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Autore: ntlrostova    11/07/2018    0 recensioni
Pensò ai duecentomila yen che doveva raccogliere per i Lil Tykes. Pensò che Sawamura era uno studente dell’università. Pensò a se stesso e Iwaizumi, sei anni, o forse di meno, che si lanciavano un pallone e ridevano.
Era impossibile.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la piú diametralmente contraria ad essa speranza e la piú decisiva.
- Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura / Giacomo Leopardi


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Koushi sbadigliò sonoramente. “Non si vede proprio nessuno, eh?”

Sawamura aveva incrociato le braccia sulla superficie del banchetto e le stava usando a mo’ di cuscino. Lo guardò da quella posizione e accennò un sorriso. Lanciandosi un rapido sguardo attorno, Koushi si piegò verso di lui e gli posò un fugace bacio sulla guancia. “Oh, insomma, dov’è finito Ennoshita?” disse, dopo. “Doveva solo prendere altre confezioni di biscotti dal magazzino.”

Sawamura si raddrizzò sulla sedia. “Sarà dentro a godersi l’aria condizionata,” rispose.

“Vado a controllare,” aggiunse e si diresse verso le porte automatiche dello Shimada Mart.

“Vedi di non perderti anche tu, Daichi,” lo raccomandò Koushi. “Il signor Shimada è già abbastanza gentile da lasciarci stare qui.”

Dopo alcuni istanti silenziosi e solitari, Koushi stava cominciando a ponderare l’idea di entrare a sua volta: non c’era nessun cliente in vista e avrebbe portato il barattolo dei soldi con sè. Tuttavia, all’improvviso si manifestò all’orizzonte una sagoma alta, che Koushi non riuscì a riconoscere subito perché era in controluce.

Quando si fu avvicinata abbastanza, si rese conto che era Azumane.

“Asahi?” chiese, alzandosi in piedi. “Che ci fai qui?”

Azumane aveva un aspetto orribile: i capelli gli erano sfuggiti a ciocche dall’elastico perché lui continuava a farci passare nervosamente le dita e sembrava aver pianto, perché aveva gli occhi arrossati.

“Che ti è successo?” Koushi gli si avvicinò, improvvisamente preoccupato.

“Hai visto un cane?” gli chiese l’amico, che sembrava sull’orlo di un attacco isterico. “Un cane grosso, peloso e grigio?”

“Asahi, siediti per favore.” L’espressione di Azumane fece rabbrividire Koushi. “Spiegami che succede.”

“Daichi non deve saperlo, ti prego.” Azumane gli strizzò  un braccio, mentre si sedeva al suo posto.

“Va bene, va bene,” lo rassicurò Koushi, cercando di forzare le dita dell’altro a mollare la presa. “Sta’ tranquillo, però.”

“Nishinoya l’ha perso.”

“Perso?”

“Il cane!” Azumane cominciò a singhiozzare. “Puchi!”

“Puchi? Aspetta… Nishinoya ha fatto cosa?”

Shhhhhhhh,” fece Azumane, agitando una mano nella sua direzione e guardandosi attorno, con un espressione di puro terrore dipinta in volto. “Daichi ci ucciderà.”

Koushi si frugò in tasca in cerca di un fazzoletto e quando lo ebbe trovato lo porse ad Azumane. “Asciugati quelle lacrime, Asahi,” disse, riboccandosi le maniche della camicia con risoluzione. “Non serve a niente piangersi addosso. Abbiamo un cane da cercare.”

Azumane lo guardò incredulo mentre prendeva il denaro dal barattolo e se lo infilava in tasca, per evitare che qualcuno lo rubasse. Quei soldi erano un magro guadagno, ma pur sempre qualcosa.

Koushi lanciò uno sguardo ad Azumane, che sembrava aver recuperato il suo colore ed essere tornato in sè.

“Che dirai a Daichi?” gli chiese, mentre si legava i capelli in una crocchia.

Koushi agitò il cellulare e gli sorrise. “Gli mando subito un messaggio. Non preoccuparti, lo troveremo in men che non si dica, Asahi.”

