devi solo imparare a lasciare andare."

Quelle parole furono un colpo allo stomaco per Sherlock, la goccia che fece traboccare il vaso: le gambe si fecero deboli e cedettero, lui si lasciò cadere a terra, rannicchiato con le mani tra i capelli e il respiro tremante. Chiuse gli occhi, strinse forte le palpebre e finalmente iniziò a singhiozzare, le unghie conficcate nella cute.

La mano di John, il calore del suo corpo contro la schiena... Erano sempre lì.

 

 

 

 

 

 

 

"Non è stato un omicidio." osservò Sherlock, senza distogliere gli occhi dal cadavere steso ai suoi piedi, "Si è semplicemente sparato un colpo alla testa."

La voce suonava vuota, priva di qualsivoglia inflessione, lo sguardo vitreo. In verità, tutto in Sherlock ormai dava quell'impressione: era apatico, non provava più piacere o stimoli nel fare quelle attività e azioni che un tempo erano la sua droga quotidiana. Gli esperimenti erano inutili, privi di senso. Le deduzioni irritanti intuizioni che gli danzavano davanti agli occhi quando cercava solo un po' di pace. I cadaveri il cui omicidio era l'oggetto di un'indagine, come quello del Signor Melrose in quell'occasione, un pezzo di carne priva di vita sulla via della putrefazione. Forse, si diceva Sherlock, era quello in cui lui stesso si stava poco a poco trasformando.

Se si presentava ancora sulla scena di un crimine, beh, era per la forza dell'abitudine. Quello, e cercare di far stare tranquilla Rosie, già fin troppo occupata con il suo stesso recupero. Non c'era alcun bisogno che ricominciasse a preoccuparsi anche per la sua ormai precaria salute: a casa, con molta fatica, era riuscito a ricostruire una facciata di normalità e Rosie ci aveva creduto. Sherlock non sapeva dire se l'avesse fatto perché ne era davvero convinta o per cercare di convincersene: Rosie somigliava molto a John, ma la parte dell'intelletto era quella di Mary; quindi, come sua madre era stata prima di lei, era decisamente più sveglia e intelligente di quanto le apparenze facessero credere. John stesso non gli credeva e gli ripeteva di smettere di comportarsi a quel modo. È per il tuo bene, gli diceva, per il bene di tutti. Ma Sherlock non riusciva nemmeno a guardarlo in faccia.

Fingere era qualcosa che lo dilaniava dall'interno ma a cui ormai era abituato- in un modo nell'altro, l'aveva fatto per tutta la sua vita, con la sola eccezione di quei diciassette anni passati insieme a John come una coppia: solo allora aveva abbandonato ogni residuo di finzione. Tuttavia, era stato costretto a ricominciare e... Beh, era molto più dura. Doveva fingere con tutti di stare bene, di essersi risollevato dalle ceneri, e invece continuava ad annegare nel dolore. Il 221B, quella casa e tutto ciò che implicava a livello emotivo, un tempo era stata il suo rifugio dal mondo, ma da quel giorno era diventata una prigione, una gabbia di ricordi che, nonostante tutto il dolore, non riusciva e non voleva abbandonare.

Con Mycroft non c'era stato bisogno di faticare: sebbene fosse invecchiato, il maggiore dei fratelli Holmes non aveva mai abboccato alle bugie di Sherlock e lui non ci aveva comunque mai sperato; conosceva Mycroft, era troppo sveglio e lo conosceva fin troppo bene per credere a delle simili cazzate. Era l'unico con cui poteva permettersi di nonfingere- forse era per quel motivo che cercava di vederlo il meno possibile. Lo stesso, in ogni caso, non si poteva dire degli altri: Lestrade, ad esempio.

Il detective continuava a coinvolgerlo nelle indagini e se da un lato Sherlock gliene era grato, dopo tutto erano una bella distrazione per la sua mente iperattiva, dall'altra si chiedeva come facesse a non capire. Poi però sorrideva e scuoteva la testa: non capiva perché, come sempre e chiunque altro, Greg vedeva ma non osservava. E, come previsto, lo stava facendo anche quella volta.

Dopo che Sherlock ebbe esposto la sua conclusione, l'ispettore aggrottò la fronte e lo fissò sconcertato, premurandosi di non celare nemmeno la minima traccia di stupore dal suo volto.

"Come fai a dirlo? Tutto il macello in bagno con quello specchio rotto e i profumi, la televisione e le cornici frantumate in salotto, i cassetti ribaltati qui in camera da letto... Ogni dettaglio fa pensare ad uno scontro, forse dei ladri sono entrati in casa e-"

"No." lo interruppe Sherlock, imperturbabile, "Si è tolto la vita."

"Perché ne sei così sicuro?" domandò Greg. Non capiva, Sherlock lo vedeva, ma davvero non aveva né forza né voglia di spiegargli tutto. Era troppo stanco.

"Cosa sapete sul Signor Melrose?" chiese di rimando e Greg sfogliò velocemente un taccuino con le informazioni in loro possesso.

"Uhm... Buona famiglia, ottima educazione, viveva di rendita... Oh."

"Oh cosa?" lo incalzò Sherlock, sempre gelidamente calmo. Greg gli rivolse uno sguardo incerto prima di proseguire.

"Sua moglie è morta un mese fa."

Sherlock annuì.

"Lo sospettavo." commentò. Lo sguardo di Greg si fece più atterrito.

"Come?"

"Gli oggetti che Melrose ha distrutto- ci hai fatto caso?" Sherlock scosse la testa, l'accenno di un sorriso privo di emozione a piegargli le labbra, "Certo che no... Ha iniziato dal bagno: ha rotto tutte le boccette di profumo, esclusivamente fragranze femminili; quando ha alzato lo sguardo e si è visto allo specchio, in un impeto di rabbia gli ha tirato un pugno e l'ha frantumato. La stanza più vicina al bagno è il salotto, dove si è recato per cercare di calmarsi; poi però ha visto le foto e le ha gettate a terra: il soggetto delle immagini era sempre lei, occasionalmente insieme a lui. Ancora instabile, è venuto qui in camera da letto e ha iniziato a buttare all'aria tutto ciò che era appartenuto a lei - abiti, biancheria, ricordi... Fino a che non ha trovato la pistola. Credo tu possa finire il resoconto degli eventi anche senza il mio aiuto."

"Trovava insopportabile la vita senza di lei, quindi ha deciso di farla finita." mormorò Greg. Sherlock serrò la mascella e a quel punto la mano di John non tardò ad arrivare sulla sua spalla, stringendola delicatamente.

"Stai bene?" gli chiese il dottore. Sherlock gli rivolse un'occhiata infastidita, ma non si scostò.

"Ovviamente." disse. Greg alle sue spalle sbuffò e Sherlock, anche se non lo vedeva, seppe che si stava grattando la nuca con una smorfia ad arricciargli il naso.

"Beh, avrebbe senso: non abbiamo ancora interrogato amici e parenti, però un paio di vicini ci hanno detto che ultimamente era strano, depresso... Forse non avrei dovuto chiamarti per questo caso."

Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre e girò la testa verso di lui, la fronte aggrottata.

"E perché mai?"

"Beh... Lo sai. È passato poco tempo dal funerale, magari tu-"

"Settimana prossima saranno sei mesi, Lestrade. Non essere ridicolo."

"Non lo sono, Sherlock. Dico solo che... Cristo." Greg si interruppe, inumidendosi le labbra con la punta della lingua mentre fissava lo sguardo chissà dove; dopo qualche istante, tornò a posarlo su di lui. "Elaborare un lutto non è mai facile, men che meno immediato: a qualcuno può servire un mese soltanto, ad altri non basta nemmeno un anno: quello che sto cercando di dire è che ti ho coinvolto senza pensare ai tuoi tempi di ripresa."

"E infatti non sta a te pensarci, Greg: sono un uomo adulto, so badare a me stesso." sibilò Sherlock. Lestrade lo guardò con tanto d'occhi e restarono in silenzio per qualche minuto.

"Mi hai chiamato Greg." mormorò poi. Sherlock gli rivolse uno sguardo vacuo, privo di qualsiasi emozione.

"È il tuo nome, no?" commentò, monocorde. Sembrava stanco, così stanco, e Greg iniziò a preoccuparsi seriamente quando lo vide sollevare il bavero del cappotto, pronto ad uscire. "Avvisami quando avrete novità."

"Dove vai?"

Sherlock, già avviato verso l'uscita dell'appartamento, si fermò per un istante. Gli rivolse un'occhiata da sopra la spalla, poi, quando vide John scuotere il capo, tornò ad abbassare lo sguardo.

"A casa. Torno a casa."

Se ne andò senza più guardarsi indietro.

 

 

 

 

 

 

"Stasera usciamo." annunciò Rosie, fermandosi con le braccia conserte sul petto e uno sguardo deciso negli occhi davanti alla sua poltrona. Sherlock sollevò gli occhi dal PC e inarcò un sopracciglio.

"Per andare dove?"

"Non lo so, io ... A cena fuori, magari?" Rosie si mordicchiò lievemente il labbro inferiore, rivolgendo al pavimento la sua attenzione mentre si torturava i palmi delle mani con le unghie. "È da un po' che non lo facciamo più... Mi piacerebbe solo passare una serata diversa, tutto qui."

Rosie era cambiata in quell'ultimo anno: Sherlock la vedeva sorridere meno, spesso era malinconica e pensierosa, non era più la ragazza solare e spensierata di prima. Era come se tutto quello che era successo le avesse strappato di dosso i residui di quell'adolescenza che ancora le erano cari, obbligandola a crescere all'improvviso. Sherlock ne era dispiaciuto ovviamente, ma... Beh, non sapeva nemmeno se avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo o migliorare la situazione. Si sentiva così impotente e se già stava male, vedere Rosie adulta tutt'un tratto a causa delle circostanze lo faceva sentire ancora peggio.

