Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Ricorda la storia  |       
Autore: Vavi_14    14/07/2018    3 recensioni
Bianco e nero.
È così che Taehyung ha sempre vissuto, in bilico tra l’annullarsi e l’assorbire il mondo intero dentro di sé.
[...]
«Se non dovessi riuscire a scendere la scale di quel cortile».
«Ci riuscirai».
«Lasciami parlare. Se io fossi davvero inadatto per uscire in questo mondo, tu cosa faresti?»
Jungkook lo guarda con le guance piene di pane morbido, smette per un attimo di masticare, poi riprende, manda giù il boccone e si pulisce la bocca con un tovagliolo, riponendo le mani in grembo e voltandosi al contempo in direzione dell’amico. Cerca il suo sguardo, che rifugge subito dopo averlo ottenuto. Un’alzata di spalle e un piccolo sorriso, la risposta arriva con la stessa irruenza di un treno in corsa.
«Vorrà dire che continuerò a portare il mondo da te, hyung».
[Mini -long] [Taehyung è liberamente ispirato al personaggio di Elisewin in Oceano Mare di Baricco]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
banner



La luce che filtra tra le foglie degli alberi

I

 
 





Bianco e nero.
È così che Taehyung ha sempre vissuto, in bilico tra l’annullarsi e l’assorbire il mondo intero dentro di sé. Aveva appena otto anni quando qualcuno ha deciso per lui come avrebbe dovuto vivere la sua vita, quando “la diagnosi” lo ha bollato come creatura fragile e bisognosa di protezione; aveva otto anni quando una camera spoglia è divenuta il suo mondo e quello fuori ha smesso di esistere, convertendosi in una pallida ombra della sua immaginazione.
Taehyung ha una finestra, nella stanza, che affaccia su un cortile erboso decorato da rose bianche che suo padre si è premurato di coltivare e far crescere per lui. Intravede la strada, al di là del giardino, ma è un viale pedonale poco frequentato. A Taehyung non piace la confusione: può parlare con una persona per volta, due o tre al massimo, sentire troppe voci manda il suo cervello in tilt e gli fa venir voglia di interrompere la conversazione, infilare le cuffie e ascoltare la sua musica preferita, quella suonata al pianoforte. Taehyung ama le composizioni classiche, meglio se scritte per singoli strumenti, ama l’arte, la pittura soprattutto, avrebbe le pareti della camera tappezzate di quadri di Van Gogh, se solo tutto quel vorticare di colori, dopo un po’, non gli facesse salire la nausea.
Il vento lo fa sentire vivo, il sole lo può percepire, flebile, scaldargli la pelle bianca attraverso i vetri della casa; la pioggia invece, quella la odia. Tic-tac, tic-tac, picchietta ovunque, preme su ogni oggetto che incontra per farsi sentire, imprime la sua presenza indesiderata annacquando ogni cosa e lascia, al mattino, un odore acre che dà alla testa. Quand’era piccolo, Taehyung si nascondeva sotto al letto, supino, aspettando che l’irruente presenza delle gocce divenisse appena percepibile, sovrastata dal battito impazzito del suo cuore.
Qualcuno, all’inizio, aveva parlato di fobia. Di Panofobia, ad essere precisi. Qualcuno invece l’aveva definito un giudizio estremista e si era limitato a identificare Taehyung come un bambino empatico, ipersensibile e molto timido, proponendo training e terapie specifiche per trattare il suo caso. Bagianate, aveva commentato la nonna paterna, ma i genitori di Taehyung non avrebbero mai escluso alcuna possibilità se in gioco c’era la salute del loro unico figlio, così avevano teso le loro mani, di nuovo, ottenendo come ricompensa solo un ennesimo fallimento.
A Taehyung non era mai importato molto di essere etichettato, anzi, trovava che nessuna di quelle definizioni si addicesse alla propria natura: lui si considerava semplicemente inadatto, forse addirittura incapace di vivere in quel mondo. Ma, dopotutto, pensava Taehyung, sarebbe stato egoistico pensare che la Terra fosse davvero l’unico pianeta nel quale scorreva la vita, perciò si consolava immaginando universi paralleli e mondi di fantasia nei quali, anche uno come lui, avrebbe potuto trovare il suo posto. La amiche della nonna, però, erano simpatiche, e a Taehyung non dispiaceva ascoltare le loro teorie sul fatto che lo considerassero un messaggero divino, giunto sulla Terra per redimere gli esseri umani e ammalatosi presto a causa della loro attitudine alla violenza e al peccato. La nonna le definiva delle vecchie pazze e, dal canto suo, premeva affinché Taehyung fosse reinserito gradualmente nella vita comunitaria, che cercasse di condurre un’esistenza simile agli altri bambini; ma ad ogni suo tentativo Taehyung stava male, i genitori la rimproveravano, ed ecco che lui tornava chiuso lì dentro, lontano da tutto e da tutti, in quella sottile bolla di vetro creata appositamente per proteggerlo.
 
Il sabato pomeriggio Taehyung lo passa a sfogliare pagine antiche di libri che, da anni ormai, i suoi genitori custodiscono nella biblioteca di famiglia. Sono storie di elfi, di creature immaginarie, favole con lieto fine, biografie di una vita, scritte a caratteri piccoli e dalle curve gentili. Le immagini, se ci sono, hanno colori pastello e suggeriscono un senso di beatitudine. Qualche pagina è stata strappata, Taehyung lo sa, perché non può sopportare figure troppo scure o dal tratto deciso, né tantomeno leggere di violenza, guerre e cattiverie, il suo cuore – gli dicono- non reggerebbe.
«Ehi, scusa!»
Una voce acuta, fastidiosa, gli solletica le orecchie mentre è seduto a gambe incrociate sul proprio letto, intento a sottolineare, per l’ennesima volta, quella citazione dell’ultima pagina che gli dà i brividi ad ogni nuova lettura. Una signora un po’ bassa, magrolina e con le lenti tondi calate sul naso, si alza svelta dalla propria sedia per chiudere la finestra e attutire quel suono che potrebbe disturbare l’equilibrio di Taehyung, ma il ragazzo la ferma con un gesto, perché vuole almeno provare a dare un’occhiata: si sporge un poco e vede la sagoma di un bambino mentre muove le braccia per aria in modo scomposto e continua ad urlargli qualcosa che, al momento, non riesce a capire. Socchiude gli occhi, lo studia; non capisce come mai uno come lui possa trovarsi nei dintorni di casa Kim.
«Lo ha mai visto da queste parti?» Si rivolge all’educatrice, indicando l’oggetto dei suoi dubbi, ma prima che la signora possa negare, stroncando ogni curiosità di Taehyung sul nascere, la nonna fa il suo ingresso in camera, guadagnandosi un’occhiata sbieca da parte dell’altra.
«Credo sia il nuovo vicino» borbotta, mostrando appena i denti un po’ ingialliti. «Si sono trasferiti qui la scorsa settimana».
«E che vuole da noi, nonna?»
«Ehi! Me la posso riprendere la palla, sì o no?!»
Adesso quel grido diviene improvvisamente chiaro e Taehyung sussulta, guardando sua nonna in cerca d’aiuto.
«Riprendersi la palla, suppongo» commenta lei sorniona, accompagnando l’affermazione con un’alzata di spalle. «Ci penso io» aggiunge poi, lanciando all’educatrice un’occhiata poco simpatica.
«Si assicuri che non venga più a disturbare Taehyung» le predica dietro quella, mentre la nonna le fa un cenno poco convinto con la mano.
Lui osserva la schiena gobba della nonna farsi strada tra i cespugli appuntiti di rose, recuperare la palla e lanciarla dall’altro lato del piccolo cancello nero. Riesce a percepire un «Grazie» un po’ incerto da parte del bambino che, prima di allontanarsi, solleva il naso all’insù per incrociare di nuovo lo sguardo vuoto di Taehyung e poi, in un batter d’occhio, fugge via.
 