Con una mano, colpì la spalla dell’amico, mentre con l’altra digitava il messaggio per Sawamura.

a: Daichi (⺣◡⺣)♡*

Ad Asahi serviva una mano con i cani. Sono andato con lui.

P.S. Ho preso io il denaro.
A dopo, ˶⚈Ɛ⚈˵


“Bene,” disse Koushi. Prese un gran respiro e sollevò lo sguardo su Azumane. “Qual’è l’ultimo posto dove lo hai visto?”

 
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La prima cosa che attirò l’attenzione di Kotarou fu l’espressione di Yamaguchi quando si alzò dalla sua posizione accovacciata accanto al frigo.

Tsukishima, invece, era impietrito sulla sedia. Gli occhiali gli erano volati via dal volto e lui se ne stava lì, rigido, a ribollire di rabbia, mentre Akiteru ridacchiava, stringendosi il mento tra indice e pollice. “I tuoi nuovi amici sono… ehm… esuberanti.”

“Quella è la mia limonata?” chiese Yamaguchi camminando verso Kotarou, che era più vicino. “Avete appena gettato dei gavettoni pieni di limonata addosso a Tsukki?”

Kotarou non l’aveva mai visto così. Con le sopracciglia aggrottate e l’incredulità dipinta in volto, spostava lo sguardo da una parte all’altra, in cerca di qualcuno che gli dicesse che era tutto uno scherzo.

“Era uno scherzo,” disse, stringendosi nelle spalle.

“Cosa?” ribatté Yamaguchi, avanzando di un passo verso di lui. “Ti sembra divertente?”

Kotarou indietreggiò di un passo.

Okay, forse non voleva sentirsi dire che era uno scherzo.

“Senti, hai ragione,” intervenne Kuroo. “Ci dispiace. Vero, Bokuto?”

Kotarou annuì vigorosamente. “Non li abbiamo neanche usati tutti.”

“Eh?” fece Yamaguchi.

Kotarou andò a frugare nelle tasche dell’impermeabile e tirò fuori una manciata di gavettoni che porse a Yamaguchi. “Ecco, forse possiamo riutilizzarla,” gli disse, mentre li spingeva verso l’altro ragazzo.

E così, all’improvviso, senza che Kotarou li lanciasse, i gavettoni esplosero tra lui e Yamaguchi, inondando entrambi di limonata.

“Ma perché li hai riempiti così tanto, Kuroo?” esclamò Kotarou, ormai zuppo dalla vita in giù.

“Colpa mia,” disse Kuroo, grattandosi la nuca. Kotarou lo conosceva abbastanza da capire, guardandolo, che era più divertito che dispiaciuto dal fatto e la cosa lo urtò parecchio.

Yamaguchi era così furioso che smise di parlare e gli voltò le spalle. Quello era il modo che aveva di arrabbiarsi anche Akaashi e Kotarou sapeva, per esperienza, che adesso qualunque cosa che lui o Kuroo avrebbero detto, avrebbe innescato una mina invisibile.

Perciò chiuse la bocca e anche se voleva chiedere scusa di nuovo, si morse la lingua.

Tsukishima era tornato a respirare normalmente e faceva di tutto per ignorarli. L’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un mormorio infastidito, un patetici, che un po’ — solo un po’ — ferì Kotarou nell’orgoglio.

Si sentiva appiccicoso in maniera spiacevole e quando vide che Yamaguchi e Tsukishima stavano radunando le loro cose per andarsene, tirò un sospiro di sollievo al pensiero di una doccia.

Proprio in quel momento, però, guidato dal suo cellulare, sopraggiunse Kenma, che, passandoli in rassegna ad uno ad uno arricciò il naso e strinse gli occhi. “Che hai fatto, Kuro?”

“Lunga storia,” rispose l’interpellato. “Tu che ci fai qui?”

“Abbiamo perso un cane,” rispose Kenma a bassa voce, lanciando uno o due sguardi verso Tsukishima, Yamaguchi e Akiteru. “Sembra che sia scappato mentre Nishinoya lo portava a passeggio.”