Rosie era sempre stata matura per la sua età, così sveglia e intelligente, però aveva sempre avuto anche un lato infantile, che si stupiva e meravigliava per cose che Sherlock dava per scontate. Gli ricordava tanto John in quei frangenti: come era stato anche con lui fin dal principio, vederla spalancare gli occhi blu con un sorriso incredulo sul viso era sempre stata una droga per lui e non negava di aver sempre cercato di impressionarla in passato solo per ricevere quello sguardo e sentirsi dire che lui, non Iron Man o Doctor Strange, era il suo supereroe preferito.

Adesso Sherlock non riusciva più a farla sorridere, forse perché lui stesso non ci riusciva. Non sorrideva più nessuno al 221B di Baker Street. Sherlock cominciava a credere che sarebbe stato così per sempre.

Rosie però, a modo suo, stava cercando di rimettere insieme i cocci rotti, ripartire da capo: lo stava facendo lentamente e dolorosamente, ma ci stava riuscendo. Sherlock se n'era accorto una mattina, quando per la prima volta dopo settimane l'aveva vista uscire per andare a scuola con i capelli ben acconciati in una treccia e un trucco leggero e naturale sul viso lentigginoso. Cogliendo il suo sguardo, interrogativo e decisamente sorpreso, Rosie gli aveva sorriso debolmente, stringendosi nelle spalle. "Da qualche parte dovrò pur ricominciare, no?" gli aveva detto, prima di dargli un bacio sullo zigomo e uscire. Sherlock non aveva pensato ad altro per tutta la giornata.

Adesso Rosie gli stava davanti, con un abito rosso che le arrivata al ginocchio e un fiocco sottile al collo, i capelli raccolti in una crocchia morbida sulla nuca e gli occhi, resi ancora più luminosi e vivi da un filo di mascara, bassi mentre si mordeva le labbra color pesca.

Era titubante, come se si stesse chiedendo se avesse sbagliato a parlargli. Sherlock si scambiò un'occhiata veloce con John, seduto sul divano: il dottore sorrise e annuì, sembrava contento che la loro bambina, ormai giovane donna, stesse cercando di fare qualche passo verso la guarigione, verso un equilibrio che avevano perso da tempo. Solo allora anche Sherlock annuì e si strinse nelle spalle.

"D'accordo, andremo a cena fuori se è ciò che vuoi." disse poi, ritornando a digitare sulla tastiera. Per quanto gli dispiacesse e facesse male, non riusciva ancora a reggere granché il suo sguardo. Non la vide, ma giurò che Rosie gli avesse rivolto un'occhiata timorosa.

"Dici davvero?" chiese infatti, quasi se stentasse a crederci. Sherlock sospirò.

"Non te l'avrei detto, altrimenti." rispose, stanco. Rosie annuì, senza però smettere di mordersi il labbro. Sherlock lo notò e decise di mettere da parte il file Word che aveva iniziato a comporre incessantemente qualche settimana prima: era un progetto a cui teneva, ma in quel momento sua figlia era più importante. Un'occhiata di approvazione da parte di John gli confermò di aver preso la decisione più giusta.

"Rosie." la chiamò e la ragazza portò gli occhi blu su di lui- Dio, quegli occhi... Erano gli stessi di John, gli stessi occhi di cui si era innamorato quasi trent'anni prima. Vederli sul volto di Rosamund, la sua Rosie, era qualcosa che Sherlock non si sarebbe mai stancato di ammirare. "Che cosa c'è?"

"Niente."

"Rosamund Mary Watson... Ormai dovresti aver capito che mentire proprio a me è davvero senza senso. Avanti, cosa c'è che ti turba?"

"È che io non..." la ragazza si interruppe, la voce improvvisamente tremante. Si morse il labbro e guardò verso l'alto per impedire a lacrime drammaticamente imminenti di iniziare a sgorgare dalle palpebre. "Io so cosa hai passato, cosa stai ancora passando: lo so che ci stai male e so anche che non dici mai niente perché temi che possa far star male anche me, ma sai che c'è? Io sto solo peggio così, perché so che stai soffrendo, ti vedo soffrire, ma non posso fare niente per aiutarti a stare meglio e questo mi uccide: è come se ci fosse un vetro tra noi e io non... Io non ce la faccio più a vederti così. Non voglio perdere anche te, non lo sopporto."

La voce di Rosie si ruppe e Sherlock venne travolto dallo sconforto quando vide una scia di lacrime trasparenti bagnarle il viso, le spalle che tremavano scosse dai singhiozzi mentre lei si copriva la bocca con una mano per soffocare ogni suono. Sherlock si alzò in piedi, meno esitante rispetto al passato, e dopo averla raggiunta con un paio di falcate la strinse a sé, accarezzandole la schiena mentre le posava un bacio tra i capelli biondi.

"Va tutto bene..."

"Non va tutto bene."

Sherlock sorrise tristemente e lanciò uno sguardo a John, adesso in piedi e altrettanto triste: erano passati vent'anni da quello stesso dialogo, con John tra le sue braccia e il fantasma di Mary ad osservarli addolorata. Certe cose davvero non cambiavano mai.

"No... Ma le cose stanno così." le sussurrò all'orecchio, lasciando che Rosie trovasse da sé la tranquillità tra le sue braccia, come suo padre aveva fatto ormai tanto tempo prima. Restarono stretti in silenzio per diversi minuti, anche dopo che Rosie ebbe smesso di singhiozzare. Poi la giovane sussurrò:

"Se preferisci possiamo restare a casa. Non voglio obbligarti a fare qualcosa se non ti va, solo per farmi contenta."

"No, no... Va bene." Sherlock si schiarì la voce. "Respirare un po' d'aria fresca ci farà bene."

"Pensavo che con il passare del tempo sarebbe diventato più facile. Mi sbagliavo." Rosie prese un respiro tremante, appoggiando di nuovo la fronte sul petto di Sherlock, "Chiudo gli occhi e i ricordi sono lì, mi sveglio e diventano ancora più intensi... Non faccio altro che pensarci. Perché sembra che tutto non faccia altro che diventare più difficile?"

Sherlock restò in silenzio. Sentiva lo sguardo di John su di sé, ma non riusciva a guardarlo. Non voleva farlo, non in quel momento: non sarebbe riuscito a sopportarlo, sarebbe stato troppo.

"Sarà così ancora per qualche tempo. Poi, un giorno, semplicemente ti sveglierai pensando ad altro e i ricordi torneranno solo dopo un po'. Pian piano smetteranno di farti visita durante le ore di veglia e poco a poco svaniranno anche dai sogni, fino a che non sarai tu a doverli richiamare alla mente. E a quel punto ricordare non farà più male: sarà solo un po' triste." mormorò poi.

Solo allora riuscì a guardare John: stava sorridendo, ma aveva gli occhi lucidi, così come Sherlock era consapevole fossero i suoi. Rosie però non doveva vederlo. Lei ha bisogno di te, Sherlock, sei la sua roccia, pensò. Così prese un respiro profondo e, mentre si separava da lei, approfittò di un suo attimo di distrazione per asciugarsi gli occhi.

Rosie poi gli sorrise a sua volta, prendendogli la mano con dolcezza.

"Se lo dici tu, mi fido. Ti credo." gli disse. Sherlock sentì una scheggia affilata trafiggergli il cuore mentre cercava di sorriderle.

"Vai a prepararti, prima di cenare facciamo un giro a Piccadilly: sono giorni che mi tormenti parlando di quel vestito verde che ti piace tanto, a questo punto sono curioso di vederlo. Ti va?" disse e Rosie si illuminò.

"Sì, certo che sì! Dammi... Dammi dieci minuti e sono pronta."

"Fai pure con calma: non vado da nessuna parte."

Rosie gli posò un bacio sulla guancia e corse via, incurante delle ciocche di capelli biondi che le erano sfuggiti dallo chignon e ora le incorniciavano il volto pallido. Il sorriso di Sherlock si spense all'istante, mentre si lasciava stancamente ricadere in poltrona. John lo raggiunge dopo pochi istanti e si mise a sedere sul bracciolo; Sherlock gli prese la mano.

"Non so quanto potrò continuare a fingere. Non con lei." sussurrò e la stretta di John si fece più forte.

"L'hai detto anche tu: prima o poi i ricordi svaniranno da soli."

Sherlock sorrise amaramente.

"Sì, una bella favola... Vorrei che fosse vera."

"Lo sarà. Se vale per Rosie, perché non dovrebbe valere per te?"

"Perché Rosie non è me, John." Sherlock sospirò. "Ha bisogno di me, è vero, ma è più forte di quanto lei stessa creda. Lei ne uscirà indenne- forse con un paio di cicatrici, ma nel complesso illesa ed è giusto così."

"E tu?"

"Io?"

"Tu come ne uscirai?"

Sherlock sollevò il viso e intrecciò lo sguardo di John al suo.

"Io non ne uscirò, John." Un sorriso esitante piegò le labbra di Sherlock. "L'ho accettato tanto tempo fa, già quando ti vidi la prima volta insieme a Mary. Non lo farò mai."

John emise un sospiro tremante, accarezzandogli il volto con una dolcezza struggente.

"Devi imparare a lasciar andare, amore mio." ripeté ancora una volta. Sherlock scosse debolmente il capo.

"Te lo già detto, John: non lo farò mai."

John aprì la bocca per ribattere, ma la voce di Rosie dal piano di sopra lo interruppe.

"Sono pronta!"

Sherlock sorrise tristemente, spostando lo sguardo sul pianerottolo.

"Adesso andiamo, allora." rispose ad alta voce, senza guardare John. Si alzò dalla poltrona e si avviò verso la porta, e solo allora si voltò verso di lui: stava piangendo, versando le lacrime che Sherlock tratteneva costantemente da sei mesi a quella parte.

Quando iniziò a scendere le scale, dovette asciugarne una anche lui.

