Anime & Manga > I cinque samurai
Ricorda la storia  |      
Autore: PerseoeAndromeda    12/07/2018    0 recensioni
Alla fine della battaglia contro Arago, i cinque samurai sono tornati alle loro vite di sempre, ma il legame che li unisce è forte. Eppure la distanza rischia di essere deleteria quando le insicurezze diventano troppo difficili da gestire. SeijixTouma
[Fanfic partecipante alla #26promptschallenge indetta dal gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart]
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Rowen Hashiba, Sage Date
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Fanfic partecipante alla #26promptschallenge indetta dal gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart

#26promptschallenge - prompt 10/26 (Scadenza prompt: 09/07/2018)

#ASSENZA
/as·sèn·za/
sostantivo femminile

1.
Mancata presenza o lontananza da un luogo o da una persona con cui un individuo dovrebbe trovarsi o si trova abitualmente.

Fandom: Yoroiden Samurai Troopers

Personaggi: Seiji Date e Touma Hashiba

Ship: SeijixTouma

Rating: verde

Warnings: solo shonen-ai, niente di particolare

 

 

 

Imparare a cercarsi

 

 

Risponde la segreteria telefonica di casa Hashiba; al momento siamo in giro da qualche parte, qua e là per il Giappone. Se dovete comunicare con noi con urgenza lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, ma non garantiamo tempi brevi per l'ascolto ".

La cornetta tornò al proprio posto senza molta grazia, accompagnata da un'imprecazione che stupiva data la bocca alla quale era sfuggita.

“Logorroico anche quando parla al nulla, dannato Touma Hashiba!” aggiunse Seiji in un sussurro a denti stretti. “Se spera che gli lasci un messaggio in segreteria se lo scorda!”.

Faticava a parlare al telefono, parlare da solo ad una segreteria telefonica era pretendere troppo da lui. Gli era più facile pensare che se Touma non si faceva mai trovare in casa, nonostante si fossero promessi telefonate frequenti, significava che non era poi così importante, per lui, ascoltare la voce del nakama.

“Che si arrangi” sbottò ancora, ma in quell'ultimo sfogo vi era una sfumatura dolorosa che Seiji cercò di accantonare con uno sbuffo.

Uscì di casa a passo sostenuto, chiudendosi alle spalle il fusuma che tremò in modo inquietante sui cardini.

 

 

***

 

“Sono tornato!”.

La voce di Touma risuonò nell'appartamento, ma il vuoto che vi regnava gli restituì un'eco straniante.

Fece una smorfia mentre chiudeva la porta, gettando con fare seccato la borsa di scuola nell'angolo più vicino.

Non che avesse pensato di trovare suo padre a casa, per un caso fortuito, tuttavia gli veniva istintivo provarci sempre, soprattutto dopo aver passato l'ultimo anno sempre circondato da persone e in una casa fin troppo affollata.

Non l'avrebbe mai detto, ma si era abituato fino a considerarlo normale, la qual cosa aveva reso piuttosto difficile riadattarsi alla solitudine.

La prima cosa che fece, dopo essersi tolto giacca e scarpe, fu precipitarsi al telefono per accedere alla segreteria, poi si sedette sul divano e, con un sorriso sulle labbra, cominciò ad ascoltare:

Ciao Touma, sono Shin. Come stai? Mangi sano? Fai orari regolari? Stai attento alla tua salute? Mi manca correrti dietro tutto il giorno per assicurarmi che tu ti prenda cura di te, non farmi preoccupare, neh, Touma-kun! Ci sentiamo prestissimo!”.

Portò una mano alla fronte, sollevando un ciuffo dispettoso, trovandosi a mormorare, con un ghignetto ironico:

“Anche a me manca avere un pesciolino alle costole che si diverte a fare la mammina, sai, Shin-kun?”.

E gli mancava davvero, strano a dirsi, nonostante tutte le sue recriminazioni, nonostante tutte le volte in cui aveva sbottato e sbuffato…

Adesso che era a casa da solo, ogni attività della sua giornata era scandita da una vocina molesta che provava a correggere ogni sua azione.

Era una sorta di incubo ricorrente o pura e semplice nostalgia?

Touma aveva sempre meno dubbi.

I suoi pensieri furono interrotti dal secondo messaggio, che partì con parecchia esitazione dopo il segnale:

Ciao Touma… ehm… ciao… allora… come stai? Uff… ma perché non eri in casa? Odio parlare da solo come uno scemo… ok… volevo sapere come stai… e… ah… Byakuen ti saluta e… ah, anche io ti saluto ovviamente. Che fai oggi? Mhhh… quando sentirai il messaggio la domanda non avrà più molto senso, dovrei chiederti che hai fatto… o no? Boh… non capisco molto di queste cose… insomma… vabbé… ciao…”.

La risata che aveva cominciato a formarsi sulle labbra all’inizio del messaggio esplose fragorosa quando quest’ultimo giunse al termine. Touma gettò la testa all’indietro, il collo contro lo schienale del divano, la mano sempre tra i capelli e rise di gusto nel silenzio del suo appartamento.

“Oh, Ryo, Ryo! Tanto abile con la spada quanto imbranato con la tecnologia!”.

Pochi secondi dopo, il successivo messaggio:

Ciao Panda, allora, che mi racconti? Appena avrai tempo da dedicare al tuo amico di Yokohama naturalmente, perché è abbastanza difficile trovarti in casa. Sei sempre a scuola? Tu che ti alzi al mattino per andare a scuola? Ah ah ah, certo, come no, senza le innaffiate mattutine di Shin ti ci voglio vedere! Io sto bene, benone, come sempre!”. A quel punto, il tono perse la propria ilarità ed assunse connotati più pensierosi. “Certo, starei meglio se fossimo tutti assieme, mi mancate! Non che io speri nel ritorno di Arago, ma… ormai siamo legati, non è vero? Ci vedremo comunque, anche senza la storia delle yoroi, dei samurai… voi siete i miei nakama, giusto? Quindi ci incontreremo presto! Mettiamoci d’accordo, dai!”.

Logorroico, esplosivo, adorabile Shu… la loro instancabile scimmietta.

la risata di Touma mutò in un sorriso malinconico, la mano scivolò verso il basso, insieme allo sguardo:

“Anche voi mi mancate tanto, ragazzi… tanto…”.

Quanto gli ci era voluto, in tutti quei mesi di convivenza, per ammettere cosa i suoi compagni samurai erano diventati per lui?

In realtà era ancora difficile spiegarlo a se stesso, trovare le parole giuste per descrivere il legame particolare che si era instaurato; la definizione che più si avvicinava all’esattezza, forse, era famiglia, ma anche quello gli sembrava riduttivo, perché l’esempio di famiglia che aveva accompagnato i suoi primi quattordici anni di vita non gli aveva trasmesso chissà che calore…

Il calore era quello che aveva provato negli ultimi mesi e gli ci era voluto parecchio per riconoscerlo come tale.

Attese, dopo il segnale acustico, l’ultimo messaggio.

Perché ne mancava ancora uno, lo sapeva, doveva esserci.

Invece, dopo il suono, la segreteria piombò nel silenzio.

Un angolo delle labbra di Touma si sollevò in una smorfia, accompagnata da un sussurro a denti stretti:

Baka Seiji…”.

Cosa avrà mai avuto da fare, il signorino Date, per non trovare neanche un briciolo di tempo da dedicargli? I sacri impegni del dojo? Improbabili motivi di famiglia?

Ma, la cosa più importante, perché gli importava a tal punto?

Sbuffò, con l’istinto di ridere di se stesso anche se, dopotutto, aveva più voglia di piangere. Non riusciva più a fare finta di nulla, il ruolo del cinico menefreghista solitario non gli si addiceva più…

Anzi, a chi voleva darla a bere, ormai?

Quella era una parte che aveva recitato per anni, poco credibile autodifesa e ormai non reggeva da tempo, non poteva più reggere, perché il suo cuore era diventato troppo caldo negli ultimi mesi. Ragazzi della sua età avevano preso quel cuore nelle loro mani, lo avevano cullato, abbracciato, consolato…

Eppure uno di quei ragazzi era, evidentemente, inconsapevole di ciò che gli aveva fatto: si era avvicinato, aveva infranto le sue diffidenze, lo aveva stretto a sé… baciato…

E ora, con assoluta indifferenza, senza preoccuparsi delle conseguenze, lo aveva riabbandonato a se stesso.

Baka Seiji!”.

Non fu più un sussurro, ma un’esclamazione rabbiosa, spezzata da un singhiozzo che non riuscì a trattenere, mentre con una mano afferrava un cuscino e lo scagliava brutalmente a terra.

Poi si portò le mani agli occhi e, raccogliendo le ginocchia contro il petto, si rannicchiò in un angolo del divano.

Odiava ritrovarsi a piangere in quel modo, non lo faceva mai neanche da bambino. Davvero, cosa gli avevano fatto quei nakama piombati senza delicatezza alcuna nella sua vita?

Lui era sempre stato solo, non era un problema, quanto meno si era sempre imposto di non renderlo un problema insormontabile…

Ma da quando li aveva conosciuti e poi aveva dovuto lasciarli per tornare alla sua vita normale, tranquilla, il problema sì che aveva cominciato a sembrargli insormontabile, insopportabile e persino spaventoso.

La parola ‘solo’ era diventata il suo incubo.

Mentre portava avanti la sua giornata, sommersa dagli impegni di un normale adolescente giapponese, gli capitava di fermarsi, nel bel mezzo di qualunque attività e di sentir risuonare quella frase dentro di sé, come una condanna:

“Sono solo…”.

E si sentiva solo, non voleva essere solo, ma non voleva neanche essere con chiunque.

Voleva loro…

Voleva lui…

Baka Seiji…” ripeté ancora, singhiozzando.

Non che non avesse mai provato a chiamarlo lui stesso, ma non era mai Seiji a rispondere. E quando un qualunque altro membro della famiglia Date faceva sentire la propria voce dall’altra parte, Touma si intimidiva, esitava qualche istante e ributtava giù il telefono.

Non sapeva spiegarsi il perché di tale comportamento.

Certo, in fin dei conti era timido… in parte…

O forse del tutto…

La sua parlantina e il suo atteggiamento saccente nascondevano tante di quelle insicurezze che neanche lui riusciva a tenerne il conto.

Ma addirittura non riuscire a spiccicare una parola al telefono con una particolare famiglia…

Il perché gli sfuggiva proprio, ma era più forte di lui. Era come se si sentisse rifiutato in partenza da quelle persone, quindi non osava neanche presentarsi, parlare, chiedere di Seiji.

Sotto sotto tuttavia, nascosta in un angolino, ma pronta ad aggredirlo ogni volta che tentava quel passo, si presentava un’altra paura: se Seiji non avesse avuto tutta questa voglia di sentirlo?

Se una volta tornato presso la sua famiglia avesse compreso di voler rientrare nei ranghi, di volersi adeguare alle rigide regole che gli erano sempre state imposte e si fosse rifiutato di contemplare la possibilità di un rapporto come quello che stava cominciando a sbocciare tra loro due?

Baka… non te lo perdonerei. Non puoi fare a meno di me, lo so…”.

Sbuffò tra le lacrime; neanche l’ironia gli riusciva più bene.

“Sono io che non posso fare a meno di te… Baka Seiji”.

Circondò le gambe in un abbraccio, stringendole un po' di più contro il petto ed affondò il viso nelle cosce; non aveva neanche appetito, segno che la sua condizione era proprio grave. Ogni piatto perdeva sapore se lo paragonava a quelli che cucinava Shin, ogni boccone risultava amaro se consumato in solitudine, senza le chiacchiere di Ryo e Shu, le occhiate un po’ ironiche, un po’ severe, del suo Seiji.

La solitudine pesava troppo, come pesava quel silenzio, ora che tutte le loro voci si erano spente… e che una non si era neanche fatta sentire.

Avrebbe anche potuto addormentarsi così, fino al mattino: di muoversi non aveva voglia, avrebbe significato camminare in una casa vuota, infilarsi sotto lenzuola fredde…

“Seiji…”.

 

 

***

 

 

Baka!”.

La cornetta venne sbattuta al suo posto con una tale violenza che rimbalzò e si staccò nuovamente. Seiji la raccolse prima che il filo si trascinasse dietro tutto il telefono, facendolo rovinare al suolo e, con uno sbuffo, la ripose imponendosi un maggior autocontrollo.

“Seiji, che modi sono!”.

Sussultò imbarazzato e si voltò, per trovarsi faccia a faccia con la madre e la sorella maggiore: entrambe lo osservavano, un'espressione costernata dipinta sul volto.

Si morse le labbra: si era fatto più insofferente verso quei giudizi espressi tramite parole e sguardi indagatori. Gli mancava la libertà che aveva assaporato, anche se aveva del paradossale definire libertà una costante situazione di allerta e paura di venire uccisi.

Eppure si era sentito libero di essere se stesso, fino in fondo, circondato da persone che desideravano solo quello, la sua vera essenza, che la ricercavano e la accettavano.

Quello non aveva prezzo.

Dubitava che sarebbe mai più riuscito a nascondere del tutto quell’autentico se stesso, seppur al cospetto dei suoi familiari che non lo conoscevano affatto.

“Ti sembra il modo di parlare con qualcuno al telefono?” lo rimproverò la madre, con una freddezza che un tempo gli avrebbe fatto chinare il capo, terrorizzato e contrito.

Ma lui aveva combattuto contro Anubis, lui era stato rapito e torturato dagli youja, lui era quasi stato costretto ad uccidere uno dei suoi nakama… sotto suo ordine.

Erano finiti i tempi delle paure infantili.

Non ritenne tuttavia il caso di spiegare che non stava insultando nessuno al telefono, se non la voce di un panda assenteista in una segreteria telefonica.

“Scusa, okaasan, un compagno di classe che non sa stare al suo posto”.

Riuscì, contrariamente al passato, a tenere la voce ferma e lo sguardo fisso davanti a sé e, pur consapevole degli sguardi dubbiosi e ancora severi delle due donne, diede loro le spalle e si diresse verso la propria stanza.

Chiuse il fusuma alle proprie spalle, nella speranza di non venire più disturbato. Era ormai sera e di solito a quell’ora, dopo cena, poteva godere di un po’ di autonomia, lontano da regole e imposizioni.

Solo lui tra le sue quattro mura e i suoi pensieri che, da quando aveva lasciato Kanagawa, avevano preso la forma di ricordi…

E inquietudine, perché adesso doveva dormire di nuovo da solo.

Lasciandosi cadere a peso morto sul futon, corrugò la fronte: proprio lui aveva elaborato un pensiero simile?