Tsukishima emise un tsk e scosse la testa, come se non fosse sorpreso da una notizia del genere.

Kenma girò lo schermo del cellulare verso di loro. La foto che mostrava era quella di un cane adorabile, grosso e dal pelo grigio e lungo, che gli copriva anche gli occhi.

“L’avete visto?” chiese Kenma.

Kotarou scosse la testa e Kuroo si strinse nelle spalle.

“Bè, Azumane ha pianto e qualcosa mi dice che Oikawa non sarà contento se lo viene a sapere.” Kenma si infilò il cellulare in tasca.

“Ti aiutiamo noi a cercarlo,” disse Kotarou, anche se per oggi avrebbe preferito allontanarsi da Yamaguchi e Tsukishima che, così ricoperti di limonata, lo facevano sentire in colpa. “Vero?” aggiunse poi, rivolto agli altri.

“Certo,” disse Kuroo e si vedeva che non ne era per niente entusiasta. Ma Kuroo era Kuroo e, anche quando si trattava di aiutare Kotarou a studiare a ore assurde della notte, non si tirava mai indietro. Non l’avrebbe fatto neanche stavolta.

 
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Era da un’ora che Keiji cercava Puchi e l’intera faccenda sembrava essere ormai senza speranza.
Miyagi era un posto sconosciuto, con più vicoli e anfratti di quanto ci si potesse aspettare e lui non aveva idea di dove andare.

Com’era possibile perdere un cane tanto grande? Come aveva fatto Nishinoya a non accorgersi che si era allontanato?

Keiji sospirò, stringendosi il ponte del naso tra indice e pollice per alleviare l’emicrania che minacciava di fargli esplodere la testa a momenti, poi si guardò attorno.

Nessuna traccia di Puchi. Si trovava in un quartiere residenziale, con villette ordinate e affiancate su entrambi i lati della strada, ognuna fornita di un giardino frontale.

Mentre camminava, vide Oikawa e Iwaizumi, inginocchiati sul prato di qualcuno che piantavano dei fiori in un’aiuola.

Keiji si avvicinò alla staccionata.

“Ehi,” esclamò, alzando una mano in aria per attirare la loro attenzione.         

Iwaizumi fu il primo a voltarsi, e rispose a Keiji imitando il suo gesto. Oikawa spalancò gli occhi per la sorpresa, ma si riprese quasi immediatamente una volta riconosciutolo e gli sorrise nel dire,  “Ah, Akaashi! Come mai sei venuto a trovarci?”

Sembrava felice e spensierato, inginocchiato tra l’erba con le mani piene di terriccio e Akaashi lo conosceva da abbastanza tempo da sapere che quello che stava per dirgli gli avrebbe fatto cambiare completamente umore. Gli dispiaceva infrangere così la sua calma, ma Keiji non era del luogo e aveva bisogno di qualcuno che conoscesse le strade e lo aiutasse e gli era appena capitato di incontrare due delle persone più adatte.

“Abbiamo perso un cane,” disse, cercando la foto di Puchi sul cellulare e mostrandola agli altri due ragazzi. “Mi dispiace interrompervi, ma non so proprio dove possa essersi cacciato.”

“Oh,” sospirò Iwaizumi. “Oh, no.”

 
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Kei aveva passato l’ultima mezz’ora della sua vita a cercare di capire quale delle scelte che aveva preso l’avesse condotto fin qui. Non riusciva a decidere se dare la colpa a i suoi compagni di squadra — amici? — che l’avevano spinto a passare la sua estate così, o se far risalire la causa dei suoi problemi ad Akiteru, senza il quale non avrebbe neanche pensato di entrare in un club di pallavolo. Però, la pallavolo, e la sua squadra, addirittura, gli piacevano più di quanto desse a vedere, quindi forse era ingiusto colpevolizzarla tanto. Si stavano dirigendo in via Hirose, perché era il luogo che Oikawa aveva segnalato in un messaggio che diceva, semplicemente, “Tutti qui immediatamente!!!” e, forse, la colpa era di Bokuto e Kuroo se aveva la maglietta appiccicata alla schiena e i suoi capelli avevano l’odore della limonata.