A vederlo, Taehyung sembrava un bambino fuori dall’ordinario. Gli occhi, dal taglio allungato e un poco curvo verso l’alto, erano grandi e belli, ma al loro interno la pupilla nera sembrava spenta, impenetrabile, quasi incapace di riflettere la luce. La linea del naso e le narici, perfettamente simmetriche, continuavano un percorso di straordinaria delicatezza seguendo l’arco di cupido del labbro superiore, non troppo pieno, né esageratamente sottile, e confluivano nel profilo un poco deciso della mascella e del collo slanciato. Osservandoli, pure quei lineamenti così irreali, parevano quasi sul punto di sgretolarsi ad un solo battito di ciglia. La pelle invece, vittima del troppo tempo trascorso al chiuso, aveva perso il tono ambrato per divenire fragile e biancastra.Taehyung non poteva affermare con certezza di temere perfino il suo riflesso, eppure aveva domandato a sua madre di rimuovere tutti gli specchi presenti in casa, perché ogni volta che si era guardato in quel vetro diabolico, vi aveva scorto qualcuno in cui non si riconosceva.
 
La seconda volta che aveva visto il bambino con la palla, l’educatrice non c’era. Gli era parso quasi un déjà-vu, osservarlo sbracciarsi affinché qualcuno gliela rendesse, ma Taehyung sapeva di non poterlo fare, non da solo almeno. Sarebbe bastata una folata di vento troppo forte, un raggio di sole più intenso degli altri, e la sua cagionevole salute ne avrebbe certamente risentito. E poi, si domandava, come mai quel bambino era tanto temerario da giocare nei dintorni del suo cortile? Conosceva bene l’opinione che i suoi coetanei avevano di lui: lo chiamavano il bambino di cristallo e anche i più curiosi si avvicinavano raramente a casa Kim, perché scoraggiati dai propri genitori, alcuni dei quali dubitavano perfino dell’esistenza di Taehyung, tanto pareva irreale la situazione in cui viveva.
Eppure, quell’ingenuo bambino rimaneva lì, con il naso all’insù e lo sguardo rivolto alla zazzera castana di Taehyung, immobile di fronte alla finestra.
«Vattene».
A Taehyung è stato insegnato che le persone possono essere cattive, se lo desiderano, e che uno come lui non può permettersi di fronteggiare troppo dolore tutto insieme, o rischierebbe di finire in mille pezzi; perciò, quando non sa come reagire, Taehyung cerca di preservare se stesso, allontanando la possibile fonte di disagio.
«Potresti lanciarmi la palla da questa parte, per favore? Se mamma scopre che l’ho persa di nuovo si arrabbia».
Stando chiuso lì dentro, Taehyung ha quasi scordato come ci si relaziona con i propri simili: avendo a che fare solo con persone adulte, alla fine si rischia di diventare come loro troppo presto, quando ancora non si è pronti.
«Possiamo giocare insieme se ti va».
Stavolta, il bambino ha abbassato il tono di voce e ha fatto spallucce, quasi intimidito.
Giocare insieme?
Ogni richiesta sembra utopia per Taehyung, allora perché non chiama qualcuno e chiede di cacciar via una volta per tutte quel bambino? Già sente l’ansia salirgli in gola e annodarsi bloccando il respiro, già sente il peso di tutto ciò che vorrebbe fare ma non gli è concesso, l’assurdità di quella conversazione che sta tenendo senza nemmeno sapere il perché.
«Sono malato, non posso uscire».
Finalmente si decide a dare una risposta: la più semplice, quella che tutti sanno accettare.
Il bimbo aggrotta un poco le sopracciglia, ma Taehyung non può vederlo. Rimane fermo per un po’, adocchia la palla da dietro le sbarre e fa spallucce.
«Va bene allora, me la verrò a riprendere quando sarai guarito. Così potremo giocarci insieme!»
Si infila le mani in tasca e fa un cenno di saluto, come se all’improvviso non gli importasse più così tanto di quel giocattolo. Taehyung sente gli occhi pizzicare a ha una gran voglia di urlargli contro che quella palla non la riavrà mai più perché lui non può guarire; chiude le tende bianche con uno scatto e torna ad adagiarsi sul giaciglio morbido, convincendosi già che niente di nuovo abbia intaccato le sue monotone giornate o i suoi pacati pensieri. Invece, le notti seguenti, il sonno di Taehyung è talmente disturbato che i suoi genitori decidono di somministrargli alcune medicine per farlo calmare: si tratta di gocce prescrittegli dal medico di famiglia qualche mese addietro, prima che la signora e il signor Kim decidessero di iniziare e il lungo e, almeno per il momento, deludente percorso di terapia per Taehyung.
Lui non parla in quei giorni, ha la febbre alta e un po’ di tosse, ma conosce bene il motivo che ha scatenato quella crisi. Lo confessa solo alla nonna, mentre è intenta a sostituire le gocce calmanti con qualche strano infuso naturale che ha preparato lei stessa, e ottiene una mezza strizzata d’occhi assieme al sorriso sghembo, forse più malinconico del solito, che da sempre riserva al suo unico nipote.
«È un buon segno, no?» sussurra, sistemando i cuscini dietro la schiena del ragazzo, affinché possa adagiarvi la schiena e mettersi seduto.
«Ma che dici nonna, no che non lo è».
«Lo sai che è già tornato due volte, vero Taehyungie?»
A quelle parole, Taehyung deglutisce rumorosamente e inizia a sudare freddo. Dentro gli incubi che hanno movimentato le sue notte, Taehyung ci ha visto sempre lui, quel bambino un po’ sbadato dallo sguardo curioso e vivace, ogni volta con in mano quella palla salterina, ogni volta con quella stessa domanda “Vuoi giocare con me?”, alla quale Taehyung provava a rispondere, ma senza successo.
«E che gli hai detto?»
Sono anni che il suo corpo non reagisce in modo così irruento ad uno stimolo esterno, Taehyung se ne rende conto. Probabilmente è perché sono anni che ogni stimolo viene troncato sul nascere prima che lui possa recepirlo.
«Gli ho ridato la palla e gli ho chiesto di non farsi vedere mai più in giro».
Il tono della nonna è talmente serio che Taehyung sgrana le palpebre, stringendo istintivamente un lembo del lenzuolo tra le nocche pallide. Rimane in silenzio, aspettando cosa non lo sa nemmeno lui, finché non lo vede arrivare, quel sorriso sghembo e dispettoso che alla nonna piace tanto fare.
«Nonna, è la verità?»
«Tu cosa vorresti sentirti dire, Taehyungie?
» 
La nonna si alza facendo leva sulle ginocchia, lasciando poi un bacio fugace sul capo del nipote.
«Beh, io non… non dovrei vederlo mai più. Quel bambino».
«Questo è quello che dice il tuo corpo, Taehyung. Ma la tua mente, quella funziona ancora bene».
Lui socchiude gli occhi, scivolando di nuovo sotto le coperte, al riparo. «Che significa, nonna?»
«Significa che stai lottando per riuscire a interagire con quel bambino. La tua mente lo sta facendo, Taehyungie. E se continui a combattere, ce la farai».
 