Lui che, alla sola idea di condividere la stanza con un’altra persona, all’inizio, aveva storto il naso?

Già, lui che, notte dopo notte, si scopriva a contemplare la sagoma addormentata nel letto di fianco al suo, che ne seguiva ogni respiro, ogni piccolo movimento nel sonno, che, dopo ogni scontro, si svegliava più volte e sentiva il bisogno di alzarsi, per controllare che il respiro di Touma fosse regolare, che le ferite non lo facessero agitare troppo, che gli incubi dovuti a tutta la paura provata durante quei giorni non risultassero troppo duri da sopportare.

Controllare che…

Fosse nel suo letto, al sicuro…

E che fosse vivo.

Con la schiena contro il futon, affondò una mano nel ciuffo che gli oscurava la vista, gli occhi che presero a bruciare in maniera fastidiosa.

“Touma… maledizione… Touma…” sussurrò, mordendosi le labbra ad ogni parola.

Adesso che non poteva più tenerlo d’occhio, vegliare su di lui, proteggerlo, le sue notti gli sembravano vuote e insignificanti, non riusciva più a nasconderselo.

Intrecciò le mani dietro la nuca e lasciò che il suo sguardo venisse attratto dalla finestra, oltre la quale si estendeva la sera calata su Sendai. Era già buio da un pezzo, ma Seiji non era certo dell’ora.

A cena aveva mangiato poco, c’era qualcosa che non andava nel suo stomaco. Se doveva dare retta ai discorsi dei suoi coetanei, quei discorsi che lui aveva sempre trovato ridicoli e incomprensibili, i sintomi erano tutti riconducibili al mal d’amore.

Fece una smorfia e sbuffò:

“Dannato Panda, a questo punto siamo giunti? Mi togli l’appetito? E tu invece continuerai a riempirti di schifezze mentre io muoio di fame!”.

Un altro sbuffo e si tirò su con un ringhio:

“L’autocommiserazione no, è davvero troppo!”.

Si alzò in piedi e camminò fino alla finestra, la aprì, appoggiò le mani sul davanzale e si sporse fuori: una folata d’aria gli aggredì il viso e il suo lungo ciuffo biondo danzò solleticandogli il naso e la fronte.

Era una notte ventosa e il vento sembrava farsi beffe di lui.

Arricciò il naso imbronciato: di sicuro era solo suggestione, semplicemente il vento gli ricordava Touma e ricordare Touma che non lo cercava e non si faceva mai trovare a casa era frustrante, per non dire peggio.

“Dove vai tutto il giorno?” chiese al vento che gli scompigliava i capelli, “dove sei, con chi? Hai davvero così tanto da fare, tanta gente da vedere da non avere tempo… per me?”.

Abbassò il capo e, rabbrividendo, chiuse la finestra.

“Dannato Panda, guarda come mi hai ridotto!”.

Non poteva più impedirsi di pensarlo, quell’anno passato lontano da casa lo aveva cambiato.

Era logico, certo, dal momento in cui gli era stata conferita la yoroi la sua vita aveva preso una direzione del tutto nuova, che mai in passato avrebbe immaginato per sé, ma non si trattava solo della battaglia, degli youja, della vita rischiata giorno dopo giorno.

Certo, già cose simili bastavano a rivoluzionare l’esistenza e il modo di pensare…

Eppure, era ormai certo di poter dire che il suo cuore era stato trasformato non dalla guerra, ma dal legame. Non avrebbe mai più potuto vantarsi di essere una persona che se la cavava da sola, una creatura troppo fredda per legarsi emotivamente a qualcuno, perché da un legame era dipesa la sua sopravvivenza e la vittoria in battaglia, perché quel legame era diventato ciò che più contava per lui. Era accaduto senza che se ne rendesse conto e non poteva farci niente: lui da solo non era più completo, forse non lo era mai stato, ormai era solo un frammento di un cuore formato da cinque tasselli inscindibili.

C’era stato un momento in cui rendersene conto era risultato spaventoso, ma al punto in cui era, se gli avessero proposto di tornare indietro…

Gli bastò quel pensiero per sentire una fitta all’altezza del petto, così improvvisa ed inattesa da costringerlo a posare una mano lì dove il cuore sembrava aver perso un battito.

Era possibile che Touma non sentisse la stessa cosa? Tornare alla sua quotidianità aveva significato fargli riscoprire quanto si stava bene da soli, senza dover dipendere da nessuno, né avere la responsabilità di nessuno?

Con le mani sulle tempie, le dita affondate nei capelli, si lasciò scivolare a terra, al di sotto della finestra e rimase lì seduto, perdendo la cognizione del tempo, domande, dubbi, paure che si rincorrevano nella sua testa senza risoluzione e senza trovare risposte che lo convincessero. Da un lato, la ragione tentava di suggerirgli che si preoccupava per nulla, dall’altro le paure si insinuavano, più convincenti e subdole, illustrandogli opzioni tutt’altro che rassicuranti.

Poi, di colpo, il suo viso si sollevò, con un’espressione che, finalmente, tornò ad essere determinata: era l’espressione di chi aveva appena deciso qualcosa di importante. D’altronde aveva compreso che vi era un solo modo per trovare risposta ai suoi dubbi.

Si alzò, aprì il cassetto del tavolino che si trovava al centro della stanza e ne tirò fuori una penna e un quaderno, dal quale strappò un foglio prima di riporlo. Poi, seduto a gambe incrociate sul tatami, cominciò a scrivere un messaggio per i suoi familiari:

Devo assentarmi, nulla di grave, vi spiegherò al mio ritorno. Seiji.”.

Nient'altro. Breve ed essenziale.

Era consapevole che avrebbe dovuto inventarsi una qualunque motivazione plausibile, ma proprio non gliene veniva in mente nessuna. Certo non poteva scrivere: devo andare a Osaka perché sto impazzendo al pensiero che a un mio nakama possa non importare nulla di me.

E quella era l’unica motivazione a cui riusciva a pensare, non era abbastanza lucido per inventare, la sua mente era monopolizzata da una sola idea, un unico concetto che si chiamava Touma.

 

 

***

 

Non riusciva a stare in casa.

Non era da lui, non si riconosceva sotto tanti aspetti, ma quel che era accaduto in quell’ultimo anno come poteva non cambiare una persona?

Il ragazzo solitario che stava a proprio agio solo quando poteva chiudersi da solo da qualche parte con un libro in mano, o attaccato al suo telescopio a guardare le stelle, adesso non era più così solitario.

Certo, non poteva dire di essere di compagnia, non che si trovasse bene in generale in mezzo alla gente, ma stare da solo significava mettersi a pensare, neanche leggere e osservare le stelle lo soddisfaceva più se non c’era qualcuno intorno a lui…

Non qualcuno a caso…

La consapevolezza che, mentre lui si immergeva in se stesso, al piano di sotto, o poco distante, c’era un gruppo di nakama che movimentava la quotidianità casalinga…

Aveva accolto quelle novità con insofferenza i primi tempi, ma poi la loro presenza era diventata certezza, sicurezza, calore…

Quel calore che un libro, le stelle, il cielo, da soli non gli donavano più.

E allora, siccome la mente divagava fin troppo facilmente, per non pensare usciva, andava persino a scuola, partecipava alle attività del club di kyuudo, si rifugiava in biblioteca a sfogliare libri e riviste introvabili e, addirittura, passeggiava per le strade, assordato dal caos, dai rumori, dalla vita fremente di una metropoli che lui aveva sempre tenuto chiusa fuori dalla porta di casa sua.

Non che adesso amasse immergersi nella routine metropolitana, ma almeno gli anestetizzava il rincorrersi caotico di pensieri troppo irrazionali perché gli appartenessero.

E riconoscere che, in effetti, gli appartenevano era un motivo in più per odiarli e trovare ogni modo possibile per costringerli a tacere.

Non funzionava del tutto e, comunque, arrivava il momento in cui doveva rincasare e cercare di dormire qualche ora: dal momento in cui riusciva ad addormentarsi andava tutto bene, sarebbe rimasto per sempre in quel limbo di annullamento e incosanpevolezza, nonostante i sogni, che spesso si trasformavano in incubi.

E non c’era più il tocco gentile di qualcuno a rassicurarlo, quando si svegliava in preda al panico, il respiro che si mozzava nella gola, la difficoltà a deglutire e a ritrovare lucidità e parole.

E non c’era più nessuno da sfiorare con tenerezza, cui far sentire la propria presenza quando, nella notte, percepiva un lamento, un brutto ricordo da sedare, qualcuno con cui scambiare reciproci gesti di presenza e conforto, quando gli incubi e i ricordi interrompevano il sonno e non permettevano più di ritrovarlo. Allora si passava il tempo fino al mattino, seduti vicini a parlare, non per forza delle terribili esperienze vissute, ma del nulla o del semplice stare insieme.

Aveva preso l’abitudine di stare fuori fino a tardi la notte, tanto non c’erano genitori premurosi e apprensivi a rimproverarlo se non rincasava, non c’era coprifuoco, non c’erano divieti, né regole imposte.

Era sottile il confine tra la fiducia che i suoi genitori gli concedevano e il molto più doloroso disinteresse nei suoi confronti.

Si era sempre imposto di concentrarsi sulla prima ipotesi, lui era maturo, non c’era motivo per cui dovessero temere per lui. Ma era diventato ancora più difficile da quando era tornato, da quando aveva sperimentato l’autentico prendersi cura di qualcuno e avere qualcuno che si prendesse cura di te, aveva sperimentato cosa significasse preoccuparsi per qualcuno a tal punto da tremare per la paura di perderlo e non poteva più credere che da parte dei suoi genitori ci fosse solo fiducia, non quando lui era ancora troppo piccolo per conoscere gli autentici pericoli del mondo, non adesso che era cresciuto, ma che era pur sempre un ragazzo adolescente e, in fondo, inesperto della vita.

Quando si ha a cuore qualcuno si teme per lui, si ha paura che possa accadergli qualcosa, non importa quanta fiducia si abbia in questa persona.

Si bloccò davanti alla porta di casa.

Poteva essere possibile che Seiji non lo chiamasse per quello? Gli era accaduto qualcosa?

Era così lontano adesso: se gli fosse accaduto qualcosa, lui come avrebbe potuto saperlo?

Scosse il capo, portandosi la mano alla fronte. Loro cinque avevano un mezzo ancora più efficace della vicinanza: il legame.

Lui avrebbe saputo.

E allora cos’era?

Disinteresse, come i suoi genitori, che altro poteva essere? Perché, poi, Seiji avrebbe dovuto continuare ad interessarsi a lui, una volta finita la guerra, una volta riconquistata la tanto agognata pace?

Era quello che tutti loro avevano desiderato: tornare alle proprie normali, tranquille, banali esistenze.

“Come no!” sbottò, aprendo con foga la porta del proprio appartamento e sbattendola alle proprie spalle, facendo tremare le pareti.

 

 

***

 

Giunse alla stazione di Osaka poco dopo l’alba e quando scese dal treno era come avvolto in una nube, come un ubriaco in preda ai fumi dell’alcool. Gli girava anche un po’ la testa a causa del sonno non soddisfatto perché, nonostante la lunghezza del viaggio, non aveva chiuso occhio.

Inquieto a causa dei pensieri, timoroso di non scendere nelle giuste stazioni per i cambi, aveva finito per mantenersi vigile, lo sguardo fuori dal finestrino, gli occhi persi tra città e campagne avvolte nella tenebra, tentando di concentrarsi sul percorso per frenare la mente, senza troppo successo.

Le domande avevano continuato a rincorrersi, ora dopo ora, minuto dopo minuto, più veloci dello shinkansen e degli altri treni che aveva preso, uno dopo l’altro.

Avrebbe ritrovato il nakama a fianco del quale aveva lottato e con il quale aveva stabilito un’alchimia che andava ben oltre l’amicizia e il cameratismo? Come lo avrebbe accolto, Touma?

Ce l’aveva con se stesso per la sua insicurezza, si era trasformato, da algido samurai, in un pavido adolescente solo perché… Touma Hashiba non si faceva mai trovare a casa?!

Si morse il labbro, mentre cercava di capire come muoversi in quella stazione sconosciuta.

Non era mai stato ad Osaka e si trattava di un’esperienza che avrebbe volentieri evitato ancora a lungo; Tokyo si era rivelata faticosa per lui e, dai racconti di Touma, Osaka gli era sembrata tutt’altro che invitante.

Il primo impatto fu una conferma ai suoi timori: la gente era chiassosa e l’atmosfera molto meno ordinata e composta rispetto a Tokyo, la stazione gli parve un labirinto e quando conquistò l’uscita tirò un sospiro di sollievo.

Rovistò nella piccola borsa a tracolla e tirò fuori la propria agenda, poi sfogliò le pagine fino alla lettera ‘H’. Lesse l’indirizzo e si guardò intorno, sempre più spaesato: Touma non gli aveva mai spiegato in maniera dettagliata come raggiungere la sua abitazione, nel caso fosse capitato nella sua città. Per come funzionava in quel momento il suo cervello, Seiji era convinto che Touma non aveva neanche mai pensato né sperato che avrebbero potuto scambiarsi visite l’uno a casa dell’altro, per quanto se lo fossero promesso. Ogni promessa ed ogni progetto gli sembrava lontano anni luce, svaniti nella nebbia dell’allontanamento. La forza delle parole aveva perso vigore e ragion d’essere.

Tutto ciò che aveva dedotto dalle parole di Touma durante le loro conversazioni era che Umeda, dove lui abitava, era una zona di grattacieli, strutture commerciali e uffici, un crocevia fondamentale per l’intera città e Seiji si era domandato come potesse risultare sopportabile abitare al centro di un tale caos urbano, soprattutto per uno che trascorreva intere nottate sul tetto o arrampicato sugli alberi più alti a contemplare il cielo notturno.

Forse, dopotutto, quel Touma Hashiba che aveva conosciuto era stato solo un sogno.

C’era qualcosa che non andava in lui, il battito del suo cuore non era normale e un nodo alla bocca dello stomaco gli impediva di deglutire con naturalezza: alla fretta che aveva di incontrare il suo nakama si era sostituita un’ansia che bloccava ogni risoluzione e lo faceva pentire di aver agito così di impulso. Essere precipitoso non era da lui, aveva preso una decisione dettata da un’onda emotiva e tanto bastava per coprirlo di vergogna.

Da parecchio tempo era fermo, immobile, in mezzo alla folla che gli correva intorno, ad osservare quelle strade, quei palazzi, tutto troppo grande, lo sovrastava fino a soffocarlo, a farlo sentire minuscolo e fin troppo simile ad un bambino sperduto in un universo che non conosceva.