“Ti dà fastidio?” chiese Yamaguchi, indicando il torso di Kei.

“Sapere che sono stati quei due idioti a farlo, più che la sensazione vera e propria,” rispose. Si aspettava quantomeno un sorriso da Yamaguchi, perciò, quando l’altro non diede segno di reagire disse, “Ti danno fastidio?” e indicò con il pollice Kuroo e Bokuto, che camminavano dietro di loro a qualche passo di distanza insieme a Kenma.

“Che? No, no, per niente! Cioè —” Scrollò le spalle, un gesto insolito da parte sua: Yamaguchi era raramente indifferente. “Non lo so, Tsukki. Sono tuoi amici.”

L’ultima frase era un’affermazione, perciò, piuttosto che negarlo, Kei disse, “Non per mia scelta.”

“È che sei irresistibile, Tsukki, attiri tutti a te.”

“Sono gli occhiali, vero?”

Yamaguchi annuì solennemente, e Kei si sentì immediatamente meglio. Però, nonostante lo adorasse quando gli reggeva il gioco, si sentì in dovere di tornare alla questione iniziale. “Allora qual è il problema?”

“Problema?” gli fece eco Yamaguchi, confuso. Poi, sembrò ricordarsi di cosa stavano parlando e continuò, “Nessun problema. Ho solo notato che se non hanno abbastanza paura di te da tirarti un gavettone e chiamarti Tsukki, allora sono davvero tuoi amici.”

Yamaguchi aveva pronunciato la parola paura con incredulità, come se fosse impossibile per lui pensare a Kei come pericoloso, e fu su quello che si soffermò inizialmente. Solo dopo si rese conto di quello che Yamaguchi voleva dire: era geloso.

“Non essere stupido,” fu tutto quello che riuscì a dire prima di essere interrotto dalla voce imponente di Bokuto.

“Ora ho un po’ paura.”

Erano arrivati al punto d’incontro. Tutti i loro compagni erano raggruppati all’ombra di una zelkova, con l’eccezione di Azumane e Sugawara. A fare paura a Bokuto, però, probabilmente era stata la presenza di un uomo evidentemente infuriato che discuteva con Oikawa e Sawamura.

Kei non aveva idea di cosa si trattasse, ma per qualche motivo era sicuro di sapere di chi fosse la colpa.

“Hinata!” disse Yamaguchi quando furono abbastanza vicini al gruppo. “Chi è quello?”

“Un nostro cliente,” rispose Hinata, a testa basta e stranamente poco rumoroso. “Noi… ehm… io ho urtato per sbaglio il freno a mano mentre stavo ripulendo la sua macchina ed è andata a schiantarsi contro un muro.”

Tipico, pensò Kei, e quasi rise.

“Non ci credo,” fece Yamaguchi. “Non è vero.”

“Credici,” disse Kageyama. “Oikawa gli darà tutti i soldi che abbiamo guadagnato per riparare i danni.”

Nessun altro parlò. Anche se alcuni di loro non erano realmente interessati alla causa della raccolta fondi, tutti avevano lavorato. Sarebbe stato impossibile riguadagnare tutti quei soldi in breve tempo.

Avevano perso, e non potevano sopportarlo.

Fu difficile guardare Oikawa consegnare il denaro a quell’uomo, ma quando Sawamura si schiarì la gola Kei decise che era il momento di andare via, perché era ancora appiccicoso e lo sguardo dell’ex-capitano era terrificante.