Taehyung non era sceso in cortile per restituire il giocattolo al bambino, perché poi non era più stato necessario: lo aveva visto semplicemente tornare in quella zona, con un pallone nuovo di zecca e un sorriso storto  che gli tormentava le fossette sulle guance.
«Perché vai sempre in giro da solo? Non lo sai che è pericoloso?»
Taehyung interpreta quella sua iniziativa come uno scudo che la mente sta costruendo per cercare di aumentare le distanza tra lui e quel bambino. Intanto, però, si è affacciato alla finestra per sua volontà e gli ha rivolto la parola come conseguenza di una decisione che ha preso autonomamente.
Il bambino fa passare il pallone da un piede a un altro, ma lo perde subito e lo rincorre con uno sbuffo, per poi ricominciare da capo e ottenere ogni volta un palleggio in più.
«Qui è poco trafficato e poi sono vicino casa» si limita a rispondere, fingendosi indaffarato.
«Tu come ti chiami?»
Taehyung rimane spiazzato dalla scioltezza con cui quel ragazzino ha cambiato argomento senza preavviso. D’altronde diventa sempre molto nervoso quando gli si domandano cose personali. Ripensa alle parole della nonna, alle due settimane trascorse a letto e a quei pochi giorni in cui invece è stato in buona salute e, nonostante tutto, ha riportato alla mente l’immagine di quello stesso bambino che ora è in piedi davanti a lui, in carne ed ossa, pronto – forse - a creare un nuovo legame.
«Io sono Taehyung».
Tre semplici parole, le temeva come un salto nel vuoto, eppure ora gli sembrano più facili di un respiro.
Finalmente il bambino distoglie lo sguardo dal suo gioco e mostra a Taehyung una sola delle due fossette, assieme ad un timido sorriso. «Jungkook».
 
Ovviamente, nonostante i suoi otto anni, Jungkook aveva ben compreso che Taehyung non era mai stato un bambino come tutti gli altri e che di certo non era colpa dell’influenza se mai lo aveva visto mettere un solo piede fuori di casa. All’inizio si erano limitati a chiacchierare così, uno in basso e uno in alto: Jungkook non aveva amici in quella nuova città, era un bambino timido al quale non dispiaceva troppo giocare da solo; Taehyung sembrava, almeno per il momento, un perfetto compagno con cui trascorrere qualche ora il pomeriggio. Un po’ strano forse, a volte troppo distante, ma mai troppo invadente o chiacchierone: in qualche modo le loro giornate passavano, Taehyung raccontava a Jungkook le favole che tanto lo affascinavano nei momenti di lettura, Jungkook si lamentava della maestra di matematica che gli faceva sempre un sacco di brutti segni sul quaderno, al ché il più grande dei due tentava di fargli fare qualche calcolo a mente, ma Jungkook si ribellava sempre, piagnucolando che sarebbe tornato a casa se solo avesse sentito parlare ancora di numeri. In quelle rare occasioni, Jungkook aveva potuto scorgere, seppur appena accennato, un sorriso dolce incurvare anche le labbra apparentemente congelate di Taehyung. Non lo aveva mai visto da vicino, ma il suo volto gli era da subito sembrato diverso, quasi dipinto su tela, e a volte aveva distorto lo sguardo, intimidito da quei lineamenti tanto belli quanto straordinariamente austeri per un bambino di appena dieci anni.
«Dovresti sorridere più spesso, hyung» si era lasciato sfuggire una volta, rivolgendo subito dopo tutte le sue attenzioni alle proprie scarpe nuove, onde evitare di sembrare visibilmente imbarazzato.
Taehyung allora, forse per la prima volta, si era reso conto dell’estrema leggerezza in cui era sospeso il suo cuore in quell’esatto momento e dell’emozione genuina che si provava nel sentire le proprie labbra tirate in un sorriso e quelle della persona davanti a sé impegnate a fare lo stesso.
«Vuoi dire che lo faccio poco, Jungkookie?»
«Voglio dire che a volte mi spaventi, hyung. Senza offesa».
Un altro sorriso da parte di Taehyung, questa volta più aperto. Jungkook era riuscito a scorgere dei denti bianchi e perfettamente allineati: in quel momento ogni cosa si era  fermata e d’improvviso si era reso conto che – assurdamente – la chiave di tutto sarebbe potuta stare proprio lì, in quell’insolito sorriso rettangolare che scopriva la dentature e rendeva quel volto cristallizzato un volto umano, espressivo, vivo. E allora Jungkook, ancor prima di sapere il perché Taehyung era rinchiuso lì dentro, prima di voler sentire il vero motivo, aveva deciso che da quel giorno in poi avrebbe fatto di tutto per vedere la gioia dipinta sulle labbra di quello che, ormai, considerava già un vero amico.
 