Lui che aveva combattuto contro gli youja scoprì di non sapere affatto come muoversi in una simile città: se a Tokyo non fossero stati i nakama con lui, se non avesse avuto questioni urgenti da risolvere, a distoglierlo dal senso di inadeguatezza che lo invadeva in una grande metropoli, si sarebbe sentito, probabilmente, allo stesso modo.

Venne colto dall’irresistibile pulsione di tornare sui propri passi, acquistare subito il biglietto di ritorno e salire sul primo treno che lo avrebbe riportato verso casa, ma il suo orgoglio avrebbe subito un altro contraccolpo inaccettabile, sarebbe apparso ancor più irrazionale alle sue stesse percezioni. Senza contare che, una volta tornato a Sendai, avrebbe ricominciato con l’insopportabile arrovellarsi di domande senza risposta e lui quelle risposte le voleva trovare, era lì apposta.

Corrugò la fronte e strinse le labbra, tentando di darsi un tono e di mostrarsi determinato, in modo da non apparire, agli occhi della gente che gli sfrecciava accanto, tanto sperduto come in realtà si sentiva.

Respirò profondamente e adocchiò una fila di taxi parcheggiati poco distante. Aveva portato con sé abbastanza soldi da potersi permettere un comodo passaggio fino a destinazione.

Fece cenno al conducente della vettura a lui più vicina, che scese, gli andò incontro e, con un inchino, lo invitò a prendere posto; Seiji ringraziò, si accomodò sul sedile posteriore e, non appena l’autista fu pronto a partire, gli mostrò l’indirizzo scritto sull’agenda.

“Da dove vieni? Non sei di queste parti, vero?” fu il tentativo di conversazione intrapreso dal tassista.

Seiji, che già aveva rivolto il proprio sguardo fuori dal finestrino, pronto a dimenticarsi di non essere solo su quell’auto, riportò gli occhi sulla nuca dell’uomo, senza mostrare il proprio disappunto, ma mantenendo una fredda cortesia:

“Sendai…”.

“Ah, sei giapponese?”.

Non comprese subito che l’autista, notando i suoi capelli biondi e lo strano colore dei suoi occhi, lo aveva inequivocabilmente scambiato per un gaijin: non era certo la prima volta che accadeva, ma ciò cui non era abituato era il modo di essere diretto e poco discreto della gente di Osaka.

“Sì…”.

L’espressione di Seiji non mutò nel formulare la laconica risposta, non sarebbe stato colto impreparato, avrebbe mantenuto intatta la propria cortesia, ma non avrebbe incoraggiato alcuna invadenza o eccessiva curiosità. In realtà sperava di far comprendere al suo interlocutore che desiderava essere lasciato in pace.

Dalle sue parti il problema non si sarebbe posto, forse neanche a Tokyo, ma evidentemente ad Osaka era diverso, perché il tassista tornò quasi subito all’attacco:

“È la prima volta che vieni ad Osaka?”.

Seiji, che già aveva riportato la propria attenzione alla strada e ai grattacieli troppo alti, si voltò ancora nella direzione dell’uomo, gli occhi un poco socchiusi, ma il tono ancora paziente, per quanto privo di ogni sfumatura:

“Sì”.

“Motivi di studio?”.

“No”.

“Ah, famiglia quindi”.

“Ah… no”.

“Gita di piacere”.

Il labbro inferiore di Seiji venne pizzicato per un istante dai denti:

“Non esattamente”.

Gli sembrava il tipo che, per una gita di piacere, avrebbe scelto un posto come Osaka?

“Ah, ho capito perché non ti sbottoni”.

L’uomo si voltò fino a mostrargli il profilo del suo sguardo fattosi malizioso e Seiji corrugò le sopracciglia, scostandosi il ciuffo dal viso: un tentativo inconscio per mostrargli l’espressione sempre meno paziente che si accendeva, istante dopo istante, in entrambi gli occhi.

Non rispose, con la speranza che l’impiccione lasciasse cadere l’argomento, senza contare che ancora non aveva compreso dove volesse andare a parare con quell’osservazione che risuonò alle sue orecchie alquanto provocatoria.

L’uomo riportò gli occhi sulla strada davanti a sé, ma il tono non cambiò quando riprese a parlare:

“Hai ragione, sai, per le faccende di cuore ci vuole discrezione”.

Seiji si sentì avvampare e non fu certo di essere riuscito a trattenere del tutto il brivido che gli aveva attraversato la spina dorsale, non provò invece neanche a trattenere l’espressione contrariata. Intanto il conducente sollevò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore, così poté cogliere il broncio comparso sui lineamenti delicati del suo passeggero.

“Oh, ma io so essere molto discreto, da me non avresti nulla da temere”.

Immagino” rifletté Seiji, ma tutto quello che esternò fu un leggero colpo di tosse, senza dimenticare di portare con educazione il pugno chiuso alla bocca.

Si immaginò a chiedere al tassista se conoscesse un certo Touma Hashiba, perchè gli assomigliava fin troppo: chiacchierone, ficcanaso, indiscreto, poco incline alla riservatezza tipica del Giappone… almeno era quel che si era portati a pensare del Giappone finché non si visitava Osaka. Seiji sentiva di capire sempre di più quello che intendeva Touma quando gli diceva che, semplicemente, “Osaka è diversa, Osaka non la puoi capire finché non ci sei stato”.

“C’è molto traffico a quest’ora” buttò lì, con il solo intento di sviare l’attenzione da sé e portarla su questioni più generiche, che comunque erano di suo interesse, perché non vedeva l’ora di scendere da quella vettura che gli sembrava decisamente scomoda… e non a causa dei sedili.

“A Osaka c’è sempre traffico, anzi, questa mattina c’è una circolazione abbastanza fluida”.

Buono a sapersi.

“Quanto dista Umeda?”.

“Ancora qualche minuto. Immagino tu sia stanco, hai viaggiato tutta la notte credo”.

Più che altro sono stanco di intrattenere un tassista annoiato, fu la risposta che gli salì alle labbra, ma riuscì a pronunciare un più neutro “Già”. Molto meno compromettente.

“È stato faticoso il viaggio?”.

Mai come questo pezzo di tragitto.

Per un attimo fu colto dal timore che la sua immaginazione si fosse tramutata in realtà e che quelle parole avessero preso forma concreta.

Invece le sue labbra formularono un semplice “non molto” poco convinto.

Si chiese cosa gli abitanti di Osaka trovassero di così interessante in lui da voler indagare sulla sua vita privata.

“E quindi la tua amata abita a Umeda…”.

Appunto.

Si morse il labbro inferiore con tale forza da farsi male, ma tacque. A quel punto che credesse quello che gli faceva più comodo, non si sarebbe scomodato a smentire.

Poi, in un certo senso…

Si insultò mentalmente. Cosa si era messo a pensare? Che non c’era proprio niente da smentire, dopotutto?

Preferì non commentare e lasciar cadere la domanda nel vuoto, il tassista l’avrebbe presa come una conferma e, forse, sarebbe finita lì. Almeno era quello che Seiji sperava.

“Le famiglie lo sanno?”.

Gli occhi di Seiji si sgranarono e in essi si accesero lampi degni del suo Rai ko zan: l’autista doveva ringraziare il proprio karma perché in quel momento non gli andò lo sguardo su quello del ragazzo, altrimenti se ne sarebbe trovato incenerito.

Neanche Touma sarebbe arrivato a tanto.

Non sentendo arrivare alcuna risposta, l’uomo ridacchiò:

“Non potrei fare la spia neanche se lo volessi, non ti conosco”.

Proprio perché non mi conosci dovresti imparare un po’ di educazione! Maledetta città! Touma, appena ti trovo uccido te per vendicarmi di tutti gli abitanti di Osaka!

Erano stati gli youja a mettere quell’uomo sulla sua strada? O forse il destino si prendeva gioco di lui e gli stava facendo pagare tutte le sue paranoie irrazionali suggerendogli che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa?

Non gli restava che una possibilità per costringerlo a tacere. Finse di sbadigliare, sbatté le palpebre, appoggiò la testa di lato e chiuse gli occhi.

“Oh, ti sei addormentato, scusa”.

Non posso scusarti, sto dormendo, non ti sento.

“Dormi pure, ti sveglio io quando siamo arrivati”.

Certo che dormo, contaci.

“Potevi dirmelo che avevi sonno, avrei evitato di mettermi a parlare e ti avrei lasciato dormire”.

E allora perché continui a parlare con una persona che in teoria non potrebbe sentirti e alla quale quindi staresti dicendo cose totalmente inutili?

“Manca poco ormai”.

Grazie al cielo! Grazie Touma? Ma anche no!

Il silenzio tanto agognato giunse e durò fino al percepibile rallentamento dell’auto e fino al suo fermarsi del tutto.

“Eccoci a destinazione!”.

Seiji avrebbe sospirato volentieri di sollievo, ma per rendere ancora più credibile la propria recita, finse di non udire e rimase perfettamente immobile, gli occhi chiusi e la testa poggiata di lato.

Percepì il voltarsi dell’uomo sullo schienale e la sua voce troppo vicina al suo orecchio e un po’ troppo divertita:

Bocchama… siamo arrivati”.

Aprì gli occhi di colpo.

Bocchama? Quello era Shin!

“Oh… mi scusi” borbottò, simulando una voce assonnata.

“Ci mancherebbe”.

Si rendeva conto di quanto risultasse odioso quel sorrisetto che pareva di scherno?

Evidentemente no… era di Osaka dopotutto.

Pagò la corsa, salutò con un inchino e osservò con gioia mal repressa il taxi che sfrecciava via lungo le strade di Osaka.

“A mai più rivederci” borbottò.

Al ritorno, piuttosto che rischiare di trovarselo di nuovo davanti o chiunque altro appartenente alla stessa fauna strana, sarebbe andato a piedi.

Si sforzò di lasciarsi alle spalle quella pessima esperienza e si guardò intorno. Se l’indirizzo era giusto doveva trovarsi esattamente davanti al portone oltre il quale si trovava l’appartamento di Touma.

Deglutì al balzo innaturale del suo cuore, il primo di tanti, troppo veloci.

Portò una mano al petto, con la scusa di sistemarsi un bottone della giacca elegante e tossicchiò, infastidito dalle proprie reazioni. Poi sollevò il capo e cercò di cogliere la fine di quel mastodonte di cemento che lo sovrastava, alto, troppo alto, quasi spariva oltre le nuvole. Eppure la cosa gli sembrò, in qualche modo, giusta: Touma era lì dentro, in una costruzione che si innalzava maestosa verso il cielo.

Si avvicinò alla lista infinita dei condomini di quell’edificio e cercò l’unico cognome che gli interessava: lo trovò tra quelli dell’ultimo piano e gli venne da ridere per la logicità della cosa.

Sollevò il dito e si preparò a premere il citofono ma, quando fu a un millimetro dallo sfiorarlo, si bloccò e anche il cuore perse un battito; improvvisamente tutto gli sembrò difficile, era lì a due passi, ma un semplice gesto come quello di suonare un citofono ed annunciarsi diventò un’impresa titanica alle sue percezioni.

Chiuse gli occhi e sospirò in preda alla frustrazione, la mano sollevata a mezz’aria. Qualcosa avrebbe dovuto fare, certo non poteva rimanere lì tutto il giorno a contemplare un palazzo e la sera riprendere un treno per tornarsene a Sendai: la situazione sarebbe precipitata nel ridicolo.

“Al diavolo!”.

Il dito pigiò il pulsante con fin troppa forza: le cose andavano fatte per bene.

Neanche il tempo di concludere quel primo passo che nuovi dilemmi si affacciarono alla sua mente: era mattina, era presto, era una maleducazione giungere a casa di qualcuno così, senza preavviso e disturbare a quell’ora… Touma poi, che sicuramente era immerso nel mondo dei sogni…

E se ci fosse stato suo padre in casa? E se la madre avesse deciso proprio in quei giorni di fare una visita ai due uomini della sua famiglia? Come avrebbe potuto giustificare la sua presenza lì davanti ai genitori di Touma?

Era talmente preso dai dubbi da non rendersi conto che il tempo passava e nessuno veniva a rispondere e il portone restava inesorabilmente chiuso.

Infine si rese conto di trovarsi lì fermo da troppo tempo senza che nulla mutasse e gli occhi si strinsero, riducendosi a due fessure: certo, il suono di un citofono cosa poteva mai essere per un panda immerso nel sonno? Il nulla assoluto, troppo poco per turbarlo.

Incrociò le braccia e si appoggiò con la schiena al muro, il mento abbassato, a chiedersi cosa avrebbe potuto fare per sfuggire a quella situazione di stallo; attendere che Touma si svegliasse spontaneamente e riprovare ogni mezzora? Ogni ora?

Aspettare che uscisse e incontrarlo sulla porta?

Tanto usciva sempre a giudicare dalla sua segreteria…

E magari proprio quel giorno avrebbe deciso di passare la giornata in casa… magari a dormire.

Dato che io sono così fortunato da aver incontrato il tassista più chiacchierone e invadente della città, la mia fortuna si suppone camminerà tutto il giorno sullo stesso binario”.

Sbuffò nel sollevare il capo ed adocchiò, a pochi metri di distanza, una cabina telefonica. Camminò deciso in quella direzione: forse poteva ingannare il tempo telefonando a casa, come un bravo figlio avrebbe dovuto fare.

Un bravo figlio, tuttavia, non sarebbe uscito di casa in piena notte lasciando solo un biglietto privo di spiegazioni per recarsi a chilometri di distanza come un folle in preda ad una snervante insicurezza.

Così, dopo aver inserito la tessera, il numero che il suo dito prese a comporre, senza che lui avesse quasi avuto il tempo di rendersene conto, fu un altro.

Colto dal panico per essere stato mosso solo da un impulso irrazionale, avrebbe voluto riattaccare, ma non ne ebbe la forza.

Almeno finché non udì dall’altra parte il messaggio che aveva imparato ad odiare:

Risponde la segreteria telefonica di casa Hashi…”.

Chiuse la comunicazione con un colpo secco della cornetta sul ricevitore e un’imprecazione molto poco da lui.

Adesso davvero non sapeva cosa fare, aveva esaurito le risorse e le figuracce e il senso di vergogna andavano accumulandosi, anche se solo lui lo sapeva, ma tanto bastava per sentirsi indegno, irriconoscibile, desideroso solo di sotterrarsi…

E annullarsi nella folla e nel traffico.

Perché no, in fondo?