 

 

 

 

 

Molly prese un respiro profondo prima di entrare nel laboratorio, dove Sherlock era ricurvo su un microscopio ad effettuare un'analisi. Era dimagrito tanto, ad occhio e croce tra i dieci e i quindici chili: nessuno ne parlava apertamente ma tutti lo sapevano e se non fosse stato per Rosie che lo obbligava a consumare almeno un pasto per giorno, probabilmente sarebbe già stato ricoverato in qualche ospedale per denutrizione.

Erano passati due anni dal funerale e ormai era chiaro a tutti che Sherlock non stesse bene veramente, ma stesse solo cercando di mantenere le apparenze- per il bene di Rosie, probabilmente. Molly ci pensava spesso e a volte si chiedeva cosa Sherlock provasse precisamente, anche se di solito se ne pentiva subito: sicuramente non era nulla di buono, nulla che avrebbe augurato a nessuno- nemmeno al suo peggior nemico, figurarsi proprio a Sherlock.

Il problema era che Sherlock era sempre stato inavvicinabile, ora più che mai, e Molly non sapeva nemmeno cosa dirgli, come porsi nei suoi confronti: non era mai stato un tipo con cui era facile avere a che fare, ma in quell'ultimo anno era cambiato a tal punto da diventare un'altra persona. Non era più indisponente come una volta, le sue freddure e i suoi insulti erano diventati una rarità al punto che persino Donovan era sollevata nel sentirseli rivolgere.

E il suo sguardo... Molly lo ricordava bene, ricordava quella luce attenta e indagatrice come se fosse ieri, e faceva male rendersi conto che quella luce era scomparsa da così tanto tempo da diventare solo un ricordo: guardando gli occhi di Sherlock, adesso, non si trovava più quello sguardo penetrante e acuto, quasi clinico, ma solo un'infinita tristezza e un vuoto incolmabile, resi ancora più struggenti da un dolore che sembrava non avere mai sollievo.

Sherlock soffriva, Molly lo vedeva- l'aveva sempre visto. Ma ormai c'era ben poco che lei, anzi che chiunque potesse fare per aiutarlo. E questo le spezzava il cuore.

"Ti ho..." Molly si schiarì la voce mentre appoggiava il bicchiere di plastica accanto al microscopio su cui Sherlock stava lavorando, "Ti ho portato il caffè. Nero con due di zucchero, come piace a te."

Sherlock sollevò lo sguardo dal microscopio e lo fissò sul suo viso; Molly, come sempre, percepì un nodo allo stomaco quando lui le rivolse quel debole sorriso che un tempo non sarebbe mai apparso sulle sue labbra.

"Grazie." mormorò e Molly annuì. Prese un respiro profondo e si preparò a fingere che tutto andasse bene, come sempre.

"Cosa stai facendo?"

"Sto analizzando dei campioni per confermare delle analisi di alcuni vecchi casi risolti: alcuni dati erano imprecisi o obsoleti, andavano sistemati."

"Perché?" chiese Molly e Sherlock smise di muoversi per qualche istante. Sollevò lo sguardo su Molly e inarcò un sopracciglio.

"Perché?" ripeté. Molly annuì, sempre più confusa.

"Sì, hai... Hai detto che sono esami appartenenti a casi vecchi, già risolti oltretutto: mi chiedevo perché volessi rimetterci mano. Questo qual era?"

"La bionda con le chiazze."

"Cosa? Ma è un caso di quasi trent'anni fa, Sherlock, perché dovresti..." Le parole le morirono sulle labbra quando Molly distinse in mezzo ai vari fogli e alla Moleskine di Sherlock le pagine di un altro taccuino, uno con una calligrafia che conosceva fin troppo bene e che, purtroppo, aveva smesso di vedere da tempo. Quando riportò gli occhi sul volto di Sherlock, questi abbassò lo sguardo.

"John." sussurrò Molly, "Stai revisionando tutti i casi che hai seguito con John."

Sherlock annuì debolmente, la testa bassa. Molly sospirò e dovette fissare le lampade al neon per impedire alle lacrime di iniziare a scorrere.

"Tutto questo... Tutto questo è sbagliato, Sherlock: non puoi fissarti sul passato, devi andare avanti con la tua vita." disse, la voce tremante. "John non vorrebbe vederti così."

Sherlock spostò lo sguardo sulla postazione di fronte alla sua e incrociò gli occhi di John, colmi di rimprovero e tristezza. Aveva le braccia conserte e l'aria sciupata, ma ciò che fece più male a Sherlock fu la smorfia di dolore che gli deformò il volto quando smise di guardarlo.

"Lo so." sussurrò allora, "Lo sto deludendo."

"Sherlock, non è questione di deluderlo o meno, è che... È che alla lunga finirà per ucciderti. Lo capisci questo, vero?"

Sherlock non rispose, si limitò a tenere lo sguardo fisso dinanzi a sé, su John. Ad un tratto si alzò in piedi e iniziò a riporre taccuini e appunti nella tracolla nera che ava con sé, il tutto sotto lo sguardo confuso di Molly.

"E adesso cosa stai facendo?"

"È tardi, devo tornare a casa: ho promesso a Rosie che avremmo passato la serata insieme." rispose.

"Bugiardo." sibilò John e Sherlock vacillò per un istante, le mani che tremavano. Molly se ne rese conto, ma non disse nulla: Sherlock sperò che non gli chiedesse cosa gli succedesse, se stesse bene o idiozie simili, non avrebbe avuto la forza per risponderle. Si schiarì la voce e indossò il cappotto, per poi iniziare ad annodarsi la sciarpa al collo.

"Potresti tenere il campione nel frigorifero del laboratorio? Non deve deteriorarsi, cosa che ovviamente farebbe restando a temperatura ambiente. Domani tornerò a finire le analisi."

"Sherlock..."

"Devo solo controllare qual'è il reagente che avevo utilizzato all'epoca, ho qualche ipotesi ma devo verificare che-"

"Sherlock!" lo interruppe Molly, decisa. Sherlock portò lo sguardo su di lei, osservando quelle rughe che avevano appena iniziato a comparire sul suo volto insieme a qualche ciocca d'argento tra i capelli castani. Sherlock la guardò negli occhi e dedusse ogni suo pensiero: dedusse la sua preoccupazione, le sue domande, i suoi dubbi... Quello che però non fece fu darle una risposta.

"A domani." disse, caricandosi in spalla la tracolla e avviandosi a passo svelto e deciso fuori dal laboratorio. Scese le scale in fretta e furia, pregò di non incrociare Mike nel tragitto e tirò un sospiro di sollievo quando finalmente fu sul marciapiede, il braccio alzato a fermare un taxi libero di passaggio. Quando fu seduto sul sedile del passeggero, il capo abbandonato contro il poggiatesta mentre l'autista iniziava a guidare verso l'indirizzo appena fornito, chiuse gli occhi per un istante e si massaggiò le tempie. Era stanco, era così stanco... Non sapeva più per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a resistere, non in quelle condizioni.

"Te lo dico io: non molto." esordì John, a metà tra l'ironia e l'irritazione. Sherlock alzò lo sguardo e lo trovò seduto sul sedile posto di fronte a sé, l'unico sul lato opposto rispetto a quello su cui si era sistemato poco prima. Se ne stava lì con le braccia conserte, John, e quell'espressione tipica di chi è pronto a fare la paternale a qualcuno- che quel qualcuno fosse la figlia o il compagno, poco importava. Le labbra erano serrate in una linea sottile e dura che trasudava disappunto da ogni angolo, ma lo sguardo era triste, come sempre, è ben presto contagiò anche il resto del volto.

"Che cosa stai facendo?" gli chiese. Sherlock aggrottò la fronte.

"Lo sai, sto-"

"No, non quello." lo interruppe John, puntando con un gesto del capo alla tracolla prima di tornare a guardarlo, più serio di prima. "Mi sto riferendo a te."

Sherlock non rispose. Guardò impotente John scuotere piano il capo e massaggiarsi la radice del naso.

"Molly ha ragione, non puoi-"

"Sto bene."

"No, cazzo, no che non stai bene!" sbottò John, furente mentre riportava di scatto lo sguardo su di lui, "Credi che nessuno abbia notato in che stato ti sei ridotto? Molly, Greg, Rosie... Sono tutti preoccupati per te, Cristo santo, perché è evidente che non stai bene. Questa non è la tua vita, Sherlock, questo non sei tu!"

"Tu eri la mia vita, John!" Ci fu un attimo di silenzio in cui non fecero altro che fissarsi a vicenda, entrambi tristi e consapevoli che le loro posizioni non erano altro che due facce della stessa verità. Ad un certo punto però Sherlock distolse lo sguardo e scosse debolmente la testa, stringendosi le braccia al petto. "Sei sempre stato tu e io non... E io non so come raccogliere i cocci senza di te. Non so come andare avanti senza di te." sussurrò, la voce tremante e la testa bassa.

Sentiva gli occhi pungere ed era consapevole di essere ad un passo dal pianto, pericolosamente vicino. Portò gli occhi fuori dal finestrino e li fissò sul pallido sole londinese per frenare le lacrime, anche se sapeva che sarebbe servito a ben poco ormai: John non era mai stato uno stupido, non fino a quel punto; nascondergli quanto stesse male, in quel momento poi, sarebbe stato inutile. Sherlock percepì il calore della mano del suo compagno posarsi sulla sua e stringergli delicatamente le dita. Solo allora tornò a guardarlo, trovandosi davanti ad un sorriso triste.

"Sherlock, io ci sarò sempre, sempre, ti accompagnerò ovunque tu andrai." mormorò dolcemente, "Il tuo unico errore è il cercarmi e volermi nella forma sbagliata."

"Ma io ho bisogno di te in quel modo, John. Senza di te non ce la faccio."

"Sì che ce la fai, ce la devi fare. Devi solo tenere duro, amore mio, tenere duro e ricominciare a vivere: il resto sarà tutto in discesa."

Le labbra di Sherlock si piegarono in quello che voleva essere un sorriso di scherno, ma che ebbe l'aspetto di una smorfia sofferente.

"E che razza di vita sarà se tu non ci sei?" sussurrò tristemente.