Più gli incontri con Jungkook divenivano frequenti, più Taehyung era stato costretto ad inventarsi scuse con i genitori affinché non si preoccupassero troppo per lui e, nel peggiore dei casi, gli vietassero di continuare a incontrarlo, seppur dall’alto della propria camera. Nessun bambino aveva mai accettato veramente la dura esistenza di Taehyung, nessuno era mai stato in grado di conviverci senza rischiare d’impazzire. Taehyung poteva stare bene mesi interi, ma ad ogni stimolo incerto la crisi poteva essere dietro l’angolo, leggera o irruenta, breve o dannatamente lunga.
«Quindi hai paura di tutto?»
Jungkook ha sentito le spiegazioni di Taehyung almeno una ventina di volte, da quando si conoscono. «Ma di me non hai paura, giusto? Allora perché non posso salire a casa tua?»
«Non so cosa potrebbe succedere, Jungkook. Non sono a mio agio con persone estranee in casa».
«Ma io non sono un estraneo! Io sono tuo amico, hyung!»
Taehyung abbassa il capo, ecco che ritorna il groppo allo stomaco. Ecco che torna l’ansia, la paura, l’inadeguatezza. «Non… non so cosa ne pensano i miei genitori Jungkook, davvero, cerca di-».
«Ma perché non ci provi, almeno? Sei stato bene ultimamente, lo hai detto tu che da quando ci conosciamo hai avuto meno periodi negativi».
«Mi dispiace, non è così semplice… mi dispiace».
I muscoli delle braccia si muovono da soli, afferrano la maniglia della finestra e la richiudono soffocando i lamenti di Jungkook. Taehyung sente gli occhi pizzicare e si permette di indugiare ancora un po’ sul suo amico, lo sente borbottare, ode perfino qualche parola poco elegante che fino a pochi mesi prima non c’era nel vocabolario di Jungkook, ma in quel momento non può far altro che proteggere se stesso da quel legame che, come temeva, stava diventando più grande di lui.
«Lo stai facendo nuovo, Taehyungie».
«Nonna!»
Quasi gli prende un colpo, nel vederla seduta sul bordo del letto, occupata a cucire chissà qualche prezioso ornamento per casa Kim.
«Mi hai spaventato… perché stavi-»
«Capisco vhe non è facile».
«Non ce la farò mai, nonna. Appena mi ha detto che voleva salire a casa, ho temuto di collassare. Non posso farlo».
«Perché è qualcosa che sta intaccando il tuo equilibrio. È vero che col tempo la situazione è peggiorata. Le fobie sono aumentate, gli attacchi sono divenuti più frequenti, però lui ha ragione, Taehyungie. Non hai ancora una fobia di nome Jungkook, dico bene?»
Taehyung guarda la nonna, a bocca aperta. Quello che sta dicendo è assurdo, ma in fondo ha ragione. «Mamma e papà non saranno d’accordo».
«Ovviamente no» concorda la nonna, squadrandolo da sopra gli occhiali a mezzaluna. «Ma non occorre che lo sappiano adesso, giusto? Puoi sempre provare e vedere come va».
«Nonna io non voglio “provare”… questa cosa è più grande di me, devo smetterla adesso. Non voglio ferire nessuno».
«Hai ragione, non devi provare. Devi riuscirci. Questa è l’occasione che stavamo aspettando. Lo sappiamo entrambi che quelle terapie a cui ti sottopongono non servono a un fico secco, non è così che guarirai. Questa è la tua occasione, Taehyungie. L’unica che hai».