Prese a camminare, deciso a farsi un giro per il quartiere e, intanto, diede un’occhiata all’orologio che portava al polso: la mattinata si stava incamminando verso la metà, presto sarebbero state le dieci.

Il suo stomaco brontolò rumorosamente: per una volta il viaggio, il nervosismo, le troppe ore senza mangiare, gli avevano fatto tornare l’appetito.

Cercare un posto dove fare colazione poteva essere la prima buona idea che la sua mente aveva formulato dalla sera prima. Poi sarebbe tornato e forse, a quel punto, il panda in letargo si sarebbe degnato di sentire il trillo del citofono.

 

 

***

 

Un’altra notte passata insonne, a rigirarsi nel letto, in un silenzio che gli faceva troppo male ed era più assordante di qualsiasi rumore, tanto da impedirgli quelle dormite risanatrici alle quali era abituato.

Sarebbe mai tornato alla normalità? A riconoscersi per quello che era sempre stato?

Non era possibile, se ne rendeva conto, la normalità l’aveva persa dal momento in cui aveva indossato la yoroi e aveva intrapreso la guerra contro lo youjakai.

Negli ultimi tempi passati insieme ai nakama si era convinto di non volerla neanche più quella normalità che era stata così bruscamente interrotta, ma adesso che loro erano lontani e che faticava così tanto a controllare le proprie elucubrazioni riguardo soprattutto ad uno di loro che, ormai se ne era convinto, non pensava affatto a lui, si chiedeva se non sarebbe stato meglio non conoscerlo affatto piuttosto che starci così male.

Il mattino lo aveva trovato ancora insonne ed affamato.

Di andare a scuola non ne aveva nessuna voglia quel giorno, così si era limitato ad uscire per un unico scopo: infilarsi nella sua panetteria preferita e impossessarsi di un bel po’ di dolci appena sfornati per tornare a mangiarseli tranquillamente a casa.

Si ritrovò davanti al suo portone che erano circa le dieci, le braccia colme di sacchetti con il loro contenuto ancora caldo, infilò la chiave nella serratura, un po’ goffamente, intralciato dal suo carico ingombrante, si infilò nell’ascensore e attese, con l’impazienza dettata dalla fame e dal profumo invitante, di raggiungere l’ultimo piano.

Guadagnata finalmente la propria abitazione lasciò cadere disordinatamente i sacchetti sul divano e si abbandonò anche lui a peso morto, infilando la mano nel sacchetto più vicino: i suoi occhi brillarono alla vista della brioche ripiena di cioccolato e si richiusero in estasi quando diede il primo morso.

La fece sparire in pochi secondi per attaccare immediatamente con la seconda.

Era perfettamente consapevole che tutti quei dolci erano troppi per una colazione e, soprattutto, per una sola persona, ma non poteva farci nulla: era nervoso e quando era nervoso solo una grande abbondanza di zucchero riusciva a calmarlo… e ultimamente neanche quello sembrava bastare, per questo doveva provare ad aumentare le dosi, era la sua unica speranza per tornare lucido.

Dopo la terza brioche si sentì abbastanza rinvigorito e coraggioso per fare un tentativo: magari avrebbe trovato Seiji abbastanza vicino al telefono per sollevare la cornetta. Un po’ di fortuna l’avrebbe avuta prima o poi.

Masticando la quarta brioche, trotterellò fino al telefono e compose il numero, quindi rimase in trepidante attesa:

“Casa Date, sono Yayoi Date, chi parla?”.

Dannazione, dannazione, dannazione!

Perché non riusciva a dire nulla, soprattutto quando sentiva lei? Bastava rivelare il proprio nome e chiedere di Seiji, cosa c’era di così difficile?

Tutto… tutto era difficile.

Come mai la sorella di Seiji non era a scuola? Sembrava trovarsi sempre a casa quando si trattava di rispondere a lui al telefono, non aveva niente di meglio da fare?

Prese un profondo respiro, si preparò a parlare… e riappoggiò la cornetta.

Niente da fare, era uno dei pochi casi, se non l’unico, in cui le proprie mani agivano prima della propria lingua.

Sbuffò nervoso, addentando con rabbia la brioche e provò a consolarsi riflettendo sul fatto che lo stesso Seiji, a quell’ora, era probabilmente a scuola, quindi si sarebbe comunque sentito rispondere che non era in casa.

“Dannato Seiji!” biascicò a bocca piena e finendo di ingoiare gli ultimi bocconi.

Afferrò dal divano il sacchetto con le brioche rimaste, si infilò le scarpe ed uscì di nuovo: dopotutto era un’ottima giornata da dedicare ad un tour delle librerie di Osaka, pranzare fuori con un buon okonomiyaki e terminare la giornata chiuso in biblioteca.

 

***

 

Poco prima delle dieci Seiji trovò, nel proprio girovagare, una panetteria che lo ispirò abbastanza da varcarne la soglia ed ordinare un caffé e una brioche.

Si sedette ad un tavolo vicino alla vetrata che dava sulla strada principale e si perse a guardare fuori, mangiando e bevendo con una lentezza che Shu avrebbe definito esasperante: Seiji aveva perso fin troppo tempo a spiegargli che, almeno, lui lo gustava il cibo, anziché fagocitarlo senza quasi sentirne il sapore.

“Il sapore si sente lo stesso” avrebbe sentenziato saccenza-sama Touma, “la lentezza che tu impieghi è direttamente proporzionale alla quantità che ingurgita Shu… tu senti il sapore perché hai tempo di sentirlo, lui lo sente perché si infila in bocca così tanta roba che sommandola tutta il sapore si sente per forza”.

E avrebbe attirato su di sé gli sguardi costernati di tutti i nakama e, probabilmente, un coppino sulla nuca da parte di Shin.

Seiji si scoprì a sorridere tra sé, una mano sotto al mento: da quanto non gli capitava?

C’era qualcosa di piacevole in quegli istanti, i primi momenti che non detestava da quando era arrivato ad Osaka: forse era merito dei ricordi. Tuttavia non ne era certo, i ricordi da un po’ gli facevano male, in quanto fonte di incertezza. Era più probabile che, per la prima volta, si sentisse prossimo a mettere fine a quell’incertezza. Touma era vicino, cominciava a realizzarlo, nonostante tutto, in un modo o nell’altro lo avrebbe rivisto.

Il sorriso scomparve.

Cosa avrebbe significato rivederlo?

Cosa avrebbe significato, soprattutto, per Touma, perché lui lo sapeva cosa significava per sé: Touma era il suo bisogno e gli mancava, era inutile continuare a fingere un orgoglio e un senso di superiorità nei confronti degli aspetti emotivi dell’esistenza. Voleva bene ai suoi nakama, aveva bisogno di loro e doveva assolutamente sapere se Touma aveva ancora bisogno di lui.

Ingoiò a fatica l’ultimo pezzo della sua colazione: lo stomaco si era chiuso di nuovo, la fame era colmata ed era tornato il senso di nausea.

Che razza di atteggiamento adolescenziale” si rimproverò, alzandosi per dirigersi verso l’uscita, le mani in tasca e lo sguardo basso e pensieroso.

Solo fuori dal locale lo risollevò verso il cielo…

Il cielo di Osaka…

Tenku no Touma… il cielo di Osaka.

“Il suo cielo… il mio cielo…” presero a borbottare le sue labbra, gli occhi che si ridussero a due fessure per non venire abbagliati da un raggio di sole che si faceva largo tra le nuvole bianche.

Riprese a camminare: era ora di fare un nuovo tentativo, anche se la sua convinzione stava di nuovo subendo una battuta d’arresto.

Possibile ritrovarsi ad essere così terrorizzati dai propri sentimenti?

O forse, era meglio dire, dai sentimenti dell’altra persona, perché non osava da tempo dubitare dei propri; aveva imparato a farci i conti e persino ad accettarli.

Camminò con calma, come per assaporare ogni passo, ma in realtà perché temeva il momento in cui sarebbe arrivato.

Una bicicletta gli sfrecciò accanto scampanellando all’ultimo istante e Seiji si scostò un attimo prima di venirne travolto, senza che la conducente gli rivolgesse una parola di scusa. Non riuscì neanche ad infondere, nello sguardo che le lanciò, il solito gelo, anzi, gli venne fuori un’occhiata piuttosto sconsolata: il Kansai era troppo per lui, neanche i ciclisti rispettavano le più banali leggi della cortesia.

Girò l’angolo che l’avrebbe riportato davanti al portone di Touma: era possibile che loro due si fossero uniti a tal punto? Doveva essere destino che la loro storia continuasse? Non erano troppo diverse le loro essenze, le realtà nelle quali erano cresciuti?

La contingenza della guerra, la necessità di andare d’accordo li aveva legati in una maniera che, in occasioni normali, non sarebbe stata possibile.

Il cuore gli balzò in gola, si scoprì a non essere in grado di accettare una simile prospettiva, non poteva accettare che, nel corso di un’esistenza lineare, lui e Touma non avrebbero potuto amarsi, anzi, probabilmente le loro strade non si sarebbero mai incrociate.

Si portò una mano alla bocca, perché il sospiro si stava trasformando in un gemito che, per quanto piccolo, quasi impercettibile, lo inquietò. Si fermò accanto al portone e, prima di compiere ogni altro gesto, appoggiò la schiena al muro, le mani intrecciate dietro la schiena, nel tentativo di controllare quei respiri così poco naturali.

Poi, senza prendersi troppo tempo per pensare, tornò a premere sul citofono e attese: pochi secondi che divennero dieci, poi venti…

Un altro tentativo e si impose di attendere un minuto… due…

Alla fine strinse un pugno mordendosi il labbro: avrebbe voluto sollevare quel pugno e piantarlo contro il citofono, all’altezza del cognome Hashiba, a costo di mandarlo in pezzi. Si trattenne solo perché la presenza di tanta gente intorno a lui era ancora in grado di non annullare del tutto il suo autocontrollo.

Voglio tornare a Sendai” piagnucolò una vocina dentro di lui. “Ma voglio anche vedere Touma”.

E quella sembrava un’impresa titanica.

Ma dove diavolo sei, panda dannato?!”.

Pigro, dormiglione, perennemente in letargo, aveva deciso, improvvisamente, di trasformarsi in un vagabondo senza requie?

Forse era quello il vero Touma, forse era tornato nell’ambiente e nella realtà nella quale si trovava più a suo agio perché, in fondo in fondo, con loro non era mai stato bene, non era mai stato realmente se stesso.

D’altronde quell’ultimo anno li aveva probabilmente trasformati tutti, per quella parentesi di tempo.

Guarda come ha ridotto me quest’ultimo anno” rifletté.

Tuttavia lui non era più riuscito a tornare se stesso. Era possibile che, invece, Touma si fosse ritrovato e che avesse rinnegato tutto?

Colto dalla rabbia - o forse era disperazione - si riattaccò al citofono, un lungo richiamo prolungato che probabilmente udirono tutti i condomini più vicini all’appartamento di Touma il quale, invece, rimase immobile e silenzioso… probabilmente vuoto.

A quel punto l’unica soluzione sembrava quella di mettersi lì paziente ed attendere, prima o poi Touma si sarebbe deciso a rientrare.

Ma se non fosse stato così?

Per quel che ne sapeva poteva anche aver deciso di partire per un viaggio intorno al mondo, Touma Hashiba era talmente assurdo da poter aver avuto una simile pensata.

Ovviamente non aveva neanche avuto la logica idea di farsi dire dagli altri nakama, che sentiva regolarmente, se sapessero cosa avesse in mente Touma tra i suoi tanti progetti campati in aria. Si guardava sempre dal parlare di Touma, persino con loro, e non sapeva spiegarsi perché. Forse temeva di sapere che gli altri, da lui, erano cercati e desiderati e di essere unicamente lui il problema.

Anche in quel momento sarebbe potuto tornare nella cabina telefonica, chiamare Shu, Ryo o Shin e chiedere loro se sapevano qualcosa di Touma, ma anche una soluzione così semplice lo bloccava: cosa avrebbero pensato se avesse dovuto spiegare loro che, d’impulso, era partito da Sendai per andare ad Osaka senza prendersi neanche la briga di avvisare il nakama?

Poi giunse l’altro dubbio: si preoccupava ancora così tanto di cosa potevano pensare i ragazzi di lui? Non erano passate tutte quelle contorsioni mentali?

Era quello che aveva creduto, ma stare separato da loro faceva tornare tutto in superficie.

Sbuffò, colto da improvvisa determinazione: si rifiutava di restare lì, davanti ad un portone, a fare la bella statuina. Era un samurai e come tale avrebbe agito.

Era giunto ad Osaka per cercare una persona: non amava la tecnologia, non avrebbe mai usufruito della segreteria telefonica e non avrebbe scomodato i suoi nakama a causa di un’incapacità personale. Era un samurai e come tale avrebbe agito, anche in un frangente così fuori contesto: se Touma non si faceva trovare dove avrebbe dovuto, lo avrebbe cercato per tutta la città, era in grado di farlo e almeno non sarebbe stato con le mani in mano!

Salì sul primo autobus che gli passò davanti e iniziò il suo tour di Osaka, senza sapere quanto ci avrebbe impiegato, né dove lo avrebbe portato. Se non avesse trovato Touma, almeno avrebbe potuto sentirsi meno ridicolo: avrebbe potuto dire a se stesso che, dopotutto, era stato a chilometri di distanza per fare una gita in un luogo che non aveva mai visto.

 

 

***

 

C’era qualcosa di strano nell’aria quel giorno. Per qualche motivo che non si spiegava, Touma non riusciva davvero a provare piacere in quello che faceva, neanche il profumo dei libri dava sollievo al senso d’inquietudine che non lo abbandonava dalla mattina. Quand’era uscito di casa, una voce dentro di lui che gli suggeriva che forse non doveva farlo e adesso gli ripeteva che non sarebbe dovuto stare fuori tutto il giorno.

Scrollò le spalle; in fondo era ormai abituato a non provare il solito piacere nei suoi hobby di sempre, da quando era tornato ad Osaka dopo la battaglia contro Arago, tuttavia quel giorno in particolare il fastidio ed il disagio erano particolarmente opprimenti.

Si sentiva irritato, punzecchiato da un bizzarro ronzio nella testa e un’ansia che gli stringeva il petto, ma era assurdo, lui non aveva mai sofferto di attacchi d’ansia.

Certo, l’ultimo anno lo aveva messo di fronte a situazioni che avrebbero messo a dura prova i nervi di chiunque e non poteva negare che una certa tensione non lo aveva più abbandonato, che i suoi sogni si mutavano in incubi fin troppo spesso, che gli capitava di svegliarsi in piena notte e trovarsi seduto sul letto, ansimante, a pregare mentalmente che i suoi nakama arrivassero per combattere al suo fianco contro la nuova minaccia che era giunta ad interrompere bruscamente il suo sonno; e impiegava sempre parecchi minuti per convincersi che era tutto nella sua testa e che si era trattato di un sogno.