John abbassò lo sguardo e non rispose.

 

 

 

 

 

 

"Bonjour, Madame Pulver!"

Lara Pulver, un tempo nota come Irene Adler, rivolse al dipendente del piccolo negozio un sorriso smagliante mentre si toglieva gli occhiali da sole. Il sole della Provenza era particolarmente caldo a quell'ora del giorno e Irene detestava restarne abbagliata.

"Bonjour, François. Est-ce que vous avez quelque nouveauté à me proposer aujourd'hui?" L'uomo scrollò le spalle e le indicò uno scaffale su cui aveva appena sistemato gli arrivi internazionali di quella settimana. Irene si recava in quella piccola libreria ogni lunedì: la Provenza era bella, certo, ma talvolta sapeva essere talmente monotona. E visto che i suoi vecchi passatempi, un tempo così divertenti e tipici delle sue giornate lavorative, avrebbero rischiato di farla scoprire, aveva dovuto inventarsi qualcos'altro da fare, un nuovo hobby con cui tenersi occupata. E cosa c'era di più innocuo della lettura?

Irene si avvicinò allo scaffale dei libri in lingua inglese, l'unico lusso che la sua nuova identità poteva concederle, ma restò delusa nel notare la scarsità di assortimento e materiale di buon livello. Era già pronta a tornarsene a casa con un sospiro scocciato quando lo sguardo le cadde sul titolo di un libro abbandonato poco più in là: A Study In Pink.

Irene restò immobile per qualche istante, poi si precipitò a raccogliere il volume e restò folgorata nel leggere il nome dell'autore.

John H. Watson

Lì per lì venne assalita dalla confusione: era possibile che John avesse davvero scritto quel libro? Irene ne dubitava fortemente. E infatti bastò uno sguardo al testo del frontespizio per rendersi conto che quel libro non era opera di John- certo, i brani contenuti all'interno del volume erano sì frutto della sua tastiera, ma chi aveva curato l'antologia, aggiunto inserti, note e commenti, introduzioni e conclusioni... Beh, non era certo lui. L'impronta era così chiara, così palese.

Sa qual è il problema con i travestimenti, Signor Holmes?

Per quanto ci si provi, è sempre un autoritratto.

E quello, Irene doveva ammetterlo, era l'autoritratto più struggente, malinconico e pregno d'amore su cui avesse mai posato lo sguardo. Si riscosse in fretta e si diresse con passo deciso verso la cassa, dove pagò il libro senza battere ciglio per poi dirigersi a casa senza ulteriori esitazioni. Una volta giunta a destinazione, si accoccolò sul divano del salotto e iniziò a leggere; quando richiuse il volume, lo sguardo velato dalle lacrime, fuori era già buio.

Era un libro intenso, così come era stata la vita dei due protagonisti: al suo interno c'erano resoconti di casi, aneddoti di vita quotidiana, sfoghi e anche estratti di commenti prelevati dal vecchio blog di John. Irene aveva sorriso leggendo il capitolo a lei dedicato, cogliendo la gelosia cieca e all'epoca inconsapevole di John tra le righe e l'ingenuità di Sherlock nel non essersi reso conto già all'epoca di cosa provasse davvero per lui. Nelle note finali del capitolo, infatti, Sherlock aveva aggiunto qualche riflessione e considerazione personale: ammetteva di essere rimasto affascinato, intrigato, forse addirittura sedotto dalla Donna, ma anche che quel sentimento era sempre stato così superficiale ed effimero rispetto a ciò che già ai tempi provava per John.

C'erano anche parti dedicate a Rosamund, figlia di John nata dal matrimonio con la defunta moglie Mary Morstan e allevata dal dottore insieme a Sherlock. Irene aveva sempre sospettato che sotto alla scorza dura da automa senza sentimenti, tutto logica e ragionamento, Sherlock fosse un sentimentale dal cuore tenero, ma non aveva mai immaginato di vederlo nelle vesti di padre: era evidente che amasse Rosamund di quell'amore tipico di un genitore verso un figlio e che lei ricambiasse il sentimento; in fondo, la ragazza aveva vissuto con la madre solo per i primi mesi di vita, era cresciuta al 221B di Baker Street insieme al padre e, a partire suo secondo anno di vita, a quello che poi era diventato a tutti gli effetti il suo partner; era quindi naturale, specialmente conoscendo Sherlock e immaginando la natura della giovane Watson, che i due sviluppassero un legame simile a quello che aveva con John, Irene ne era rimasta piacevolmente colpita ma non del tutto sorpresa.

Irene lasciò vagare lo sguardo per la stanza, fino a che non si andò a posare sul cellulare posto sul tavolino davanti al divano. Lo osservò per qualche istante senza fare nulla, poi si allungò verso il mobile e lo afferrò svelta. Lo sbloccò in pochi istanti e aprì l'applicazione dedicata ai messaggi, per poi selezionare una chat e iniziare a digitare nell'editor di testo.

Ho letto il libro. La tua impronta è evidente.

Irene inviò il messaggio e restò in attesa. La risposta arrivò qualche minuto dopo.

È sempre stato lui quello bravo a scrivere. Non ho fatto niente di incredibile.

Irene scosse la testa e sorrise tristemente.

La ragazza come sta? Lo ha letto?

Sherlock rispose quasi immediatamente.

L'ha trovato incredibilmente commovente e romantico, sebbene io non riesca davvero a capire cosa ci sia di commovente e romantico in un'antologia di casi di omicidio. Comunque sta bene, adesso: ci ha messo un po' a riprendersi, ma sono passati cinque anni ormai; ora ha di nuovo la vita che suo padre ha sempre desiderato per lei.

Irene si morse lievemente il labbro superiore.

E tu? Anche tu hai di nuovo la vita che John ha sempre voluto per te?

Quando il cellulare vibrò per segnalare l'arrivo di un nuovo messaggio, Irene sapeva già che Sherlock le avrebbe mentito.

Certo.

Irene scosse debolmente la testa e sospirò. Davvero non sapeva cosa dire, era una di quelle occasioni in cui ogni parola era superflua e ininfluente. Così, scrisse semplicemente ciò che sentiva- un cliché forse, ma sincero.

Mi dispiace.

Stavolta la risposta di Sherlock impiegò più del solito ad arrivare.

Anche a me.

 

 

 

 

 

Richard Swan lanciò uno sguardo timoroso al padre della sua fidanzata mentre gli porgeva timidamente la mano: ormai lui e Rosamund si frequentavano da quasi sei mesi, ma prima di quella sera non aveva mai avuto modo di conoscere il famoso genitore della compagna. Se possibile, Sherlock Holmes metteva ancora più in soggezione dal vivo: Rick, così lo chiamava Rosie, se l'era immaginato più alto, ma con quello sguardo di ghiaccio e la folta chioma di ricci ormai sale e pepe riusciva comunque a far accapponare la pelle. Se poi si metteva a dedurre aneddoti e informazioni che avrebbe preferito non portare mai alla luce... Beh, il povero ragazzo iniziava a credere che avrebbe avuto incubi su quell'incontro per settimane.

"Beh, allora... È stato un onore conoscerla, Signor Holmes. Grazie per... Sì, insomma, per la cena e avermi incontrato." balbettò con la mano protesa verso l'uomo. Sherlock, serio come la morte, osservò per qualche istante il braccio senza battere ciglio, poi sollevò lo sguardo sul volto del genero e lo gelò con una singola occhiata. Quando gli strinse la mano, Rick giurò di aver sentito le ossa scricchiolargli per l'eccessiva pressione.

Rosie scese le scale in quel momento e li raggiunse al pianterreno, sorridente e decisamente di buon umore. Sherlock trattenne a stento una smorfia quando notò Richard emettere un sospiro di sollievo vedendola.

"Ehi, vi state già salutando, quanta fretta..." esordì la giovane e Richard le rivolse un sorriso nervoso.

"Sì, ecco, io pensavo che... Sai, pensavo di ottimizzare i tempi, così voi potete... Non so, salutarvi meglio?" buttò lì e Sherlock stavolta non riuscì a trattenersi dal roteare gli occhi. Rosie lo notò e rifilò al genitore una lieve gomitata.

"Hai avuto una bella idea, Rick." gli disse poi, rivolgendogli un sorriso smagliante, "Perché non mi aspetti fuori? Ci metto un attimo."

"No no, tranquilla, fai pure con comodo! Io..." Richard deglutì, a disagio. "I-io vado. Buonanotte, Signor Holmes."

"Richard." lo congedò Sherlock, lapidario. Il ragazzo praticamente si precipitò fuori dalla porta e assistendo alla scena, con tanto di porta chiusa a malapena nella fretta, il detective si concesse un ghigno, mentre Rosie lo fulminò con lo sguardo.

"Lo hai terrorizzato." lo accusò. "Era davvero necessario?"

Sherlock sorrise appena e rivolse alla figlia, al momento con le braccia conserte sul petto e una smorfia di rimprovero in viso, uno sguardo colmo d'affetto.

"Dovevo pur testarne la tempra, no? Non sia mai che finisca come con quello del negozio di dischi." mormorò e Rosie assunse un'espressione nauseata.

"Dio, non ricordarmelo... Lui però come ti è sembrato? Ti piace?"

Davanti allo sguardo speranzoso della ragazza- donna, ormai a ventisette anni Rosie era una donna fatta e finita, per l'amor del cielo! Il fatto che Sherlock facesse fatica ad accettare che la sua bambina fosse cresciuta era un altro discorso. Comunque, davanti al suo sguardo colmo di speranza, fiducia e anche un pizzico di timore, Sherlock fu quasi costretto a sorridere.

"Ne ho conosciuti di peggiori. Non è esattamente una cima, ma..." Sbuffò, grattandosi la nuca con fare incerto, "Direi che ci si può lavorare."

"Era un sì, quindi?"

Sherlock rise appena e annuì, ricevendo in cambio un gridolino entusiasta e un abbraccio da parte di Rosie.