L’entrata di Jungkook in casa Kim non era avvenuta esattamente secondo i piani. Jungkook era stato paziente: dopo il primo rifiuto di Taehyung avevano fatto pace ed era trascorso un altro mese, al termine del quale, però, Jungkook aveva deciso di agire di testa propria e - a postumi – Taehyung si era convinto che sotto ci fosse anche lo zampino di sua nonna.
Quando aveva sentito suonare il campanello, alle quattro del pomeriggio, Taehyung era entrato subito in allerta, conscio che a quell’ora non era prevista alcuna visita straordinaria in casa sua. Davanti alla porta, un po’ rannicchiato su sé stesso – quasi intimidito, aveva trovato un bambino più basso di lui, con indosso una maglia nera di qualche taglia più grande e dei jeans strappati sul ginocchio, dove una ferita di bicicletta ancora mostrava fiera una cicatrice in regalo. In quel preciso istante, il petto di Taehyung si era fermato e l’aria aveva momentaneamente smesso di circolare all’interno dei polmoni; ci era voluto un secondo prima che la nonna spuntasse dal nulla, sussurrando un “Oh Santo cielo!” e tirasse il piccolo Jungkook per un braccio, costringendolo a seguirla per tutto il lungo corridoio che confluiva nell’enorme sala da bagno. Anch’essa bianca.
«E-ehi» lo aveva sentito protestare Taehyung, dallo stipite dietro il quale si era prontamente nascosto una volta scampata la crisi respiratoria. «Dove mi porta? Chi è lei? Io sono venuto per-»
«Vedere Taehyungie?» aveva finito per lui la nonna, ignorando qualche altra lamentela proveniente dalle labbra del bambino. «È già un miracolo che ti abbia fatto entrare, marmocchio. Se pensi di incontrare mio nipote così sudicio, allora puoi anche andartene».
«C-cosa?»
Jungkook si stava innervosendo. Sapeva che incontrare il suo amico non sarebbe stato facile, ma non immaginava che addirittura avrebbe dovuto fare una doccia prima di poterlo vedere. «Ma io non ho vestiti di ricambio».
«Troverai degli abiti di Taehyung sul bordo della vasca» aveva concluso la nonna, lasciandolo andare solo sulla soglia della stanza. «Muoviti ad uscire, Taehyungie è paziente ma non avrete molto tempo». Il tutto aveva avuto il suo lieto fine con una sonora porta sbattuta ed un Jungkook sull’orlo di una crisi di pianto.
Venti minuti dopo, del più piccolo non c’era traccia. Taehyung non si era mosso, ma aveva rimproverato la nonna per esser stata così poco cordiale con Jungkook, senza nemmeno avergli spiegato il perché di tutta quella sceneggiata. Solo dopo il venticinquesimo minuto scoccato sull’orologio, il più grande si fa coraggio e va a bussare alla porta del bagno.
«Jungkook? Tutto… tutto bene?»
«No».
La voce che sente dall’altra parte dello stipite sembra instabile e incrinata dai singhiozzi. Taehyung vorrebbe solo non essere lì, in quel momento, ma nei giacigli del proprio letto per poter sprofondare tra le lenzuola senza mai più riemergere.
«Mi dispiace, io… avrei dovuto dirtelo».
«Cos’è, una presa in giro?» Stavolta si rivolge a lui con impeto, facendolo sussultare.
«Ho… bisogno di pulizia. La casa, gli oggetti, i vestiti, tutto qui dentro deve essere sterilizzato prima di entrare in contatto con me. Mi dispiace , lo so che-».
«E c’era bisogno di trattarmi così? Se solo me l’avessi detto, io-».
«Mi dispiace, mi dispiace, non arrabbiarti».
Taehyung si era portato le mani alle orecchie, attutendo con le palpebre chiuse l’inizio di quello che, forse, sarebbe potuto divenire un litigio. La voce alta gli faceva venire il mal di testa e vedere le persone discutere tra di loro riusciva a trasmettergli un senso di inquietudine e inadeguatezza che in alcun modo sapeva gestire. Si sentiva inutile, non capiva il perché di molte cattiverie e laddove percepiva un litigio, subito si difendeva per evitarne l’inizio, o cercava in ogni modo di far passare la colpa su sé stesso, anche quando non ne aveva alcuna.
Sente un sospiro lieve. «D’accordo. Ma questi vestiti sono ridicoli. Io non esco».
Lentamente Taehyung libera il proprio udito, appena in tempo per sentire la chiave girare nella serratura. Non udendo il classico cigolio della porta che si apre si fa egli stesso coraggio e, tirando giù la maniglia, rivela gradualmente un Jungkook completamente avvolto da una soffice camicia in lino puro, il cui tessuto scivola qua e là sulla pelle rosea del ragazzino, rivelando di tanto in tanto una spalla minuta che fuoriesce dal largo scollo a V. I pantaloni, di seta nera, contornano il tutto facendolo assomigliare molto ad un piguino capitato del posto sbagliato al momento sbagliato.
«P-perdonami» biascica Taehyung, coprendosi le labbra con una mano. «Dovevo chiedere alla nonna di prenderti qualcosa di più adat-»
«Tu stai ridendo» sentenzia Jungkook, incrociando le braccia e facendo svolazzare i polsini troppo lunghi.
«No, io-».
«Stai ridendo di me, hyung».
Sebbene ancora piuttosto su di giri per il modo in cui è stato trattato, Jungkook preferisce di gran lunga sentire quel suono leggero e così simile al riso provenire dalle corde vocali di Taehyung, piuttosto che vederlo rannicchiato dietro una colonna o all’interno della sua stanza, lontano dal cortile dove i balzi casuali della sua palla, all’improvviso, erano divenuti molto più che delle semplici coincidenze.
«Sei buffo» aveva finalmente accordato il più grande, beccandosi un’occhiata pessima di Jungkook, il quale si decide però a mostrare un mezzo sorriso sghembo prima di mettere un solo piede fuori la soglia del bagno. «Se mi prometti che non ci vedrà nessuno, allora va bene».
Taehyung si sposta per fargli strada, sbrigandosi ad annuire. «C’è solo la nonna, ma starà al piano di sopra. Noi possiamo stare qui».
Ancora un po’ titubante, col naso puntato all’insù verso soffitti ampi quasi quanto l’atrio del suo palazzo, Jungkook segue il più grande per il corridoio che li condurrà nuovamente al salone d’ingresso. «Allora, a cosa vogliamo giocare?»
«Giocare?»
Il più grande conosce l’etimologia della parola, e se volesse potrebbe anche recitare la definizione del vocabolario a memoria, ma in quanto ad esperienze, Taehyung non ha mai – davvero – sperimentato cosa voglia dire giocare in vita sua. Può raccontare le volte in cui ha dormito, in cui ha letto, studiato, o suonato il piano, ma quelle in cui ha giocato, purtroppo, nemmeno se le ricorda.
«Già, giocare» ripete Jungkook, senza fare troppo caso alla risposta dubbiosa dell’altro. «Qui sarebbe perfetto per nascondino. Conti tu o conto io?»
Il fruscio leggero dei piedi scalzi sulla moquette cessa e Taehyug osserva le iridi vive dell’amico con aria assente. «Cosa dovremmo contare?»
«Non hai mai giocato a nascondino?!»
«Cre… credo di no».
Lo sbuffo un po’ esasperato di Jungkook si perde nel suo riverbero tra le pareti ampie che li circondano. I colori tenui delle tinte ai muri danno agli interni un’illuminazione quasi fiabesca. O almeno, questo è ciò che Taehyung ha sempre pensato della sua casa. Per quanto riguarda Jungkook, beh, deve ammettere che il bianco gli suggerisce molto quell’aria asettica dell’ospedale dove è stato suo papà qualche mese prima.
«D’accordo allora, facciamo una prova. Io conto fino a venti senza guardare e tu ti vai a nascondere. Non ti devi far trovare, ma una volta scelto un nascondiglio, non puoi più muoverti da lì».
«E quando finisce questo gioco?»
«Quando ti trovo. Oppure se mi arrendo».
«Ma io sono avvantaggiato, non conosci casa mia».
Jungkook gonfia il petto, fingendo che quello non fosse affatto un problema. «Sono parecchio bravo a cercare, cominciamo».
Quando il più piccolo poggia la testa sugli avambracci e questi ultimi allo stipite, Taehyung sente i numeri scorrere velocemente e pensa che in fondo non sarà facile trovare un nascondiglio in così poco tempo. Si sente impacciato ed emozionato, non ha mai passato tanto tempo al piano inferiore dell’appartamento e quella è la prima volta che sperimenta un simile passatempo, per di più in compagnia di un altro bambino. Sceglie di rintanarsi dietro al pianoforte a coda del salotto, a pochi metri di distanza dalla tana; si accovaccia sentendo il cuore battere all’impazzata – ma non è un’agitazione negativa, anzi, Taehyung non si sentiva così felice da diverso tempo ormai.
«Sto arrivando!» trilla la voce di Jungkook, e l’altro fa quasi per rispondergli, prima di coprirsi la bocca con una mano e sghignazzare tra sé e sé di quella che si sarebbe potuta rivelare una svista decisiva. Da sotto lo sgabello, Taehyung scorge il più piccolo girovagare negli enormi atri delle stanze, guardare dietro i mobili e sotto il letto, ispezionare ogni stipite con estrema cura, lanciando ogni tanto occhiate veloci al luogo in cui ha appena contato fino a venti, proprio davanti la porta d’ingresso. Taehyung non capisce il perché di quel gesto, magari c’è una regola che Jungkook si è scordato di dirgli, ma rimane immobile al suo posto, quasi smette di respirare pur di non farsi trovare dal più piccolo. Trascorrono cinque minuti e Jungkook sta ancora vagando senza una meta ben precisa, Taehyung sussulta quando lo sente sbuffare – forse è passato troppo tempo, potrebbe essersi infastidito ed è ora che il più grande riveli la sua posizione – sta giusto per sporgersi al di là della coda quando si trova il naso di Jungkook a pochi centimetri dal volto, assieme a un’espressione soddisfatta che rivela una dentatura un po’ sporgente e due fossette ai lati delle guance.
«Trovato» dichiara con nonchalance, mentre l’altro cade all’indietro per la sorpresa, facendo precipitare a terra anche Jungkook a causa delle troppe risate. «Mi fai morire, hyung» gli rivela tra i sussulti, e il corpo di Taehyung congela per qualche istante, perché non è abituato a ricevere tutto quel buonumore in una sola volta. Osserva il petto di Jungkook fare su e giù, le dita dalle unghie corte e un po’ mangiucchiate poggiate sul ventre per limitarne gli spasmi e quelle rughe d’espressione appena accennate ai lati degli occhi, chiusi – quasi strizzati – ad accompagnare una delle espressioni più belle che Taehyung abbia mai visto. Senza nemmeno rendersene conto, sente un suono provenire dalla propria gola, poi un leggero sussulto delle spalle, e in un attimo si ritrova anche lui a ridere come Jungkook, il perché al momento nemmeno se lo ricorda, ma è così bello provare a lasciarsi andare senza aver paura che accada necessariamente qualcosa di brutto da un momento all’altro.
«E comunque non vale» soffia fuori il più piccolo, crollando con la testa sul pavimento e la braccia aperte, con i palmi verso l’alto. «Mi sono dimenticato di dirti che potevi fare tana».
 