“Quando vi ho rivisti dopo tanto tempo ho pensato che eravate cresciuti e maturati, lo credevo davvero. Invece non siete cambiati per niente. Avete mandato all’aria qualcosa per cui ognuno si stava impegnando con tutto se stesso. Non è questo che abbiamo imparato, non è così che giochiamo. Siete una squadra o no, Tanaka? Eravamo — siamo — una squadra, e lasciatemi dire una cosa: questa raccolta fondi è, in tutto e per tutto, simile a una partita di pallavolo in cui bisogna contare sui propri compagni. Oggi avete distrutto la nostra fiducia. Non vi siete comportati da compagni di squadra e l’anno scorso potevo perdonarvelo: non vi conoscevate bene, dovevate abituarvi l’uno all’altro. Mi ero illuso che ci foste riusciti, che sapeste quando è il momento di rimanere concentrati e quando ci si può lasciare andare. Hinata, Kageyama, avete sfasciato un’auto che costa quanto l’intera Miyagi, probabilmente, e siamo fortunati che il padrone si sia accontentato dei nostri novantamila yen. Avrebbe potuto denunciarci e Oikawa ne avrebbe pagato tutte le conseguenze, è lui che ci ha messo la faccia. Abbiate per lo meno rispetto. Ora dobbiamo ricominciare da zero ed è tutta colpa vostra. Senza contare il fatto che potevate ferirvi seriamente, o peggio. E tutto per cosa? Per uno dei vostri litigi? Tanaka, non ti avevo forse detto di evitare che succedessero cose del genere? Dovete ringraziare il cielo che il vostro capitano sia Ennoshita, quest’anno, e dovete sperare nel suo buon cuore, perché se ci fossi io al suo posto chiederei al preside di bandirvi dal club di pallavolo, intesi? E ora, non una parola di protesta. Fate un respiro profondo e scusatevi con tutti gli altri. Sto parlando anche per te, Nishinoya! Non ho dimenticato che siamo qui per cercare un cane che tu hai perso.”

Kei non poteva credere che fosse riuscito a pronunciare tutte quelle parole in un solo fiato. Guardò Kageyama, Hinata e Tanaka scusarsi, incapace di fare altro, e sentì Oikawa dire, “Ora basta. Ormai è fatta.”

Poi nient’altro, e nell’aria era tangibile la sconfitta.

Quando Nishinoya ruppe il silenzio teso urlando, “Puchi!” però, l’atmosfera cominciò a cambiare. Sugawara e Azumane stavano correndo verso di loro, accompagnati da un cane — Puchi, presumibilmente — e Kei non era mai stato così felice di vederli.

“Ci siamo persi qualcosa?” chiese Sugawara.

Iwaizumi sbuffò così forte da attirare l’attenzione dell’intero gruppo. Oikawa, alla sua sinistra, disse, “Grazie a tutti per l’aiuto, ma i soldi che ci servono sono troppi e il tempo che abbiamo è troppo poco.”

“Troppo poco?” ribatté Sugawara. “Cos’è successo?”

Sawamura gli spiegò la situazione con molte meno parole di quelle che aveva usato per rimproverare i ragazzi. Sugawara non si dimostrò per niente colpito dalla faccenda. “Non è finita. Dobbiamo soltanto darci da fare di più.”

“È vero,” fece Nishinoya. “E poi non partiamo da zero. Abbiamo i soldi di Puchi.”

Hinata parlò per ultimo. “Questa raccolta è come una partita, no?” disse. “Allora, non abbiamo ancora perso!”

 
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Tooru avrebbe voluto darci un taglio, tirare fuori dalla faccenda tutte quelle persone estranee. Era abituato a lottare e voleva vincere, come lo voleva sempre, ma era anche abituato a perdere, e se avesse perso, perlomeno sarebbe stato da solo. Era una speranza vana, e lo sapeva, perché avevano cominciato tutti insieme, e la Karasuno era tremendamente orgogliosa, perciò avrebbero anche finito insieme.

Tooru tirò un sospiro di rassegnazione.

“Non ci posso credere che li hai ringraziati,” disse Iwaizumi. Erano le prime parole che gli rivolgeva da quando avevano lasciato gli altri e si erano incamminati verso casa.

“Cos’altro avrei dovuto fare? Sawamura li ha sgridati abbastanza,” rispose. “Pensi che ce la faremo?”

Iwaizumi si fermò di colpo e inspirò profondamente, come se si stesse preparando a fare un discorso. Perciò, Tooru fu estremamente contento quando disse solo, “Sì.”

 
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Note:
La filipicca infinita di Daichi è ispirata a quella di Neil Josten in The Raven King di Nora Sakavic, chiediamo scusa.
 
 
   
 
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