Distrattamente prese in mano un libro sulla storia dell’era Tokugawa e aprì una pagina a caso; tra tutti i capitoli e i nomi che potevano capitargli, per puro caso era finito su un paragrafo che trattava del ruolo della famiglia Date durante la guerra tra Hideyoshi e Tokugawa. Storse il naso e richiuse il libro, riponendolo al suo posto.

Era come il grillo parlante che voleva richiamare la sua attenzione su qualcosa che in quel momento desiderava riporre nell’angolino più nascosto della sua mente: facile a dirsi.

Continuò ad aggirarsi tra gli scaffali del reparto di storia del Giappone e, tra le novità, balzò in bella vista, davanti ai suoi occhi, una biografia di Masamune Date.

Diede le spalle stizzito alla parte storiografica e, pugni stretti, aria battagliera e furibonda, si diresse a passo di marcia verso zone dove nelle quali avrebbe corso meno rischi di essere perseguitato. Ma sembrava che la sua vista fosse prontissima a recepire ogni stimolo atto a punzecchiarlo, diretto o indiretto che fosse, da libri sulla potatura dei bonsai nella sezione natura, passando da raccolte di ricette su come cucinare le zucche tra i volumi di cucina, fino ad arrivare a manuali sul kendo tra i libri di arti marziali.

Uscì dalla libreria con una tale furia che i commessi e i clienti gli puntarono gli occhi addosso, ma lui fece finta di non accorgersene, che ne sapevano loro di quanto potesse essere fastidioso ritrovarsi circondato da richiami a due occhi violetti che parevano scrutarlo da ogni angolo?

Guardò l’orologio; non mancava molto a mezzogiorno, dopotutto poteva anche pensare a cosa mangiare per pranzo. Le brioche della colazione di due ore prima erano già smaltite, cercare di sfuggire alle insidie mentali di un drago con un occhio solo richiedeva un notevole dispendio di energie.

 

 

***

 

Seiji dovette ammettere che a Osaka c’era parecchio da vedere e anche qualcosa di interessante. Il castello gli aveva suscitato un po’ di ilarità: certo, per essere un rifacimento era ben fatto, ma non capiva come si potesse andare così fieri di un’imitazione le cui attrazioni interne risultavano persino pacchiane in confronto alle originali rovine di Sendai.

L’acquario l’aveva intenerito, perché davanti ad ogni vasca immaginava le reazioni che avrebbe avuto Shin.

Da Namba era scappato a gambe levate, credendo di essersi ritrovato in una sorta di Youjakai nuovamente disceso tra gli uomini.

Le ore passarono senza che lui se ne rendesse conto finché, sussultando con un leggero senso di panico, si accorse che la luce del giorno cominciava gradualmente ad abbassarsi. Ciò significava che aveva passato la giornata a sperare di incontrare qualcuno in un labirinto metropolitano esplorandolo a caso: perché Touma avrebbe dovuto trovarsi al castello o all’acquario, luoghi che sicuramente conosceva bene? Probabilmente avrebbe dovuto intraprendere una ricerca un po’ più ponderata, ragionando sulle caratteristiche di colui che cercava.

E quale luogo poteva rappresentare al meglio Touma se non un edificio pieno di libri?

Si chiese quante librerie esistessero ad Osaka e come fare a rintracciarle tutte.

Intanto la sera avanzava inesorabilmente e lui si sentiva sempre più prossimo al totale fallimento della propria missione.

La questione di cuore stava assumendo i connotati di una questione di principio e d’onore: il panda andava stanato a tutti i costi e lui l’avrebbe trovato, non sarebbe rientrato a Sendai prima di aver parlato a quattrocchi con Touma e avergliela fatta pagare per…

Per cosa?

Perchè portava avanti la sua vita nonostante la distanza?

Perché, a differenza sua, aveva dimostrato di saper pensare a qualcos’altro oltre che al loro rapporto?

Per aver riconquistato per sé un po’ di normalità?

Per averlo messo da parte con tanta facilità?

Ma che vado a pensare?”.

Si portò una mano allo stomaco un po’ dolorante; non riusciva a capire se si trattava di nervosismo o di normalissima fame, non si accorgeva dei bisogni del suo corpo. Dopo la leggera colazione non aveva mangiato altro per tutto il giorno ed era ora di cena.

Si decise a tornare al punto da cui era partito: forse c’era davvero qualche speranza che, ormai, Touma fosse rientrato. In caso contrario avrebbe cercato nei dintorni un locale dove cenare e poi…

Poi cosa? Altre ricerche? Ritorno a casa?

Neanche per sogno!”.

Con quella convinzione nella testa si mise in moto verso la stazione metro più vicina, per tornare ad Umeda: un taxi sarebbe stato più comodo, ma avrebbe preferito farsela a piedi piuttosto.

 

 

***

 

Decisamente non era la sua giornata fortunata, l’inquietudine non lo aveva abbandonato neanche per un istante e quei persecutori occhi viola li vedeva anche laddove non avrebbe avuto senso vederli, magari in una nuvola che gli ricordava la forma di un drago… o che la sua fantasia plasmava in forma di drago.

Alla fine, siccome la sua mente riusciva a trovare un collegamento con Seiji anche in un taxi che passava, finì per passeggiare a vuoto, gli occhi fissi a terra, trascorrendo quella che si rivelò essere una delle giornate più inutili ed inconcludenti di tutta la sua vita.

Solo quando il suo stomaco cominciò a brontolare alzò lo sguardo e si rese conto che il buio avanzava, così come l’ora di cena. Pensò che ci fosse un solo modo per far sì che quella giornata la smettesse di tormentarlo: infilarsi da qualche parte a mangiare e poi rifugiarsi nel letto sforzandosi di addormentarsi il prima possibile, anche se sarebbe stata dura.

Sotto casa sua, al piano interrato del suo palazzo, c’era uno yoshinoya dove si mangiava benissimo e che era la sua salvezza quando non aveva voglia di prepararsi neanche un toast: gli bastava scendere le scale e con una minima spesa pranzava o cenava in maniera più che soddisfacente.

Era di pessimo umore, nervoso, ma anche triste ed odiava sentirsi così, come odiava sentirsi gli occhi perennemente brucianti: odiava ammettere che si trattava di lacrime a stento trattenute.

Mentre camminava a testa bassa, zigzagando tra pedoni e ciclisti in maniera fin troppo distratta, il suo piede, in un eccesso di nervosismo, calciò il vuoto, come avrebbe fatto con una pietra. In quel momento il campanello di una bici lo avvertì troppo tardi del rischio che stava correndo e vide in un lampo il volto terrorizzato del ciclista, prima di rovinare a terra con un’esclamazione di sorpresa.

Il ciclista, che era riuscito per miracolo a mantenersi in equilibrio, lo guardò con espressione costernata.

“Scusa, scusa, scusa” continuava a ripetere, mentre si chinava su di lui per aiutarlo a rialzarsi. Intorno si era radunato un capannello di curiosi e Touma avrebbe voluto sprofondare nei meandri più reconditi del sottosuolo di Osaka.

Cercò di convincere in tutti i modi il responsabile che non era accaduto nulla di grave, anche se in realtà era furibondo e un po’ dolorante: la cosa più importante era sottrarsi il prima possibile a quella situazione antipatica e imbarazzante. Non amava trovarsi così al centro dell’attenzione, quel giorno meno che mai e per un tale motivo poi!

“Sto bene, non preoccupatevi!” puntualizzò per l’ennesima volta, ma più energico, tanto che qualcuno cominciò a ritrarsi e il ciclista prese fiato, interrompendo la propria pioggia di scuse: sembrava anche lui sperare che la faccenda si concludesse al più presto, senza conseguenze, ma non si convinceva a riprendere la pedalata lasciandosi la questione alle spalle.

“Perdonatemi voi adesso, ma devo scappare” esclamò allora Touma, deciso a tagliare lui la vicenda una volta per tutte. Quindi aggirò letteralmente l’uomo e le altre persone ancora in attesa di sapere come si sarebbe concluso il diversivo che aveva movimentato la loro giornata e fuggì di corsa, mentre la voglia di piangere si faceva insopportabile.

 

 

***

 

Aveva esitato di nuovo, non era un orario consono neanche quello per presentarsi all’improvviso a casa di qualcuno e, forse, il signor Hashiba era tornato e stava cenando con il figlio: interromperli sarebbe stato segno di grande maleducazione.

Alla fine si era deciso ed ogni sua remora evaporò quando il trillo nell’appartamento rimase ancora inascoltato: si accanì sul citofono con una rabbia ancora maggiore di quella mostrata al mattino e alle labbra salirono imprecazioni trattenute a stento.

Quello che invece non riuscì a trattenere fu il richiamo sussurrato con quella che era rabbia, ma non solo, vi era, in esso, una sorta di supplica disperata:

“Dove sei, Touma? Possibile che non mi senti, che non percepisci la mia presenza così vicino a te?!”.

Ma erano davvero vicini?

C’era una consapevolezza profonda a suggerirgli che Touma era davvero a Osaka, che fisicamente era lì, da qualche parte, ma era un altro tipo di vicinanza quella che gli interessava e di quella non era altrettanto convinto.

Per l’ennesima volta sollevò gli occhi al cielo, sperando che potesse portare a Touma la sua voce.

“Dove sei?” sussurrò, “sei con qualcuno?”.

Il cuore ebbe un balzo anomalo: ecco un nuovo turbamento.

C’era qualcuno con Touma?

Gli era stato così facile superare la distanza perché aveva trovato una compagnia piacevole, magari più di quella dei suoi nakama?

Era difficile crederlo, da parte di una persona come Touma che, a suo dire, non aveva mai avuto amici, mai legami significativi con qualcuno.

Anche se, una volta, gli aveva parlato di un certo professore, un racconto che, per qualche motivo, a Seiji era piaciuto poco.

Lo stomaco gli fece di nuovo male.

“Devo mangiare” sbuffò, anche se non era convinto che il dolore venisse da quello.

Si guardò intorno, rassegnato al pensiero di dover ascoltare le esigenze fisiche, cosa che detestava: un samurai temprato non ascoltava mai le ragioni del corpo.

“Se solo fossi un samurai temprato…” borbottò.

Quanto ancora aveva da imparare, pensò mentre le sue gambe presero a muoversi, seguendo le indicazioni di uno yoshinoya che conduceva al piano interrato del grattacielo.

 

 

***

 

Con il viso poggiato sulle mani e lo sguardo perso nel vuoto, Touma attendeva che gli venisse servita la cena. Quel giorno il locale era particolarmente pieno e il servizio ne risentiva. Cercava di essere paziente, ma il suo stomaco non era dello stesso avviso.

Sbuffò, mentre le narici venivano accarezzate da aromi fin troppo invitanti, senza contare che le allucinazioni non erano più solo visive, ora anche l’udito gli giocava brutti scherzi, facendogli immaginare la voce di Seiji che ordinava una kitsune udon. La stessa cosa che aveva ordinato lui tra l’altro.

Non si voltò, si rifiutò di assecondare le prese in giro della sua fervida immaginazione, non gliel’avrebbe data vinta e la sua determinazione resistette anche quando la medesima voce chiamò chiaramente il suo nome:

“Touma?”.

“Io non sento le voci, non sono pazzo, quindi smettila” borbottò, gli occhi chiusi e sempre viso sulle mani.

“Touma!”.

“E non fare il prepotente”.

“Ma sei scemo?!”.

Il suo tavolo tremò come se qualcuno vi avesse dato un pugno, così si decise ad aprire gli occhi. La prima cosa che vide furono le due mani posate sul tavolo, davanti a lui. Seguì con lo sguardo il percorso delle braccia, l’attaccatura delle spalle, il collo… bianchissimo, così come il viso, un occhio coperto da un lungo ciuffo biondo, l’unico occhio visibile di un viola intenso che era come un’ametista accesa di un sacro fuoco di rabbia.

“Forse sono davvero pazzo” mormorò.

“No, sei solo scemo”.

“Ma sto vedendo Seiji!”.

“E Seiji sta vedendo uno scemo!”.

Quel tono avrebbe raggelato chiunque, Touma era solo stranito, incredulo e si chiedeva cosa stesse accadendo; non ricordava di essere già andato a letto, di essersi addormentato…

Forse la botta che aveva preso scontrandosi con la bicicletta?

“Eppure non credevo di essermi fatto così male!”.

“Fatto male?” borbottò la visione, con aria vagamente ansiosa.

“Non preoccuparti”.

E lui stava pure rispondendo. Se avesse voluto risvegliarsi avrebbe dovuto smetterla di assecondare il sogno, ma in fondo chi voleva risvegliarsi?

Facendo leva con le mani sul tavolo, il fantasma di Seiji si chinò verso di lui, rendendo i loro visi tanto vicini che Touma poteva percepire il fiato dell’altro. Ma se era una visione…

“Io mi sto preoccupando molto, invece, baka-panda, mi vedi?!”.

Che domanda era?

Lo vedeva eccome ed era proprio questo ad essere preoccupante.

“Non dovrei vederti, vero?”.

A quel punto vide Seiji ergersi, staccare le mani dal tavolo e girarvi intorno, fino a portarglisi a fianco e a sovrastarlo. Touma mosse gli occhi seguendo i suoi passi, poi li richiuse:

“Quando li riaprirò mi ritroverò nel mio letto, lo so… è l’unica spiegazione”.

Invece si trovò con il braccio imprigionato in un pugno di ferro e si sentì strattonare:

“La vuoi smettere?!”.

Qualche sguardo si levò dagli avventori intorno a loro e da cuochi e camerieri.

Non sto parlando da solo, vero?” chiese a se stesso Touma.

In ogni modo, il dolore al braccio era fin troppo reale, così come quella stretta.

“Devo smetterla di fantasticare?”.

“Devi smetterla di fingere di non vedermi, razza di cretino!”.

Adesso era davvero troppo.

“Io sto fingendo di vederti, non di non vederti!”.

Il pugno di Seiji lasciò il suo braccio per spostarsi sul collo della t-shirt; lo tirò con tale forza che Touma fu costretto ad alzarsi. Adesso erano faccia a faccia, i nasi si sfioravano.

“Mi stai costringendo a dare spettacolo solo perché fai l’idiota” sibilò Seiji tra i denti, osservando di sottecchi intorno a sé gli sguardi curiosi della gente.