"Ah, ne ero sicura, lo sapevo! Gliel'avevo detto che ti sarebbe piaciuto, lui non ci credeva nemmeno."

"Meglio che continui a non crederci, così per lo meno non gli daremo false speranze." mormorò Sherlock, passandole un braccio attorno alle spalle e dandole un bacio sui capelli biondi. Rosie sogghignò e Sherlock rivide Mary per un istante, prima di annegare negli occhi blu di John. Era così simile ad entrambi, non avrebbe mentito dicendo che a suo parere Rosie aveva preso il meglio da entrambi i genitori- ovviamente c'era anche qualche piccola pecca, probabilmente frutto della sua influenza, ma era anche grazie ad esse se Rosie era perfetta così com'era.

"Sei tremendo, lo sai?" gli disse, punzecchiandolo con l'indice destro. Sherlock sorrise lievemente.

"Sì, tuo padre me lo diceva spesso... Lui l'avrebbe adorato. Richard, dico: gli sarebbe piaciuto molto." mormorò lui e Rosie si fece all'istante più malinconica: sorrideva ancora, ma un velo di tristezza prima inedito ora le oscurava lo sguardo.

"Tu credi?" chiese e Sherlock annuì con decisione.

"Sì, ci sarebbe andato a nozze. Rugby, libri, quei maglioni orrendi che indossava e a quanto vedo indossa anche lui... Avrebbe avuto la strada spianata con lui."

"Ma con te no."

"Deve esserci sempre una pecora nera in famiglia, ricordatelo." commentò Sherlock e Rosie rise. Appoggiò la testa sulla sua spalla e restarono in silenzio per un po', semplicemente stretti l'uno all'altra.

"A volte mi dimentico che... Sì, insomma, mi sveglio e vorrei dirgli una cosa, solo per poi ricordarmi una volta preso in mano il cellulare che non posso farlo. I ricordi sono diminuiti, come avevi predetto anni fa, però... Dio, mi manca ancora da impazzire." mormorò Rosie e Sherlock si irrigidì a malapena.

"Anche a me." sussurrò solamente e Rosie tornò a guardarlo, preoccupata.

"Resto qui con te, se ti va. Posso dire a Rick che ci vediamo domani, magari io e te ci guardiamo un film e-"

"No, tu... No." Sherlock le rivolse un sorriso affettuoso, sereno. "Vai con lui, è giusto così. Io sto bene, non ti preoccupare."

"Sei sicuro?"

"Sì, stai tranquilla. Ci sentiamo domani."

"D'accordo, allora... Buonanotte. Ti voglio bene."

Rosie gli diede un bacio sulla guancia e lo abbracciò forte. Sherlock ricambiò la stretta e le posò un nuovo bacio tra i capelli.

"Ti voglio bene anch'io. Fai attenzione, d'accordo?"

"Dio, papà, ho quasi trent'anni!" protestò Rosie con una serata. Sherlock sorrise mentre la lasciava andare.

"Anche quando ne avrai cinquanta per me sarai sempre la bambina che mi lanciava addosso il sonaglio, Rosamund." le disse e lei sorrise mentre si portava una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

"A domani, papà." gli sillabò con le labbra mentre apriva la porta e lo salutava l'ultima volta, per poi chiudersela alle spalle e lasciare definitivamente il 221B. Sherlock sospirò, senza smettere di sorridere: ancora oggi sentirsi chiamare papà gli faceva un effetto non indifferente, ogni volta gli accendeva un fuoco nel petto che gli scaldava prima il cuore, poi si irradiava in tutto il corpo. Era sempre bellissimo.

Ripensando alla serata appena trascorsa, Sherlock scosse lievemente il capo mentre prendeva a salire lentamente le scale per il piano superiore. Finalmente aveva conosciuto il famoso Richard, il nuovo (e a quanto pare veramente serio) amore di Rosie. Stavano bene insieme, non poteva negarlo, e le intenzioni di lui nei confronti della giovane erano serie e piene d'amore. Erano davvero innamorati e... Beh, Sherlock era rimasto piacevolmente colpito da questo aspetto. Certo, il poveretto restava un idiota, però non poteva pretendere il mondo, anche perché a sentir lui non c'era anima viva sul pianeta che fosse degna di stare al fianco di Rosie. Era una battaglia persa in partenza.

Sherlock raggiunse la cucina e a quel punto incontrò lo sguardo di John, sorridente ed emozionato per la serata.

"È carino, vero? Stanno davvero bene insieme, sono così felici." disse il dottore e Sherlock, lasciandosi cadere sulla sua sedia, si strinse nelle spalle.

"È un bravo ragazzo."

"È un bravo ragazzo? Tutto qui?"

"Perché, cosa vuoi che ti dica?"

"Ah, non lo so... Anche se a pensarci bene stavolta sei già stato fin troppo magnanimo per i tuoi standard: normalmente a sentir te ogni ragazzo sulla faccia della terra è un idiota, un delinquente, un arrivista- la lista è talmente lunga che potrei continuare all'infinito."

"Beh, non è certo colpa mia se nessuno è al livello di nostra figlia." commentò Sherlock e John si mise a braccia conserte, una smorfia divertita sulle labbra.

"Però stasera sei davvero stato un infame: quel povero ragazzo era terrorizzato, non hai smesso di tormentarlo nemmeno per un secondo."

"Deve capire come sarà la sua vita d'ora in poi, se sceglie di stare con Rosie."

"Stai cercando di farlo scappare, per caso?" domandò John, l'ombra di un sorriso in volto. Sherlock fece spallucce, simulando un'innocenza talmente falsa da sembrare una parodia.

"Può darsi..."

"Sherlock, Dio santo, l'hai fatto per anni con le mie vecchie fidanzate: non replicare l'esperienza anche con chi sta con Rosie."

"Però alla fine a te è andata bene, no?" mormorò Sherlock. "Ti sei messo con me."

"Mmh, infatti comincio a credere che fosse il tuo piano fin dall'inizio."

"Accidenti, quale acume, sorprendente!" sussurrò Sherlock, fingendosi strabiliato, e John rise. Sherlock sorrise a sua volta, perdendosi ancora una volta ad osservare quel volto così amato.

"Ti stanno venendo le rughe, sai? Proprio lì, attorno agli occhi." disse poco dopo e il dottore scosse la testa, rivolgendogli uno sguardo di affettuoso rimprovero.

"No, quelle sono pieghe..." Il sorriso di John scemò fino a spegnersi, mentre si metteva a braccia conserte e abbassava lo sguardo, "Le rughe non hanno fatto in tempo."

Quando lo riportò sul suo viso, Sherlock si sentì morire. Si ritrovò a dover distogliere gli occhi, fissandoli sulle venature del tavolo, la mascella serrata. Faceva male. Continuava a fare male, anche a distanza di tutto quel tempo... E dieci anni erano parecchi da scontare. Entrambi restarono in silenzio per un poco, poi Sherlock sentì il dottore sospirare mentre si portava alle sue spalle.

"La verità è che ti sei dimenticato dei miei difetti, Sherlock..." mormorò John, appoggiando il petto alla schiena del detective e il mento alla sua testa. Sherlock sentì le braccia del compagno scendere attorno al collo, intrecciando le dita sul suo petto: portò le mani sulle sue quasi senza pensarci. John gli posò un bacio tra i capelli, poi mormorò:

"Succede sempre a quelli che se ne vanno, no? La prima cosa che vi dimenticate di noi sono i difetti."

"Ma tu non ne hai." mormorò Sherlock con un accenno di sorriso e John scoppiò a ridere.

"È il tuo modo di dirmi che l'ho sparata grossa?" chiese Sherlock, divertito.

"Non grossa," sussurrò John, affondando di nuovo il volto tra i suoi capelli, "enorme."

Sherlock serrò di più la presa sulle mani del compagno e si beò di quel contatto: era effimero, sfuggente, decisamente troppo leggero... Ma ormai era tutto ciò che gli restava: un ricordo evanescente, nulla più.

John, il suo John, se n'era andato da dieci anni ormai, e con lui se n'era andata anche la parte migliore di Sherlock. Ciò che restava, quella creatura danneggiata e sofferente, non poteva fare altro che sopravvivere aggrappandosi ad un passato ormai perduto, ma mai dimenticato.

John sospirò, riportando Sherlock alla realtà.

"Cosa stai facendo, Sherlock?" sussurrò ancora, per l'ennesima volta in tutti quegli anni. Sherlock chiuse gli occhi e per la prima volta non finse di non sapere a cosa si stesse riferendo.

"Sto cercando di andare avanti, John. Per ora sembra ci sia riuscito abbastanza bene." mormorò e John scosse la testa. Gli lasciò andare le mani e andò a sistemarsi sulla sedia di fronte alla sua. Sherlock lo vide intrecciare le dita e poi portarsele davanti alle labbra, gli occhi chiusi, sbuffando mentre rifletteva su cosa dire. Ad un tratto tornò ad appoggiare le mani sul tavolo e riportò lo sguardo sul volto di Sherlock: non sembrava contento.

"Tu non stai cercando di andare avanti, Sherlock."

"Sto cercando di sopravvivere."

"È questo il problema: tu non devi sopravvivere, tu devi vivere." John si interruppe con un sospiro strozzato. "Sei bloccato in questo limbo da quando sono morto, Sherlock... È arrivato il momento di uscirne."

"Non dirlo." disse Sherlock a denti stretti. John aggrottò la fronte, poi capì e scosse la testa, il viso contratto in una smorfia.

"Non dire cosa? Che sono morto? Perché è esattamente quello che è successo, Sherlock: io sono morto."

"Smettila."

"Continuare a fare finta che io sia davvero qui non migliorerà le cose." John si interruppe e abbassò per qualche istante lo sguardo, poi prese delicatamente una mano di Sherlock tra le sue mentre tornava a guardarlo. "Devi imparare a lasciar andare, Sherlock. Devi imparare a lasciarmi andare."