Quella non fu l’ultima volta che Taehyung e Jungkook giocarono a nascondino. Con il compromesso di vestiti un po’ più comodi e adatti a lui, Jungkook tornò spesso a casa Kim, quando i genitori del più grande erano fuori per lavoro e Taehyung non doveva prendere lezioni dall’educatrice. La nonna aveva intravisto finalmente qualcosa, una chiave speciale che da sola sarebbe riuscita a sbloccare l’impossibile serratura del cuore di Taehyung. Il ragazzo mangiava con più appetito, dormiva più a lungo ed era meno cagionevole di salute: a volte capitava che si sentisse stanco, perché Jungkook – a differenza sua – aveva energie da vendere, e doveva rimanere a letto due giorni prima di poter rivedere l’amico, ma Taehyung lo considerava un prezzo esiguo da pagare visto ciò che poteva avere in cambio.
Certo, Taehyung non era così ingenuo da poter pensare che sarebbe riuscito a nascondere quegli incontri ai suoi genitori per sempre. D’altronde, quando anche loro avrebbero realizzato l’influenza positiva che vedere Jungkook aveva sulla sua patologia, sicuramente non avrebbero opposto resistenza, o almeno questo era ciò che a Taehyung piaceva pensare. In verità, la nonna si era proposta di parlarne a mamma e papà Kim appena ce ne sarebbe stata l’occasione, ma Taehyung non si sentiva ancora pronto, voleva prima imparare a percepire ogni singolo cambiamento nel proprio corpo, iniziare a gestire le emozioni e fortificarsi, in modo da non dare ai suoi genitori alcun motivo per impedirgli di frequentare Jungkook. In caso contrario, sarebbe stato un colpo troppo duro da reggere, per lui.
Con il passare dei mesi, il più piccolo aveva cominciato a portare degli oggetti, una volta erano delle carte da gioco, altre un album delle figurine, poi era arrivato con una consolle elettronica ma la nonna gli aveva impedito di usarla con Taehyung – indipendentemente da tutto, pensava fosse meglio che il più grande restasse fuori dall’universo dei videogiochi, probabilmente troppo estremo per lui. Taehyung aveva iniziato a conoscere una piccola fetta del mondo dal quale era sempre stato tagliato fuori e, tutto sommato, non gli era sembrato poi così male come gli era sempre stato descritto. Sapeva accettare le regole dei giochi, gli piaceva attaccare adesivi, anche se non ne capiva a fondo l’utilità, inoltre Jungkook pareva avere un talento innato per il disegno, per cui non erano rare le volte in cui si sedevano al tavolo e facevano a gara a chi disegnava meglio una rosa, o un suppellettile della casa. Taehyung amava conservare quei disegni in una cartellina: anche se il tratto di Jungkook era più deciso del suo, le immagini non lo disturbavano, anzi, aveva cominciato ad abituarvisi e a pensare che un giorno – forse - avrebbe potuto accogliere in casa anche quei vorticosi quadri colorati di Van Gogh che gli piacevano tanto. Teneva il materiale gelosamente custodito sotto il letto, a riparo da occhi indiscreti e da mani che avrebbero potuto strappare il frutto di tanto lavoro.
 
«Hyung, non puoi vivere per anni recluso in casa».
Jungkook, da quando lo aveva conosciuto, era sempre stato un ragazzo timido e introverso, ma la crescita lo aveva reso più caparbio e spesso non si faceva problemi a dire le cose come stavano.
Sono entrambi seduti al tavolo della cucina, mentre mangiano uno spuntino che la nonna ha appena preparato per entrambi.
«Quando è stata l’ultima crisi che hai avuto?»
Taehyung addenta il suo tramezzino con formaggio, guardando nel vuoto. «Tre mesi fa, perché ti eri scordato la tua borsa di Taekwondo in camera mia» lo rimbecca, cercando di rimuovere dalla memoria l’improvviso attacco d’asma che tutto quel sudiciume gli aveva provocato. In verità non si percepisce rimprovero nella sua voce, perché quando c’era di mezzo Jungkook, affrontare i momenti difficili non sembrava più un grande problema.
«Avanti, non sto dicendo di andare al parco, semplicemente usciamo un po’ nel tuo cortile».
«Non forzarmi».
«Non voglio farlo, è solo che-».
Taehyung ha cominciato a irrigidirsi e Jungkook si lascia sfuggire un sospiro. Poggia il tramezzino del piatto – nel suo ci sono anche prosciutto e maionese – e si volta a guardare l’amico, più deciso che mai a fargli comprendere il suo punto di vista.
«Ho portato qui tutto ciò che potevo, l’ho fatto apposta per avvicinare te a ciò che c’è lì fuori. Non è questo che hai sempre voluto? Iniziare a vivere come gli altri?»
«Io non potrò mai vivere come gli altri Jungkook, mettitelo in testa».
«Sì, invece!» replica l’altro alzando un po’ il tono di voce, ma lo ridimensiona subito quando scorge le sopracciglia di Taehyung crucciarsi per il suono troppo forte. «Ti ci vuole solo più tempo, ecco tutto» dichiara quasi sussurrando, più deciso che mai ad avere ragione.
All’inizio il più grande è quasi divertito da tutta quella ostinazione, eppure al contempo lo intristisce, perché sente di star privando Jungkook di qualcosa che per lui è naturale fare, e chissà che un giorno non glielo rinfacci abbandonandolo al suo destino: in fondo chi mai vorrebbe essere amico di una persona che non può uscire di casa?
«Hyung
Si sente chiamare dalla voce di Jungkook quando già ha portato entrambe le mani alle tempie, stroncato da quei pensieri distruttivi, la testa in fiamme per aver anche solo pensato ciò da cui i suoi genitori hanno sempre cercato di allontanarlo: la sofferenza.
«Hyung, rispondi! Che succede?»
Jungkook è inerme davanti alle crisi di Taehyung, spesso non ne capisce la causa e cercare di arginarle senza farsi prendere dal panico a sua volta è un’impresa titanica. Il più grande però lo sorprende e solleva il capo riemergendo dagli avambracci; ha un’espressione tremendamente sconfitta in volto, come se avesse appena combattuto contro qualcosa che sa avere la meglio su di lui quasi sempre.
«N-niente Jungkookie, ora sto bene» lo tranquillizza, massaggiandosi le tempie. «Dimmi solo una cosa». Non sa nemmeno lui dove ha trovato la forza per formulare quella domanda nella sua testa, ma prima o poi avrebbe dovuto saperlo o il dubbio lo avrebbe divorato lentamente sino a distruggerlo.
«Se non dovessi riuscire a scendere la scale di quel cortile».
«Ci riuscirai».
«Lasciami parlare. Se io fossi davvero inadatto per uscire in questo mondo, tu cosa faresti?»
Jungkook lo guarda con le guance piene di pane morbido, smette per un attimo di masticare, poi riprende, manda giù il boccone e si pulisce la bocca con un tovagliolo, riponendo le mani in grembo e voltandosi al contempo in direzione dell’amico. Cerca il suo sguardo, che rifugge subito dopo averlo ottenuto. Un’alzata di spalle e un piccolo sorriso, la risposta arriva con la stessa irruenza di un treno in corsa.
«Vorrà dire che continuerò a portare il mondo da te, hyung».
 