“Ma… Seiji…”. La voce di Touma, adesso, era un piagnucolio decisamente stranito. “Io ti sto vedendo… ti sto… sentendo…”.

La mano libera di Seiji salì alla fronte, in un gesto di impazienza:

“Lo spero bene”.

“Seiji… tu… sei qui a Osaka…”.

“Fino a prova contraria…”.

“Ma… ma come è possibile?”.

“Esistono i treni e dovresti saperlo meglio di me, dato che a tuo dire io non so neanche che cosa sia la tecnologia”.

Seiji stava tentando di ritrovare la sua flemma, ma non era per niente facile; si stava chiedendo cosa provasse Touma, perché al momento non ne era del tutto consapevole. Poi la risposta arrivò sottoforma di una serie di gesti.

Una mano di Touma si sollevò e due dita gli presero il ciuffo; Seiji sporse le labbra in un broncio, che si accentuò quando le due dita pizzicarono il naso. La sua espressione era quella di chi pensava:

Ora lo ammazzo”.

“Sei vero!”.

Con un ringhio di disappunto, Seiji strinse le proprie dita intorno al polso di Touma e scostò da sé quella mano molesta.

“Stai diventando assurdo!”.

Touma si bloccò e, per qualche istante, rimase assolutamente immobile.

Poi Seiji non fece neanche in tempo a rendersi conto del movimento delle braccia che se le trovò intorno al collo e gli ci volle tutta la prontezza di cui era capace per non perdere l’equilibrio.

“Seiji!”.

“Ma sei matto?!”.

Si staccò Touma di dosso e lo spinse sulla sedia:

“Ora ci sediamo e ti calmi!”.

“E come faccio a calmarmi?!”.

“Scommettiamo che ce la fai?” rispose Seiji con tono che non ammetteva repliche, sedendosi di fronte a lui.

Da quella posizione gli era facile notare i tremori che attraversavano il corpo di Touma, sembrava un fascio di nervi.

Allora gli faccio ancora un certo effetto” pensò.

In quel momento la cameriera si avvicinò con due scodelle traboccanti di brodo e tofu fritto.

“Devo servirvi allo stesso tavolo?”.

“Sì” risposero all’unisono, Seiji tentando di mantenersi calmo, Touma saltando sulla sedia come se fosse stato scottato.

Senza poter nascondere del tutto la propria perplessità, prima di posare la scodella davanti a Seiji la ragazza si affrettò ad apparecchiare la sua parte del tavolo, mentre i due giovani, ognuno a proprio modo, tentavano di mascherare la propria tensione.

Quando si trovarono finalmente soli, il viso di Touma restò basso, sotto gli occhi scrutatori del coetaneo; era strano vederlo esitante prima di tuffarsi sul cibo.

Seiji, da parte sua, aveva di nuovo perso l’appetito, lo appagava molto di più osservare l’espressione di Touma, sconvolta e scombussolata dalla sua presenza. Era evidente che gli aveva fatto una sorpresa, ma doveva sentirselo dire che tale sorpresa era stata gradita.

“Allora?”.

Forse quel tono inquisitorio e severo non era proprio un buon inizio per rassicurare un panda sperduto.

Il volto di Touma si sollevò su di lui e lo scatto di tutte le sue membra fu così teso e nervoso che scontrò la ciotola facendo strabordare un po’ di brodo.

“Attento a non rimanere senza cena”.

Questa volta Seiji riuscì a rendersi più ironico, forse perché cominciava a sentirsi intenerito.

“Io… Seiji….”.

Seiji scosse il capo, con un sospiro rassegnato: il suo nakama non si decideva a riconoscere la realtà dei fatti.

“Sì, Touma, sono Seiji, ho preso un treno, ho viaggiato di notte e sono qui, ad Osaka e la fortuna ha voluto che tutti e due decidessimo di venire a mangiare in questo locale vicino a casa tua. C’è qualche altra spiegazione che ti devo dare?”.

Touma aprì la bocca, ma le parole non uscirono subito; dovette richiuderla, riaprirla, riprendere fiato e poi balbettare qualcosa che, tuttavia, risultò ancora piuttosto sconnesso:

“Come… perché…”.

“Perché sono venuto? Ti infastidisce?”.

“No!”.

FInalmente un tono convinto, persino un po’ troppo, tanto da attirare di nuovo l’attenzione delle persone più vicine.

A questo punto persino lui sembrò imbarazzarsi un po’ e, il viso basso, le mani nervose strette tra le ginocchia, proseguì a voce più bassa:

“Come puoi pensarlo?”.

“Non è che avessi molto di meglio da pensare”.

Il viso di Touma si risollevò e questa volta i suoi occhi, ora quasi sgomenti, riuscirono a restare per un po’ fissi sul nakama:

“Cosa vuoi dire?”.

Seiji intrecciò le dita sotto al mento e, gli occhi un po’ socchiusi, lo scrutò come se volesse sondarlo:

“Devi aver avuto molto da fare”.

“No… be’... non più del solito”.

“Quindi non hai scusanti”.

Touma sbatté le palpebre.

“Per… per cos…”. Deglutì ancora e l’ultimo frammento di frase gli morì nella gola.

Seiji scosse ancora il capo e sospirò.

“Mangia, ne parliamo dopo”.

Gli occhi di Touma si abbassarono sulla sua zuppa:

“Tanto è troppo calda”.

“Come se per te fosse davvero un problema”.

“Goloso va bene” si lamentò Touma inscenando un broncio che fece sorridere Seiji, “ma non così tanto da ustionarmi la lingua”.

C’era qualcosa di strano nella loro conversazione, dopo un inizio surreale era scivolata in una normalità che la rendeva ancor più straniante: troppa tranquillità, troppa calma, troppe frasi scontate. Sembrava che entrambi sapessero di doversi delle reciproche spiegazioni, ma Touma doveva ancora ben capire quale fosse il confine tra la realtà e le sue allucinazioni.

“E poi…”.

“Poi cosa?”.

“Tu sei arrabbiato”.

Seiji sollevò il sopracciglio visibile:

“E tu no?”.

Le labbra e il naso imbronciati di Touma si arricciarono di più, conferendogli la connotazione di un bambino immerso in profonde riflessioni e infine sbottò:

“Certo che lo sono!”.

“Per questo mi ignoravi?”.

“Cosa facevo io?”.

“Mangia…”.

“È bollente”.

Si fissarono per lunghi istanti, come se volessero parlare con i loro sguardi, ma nessuno dei due era in grado di comprendere cosa ci fosse nello sguardo dell’altro, troppe domande inespresse, troppa confusione e, da parte di Seiji, troppa stanchezza.

Touma gli aveva dato la conferma di essere arrabbiato, eppure la sua espressione, nonostante apparisse corrucciata, continuava a trasmettere solo tanta incredulità… ma non certo dispiacere. Comunque troppo smarrita per risultare intelligibile.

“E tu non mangi?” borbottò Tenku.

“Se è bollente per te, perché non dovrebbe esserlo per me?”.

“Perché tu sei stoico”.

Seiji sospirò. Quella conversazione avrebbe preso una piega sensata, prima o poi?

“Stoico non vuol dire masochista. Si presume che mangiare sia un piacere”.

“Per me sicuro. Per te ho qualche dubbio. Conoscendoti la potresti considerare semplice necessità per la salute”.

Il sopracciglio di Seiji si inarcó di nuovo, mentre Touma gli dedicò un’occhiata più approfondita.

“E a guardarti adesso si direbbe che ho ragione”.

“Cosa vorresti dire?”.

Touma storse le labbra in una smorfia:

“Ti trovo dimagrito. Temo che per te solo la cucina di Shin e di Nasty potesse assomigliare ad un piacere”.

La fronte di Seiji si corrucciò:

“Tu invece ti sei tenuto in ottima forma”.

Il che, nella sua testa, significava:

Non sei stato così sofferente per la nostalgia”.

“Il cibo è il mio antistress”.

Il che nella testa di Touma significava:

Era il mio unico modo per sopportare la nostalgia”.

“E adesso non sei stressato?”.

“Effettivamente un po’ sì”.

“Ah, e così io ti stresso!”.

Touma fu così colpito da quelle parole che non notò il sorrisino ironico sulle labbra del nakama.

“È la situazione ad essere stressante!”.

“Il fatto che io ti sia piovuto così tra capo e collo?”.

Il sorriso si accentuò.

Le mani di Touma salirono ad arruffare i capelli che Seiji vedeva ancora più scarmigliati del solito.

“Mi stressa il fatto di non avere ancora capito niente della situazione”.

Il mento ancora sulle mani, il capo di Seiji si inclinò su una spalla:

“Cosa non ti è chiaro, esattamente?”.

“Be’, quello che sta succedendo… arrivo qui a cena e sento la tua voce, alzo lo sguardo e ti vedo davanti a me, dopo un giorno intero che trovo libri di storia sui Date, sui bonsai, sul kendo… persino sulle zucche! E vedo draghi nel cielo!”.

“Che tu abbia sempre la testa tra le nuvole non mi sembra esattamente una novità”.

“Sentiti in colpa, perché oggi mi stai facendo impazzire, fino ad immaginarti seduto davanti a me!”.

Seiji sbattè le palpebre:

“Ancora?”.

Si chinò un poco in avanti sul tavolo, per avvicinarsi di più al nakama:

“Touma… non mi stai immaginando”.

“Hai un solo modo per dimostrarmelo”.

Seiji si fece più attento:

“Dimostrartelo?”.

Touma si sporse a sua volta, assumendo una posizione speculare a quella di Seiji:

“Dammi un bacio”.

“Non dire sciocchezze”.

“Allora non sei vero”.

“Se ti baciassi qui in mezzo alla gente non sarei vero, perché il vero me stesso non lo farebbe mai. E abbassa la voce!”.

“Tutte scuse”borbottò Touma riappoggiandosi indietro sulla sedia e decidendosi, finalmente, ad affondare il cucchiaio nella ciotola, per poi portarselo alla bocca, forse con troppa foga: con un’esclamazione di dolore lasciò ricadere il cucchiaio e si portò le mani alle labbra.

“Alla fine la golosità vince” commentò Seiji, inespressivo.

“Sei tu che mi confondi” protestò Touma.

Intanto anche Seiji riempì il primo cucchiaio ma, a differenza del nakama, sorseggiò con calma, a fior di labbra, tanto che la maggior parte del brodo rimase nella posata.

Quando riportò gli occhi su Touma, questi lo stava fissando, con le labbra arricciate: non riusciva a togliersi quell’espressione offesa.

Lui fa l’offeso!” si disse Seiji.

“Be’, che hai da guardare?” lo apostrofò.

“Sei arrabbiato con me”.

“Anche tu lo sei, me lo hai già detto”.

“Tu perché sei arrabbiato?”.

“E tu?”.

Sull’ultima parola, Seiji riposò il cucchiaio.

“Perché hai smesso di mangiare?”.

“Non ho fame”.

Anche Touma lasciò cadere il cucchiaio, ma con meno gentilezza, tanto che gocce di brodo schizzarono tutto intorno e sulla sua t-shirt:

“Allora nemmeno io!”.

“Non ci credo neanche se lo vedo”.

“Mangio solo se mangi anche tu”.

“Non ti conviene sfidarmi, potresti morire di fame”.

“Non mi sottovalutare!”.

Si fissarono per parecchi istanti senza aggiungere altro, poi Seiji si decise a portare nuovamente il cucchiaio alle labbra:

“Solo perché è sbagliato sprecare il cibo”.

Touma fece una smorfia, prese la ciotola tra le mani e sorseggiò il brodo.

“Perché bevi prima il brodo?”.

Nell’udire la domanda inaspettata di Seiji, Touma fu sul punto di sputare quello che aveva in bocca per rispondere in fretta, ma riuscì ad ingoiare prima di ribattere:

“Da quando in qua ti interessa tanto il mio modo di mangiare la kitsune udon?”.

Il compagno si strinse le spalle e riprese a concentrarsi sul proprio piatto. Ma, dopo qualche attimo di silenzio, la risposta di Touma arrivò:

“Mi lascio il tofu per ultimo perché è la parte più buona”.

“Ma non ha senso senza il brodo”.

Per l’ennesima volta il cucchiaio di Touma fece schizzare brodo da tutte le parti, questa volta fino allo stesso Seiji, che rimase del tutto impassibile.

“Almeno potresti lasciarmi mangiare senza le tue osservazioni e badare al tuo, di brodo?”.

Un’altra scrollata di spalle da parte di Seiji che, tirato fuori un fazzoletto dalla tasca, asciugò gli schizzi dalla camicia bianca e dal proprio viso.

“Mi scusi tanto, Date-sama” brontolò Touma e, usando le bacchette, si infilò in bocca un pezzo di tofu tutto intero. Tanto ormai cominciava a raffreddarsi.

Riuscirono a restare in silenzio il tempo necessario per arrivare quasi in fondo alla zuppa, persino Seiji, ad un certo punto, sembrò cominciare a gustarla davvero; era possibile che il suo stomaco percepisse una presenza salutare lì vicino?

E allora perché continuavano a battibeccare?

Si pulì le labbra con la punta del fazzoletto e decise di tentare un approccio diverso:

“Touma… senti…”.

L’altro lo guardò di sottecchi, fermando il cucchiaio contro le labbra, l’espressione un po’ diffidente, la qual cosa non rassicurò il ragazzo del nord.

Tuttavia Seiji si impose di non lasciarsi di nuovo trascinare da insicurezza e nervosismo: gli sembrava di essere caduto, fino a quel momento, in uno di quegli assurdi siparietti adolescenziali tipici delle coppiette innamorate e la cosa non gli andava affatto giù.

“Io non so se tornare a casa stanotte o…”.

“Tu non torni a casa stanotte!”.

Avrebbe respirato di sollievo, era quello in cui aveva sperato, dopotutto.

“Dove potrei andare a…”.

“Seiji!”.

Questa volta fu lui a sussultare, colpito dal tono agguerrito del nakama.

“Che cosa c’è?”.

“Mi stavi chiedendo dove potresti andare a dormire? Ho indovinato?”.

“Be’...”.

Touma scosse il capo:

“Ora sì che mi arrabbio sul serio”.

“Sono venuto senza preavviso…”.

“Tu puoi venire quando vuoi e come vuoi, non c’è bisogno di preavviso!”.

“Allora…”.

“Allora cosa?”.

“Mi ospiti… a casa tua?”.

Touma sbuffò:

“Mi fa innervosire pure il fatto che tu me lo chieda”.

“Ma se ci fosse tuo padre…”.

“Be’, non c’è, quindi il problema non si pone. E se ci fosse non si porrebbe lo stesso”.