Sherlock non disse nulla per qualche istante, il tempo necessario affinché gli occhi gli si riempissero di lacrime e la voce iniziasse a tremargli.

"Non posso." sussurrò. "Non ce la faccio."

John scosse lievemente il capo, poi mormorò:

"Non è stata colpa tua. Lo sai questo, vero?"

Sherlock restò in silenzio per qualche istante e distolse lo sguardo.

"Quel proiettile era per me. Era per me, così come lo era quello che ha ucciso Mary." Sherlock prese un respiro tremante e si sfregò le mani sul viso, lasciandole poi a coprirsi la bocca, i gomiti ben appoggiati al tavolo. "Avevi ragione, tanti anni fa: se Mary morì, fu solo colpa mia. E adesso ho le mani sporche anche del tuo sangue."

"Sherlock-"

"No, John: quell'uomo stava per sparare a me, ero io quello a terra, quello che la morte stava aspettando da tanto tempo. Ma tu no... Tu hai preferito tentare di disarmarlo. E sappiamo entrambi com'è andata a finire." sussurrò Sherlock, chiudendo gli occhi mentre i ricordi iniziavano ad affollarsi davanti ai suoi occhi.

 

Lui a terra, l'assassino con un piede ben piantato sul suo petto e la pistola in mano, puntata al suo volto.

Lui che pensa che ormai è finita e non ci vorrà molto prima che quel dannato grilletto venga premuto.

Lui che si rende conto che la vita in fin dei conti è davvero un cerchio, perché così come sarebbe dovuto morire tanti anni prima per mano di un proiettile, poi rubatogli da Mary, sarebbe morto adesso.

Lui che pensa a Rosie, a quando le ha promesso che l'avrebbe accompagnata a comprare quel maglione color senape per John e invece la vedrà per l'ultima volta in una camera mortuaria. Lui che pensa a quanto lei gli mancherà, quanto tutti gli mancheranno... A quanto gli mancherà John, che ha sempre amato più di se stesso. John.

John che ad un tratto compare accanto all'assassino e che tenta di disarmarlo, coinvolgendolo in una colluttazione alla quale Sherlock, ancora senza fiato, non riesce a partecipare.

Lui che vede l'assassino riuscire a svicolare la mano armata alla presa di John, puntargli al petto e sparare.

Lui che grida e John che sbarra gli occhi, boccheggiante, e cade a terra. L'assassino che corre via e lui che striscia accanto a John, stringendolo a sé e adagiandogli la testa sulle sue cosce. Lui che cerca di tamponare la ferita e fermare l'emorragia, lui che urla a Lestrade di chiamare i soccorsi, Cristo santo. Lui che continua a ripetere a John che la ferita non è grave, ne ha viste di peggio. John che tossisce sangue e scambia con Sherlock uno sguardo che smaschera tutte quelle bugie.

Lui che lo accusa di essere stato un idiota, perché diavolo si è messo in mezzo, John che gli prende una mano e la stringe dolcemente, un sorriso tenero a piegargli le labbra tremanti e uno sguardo pieno d'amore negli occhi. Lui che lo supplica di non lasciarlo.

E infine, John che gli sussurra Ti amo prima di andarsene con un ultimo respiro, fissando poi il vuoto con i suoi meravigliosi occhi blu, ora vitrei.

E lui, Sherlock, che inizia a singhiozzare ripetendo una litania fatta di no, no e no, appoggiando la fronte a quella di John con un rantolo sofferente. Lui, Sherlock, che stringe il cadavere dell'uomo che ama al suo corpo, chiedendosi perché sia successo, perché non sia lui ad essere morto. Lui, Sherlock, che grida tra le lacrime, mentre il mondo non può fare altro che restare lì a guardare.

 

 

Sherlock tornò a guardare il fantasma di John e per un attimo, sul suo maglione color vinaccia, distinse una macchia umida all'altezza del cuore.

"È stata una mia scelta, Sherlock. Lo sai anche tu." gli disse John, triste. Sherlock scosse la testa.

"L'hai fatto per salvare me. L'avete fatto tutti per salvare me, e guarda che razza di relitto avete salvato. Ne è valsa la pena? Per me no... Potevi esserci tu qui con Rosie, adesso. Potevate esserci tu e Mary con lei."

"Lei ha bisogno di te."

"E io la sto deludendo." Sherlock sorrise tristemente. "Guardami John. Guardami: credi che abbia fatto un buon lavoro in questi anni? Credi che l'abbia fatta felice, che l'abbia resa fiera di me? Dopo tutto questo tempo, sono ancora aggrappato al tuo ricordo, al tuo fantasma." Sherlock si interruppe e ridacchiò sommessamente, grattandosi la nuca. Nonostante le apparenze, più che divertito sembrava disperato. "Ti ricordi di quando vedevi Mary? Ti ricordi di quando ormai sapevi, avevi chiaro che fosse morta, ma continuavi a vederla e vivere con lei, come se fosse ancora lì? Ecco. Io sto facendo lo stesso, John. E lo sto facendo da dieci anni... Dici che Rosie ha bisogno di me, ma siamo onesti: chi mai può avere bisogno di qualcuno così rotto?"

"Papà?" lo chiamò una voce proveniente dal passaggio per il salotto, tremante e allo stesso tempo spaurita.

Sherlock sussultò e si voltò di scatto verso la fonte del suono; quando vide chi si trovava accanto alla porta scorrevole, proprio davanti alla vecchia poltrona di John, sentì ogni goccia di sangue defluire dal suo volto: Rosie aveva una mano stretta allo stipite talmente forte da essersi sbiancata le nocche e gli occhi pieni di lacrime che avevano già iniziato a rigarle il volto. Sembrava stravolta, come se le avessero appena tolto la terra da sotto i piedi; Sherlock si sentì morire quando la vide tremare.

"Che cosa ho appena visto?" sussurrò, lasciandosi andare ancora di più contro lo stipite. "Che cazzo ho appena visto?"

"Rosie, io non..." Sherlock si alzò in piedi e le si avvicinò lanciando di tanto in tanto uno sguardo verso la sedia dove fino a poco prima c'era John. Quando tornò a guardare Rosie, quando si rese conto che aveva seguito fino all'ultima delle sue occhiate, vide che era ancora più spaventata. "Posso spiegarti, Rosie."

"Tu... C-con chi stavi parlando?"

"Non stavo parlando con-"

"Non mentirmi, cazzo!" gridò Rosie e Sherlock fece istintivamente un passo indietro. Una lacrima rotolò giù per la guancia della giovane mentre prendeva un respiro profondo, preparandosi a parlare di nuovo. "Non mentirmi, non ti azzardare... So cosa ho visto: tu stavi parlando con qualcuno, ma non eri al cellulare, guardavi nel vuoto ma era come se guardassi una persona e io non... Io non capisco."

Sherlock restò in silenzio per qualche istante, le mani sui fianchi, e abbassò lo sguardo. Si sentiva come in uno dei suoi incubi, intrappolato e impotente. Solo che quello non era un incubo: era la realtà e stava vivendo la sua peggiore paura, quella che l'aveva perseguitato per tutti quegli anni. Non sapeva da dove cominciare, cosa dire e cosa tacere, come... Dio, come far capire a Rosie che non era pazzo- perché non lo era, giusto? Lui non era pazzo. Almeno, non credeva di esserlo, non ancora.

"Stavi parlando con lui, vero?" mormorò Rosie, spezzando la quiete. Sherlock alzò lo sguardo su di lei e vide che le lacrime avevano ripreso a bagnarle il volto; Rosie si stringeva le braccia al petto e teneva la testa appoggiata allo stipite, ma gli occhi fissi su di lui. Dopo qualche istante, gli rivolse il sorriso più triste che Sherlock avesse mai visto.

"Ti ho... Ti ho sentito chiamarlo per nome. John... Pensi davvero tutte quelle cose? Quelle che hai detto, dico. Ci credi davvero?" disse a bassa voce e Sherlock, dopo aver preso un respiro profondo e cercato di mandar via quel fastidioso groppo in gola, annuì.

"Sì. Sì, le penso davvero." sussurrò, lo sguardo fisso sul pavimento, e si maledisse quando percepì la propria voce tremare. "Che cosa hai sentito?"

Rosie rise debolmente, ma la sua fu una risata vuota e priva di allegria.

"Abbastanza, direi. Non so quando tu abbia cominciato il discorso, ma... Diciamo che ti ho seguito perfettamente da quel 'Sto cercando di sopravvivere'." Rosie si interruppe per un istante, osservando in modo distaccato, assente, la sedia su cui il padre aveva visto il fantasma di John Watson. "Ero tornata a prendere il cellulare. L'avevo dimenticato sul tavolino, di là in salotto. Già all'ingresso ti sentivo parlare, ma non capivo cosa stessi dicendo: ho supposto che fossi al telefono con qualcuno, zio Greg probabilmente; così ho fatto piano, non ho fatto rumore, ma una volta raggiunto il salotto ho visto il tuo telefono accanto al mio. Poi ho sentito quella frase, mi sono avvicinata e... E ho sentito tutto. Ho visto tutto."

Sherlock si passò una mano sul viso, massaggiandosi delicatamente le palpebre con aria stanca. La verità era che stava cercando di trattenere le lacrime, anche se di questo passo era abbastanza sicuro che non avrebbe resistito ancora per molto.

"Mi dispiace, Rosie. Non avrei mai voluto che vedessi tutto questo, io..." La voce di Sherlock si ruppe in una risata sconvolta. "Mi dispiace tanto."

"Ti dispiace..." ripeté Rosie, incredula. "Ti dispiace. Papà, io... Io non so nemmeno cosa dire. Non so nemmeno cosa pensare, ad essere sincera... Perché non me l'hai mai detto? Perché non me ne hai mai parlato prima?"