«Per quanto pensi possa durare questa situazione, Hyunae? »
L’anziana signora reagisce alla domanda della donna continuando a sbucciare una mela per Taehyung, premurandosi di togliere la buccia e odorando le proprie dita per accertarsi che non vi sia rimasto l’odore del mandarino che ha mangiato poco prima. L’ultima volta che le labbra del ragazzo erano venute a contatto con un agrume si erano gonfiate a tal punto da impedirgli di articolare correttamente le parole.
«Davvero credi che io e mio marito continueremo a far finta di niente in eterno?»
«A dire il vero, mi stavo chiedendo quando vi sareste decisi ad affrontare la questione con Taehyungie».
L’ultimo spicchio di mela è in cima alla piccola ciotola, quando la nonna si alza e raggiunge il lavabo per sciacquarsi le mani. Nel frattempo, sul gas sta bollendo un tegame di latte caldo.
«Affrontare?» ripete la donna, abbastanza infastidita dall’apparente indifferenza dell’altra. «Siamo stati fin troppo pazienti. Lo abbiamo fatto per lui, perché questa situazione sembrava farlo stare bene».
«Esatto» prorompe la nonna, controllando la temperatura della bevanda. «Lui sta bene».
«Ma quanto durerà?»
«Chi può saperlo. Ha davvero importanza?»
Il volto stanco della mamma di Taehyung mostra un fascino sciupato, di una donna che un tempo poteva vantare un’indicibile bellezza, ora tradita e quasi distrutta dalla sofferenza. Ma nel taglio a mandorla degli occhi, così grandi e simili a Taehyung, c’è forse ancora un barlume di speranza, qualcosa alla quale aggrapparsi disperatamente per far sì che la buia realtà non la inghiotta estinguendo anche il più piccolo raggio di luce.
«A Taehyung serve un’ancora sicura, non un attracco temporaneo».
«Jeon Jungkook è un’ancora sicura».
«Come fai a dirlo, non lo conosci nemmeno».
«Oh no, sei tu a non conoscerlo, Areum. Quel ragazzo ha da offrire molto più di quanto tu creda».
«Quel ragazzo è solo… un ragazzo. Non sa a cosa sta andando incontro».
«Sa che vuole essere amico di Taehyungie. Non basta questo?»
«Cosa succederà se un giorno litigheranno? Le amicizie non durano per sempre».
«Lo affronterà come sarà in grado di fare».
Il tono di voce della donna si fa improvvisamente più alto. «Lui non può affrontarlo» pronuncia con decisione, tentando invano di coprire un timbro vacillante.
«Ah sì? E cosa succederà quando io morirò?»
«Hyunae!»
«Dimmelo, avanti!»
«Perché dobbiamo parlarne adesso?».
«Perché non potrai proteggerlo per sempre, Areum! La vita è piena di sofferenza e la bolla di vetro che avete creato per lui prima o poi andrà in mille pezzi, che voi lo vogliate o no!»
«N-non lascerò che si sgretoli…»
«Anche io ho paura».
Una lacrima solitaria e veloce nel suo andare riga la guancia della donna, che per un istante lungo un eternità incrocia lo sguardo dell’altra, ugualmente preoccupato ma incredibilmente fermo e deciso.
«Ho paura per lui. Ma non dobbiamo lasciare che i nostri timori gli impediscano di vivere, Areum».
«Non posso guardarlo vivere così».
Areum si appropria della merenda che Hyunae ha preparato per Taehyung e, senza aggiungere altro, esce dalla cucina e prende le scale che portano in camera del ragazzo. La nonna la guarda salire e sospira, consapevole che, forse, nessuna buona parola verrà presa in considerazione da quei genitori così preoccupati per il proprio figlio da non voler vedere il reale stato delle cose. D’altronde sarebbe egoistico, da parte sua, considerarla una battaglia persa in partenza: avrebbe continuato a riporre la sua fiducia nelle potenzialità di Taehyung, nella sincerità di Jungkook e nella genuinità di un legame che, forse, sarebbe stata l’unica vera cura ad un male così intangibile.
 