Posò il cucchiaio nel piatto, questa volta senza nessuno schizzo, unicamente perché ormai era del tutto vuoto.

“Quando hai finito andiamo a casa. E non ti azzardare a pagare la tua cena, sei mio ospite!”.

Capitava di rado che Seiji non sapesse opporsi a Touma, eppure in quel caso non riuscì a replicare… e forse non voleva neanche farlo. Il suo cuore cominciava a riscaldarsi, gli sembrava che la situazione tra loro stesse pian piano sciogliendosi, il nodo nella sua gola era un po’ meno stretto.

Non poteva immaginare che Touma stava provando le stesse identiche sensazioni, ma il fluido tra di loro suggeriva un’alchimia che andava ricostituendosi per tornare a funzionare al meglio… e tutto per essersi ritrovati.

E allora perché tanto silenzio tra loro, quando non erano insieme?

 

 

***

 

 

Fermo al centro del soggiorno, Seiji non cessava di guardarsi intorno. Dunque quello era il regno di Touma, il grande appartamento sulla vetta di un grattacielo di Osaka all’interno del quale lui si era abituato, fin dalla più tenera età, a trascorrere giorni e notti in piena solitudine.

Adesso che lo vedeva si chiedeva come avesse fatto a sopportarlo; Seiji non sarebbe riuscito a vivere in quel luogo, non da solo, non sarebbe riuscito a portare avanti le sue giornate in quella città, solo in mezzo a una folla informe di persone con le quali non aveva nulla da condividere.

Come c’era riuscito Touma? Come aveva potuto essere tanto forte?

Era come una gabbia, mura di cemento, un sacco di oggetti ammucchiati alla rinfusa e il disordine di Touma certo non aiutava. Seiji si sarebbe sentito soffocare a vivere lì dentro.

In un angolo, su di un mobile a pochi passi dal divano, notò l’apparecchio telefonico nel quale lampeggiava il segnale rosso della segreteria… quel maledetto aggeggio!

Ovunque, sul divano, sulle poltrone, sul tavolo e anche sul pavimento erano accatastati volumi su volumi su ogni svariato argomento, intervallati da riviste di astronomia e manga, fogli pieni di appunti, vestiti alla rinfusa.

La borsa della scuola era appoggiata in un angolo vicino alla porta, senza cura.

“Lo so che sono disordinato” tentò goffamente di giustificarsi Touma, notando la sua espressione che, in realtà, non era dovuta a quello, non soltanto almeno.

Certo, il caos che regnava in casa accentuava l’aura di solitudine e malinconia che attanagliava lo spirito di Seiji.

Si sforzò di sorridere:

“Per fortuna non sono Shin, credo rimarrebbe scioccato”.

“E dopo l’attimo di sgomento, il pesciolino si metterebbe a girare per casa come una trottola per pulire e riordinare” dovette ammettere Touma.

Finalmente si ritrovarono a ridere insieme: un altro pezzettino di loro come entità simbiotica si stava ricostituendo… e parlare anche dei nakama lontani aiutava.

“Siediti, vado a riordinare la cucina… prima di fartici mettere piede”.

“C’è qualche piatto che sta per mettersi a camminare?” ridacchiò ancora Seiji.

Touma fece una smorfia:

“Non esagerare adesso. Se avessi saputo che venivi non ti avrei fatto trovare la casa così”.

“Ma non avevi detto che posso venire senza avvisare?”.

“Tu puoi venire quando vuoi, lo ribadisco, certo, se non lo so prima, per le condizioni della casa non posso garantire”.

Le mani sui fianchi, assunse un’aria professionale decisamente buffa.

Seiji si portò una mano davanti alla bocca, divertito:

“Perché tenerla in maniera decente tutti i giorni è chiederti troppo, vero?”.

“Diciamo che non è nelle mie priorità”.

“Non sia mai” ghignò Seiji, “ci sono molte cose più importanti da fare”.

“E direi”.

Intanto, Touma si diresse verso il divano e lo sgomberò da libri e quaderni semplicemente gettandoli a terra con una mano:

“Mettiti comodo”.

Continuando a sorridere, Seiji obbedì e si mise ad osservare il nakama che, indaffarato quanto inconcludente, girava per la stanza con l’intento di renderla più presentabile, ma finendo solo per spostare roba da una parte all’altra, senza risoluzione.

Dopo qualche minuto non resistette oltre, aveva bisogno della sua attenzione:

“Touma” lo chiamò e il tono uscì talmente gentile che il ragazzo di Osaka si bloccò con un malloppo di libri tra le braccia e lo guardò con la bocca aperta.

Un panda” pensò Seiji, “sono queste le espressioni che lo rendono il nostro buffo panda”.

Accentuò il proprio sorriso, voleva fargli capire che andava tutto bene e che non era lì per stare a guardarlo mentre cercava, invano, di riordinare la propria caotica dimora.

“Dai, smettila” disse, “vieni a sederti vicino a me”.

Touma deglutì, la pila di libri oscillò pericolosamente. Seiji si alzò e, ponendosi davanti a lui, glieli prese dalle braccia prima che rovinassero a terra, quindi li posò sul tavolo, insieme a tanti, troppi altri. Le braccia di Touma rimasero sollevate, un po’ tremanti e, siccome non le riabbassava, Seiji chiuse i polsi tra le proprie dita e li spinse in basso.

I loro visi erano vicini adesso e Touma non abbandonava la sua espressione da panda, che avrebbe voluto sembrare sfrontata, ma finì per risultare solo incerta e timida.

“Qui posso farlo” disse Seiji con il suo tono più basso e profondo.

“Co… cosa?”.

“Darti la dimostrazione che volevi”.

“Ah… ah…”.

Il balbettio venne interrotto dalle labbra di Seiji.

Touma non aveva ancora imparato a lasciarsi del tutto andare dal punto di vista fisico con Seiji, l’unica persona al mondo che riuscisse ad intimidirlo a tal punto e neanche per Seiji era mai stata facile una fisicità che si spingesse ai livelli che il rapporto instauratosi tra loro richiedeva. Ma quando si erano separati stavano ancora imparando: si trattava solo di ricominciare quel percorso da dove era stato interrotto e Seiji desiderava davvero abbattere le barriere, perché le incertezze di tutto quel tempo in cui erano stati lontani non le poteva più sopportare.

Quando si staccò, ricercò lo sguardo sfuggente di Touma, in quel viso che aveva preso fuoco.

“Touma” lo chiamò e la voce uscì un po’ roca, si chiese se fosse a causa di quell’emozione che ancora faticava a spiegare.

“Sei… ji…”.

“Vuoi sapere perché sono venuto?”.

Touma deglutì ancora.

“Io… veramente… vorrei sapere tante cose”.

Seiji sospirò e si staccò totalmente da lui, facendo un passo indietro.

“In effetti… anche io…”.

“Però non vorrei che tu…”.

“Cosa?”.

“Che ce l’avessi con me”.

“Io credevo fossi tu a…”.

Seiji si bloccò. Quello che stava per dire avrebbe rischiato di ingranare un altro scambio di battute senza fine né risoluzione. Allora cambiò rotta:

“Andiamo a sederci e parliamo, ti va?”.

Senza attendere la risposta, Seiji si diresse verso il divano e solo dopo essersi seduto riportò la propria attenzione su Touma, che era rimasto fermo, il viso abbassato. Sembrava triste e il cuore di Seiji balzò in gola: già da tempo si era reso conto che scorgere su di lui quell’espressione gli creava un tormento che nessun’altra cosa era in grado di provocare in lui.

“Touma…”.

Il nakama non risollevò il capo, ma dalle sue labbra si levarono parole ancor più dolorose di quell’atteggiamento:

“Come faccio, adesso, a sopportare il momento in cui te ne andrai di nuovo?”.

Seiji sussultò, aprì le labbra, ma non riuscì subito a ribattere. Dovette prima riprendere fiato e controllo delle proprie emozioni. Solo allora cercò di pronunciare parole che risuonassero tranquille, confortanti:

“Vieni qui vicino a me, dai”.

A passi lenti e sguardo sempre basso, Touma obbedì e Seiji ebbe la visione struggente di un bambino che desiderava far contento un genitore severo… o troppo assente.

Portò una mano alla fronte: che gli stava accadendo?

Tutta quella tristezza, quel groppo in gola, gli occhi che bruciavano…

Touma lo raggiunse, ma rimase in piedi davanti a lui, guardando solo il pavimento. Seiji si morse le labbra, gli prese le mani e lo tirò verso di sé; il suo intento era quello di farlo sedere sul divano, ma Touma lo sorprese e si inginocchiò a terra, il viso all’altezza delle sue gambe.

Ci fu qualche istante di silenziosa sospensione, poi la testa di Touma si chinò in avanti e si posò sulle cosce di Seiji: le loro mani erano ancora intrecciate.

“Touma…”.

“Io… voglio che tu mi pensi, anche quando non ci sei”.

Seiji strinse un po’ le palpebre e le sue dita intorno alle mani di Touma furono scosse da un tremito. Il viso di Touma si mosse, strofinò la guancia sulle gambe del nakama.

“Adesso sei affettuoso… ma… perché non mi cerchi mai? Gli altri mi cercano, sento le loro voci, mi pensano… mentre tu…”.

Seiji sbatté le palpebre, a quel punto non resistette oltre.

“Senti chi parla però, scusa”.

La voce non uscì irosa, solo imbronciata e un po’ perplessa.

A quel punto la testa di Touma si sollevò di scatto e i loro occhi, dopo tanto tempo, tornarono ad incontrarsi:

“Io ti penso ogni decimo, centesimo, millesimo di secondo, baka! E non osare mettere in dubbio che tu sia la mia persecuzione!”.

Quell’ultima frase avrebbe dovuto prenderla in maniera positiva o negativa? Seiji era sempre più perplesso.

“E come fai a dare per scontato che per me non sia la stessa cosa?”.

“Perchè tu non mi cerchi!”.

“Ma nemmeno tu!”.

Seiji si maledì, perché stava di nuovo alzando la voce; ma anche Touma la alzava e quando se ne usciva con certe cose sapeva rendersi esasperante.

Touma si erse, pur restando in ginocchio, tanto da portare i loro visi quasi alla stessa altezza:

“Io ti cerco tutti i giorni, ma tu non ci sei mai!”.

“Sei tu quello che non c’è mai, io vado a scuola e nel dojo, per il resto sto a casa e alla sera non mi muovo!”.

“E allora perché non rispondi mai al telefono?”.

“Io…”.

Le parole di Seiji si arrestarono prima che dalla sua bocca uscisse qualcosa di infelice; ciò che Touma aveva detto lo mise sul chi vive. A detta di entrambi si pensavano e si cercavano… allora…

“Io non rispondo mai al telefono” mormorò pensieroso, “arriva sempre qualcuno prima di me”.

“Me ne sono accorto”.

“Come sarebbe te ne sei accorto?”.

A quel punto, Touma si mosse ancora e Seiji se lo ritrovò a cavalcioni sulle proprie gambe: adesso con la testa lo sovrastava e le punte dei loro nasi si toccavano con decisione. I pugni di Touma salirono al colletto della sua camicia; Seiji si ritrasse un poco, ma senza troppa convinzione.

“Perché non sei mai tu a rispondermi, baka!”.

Seiji scrollò un po’ il capo, in preda alla confusione: cosa significava quel discorso?

“Touma… tu…”.

“Io non riesco a parlare con loro!”. Il tono si era fatto di nuovo piagnucolante.

“A parlare con chi?”.

“Mi risponde sempre… Yayoi-Neesan!”.

Un tassello nella mente di Seiji si spostò e andò ad occupare un pezzo mancante del puzzle. Era vero che Yayoi-Neesan rispondeva sempre al telefono e quando non era lei era oka-san… loro due sembravano voler avere sempre il controllo della situazione, indagare su ogni piccolo dettaglio che accadeva in casa, niente doveva sfuggire alla loro supervisione e, in effetti, Seiji faticava sempre di più a tenerle all’oscuro di certi aspetti un po’ inquietanti della sua vita.

“Tu… chiami… e ti risponde lei?”.

Touma abbassò appena il capo, ma lo scrutò con l’espressione di un cucciolo bastonato:

“Tutti i giorni… o quasi… e quando non è lei e la tua oka-san…”.

Appunto.

“Ma… loro non mi hanno detto…”.

“Loro non lo sanno”.

“Cosa non sanno?”.

“Che chiamo”.

La conversazione stava tornando su binari surreali.

“Ma tu hai detto…”.

“Non sanno chi sono, non possono saperlo, non glielo dico”.

“E cosa dici?”.

“Niente!”.

Seiji corrugò la fronte.

“Come niente?”.

“Riattacco”.

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Seiji sbatté le palpebre, poi fece solo:

“Ah…”.

Le dita afferrarono il colletto di Seiji strattonandolo con forza e la fronte di un Touma dal viso di tutti i colori si incollò a quella del nakama:

“È più forte di me, non ce la faccio!”.

Seiji sollevò le mani a mezz’aria, esitò qualche secondo, poi cercò le guance di Touma e rincorse i suoi occhi:

“Fammi capire…. non riesci a chiedere ai miei familiari di passarti… Seiji?”.

Touma fece scivolare i palmi sul petto di Seiji, i suoi occhi erano lucidi:

“Non riesco neanche ad aprire bocca”.

“Ma perché?”.

“Non lo so, non me lo so spiegare!”.

Adesso sembrava davvero disperato e confuso. Stava dicendo la verità: non lo capiva proprio perché non riuscisse a parlare con altri che non fosse lui quando provava a chiamarlo. Eppure non gli era mai sembrato che avesse particolari difficoltà a parlare al telefono.

Il problema era forse che si trattava della sua famiglia? Era timido? Era troppo coinvolgente il legame che aveva con lui e temeva che…

“Forse… temo di scoprirmi troppo con loro…” riprese Touma più controllato. “È l’unica spiegazione che riesco a darmi”.

“Scoprirti?”.

La voce di Touma si abbassò fino a ridursi ad un soffio, mentre i suoi occhi fuggivano ovunque:

“Di far capire… quello che provo… e di metterti nei guai”.

Seiji sgranò gli occhi, per l’ennesima volta la voce gli morì nella gola, ma fu il corpo a rispondere: le sue braccia circondarono il corpo di Touma e lo attirarono contro il proprio, il viso contro la propria spalla, una mano affondata nei capelli. Il naso e le labbra entrarono a contatto con la pelle liscia del collo di Touma e Seiji credette di impazzire per l’amore e il desiderio che si impossessarono di lui.

“Scusami”, un sussurro roco, che si trasformò in sospiro spezzato sulle labbra.