"E cosa avrei dovuto dirti? Che da dieci anni vedo tuo padre ovunque vada- anzi, che tuo padre mi accompagna ovunque vada? Che da dieci anni ci parlo, vivo come se lui fosse qui, come se non... Come se non se ne fosse mai andato? Cristo, Rosamund, come avrei potuto farti una cosa del genere? Come avrei potuto guardarti ancora negli occhi sapendo il peso che ti ho caricato sulle spalle? So di non essere il migliore dei genitori, ma così... Beh, sarei proprio stato un padre di merda, non trovi?" disse Sherlock e l'espressione sul volto di Rosie fu quella di qualcuno che aveva appena ricevuto un pugno allo stomaco.

"Qui non si tratta di me, qui si tratta di te: ci sei sempre stato, papà, qualsiasi scelta facessi e qualsiasi strada prendessi, tu sei sempre stato lì a supportarmi e spronarmi ad andare avanti. Ci sei sempre stato, ho sempre potuto contare su di te... E io credevo che tu avresti fatto lo stesso, che avresti contato su di me, quando ne avessi avuto bisogno."

"Non per questo, Rosie... Per questo no." sussurrò Sherlock, scuotendo debolmente la testa, le guance scavate ormai rigate dalle lacrime. "È qualcosa di troppo grande persino per me, io non... Non volevo che schiacciasse anche te. Non volevo che riaprisse una ferita che era giusto si rimarginasse con il tempo, non volevo che tu soffrissi più di quanto avevi già fatto. Non volevo che anche tu affogassi con me."

Rosie non disse nulla, ma avanzò fino a raggiungere Sherlock e a quel punto lo abbracciò forte, lasciando che il padre la stringesse a sé a sua volta e affondasse il viso nei suoi capelli con un singhiozzo strozzato.

"Non mi importa di rischiare di annegare, non se ho anche solo una singola possibilità di tirarti fuori." mormorò Rosie, decisa. "Siamo una famiglia, non ti lascio solo ad affrontare tutta questa merda... Lo sei rimasto abbastanza, decisamente troppo. E io non ho più intenzione di chiudere gli occhi e fare finta di non vedere: se non riesci a farlo da solo, allora va bene, ne usciremo insieme."

"Non voglio che tu stia male a causa mia."

"E io non voglio che tu viva nel dolore per il resto dei tuoi giorni. Non voglio più vederti così... Nemmeno papà lo vorrebbe."

Sherlock la strinse più forte nel sentire nominare John: non seppe perché, ma quell'accenno lo fece crollare e iniziò a piangere stretto a sua figlia, a versare tutte quelle lacrime che per anni si era tento dentro. In un primo momento Rosie si irrigidì sentendolo singhiozzare, poi però lo strinse più forte ed iniziò ad accarezzargli dolcemente la schiena.

"Va tutto bene, è tutto okay... Ci sono io adesso." gli sussurrò. "Non sei più solo."

"È proprio questo il problema, Rosie." gemette piano, "Non lo sono mai stato."

Quando Sherlock alzò lo sguardo dal corpo della figlia, vide John seduto sul bracciolo della sua poltrona, le lacrime a rigargli il volto e una macchia di sangue sempre più larga sul torace. Rosie non lo seppe mai, ma pochi attimi dopo il fantasma di suo padre aveva appoggiato la fronte a quella del compagno, le mani strette alle spalle di Rosie.

"Ce la farai, amore mio." gli sussurrò. "Devi solo imparare a lasciarmi andare."

E quella volta, invece di ignorarlo, Sherlock lasciò che le lacrime rispondessero per lui e che Rosie lo stringesse più forte e lo cullasse nel suo abbraccio, come lui aveva fatto con lei tanto tempo fa.

Per la prima volta dopo anni, si sentì di nuovo a casa.

 

 

 

 

 

 

 

"Guarda amore, guarda chi c'è lì! Chi c'è?"

Rosie, accovacciata sul prato dell'area giochi di Hyde Park, indicò al bimbo accanto a lei Sherlock, seduto sulla panchina davanti a loro.

"Nonno!" esclamò il piccolo, ridacchiando allegramente mentre, con andatura svelta ma sicura, correva verso di lui. Sherlock sorrise e lo prese al volo, sollevandolo per qualche attimo in aria prima di farlo sedere sulle sue cosce. Il bambino emise un gridolino divertito, entusiasta per quel gioco, e rivolse al vecchio detective uno sguardo felice.

"Ancora!" disse, allo stesso tempo imperioso e innocente nel tuo divertimento. Sherlock ripeté ben volentieri il gesto appena fatto e il piccolo rise di nuovo, lasciandosi poi abbracciare ben volentieri mentre una Rosie raggiante nel suo nuovo ruolo di mamma avanzava sorridendo verso di loro.

Erano passati quasi sei anni da quando Rosie aveva scoperto del segreto di Sherlock e... Beh, erano successe e cambiate tante cose. In meglio, per fortuna: dopo parecchia resistenza, Sherlock aveva accontentato la figlia e aveva iniziato a vedere una terapista per superare quel lutto che ormai lo attanagliava da un decennio.

All'inizio era stato difficile, Sherlock si era comportato come un bambino capriccioso (e John non aveva tardato a rinfacciarglielo dopo la fine di ogni seduta), ma a malincuore, dopo i primi mesi di lotta, aveva dovuto arrendersi all'evidenza che Agatha, la sua terapista, era una donna con le palle e non gliel'avrebbe data per vinta molto facilmente; oltretutto, come lei amava ricordargli ogniqualvolta Sherlock si comportasse in modo impossibile, erano lì per aiutare lui, per risolvere un suo problema, e metterle i bastoni tra le ruote avrebbe reso tutto solo più tedioso per entrambi- con la sola differenza che Agatha a fine giornata avrebbe comunque intascato del denaro, Sherlock invece non avrebbe guadagnato nulla, anzi.

E così, dopo un inizio tutto in salita, Sherlock aveva iniziato a fare piccoli progressi e dopo un po' tutti avevano potuto constatare visibili miglioramenti: Rosie aveva ricominciato a ridere grazie a quelle battute caustiche che non sentiva da tempo, Molly si sentiva più serena vedendolo entrare in laboratorio con i suoi vecchi modi burberi, Greg sentendolo insultare i suoi agenti con tutto quel sarcasmo e la sua verve acida non riusciva a trattenere un sorriso. Il vecchio Sherlock stava poco a poco tornando a casa e tutti si rendevano sempre più conto di quanto gli fosse mancato.

Il percorso non era stato affatto facile, anzi, tutto il contrario. Ogni volta che Sherlock si illudeva di essere arrivato, ecco che si presentava un nuovo ostacolo da superare, ma c'era anche da dire che Sherlock aveva sempre trovato un buon motivo per continuare a lottare: all'inizio era solo Rosie, poi anche quel piccolo essere umano che ora se ne stava comodamente accoccolato tra le sue braccia.

Circa cinque anni prima, Rosie e Rick erano convolati a nozze: Sherlock l'aveva accompagnata all'altare, anche se gli costava fatica ammetterlo si era commosso durante la cerimonia, aveva fatto un bel discorso durante il ricevimento e infine, così come era successo al matrimonio di John e Mary, aveva dedotto e annunciato alla sposa che presto alla novella famiglia si sarebbe aggiunto un nuovo componente. L'unica differenza fu che, questa volta, restò alla festa fino alla fine. E poi... Beh. Poi, qualche mese dopo, era nato il bambino.

Sherlock ricordava distintamente il suo arrivo in ospedale, l'espressione commossa, felice e piena d'amore e orgoglio sul volto di Rick quando venne a salutarlo, l'aspetto raggiante della sua Rosie mentre teneva tra le braccia il suo bimbo appena nato... Il marmocchio stesso, ad essere sinceri. Sherlock se ne era innamorato sin dal primo istante, così come era successo con sua madre ormai tanti anni prima. Fino a quel momento, anche se un po' a fatica (Mycroft aveva ragione, l'età e la famiglia lo stavano rammollendo), era riuscito a non commuoversi, a non piangere, a mantenere un contegno, ma non era durato granché. Era bastato che Rosie gli dicesse come avevano deciso di chiamare il piccolo per farlo crollare.

William Hamish Swan-Watson: ecco come l'avevano chiamato.

Sherlock era dovuto correre fuori dalla stanza per non scoppiare in lacrime davanti a Rosie, ma anche quando fu tornato da lei pianse lo stesso. Non aveva mai versato così tante lacrime in tutta la sua vita come in quegli anni, mai, anche se le lacrime dell'ospedale erano di natura differente rispetto alle precedenti. Da un lato la faccenda lo irritava e inquietava particolarmente, dall'altra in un certo senso lo incuriosiva, lo affascinava. Forse era vero che le circostanze e la vita cambiavano profondamente la natura di una persona, perché era esattamente ciò che era successo a lui, Sherlock non riusciva a spiegarselo in altro modo.

Con lo scorrere del tempo, William era cresciuto sano e forte, ma soprattutto sempre più simile a sua madre e quindi a John e Mary. Sherlock rivedeva così tanto dei due nella figlia e nel nipote: rivedeva l'attenzione con cui Mary sceglieva i vestiti adatti per Rosie quando era in fasce, rivedeva la pazienza con cui John spiegava alla figlia il come e perché delle cose... Rivedeva i loro sguardi, i loro tratti, i loro caratteri ed essenze. Erano sempre lì, anche se non fisicamente, e questo lo aveva sempre confortato.

Anche John era sempre lì con lui. Adesso appariva ed era presente per tempi piuttosto ristretti, ma non scompariva mai del tutto. Agatha aveva detto a Sherlock che era giusto così, stava facendo un bel lavoro: il fantasma di John era diventato in quegli anni un pilastro della sua vita, era essenziale, e rimuoverlo tutto d'un tratto sarebbe stato un trauma dannoso e inutile. Era bene che invece Sherlock se ne separasse lentamente, poco a poco e in assoluta pace e tranquillità.