 «Cantala ancora».
Le dita affusolate di Taehyung sembrano fatte apposta per comporre melodie. Le muove sui tasti ad occhi chiusi, quasi come se stesse dialogando in segreto con il piano, come se quei suoni fossero il risultato di un’intima intesa che solo lui può davvero comprendere. Jungkook ne è ipnotizzato, spesso si incanta a guardarlo suonare senza nemmeno apprezzare davvero la composizione, semplicemente gli piace seguire quei movimenti spediti e attenti, delicati e sinuosi, quando suona Taehyung sembra un’altra persona – non  è più il ragazzo fragile che si spezza con un soffio – è una fonte inestinguibile di energia, talento e, soprattutto, passione. L’amore che infonde in ogni suono generato dalle corde percosse dal martelletto è un fremito che si diffonde nel corpo e vi lascia un segno indelebile, un moto potente e irrefrenabile tanto da far tremare la pelle e lacrimare gli occhi. Una volta, Taehyung aveva suonato una composizione melodica, di quelle che si sentono anche in radio, e Jungkook, senza pensarci, aveva iniziato a canticchiare il testo; il più grande lo aveva seguito tentando di star dietro a parole che non aveva memorizzato, ma alla fine ne era uscito un bel duetto e da quel giorno Taehyung non aveva fatto altro che chiedere a Jungkook di cantare per lui. Diceva che il suo timbro di voce si sposava a meraviglia con il suono del piano, e che ascoltarlo riusciva a dargli un senso di pace. Jungkook aveva sempre preferito giocare a videogiochi o, nel caso fosse con Taehyung, svolgere attività che richiedessero l’impiego di energie, sia mentali che fisiche, ma di certo non esporre davanti all’altro un “talento” che non credeva affatto di avere e che, puntualmente, lo faceva sentire in imbarazzo.
«Hyung, è già la seconda volta che-»
«Cantala di nuovo».
E così Jungkook cantava, lo faceva per Taehyung e per quel suo sorriso che non gi abbandonava un secondo le labbra mentre lo accompagnava con il piano. Una volta la nonna li aveva sorpresi in salotto, una di quelle poche volte che, negli ultimi tempi, a Jungkook era stato permesso di salire in casa – visto l’aumento improvviso di lezioni, impegni, visite e quant’altro in cui Taehyug si era trovato invischiato. Sì perché i genitori non avevano deciso di impedire la sua amicizia con Jungkook, semplicemente avevano cercato di ridurla all’osso – allontanarli quasi – nel modo più brutale e subdolo possibile; a nessuno dei due era permesso replicare, perché spesso si trattava di impegni legati allo studio o alla salute del più grande, ma entrambi avevano capito che non a tutti andava a genio un legame come il loro. D’altronde avevano stretto i denti e tirato fuori le unghie per difendere quel poco che rimaneva loro, perché, per quanto esiguo potesse essere, non vi avrebbero rinunciato per nulla al mondo.
«Mia madre vuole che faccia un provino».
Jungkook lo butta fuori come se avesse appena sganciato una bomba a orologeria. Aveva parlato mentre Taehyung stava ancora suonando, nemmeno si era sforzato di finire la canzone, semplicemente voleva dirlo e lo aveva fatto, non importava se al momento sbagliato,
Taehyung allontana le dita dai tasti e le lascia cadere in grembo, riservando all’altro un’occhiata perplessa.
«Provino?»
«Per diventare idol»
Continuava a parlare con la testa bassa e a giocherellare con le proprie dita, sentendo lo sguardo dell’altro su di sé.
«Un idol è un artista musicale… un cantante pop rappresentato da un’agenzia» aveva preceduto il compagno prima che potesse chiedergli delucidazioni sull’argomento. Sapeva che in casa Kim non c’erano televisioni, ma circolavano solo alcuni giornali appositamente scelti affinché Taehyung potesse leggerli senza incappare in notizie indesiderate o inadatte a uno come lui.
«Ah… la nonna me ne ha parlato, qualche volta».
In verità gli aveva raccontato di un lontano cugino che aveva intrapreso la carriera di presentatore televisivo, ma Taehyung suppone che è un po’ la stessa cosa e decide di non scendere nei dettagli. D’altronde Jungkook ha una bella voce e trova che non ci sia niente di male a desiderare che anche altri possano ascoltarla. Nello stesso momento in cui lo pensa, però, Taehyung percepisce una strana sensazione di fastidio, quasi come se, in quel modo, potesse perdere per sempre il privilegio di suonare assieme a lui assecondando quel timbro che, in fondo, si era palesato proprio durante i loro duetti al pianoforte.
«Che… che c’è hyung?» Jungkook comprende che Taehyung è sovrappensiero ed inizia a preoccuparsi. «Lo sapevo che l’idea non ti sarebbe andata a genio, ma tanto neanche io voglio farlo, chi vuoi che mi prenderebbe con tutti i talenti che ci sono in giro» aveva biascicato in modo impacciato, riuscendo ad ottenere un flebile sorriso dal compagno più grande.
«Io penso invece che dovresti provarci». Ancora una volta, Taehyung aveva parlato senza realmente dire ciò che pensava. Non gli era mai capitato prima di conoscere Jungkook, in un certo senso si era trovato costretto a nascondere ciò che realmente provava – e questo gli provocava un enorme sforzo di volontà -, lo aveva fatto per il bene di Jungkook, perché, da un po’ di tempo a quella parte, aveva cominciato a vedere al di là di sé stesso, della propria salute e delle conseguenze che determinate scelte avrebbero avuto su di essa. Ma non lo aveva fatto per farsi del male, perché anche se quelle decisioni, spesse volte, lo facevano soffrire quando Jungkook non poteva vederlo, poi la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta attutiva ogni male e la sofferenza pareva essere valsa la pena. Taehyung, poco a poco, aveva cominciato a capire cosa significava essere amici, tenere ad una persona e desiderare solo il meglio per essa. Aveva scoperto di esser stato sempre un po’ egoista, concentrato com’era sui propri mali, perciò aveva voluto rimediare e, sebbene questo suo nuovo atteggiamento aveva determinato conseguenza dolorose a livello fisico e psicologico, Taehyung si ripeteva che lo avrebbe superato, per quella era l’unica cosa giusta da fare.
Jungkook alza finalmente le iridi, lievemente coperte da un ciuffo di capelli neri abbandonati sulla fronte, e incredulo le incrocia con quelle del più grande, straordinariamente luminose e, per quanto Jungkook riesca a percepirlo, intrise di tristezza.
«Non è quello che vuoi davvero, hyung» pronuncia semplicemente, senza mai interrompere il contatto visivo.
«È quello che voglio per te» è la risposta pronta dell’altro.
Jungkook scuote la testa. «Lo stai dicendo solo per farmi contento, ma guarda che a me non interessa veramente, io-»
«No, sei tu che lo stai dicendo per accontentarmi. Io non c’entro niente in tutto questo, è di te che stiamo parlando».
«E io non voglio».
«Bugiardo. Perché me l’hai detto, allora?»
«Beh ma che c’entra, ne stavamo parlando e… oh che importa, non farò quel provino e basta, chiusa la questione».
Taehyung si siede in modo da poterlo fronteggiare direttamente. «Io penso che invece tu voglia farlo, Jungkookie».
«Che ne sai» prorompe il più piccolo, iniziando ad innervosirsi. «Tutti pensate di sapere cosa voglio, ma la verità è che siete proprio fuori strada».
«Jungkook». Taehyung si è alzato in piedi e ha fatto due passi verso il più piccolo. È raro che sia lui a cercare la vicinanza, perciò Jungkook, d’istinto, si irrigidisce. «La tua voce è speciale».
Lascia trascorrere qualche istante, prima di parlare di nuovo, e il più piccolo è costretto ad abbassare lo sguardo, colto alla sprovvista da quel complimento.
«Tu hai un dono e sarebbe un peccato non condividerlo. Tua madre desidera solo il meglio per te, ne sono sicuro».
«È la mia voce e faccio quello che mi pare» aveva persino incrociato le braccia, tant’è che Taehyung si lascia sfuggire una mezza risatina.
«Se hai voluto condividere con me questa cosa, Jungkook, è perché in fondo lo vuoi anche tu. Ma hai paura che io non lo accetti».
«Non è così!»
«Ma io non sono nessuno per dirti cosa puoi o non puoi fare».
«Andrò a fare il provino se tu verrai con me».
«Cos-?»
«Anche tu hai una bella voce, allora lo faremo insieme».
«Jungkook, smettila di dire assurdità».
«Allora non ci andrò».
«Lo sai che non posso… non potrei nemmeno se lo volessi con tutte le mie forze. Ma tu… tu puoi».
Jungkook apre la bocca, pronto a replicare subito qualcosa di adatto, ma sfortunatamente non gli viene in mente nulla di appropriato. È sicuro che Taehyung, nel profondo, non sia così convinto di quel provino, ma al contempo percepisce l’autenticità delle sue parole, capisce che Taehyung non vuole privarlo di qualcosa che invece lui non potrà mai avere, perché è di un futuro che si sta parlando – qualcosa di importante, non di un esame qualsiasi. E in fondo, anche se non lo ammette, Jungkook ci ha pensato parecchio prima di riferirlo al più grande, e lo ha fatto perché un po’ ci credeva, in quell’opportunità, ma sentiva di aver bisogno di un’approvazione, un supporto che in quel momento solo Taehyung poteva dargli. Eppure, ora che lo ha ottenuto, sente di stare di nuovo punto e da capo, perché, ovviamente, il più grande desidera solo il meglio per lui.
«Ho sbagliato a chiedertelo» conclude, ancora su di giri. «Dovevo fare di testa mia e basta».
«No, invece» replica Taehyung, adesso ad un passo di distanza da Jungkook. «Io sono contento che tu me l’abbia chiesto. Ma adesso che sai la mia risposta, devi fare la cosa giusta, Jungkookie. Promettimi che ci penserai».
 Jungkook scoglie l’intreccio della proprie braccia e, inaspettatamente, si trova entrambe le mani chiuse nella presa flebile di quelle di Taehyung, il suo viso a pochi centimetri dal proprio. «Prometti?»
Rimane impietrito per qualche secondo, dopodiché sospira ed è solo quando vede comparire sul volto dell’altro un sorriso quadrato che si decide a rispondere. «Promesso».
 













Non vi ruberò molto tempo. Questa nacse in verità come una one shot, ma per questioni di miglior leggibilità è stata divisa in due parti, ci sarà spazio perciò nell’altro capitolo per chiarire eventuali dubbi. Vorrei solo RINGRAZIARVI per esservi avventurati in una fan fiction così strana, spero non vi risulti troppo astrusa o pesante da leggere. Spero inoltre che susciti anche in voi ciò che ha fatto provare a me, mentre la scrivevo.
Alla prossima, se vorrete. E ricordate che ogni opinione è bene accetta♥

PS. Il "sottotitolo" di questa storia è in realtà il significato della parola giapponese "Komorebi". ^^
 
Vavi


 
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: Vavi_14