“Scusami tu…”.

Touma cercò di ricambiare l’abbraccio, voleva aggrapparsi a lui, ma era esitante; adesso sapeva che Seiji non era più arrabbiato con lui, ma Seiji percepiva ancora tensione, dubbi e incertezze che lo bloccavano.

“Immagino tocchi a me, adesso” sussurrò il custode di Korin.

Touma si mosse, cercò di ricomporsi e tornò a guardarlo:

“Credo proprio di sì”.

Seiji si sentì stupido e persino superficiale: gli sembrarono futili le sue giustificazioni rispetto a quelle di Touma. Lui non aveva altre persone con cui confrontarsi, non doveva temere di mettere in crisi Touma con qualche membro troppo invadente della sua famiglia.

Era difficile spiegare, ancora più di quanto lo era stato per Touma, perché davvero Seiji, di spiegazioni che potessero apparire sensate, non ne aveva proprio.

Non sapeva da che parte cominciare e la posizione che Touma aveva assunto sopra di lui non aiutava la concentrazione.

“Touma… potresti…”.

“Cosa?” rispose l’altro sospettoso.

“Ti potresti… togliere dalle mie gambe?”.

“Perché?”.

Seiji sospirò: che razza di domande. Lui odiava essere esplicito, lo imbarazzava e quando lo si obbligava a farlo si sentiva a disagio.

“Perché… non è la posizione più adatta per parlare”.

“Io ho parlato”.

“Certo ma è… un po’ diverso”.

“Cosa ci sarebbe di diverso?”.

E va bene, non aveva scelta.

“Tocca a me parlare e… e tu sei sopra di me”.

Touma sbatté le palpebre, poi il suo viso sembrò illuminarsi di consapevolezza e, chiaramente, lottò tra la voglia di scoppiare a ridere e la vergogna che colorò il suo viso di un rosso ancora più acceso di prima.

“Ah”.

Con un piccolo colpo di tosse scivolò via dal corpo di Seiji e si accoccolò sul divano, strisciando persino troppo distante, dalla parte opposta.

“Non ti ho chiesto di andare in capo al mondo”.

“Be’, almeno parli senza problemi”.

Intanto si rannicchiò contro il bracciolo del divano, l’intero corpo girato verso Seiji, le ginocchia raccolte contro il petto. Seiji non osò dirgli che neanche quell’atteggiamento e quella posa erano tanto di aiuto; gli occhi viola del giovane Date si posarono sui piedi nudi del nakama e lottò contro il desiderio di sfiorarli con una carezza.

Sospirò ancora quando si rese conto che il dialogo era tornato a languire; sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma continuava a sentirsi in imbarazzo. Così decise di provare a prendere la questione da lontano:

“Allora… dimmi…”.

Touma inarcò le sopracciglia:

“Io?”.

“Intendo… chiedi…”.

Le sopracciglia si corrugarono:

“Chiedo?”.

“Quello che vuoi sapere”.

“Fammi capire, mi devi delle spiegazioni tu e devo parlare io?”.

“Sei tu quello che ha ancora dubbi su di me. Io su di te non ne ho più”.

“Proprio per questo dovresti parlare tu!”.

“Ma i dubbi sono i tuoi, quindi dimmi quali sono!”.

Touma scattò, fin troppo veloce per essere un panda e, da seduto, Seiji se lo trovò accanto in ginocchio, l’espressione di nuovo furiosa:

“Credevo avessi capito quali sono le mie paure!”.

Il dito di Seiji si posò sulla punta del naso di Touma e lo spinse indietro:

“paure che non devi avere, non su di me”.

Il naso di Touma reagì al tocco arricciandosi:

“E allora perché non mi cerchi? Perché mai un messaggio nella segreteria telefonica? Un messaggio nel quale tu mi dici: chiamami appena puoi!”.

“Touma… come tu speri che sia io a rispondere al telefono, anche io spero di trovarti in casa, qualche volta”.

“Ma tu devi solo lasciare un messaggio in segreteria, dirmi quando posso chiamarti e io…”.

“E tu riattaccheresti perché io non arrivo mai per primo al telefono a casa mia”.

Touma ricadde all’indietro, tornando seduto e riabbracciandosi le ginocchia.

“Ma almeno potresti lasciarmi un messaggio carino” borbottò, “farmi sapere che in quel momento stai pensando a me”.

“Adesso sono io a dirtelo; quel maledetto telefono io provo a sollevarlo tutti i giorni a svariate ore, compongo il tuo numero non so quante volte e dall’altra parte sempre, sempre quella maledetta segreteria!”.

“E allora?!” esclamò Touma, esasperato.

“E allora mi fa l’effetto che a te fanno i miei familiari!”.

“No, no, aspetta un attimo, che problemi potresti creare a me parlando con la mia segreteria? Io ho paura a parlare con i tuoi perché non voglio creare problemi a te!”.

“Nel senso che mi blocco, baka-panda, non importa quali siano i motivi, non lo so nemmeno io, non sono capace!”.

Il tono di Touma passò dall’adirato all’incuriosito:

“Non sei capace di…”.

“Parlare ad una segreteria telefonica, ebbene sì!”.

Gli occhi di Touma si aprirono e chiusero più volte, tra loro discese il silenzio che, dopo un po’, venne interrotto dall’innalzarsi della risata rumorosa di Touma. Seiji strinse le palpebre e lo fissò, gelido in apparenza, costernato interiormente.

“Ma ti rendo conto?” riprese Touma, senza riuscire a smettere del tutto di ridere.

“Che mi stai prendendo in giro? Mi rendo conto eccome”.

Touma scosse la testa tentando, senza troppo successo, di dominarsi:

“Sto prendendo in giro entrambi, siamo due idioti!”.

Finalmente le convulsioni date dall’attacco di ilarità cominciarono a diradarsi e Touma si strinse al nakama, attaccandosi a lui senza più remore:

“Io piuttosto che chiedere se sei in casa arrivo a pensare chissà che, tu trovi sempre solo la segreteria e piuttosto che lasciare un messaggio scappi di casa e vieni fino a Osaka perché credi…” si interruppe e il sorriso scomparve lasciando il posto ad un’espressione perplessa. “Che cosa credi? Cosa pensavi…”.

Seiji chiuse gli occhi e abbassò il capo per controllare il proprio nervosismo:

“Che tu avessi altro da fare e qualcuno di meglio da incontrare che perdere tempo a ricordarti di me”.

Era inutile fare ancora finta di nulla, tanto valeva che Touma sapesse fino a che punto era giunta la sua mente a causa sua.

Rimase ad occhi chiusi, ad aspettare la reazione; era convinto che Touma si sarebbe rimesso a ridere invece, per qualche istante, gli rispose solo il silenzio. Poi sentì due mani sulle guance, calde e gentili.

Lentamente aprì gli occhi ed incontrò quelli blu di Touma, che rendevano ancora più intensa un’espressione già seria e talmente dolce che Seiji non poté trattenere un brivido.

Baka”.

Anche la voce era dolce, morbida, così come le labbra che toccarono le sue. Il corpo di Touma fece una leggera pressione contro il suo, per invitarlo a sdraiarsi e lui non poté fare altro che assecondare quell’invito, perché era quello che il suo corpo, ma anche il suo spirito desideravano.

Si cercarono con ogni frammento di pelle e di cuore e, quando Seiji sentì di non poter resistere oltre, fermò i baci sempre più frenetici del nakama per guardarlo negli occhi.

Pronunciò a fatica qualche parola, rotta dal desiderio:

“Andiamo in camera tua”.

Touma deglutì, il viso in fiamme, gli occhi lucidi di commozione e lacrime trattenute e riuscì solo ad annuire.

 

***

 

Fu un raggio di sole a colpire il viso di Touma e a svegliarlo. Strano, di solito ci voleva ben altro, ma quella era stata una nottata particolare, speciale…

Anche stancante per certi versi, ma una stanchezza appagante e positiva.

Al giungere di ogni ricordo, di ogni dettaglio, di ogni carezza e ogni bacio, fu colto dal panico: aveva sognato e ora quel maledetto raggio di sole lo stava riportando alla sua piatta e triste realtà.

“Seiji”.

Il richiamo prese forma come una preghiera disperata e, dopo aver pronunciato il nome, solo in quel momento i suoi sensi cominciarono a focalizzare la propria attenzione su ciò che lo circondava, sulla percezione di una pelle nuda a contatto con la propria, il profumo di pulito e la morbidezza di una nuvola di capelli, il loro colore dorato che risplendette contro i suoi occhi più ancora del sole.

E anche il colore della pelle, così bianco che ogni muscolo, ogni lineamento, ogni piega, sembrava scolpito nel marmo dalla mano esperta di uno scultore rinascimentale.

Infine il rumore delicato del respiro, lento, un soffio leggero che gli solleticava il viso.

La sua guancia era appoggiata sul petto di Seiji, le labbra a pochi passi dai capezzoli, ed erano entrambi nudi, le loro gambe intrecciate. Mosse una mano, esitante; temeva ancora che bastasse troppo poco per far svanire il suo nakama, un piccolo movimento, un leggero mutamento rispetto a quella assoluta immobilità.

Poi si decise a sfiorare un capezzolo con il dito e venne colto dall’irrefrenabile desiderio di prenderlo tra le labbra. Quando lo fece Seiji si mosse, emettendo un piccolo lamento e Touma sentì la sua mano posarsi tra i propri capelli.

Quando sollevò lo sguardo, Seiji lo stava guardando e gli sorrideva. Touma fu scosso da un tremito, le membra colte da un dolce languore: si rendeva conto dell’intensità della propria bellezza quando sorrideva così, della luce che emanava con quell’espressione?

“Com’è che ti sei svegliato prima di me?”.

E quella voce che sapeva rendere calda quando la abbassava e con essa voleva accarezzare.

“Temevo scappassi via”.

La mano tra i suoi capelli si mosse, gentile, tra essi.

“Nessuno scapperà via”.

La mano di Touma, invece, prese ad accarezzare il petto del nakama, tracciando cerchi con l’indice sulla pelle che del marmo aveva anche la stessa liscia consistenza.

“Sei vero…”.

Era un’affermazione, non più una domanda. Finalmente i dubbi si erano trasformati in certezze.

Si sollevò, facendo leva con le mani sul cuscino, ai lati del viso di Seiji e i loro sorrisi si specchiarono l’uno in quello dell’altro. Un dito di Seiji si posò sulle sue labbra e le accarezzò, tracciando una linea, dal labbro superiore a quello inferiore, per giungere al mento.

“Siamo veri”.

Il sorriso scomparve dal viso di Touma:

“La tua famiglia si arrabbierà quando tornerai a Sendai?”.

Seiji, invece, continuò a sorridere:

“Probabile, Yayoi-Neesan e Oka-san mi daranno il tormento”.

“E come farai?”.

“Sopporterò, era molto più importante fare quello che ho fatto”.

Con un sospiro, Touma rotolò via dal corpo di Seiji, ma vi rimase avvinghiato con braccia e gambe.

“Tutto perché siamo due stupidi e non ci siamo fidati l’uno dell’altro”.

Girandosi su un fianco per poter continuare a guardarlo, Seiji si puntellò su un gomito e posò la guancia sulla mano:

“Non è stata questione di fiducia l’uno nell’altro, ma di insicurezza nostra, personale. Non riguardava il nostro rapporto”.

“E perché tutta questa insicurezza?”.

Seiji ridacchiò, quindi assunse un’espressione riflessiva:

“Forse perché dobbiamo ancora maturare, come persone e come…”. Si fermò, certe questioni lo imbarazzavano ancora, per questo proseguì solo dopo aver alzato gli occhi verso il soffitto, distogliendoli dal ragazzo di Osaka ed arrossendo. “... come coppia”.

Anche Touma arrossì e guardò altrove:

“Anche come nakama, allora…”.

“Pensi che…”.

“Che siamo piccoli, dopotutto” borbottò Touma.

Seiji ritrovò la propria ilarità e gli prese il naso tra due dita:

“Tu sei piccolo”.

Con un ringhietto, Touma si ritrasse e tentò di mordere le dita moleste, ma Seiji fu più veloce e le portò ad arruffargli i capelli, proprio come erano soliti fare gli adulti con i bambini.

“Seijiiii” piagnucolò Touma, affondando il viso nel cuscino, tra la spalla e il collo di Korin.

Tornò il silenzio e Seiji percepì che qualcosa era cambiato nell’attitudine di Touma, era troppo immobile e teneva il viso troppo nascosto e troppo a lungo. Gli passò la mano lungo la schiena, fino alla curva del fianco, facendolo rabbrividire e rabbrividendo lui stesso.

“Panda…”.

“Non te ne andare” giunse la voce soffocata dalla posizione che il ragazzo aveva assunto.

Seiji sospirò.

“Non vorrei…”.

“Lo so”.

L’ultima affermazione giunse incrinata e roca.

“Touma… non piangere”.

Il ragazzo si sollevò con una velocità eccessiva e si mise seduto, i piedi a terra, dando le spalle a Seiji, le spalle curve.

“Non piango”.

Con una mano si sfiorò una guancia e per Seiji fu fin troppo facile indovinare che si stava asciugando una lacrima.

A propria volta si sedette, si inginocchiò sulle coperte in disordine e lo abbracciò da dietro, attirandolo contro di sé, posandogli un bacio sulla nuca:

“Sarà tutto diverso d’ora in poi. La distanza fisica non sarà più distanza vera e propria, perché adesso sappiamo come fare”.

Touma scosse il capo:

“Io non sono spirituale come te, Seiji. Per me la distanza fisica…”.

“Abbiamo il legame e quello lo senti, come lo sento io… e abbiamo i telefoni e la voce. Imparerò a parlare alla segreteria e…”.

“E io mi farò trovare in casa… alla sera sarò sempre in casa, se mi chiami a quell’ora…”.

“Ti farò sapere sempre quando potrò chiamarti e quando tu potrai trovarmi in casa…”.

“E impara anche a rispondere tu al telefono”.

“Lo farò, ma tu non avere paura dei miei familiari, chiedi solo di me, non intuiranno nulla e non mi creerai problemi, te lo assicuro”.

Touma si abbandonò del tutto contro di lui ed entrambi si lasciarono cadere nuovamente sul letto.

“Quanto tempo abbiamo?”

“Lo sai, panda? Adesso non mi importa, restiamo ancora un po’ così”.

Touma annuì e tornarono a stringersi, mentre il dispettoso raggio di sole riscaldava i loro corpi accaldati e ogni attimo, per loro, si dilatava in una vita intera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > I cinque samurai / Vai alla pagina dell'autore: PerseoeAndromeda