Era un caldo venerdì d'estate e Sherlock si stava godendo uno dei rari momenti di pace con la sua famiglia: Rick, caro e tremendamente idiota ragazzo, era fuori città per incontrare un cliente della sua azienda, perciò Rosie e Sherlock si erano organizzati per passare la giornata insieme con WIlliam. In passato, ormai così tanti anni prima, non si era mai considerato un tipo adatto ad una famiglia, figurarsi prima un padre e poi un nonno. No, non erano mai stati quelli i suoi piani, nemmeno durante quei primi anni di convivenza con John, prima del finto suicidio. Poi però era arrivata Rosie e lui aveva cominciato a fare lo zio. La cosa sorprendente era che quell'idea non gli era dispiaciuta nemmeno così tanto, come invece aveva pensato in passato.

Quando dopo la morte di Mary, dopo aver riallacciato il loro rapporto, Sherlock e John avevano prima ricominciato a frequentarsi come amici, poi come qualcosa di più... Beh, il passaggio a "padre" era stato naturale, anche se non immediato: crescere Rosie insieme a John era stata, secondo Sherlock, la più grande delle avventure, quella che non avrebbe mai dimenticato, quella di cui non si sarebbe mai pentito, quella per cui ogni rinuncia e sforzo erano valsi la pena. Era stato tutto, semplicemente tutto, dal primo battito di ciglia del mattino fino all'ultimo respiro della notte, e Sherlock non poteva far altro se non sorridere ripensandoci. Ora vedeva le stesse emozioni negli occhi di Rosamund quando prendeva in braccio suo figlio, come stava facendo in quello stesso istante dopo averli raggiunti, e quegli sguardi non facevano altro che scaldargli il cuore.

Rosie posò un bacio tra i boccoli color bronzo di William, guadagnandosi uno sguardo divertito da quegli occhietti blu come il mare- gli stessi di John.

"Il nonno ti ha fatto volare?" domandò Rosie e William sorrise entusiasta. Le labbra di Sherlock si incurvarono senza ulteriori stimoli.

"Si sta allenando per quando lo farà da solo: Will sarà il primo essere umano a volare, lo sai?" disse Sherlock e Rosie rivolse al figlioletto un'espressione stupefatta.

"Ma davvero? E come ci riuscirai? Hai già un piano?"

"È un segreto, è un segreto con il nonno." mormorò William, risoluto. Sherlock trattenne a stento una risata, che però sfuggì comunque a Rosie.

"Ah, è così?"

"Sì, mamma."

"Mmh, capisco... Beh, allora vorrà dire che mangerò tutta sola quel meraviglioso gelato che vende quel carretto laggiù. Lo vedi?"

William seguì il gesto della madre e aggrottò la fronte.

"Lo voglio anche io il gelato, però non posso dirtelo, è un segreto!"

"Sicuro?"

"Sicuro!" esclamò, sgomento da quel ricatto. Rosie assunse per qualche istante un'aria pensosa, poi sorrise di nuovo.

"Va bene, allora facciamo così: prendiamo due gelati e ce li dividiamo tutti e tre, io, te e il nonno. Ci stai?"

"Sì!" esultò William. Aveva già recuperato il buon umore e Sherlock lo osservò mentre sgusciava via dall'abbraccio della madre e saltellava tutto contento. Rosie lo prese per mano, poi guardò Sherlock.

"Tu che fai? Vieni con noi o ci aspetti qui?" chiese sorridendo e Sherlock indicò il carretto dei gelati con un cenno del capo.

"Voi cominciate ad avviarvi, vi raggiungo subito." rispose e Rosie annuì, per poi lasciarsi trascinare verso il gelataio da Will. Sherlock sospirò, rilassato, e sorrise appena mentre osservava i due allontanarsi. A volte si chiedeva come si sarebbe comportato John in quella situazione, cosa avrebbe fatto al posto suo. Una parte di lui non esitava a rispondere che, qualsiasi cosa avesse fatto, sicuramente John sarebbe stato meglio di lui, ma l'altra gli diceva che alla fine lui e John si erano sempre compensati l'un l'altro: così come era stato in passato, reciprocamente mitigavano i difetti ed esaltavano le virtù del partner, sarebbe stato così anche con William e quella nuova versione di Rosie che John aveva fatto in tempo solo ad intravedere prima di morire.

Se lo chiese anche quel giorno e anche quel giorno arrivò alla medesima conclusione. Con un sospiro, un po' stanco ma comunque tranquillo, Sherlock poco a poco si alzò dalla panchina, un po' indolenzito. Abbassò lo sguardo sulle ginocchia malandate: Dio, invecchiare faceva schifo. Altro che serate e tramonti passate sul dondolo in veranda, con i capelli ormai bianchi smossi dal vento... Ecco com'era invecchiare. Per lo meno io non ingrasso, sogghignò Sherlock pensando al fratello.

"Non prendere quello al cioccolato: so che sei goloso- lo sei sempre stato- ma il tuo stomaco non riesce più a digerire tutte quelle schifezze come una volta."

Sherlock aveva già fatto qualche passo avanti, ma a quel punto si bloccò e voltò nuovamente il capo verso la panchina: John se ne stava seduto lì, con le braccia conserte sul petto e l'aria divertita, ma nel complesso comunque serena. Sherlock sogghignò appena e scosse la testa.

"È il mio gusto preferito."

"Lo so. Ti ricordi quella volta a Brighton? Ne mangiasti quasi un chilo da solo." disse John e Sherlock annuì, sorridendo al ricordo.

"Per un folle attimo pensai di stare per morire. Una nottata da dimenticare."

"È stata una vacanza divertente in fin dei conti, però."

"Oh sì, come no. Se per te passare tre giorni di fila in bagno e a letto è divertente, credo sia stata una vacanza esilarante." mormorò Sherlock e John scoppiò a ridere. Restarono in silenzio per qualche istante, poi John sorrise dolcemente e disse:

"E così ce l'hai fatta... Finalmente lo stai facendo."

Sherlock aggrottò la fronte, confuso.

"Cosa, John?"

"Hai imparato. Mi stai lasciando andare."

Sherlock esitò per un attimo, poi ricambiò debolmente il sorriso di John.

"Sì. Credo di sì." mormorò, piano. John gli fece un cenno con il capo: aveva gli occhi lucidi. Sembrava un addio e Sherlock non voleva crederci. Così, pur di evitare di affrontare quel momento, si voltò e riprese a camminare.

"Ti amo, Sherlock Holmes." disse John, la voce tremante e piena d'affetto. "Non dimenticarlo mai."

Sherlock si fermò di nuovo e, lentamente, tornò a guardare la panchina: John non c'era più.

Per un attimo gli mancò il respiro, il groppo che aveva in gola non faceva passare l'aria e gli occhi sempre più lucidi gli offuscavano la vista. Durò solo qualche istante però, perché poi Sherlock tornò a sorridere, un po' tristemente ma tutto sommato in pace.

Aveva temuto quel momento per anni, perché una parte di lui avrebbe voluto tenere John per sempre accanto a sé, vivere ancora con lui avendolo al suo fianco. Tuttavia con le sedute aveva capito che così facendo non solo faceva male a se stesso, ma anche a John: impedendosi di andare avanti e superare il lutto, stava trattenendo a forza John con sé, anche quando il suo posto era diventato da tempo tutt'altro. John non avrebbe mai voluto vederlo così, non avrebbe mai voluto diventare un tormento da passato, un dolce veleno che uccide di giorno in giorno. Avrebbe voluto essere un bel ricordo, a cui ripensare col sorriso sulle labbra. E adesso che l'aveva lasciato andare, finalmente era così. Sherlock tornò a guardare avanti e raddrizzò la schiena, deciso. Si asciugò gli occhi inumiditi con il polsino della camicia bianca e prese un respiro profondo. Incrociò lo sguardo di Rosie in quel momento: era preoccupata, lo vedeva, e lui le rivolse un debole sorriso. Se n'è andato, voleva dirle, non c'è più. L'espressione che apparve sul suo volto dimostrò che aveva capito. Allungò la mano verso di lui e Sherlock ricominciò a camminare, sereno come non lo era da anni.

Si disse che, se John era da qualche parte a guardarlo, finalmente sarebbe stato fiero di lui.

Finalmente, sorrise.

Ti amo anche io, John Watson.

Ti amo anche io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

Sì, lo so. Camilla, che prompt di merda, perché l'hai fatto.

Non so esattamente cosa mi sia saltato in testa, so solo che a gennaio ho iniziato questa OS, poi l'ho lasciata perdere per trecento altri motivi e finita la maturità, botta di allegria, ho deciso di finirla prima di dedicare questa mia ultima estate pre-università alla mia long originale.

Ci tengo a sottolineare che l'idea di base è, come anche citato nella storia, anche il rapporto John-Mary della 4x02, la bellissima canzone omonima alla storia dei Digital Daggers, ma in realtà la vera idea di partenza viene da una serie italiana, Rocco Schiavone: uno dei punti cardine della serie è la relazione di Rocco con la moglie Marina e vedendo (e amando) le puntate ho iniziato a immaginare una trasposizione in chiave Johnlock. Ho fatto una cazzata? Probabilmente sì, ma la vita è bella perché varia, chi dorme non piglia pesci, eccetera eccetera.

(Il dialogo sulle rughe/pieghe è tratto dalla serie, è da lì che è partito tutto e volevo mantenerlo)

Lo Sherlock della storia è completamente a terra, KO, andato. La sua vita, tutto in lui sta cadendo a pezzi. Non so se sia completamente IC- lo spero, ma non ne sono 100% certa. Rosamund è stata un bel esperimento: me la immagino come un mix di John e Mary, positiva, forte... Come riferimento per aspetto e fisionomia ho preso Freya Mavor, per me lei è Rosie. La immagino così, punto.

Bene, direi che ho detto abbastanza. Se volete tirarmi i pomodori, querelarmi, insultarmi e minacciarmi di farmi pagare le sedute dallo psicanalista, potete farlo con una recensione, sono sempre molto gradite e ben accette.

Un bacione, grazie per essere arrivati fin qui!

Cami

 

 
   
 
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