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Autore: Soul Mancini    15/07/2018    5 recensioni
[Oggi, 15 luglio 2018, uno dei miei batteristi preferiti compie quarantacinque anni. AUGURI JOHN ♥ Certo, questo non è un regalo molto allegro, però ho comunque deciso di scrivere una storia per lui, una sorta di regalo... che spero non legga mai XD intanto auguro a voi buona lettura!]
Beirut, Libano. Sul finire degli anni '70 la guerra civile tra cristiani e musulmani devasta il paese.
Il piccolo John gioca per strada con i suoi amici, ha una bella famiglia e una forte passione per la musica. A malapena si accorge della situazione di costante pericolo che gli gravita attorno.
Una notte cambierà la sua vita, turberà il suo animo innocente e rischierà di allontanarlo dallo strumento musicale che più ama, l'unico in grado di esprimere ciò che le parole non sanno dire.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Dolmayan, Nuovo personaggio
Note: Kidfic | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

When Words Fail, Music Speaks




Era così bello, il tramonto. Il piccolo John lo vedeva come un momento magico: tutto si tingeva di arancione e sembrava più bello. Laddove i proiettili e le esplosioni avevano lasciato le loro ferite, i tiepidi raggi del sole si infiltravano e medicavano tutto come una magica medicina.

Il bambino si sedette sul gradino del marciapiede accanto a Jihad, il suo migliore amico. Jihad aveva sette anni, due in più di lui; era il suo vicino di casa e per lui era come un fratello maggiore.

Jihad giocava con i soldatini in legno che suo nonno gli aveva costruito e regalato. La sua famiglia non era tanto ricca e, soprattutto durante la guerra civile, si doveva accontentare di giocattoli modesti e un po' sbilenchi.

In silenzio, John osservava il suo migliore amico che inscenava una guerra con i suoi soldatini, li faceva scivolare tra la polvere della strada, li faceva cadere e rialzare in continuazione.

Uffa, smettetela di giocare con quei soldatini, siete noiosi!” protestò a un certo punto una vocina sottile alle loro spalle, facendoli sobbalzare entrambi. I due bambini si voltarono e si ritrovarono faccia a faccia con Malak.

Malak era una graziosa bimba di cinque anni e anche lei abitava nella via di John e Jihad. Era giunta a Beirut appena un anno prima e ora abitava con sua zia; aveva raccontato ai suoi amici di essere sopravvissuta a una fuga lunga e pericolosa, aveva camminato tanto e mangiato poco, ma era stata forte e coraggiosa e infine si era salvata.

Loro tre erano amici per la pelle, trascorrevano intere giornate in strada a giocare assieme. Non si sarebbero mai separati, avevano fatto un patto.

Sei proprio una femminuccia, Malak!” esclamò Jihad con uno sbuffo.

Perché ti piacciono così tanto quei soldatini? Non è più divertente giocare a pallone?” domandò la bambina con curiosità, sedendosi sul gradino accanto al bambino più grande.

A me piace la guerra. Un giorno diventerò un capo dell'esercito potentissimo, e farò ammazzare tutti quelli che adesso vogliono ammazzare noi!” esclamò lui. Era talmente entusiasta che scalciò via i soldatini, sollevando una piccola nuvola di polvere davanti a sé.

John, che fino a quel momento aveva assistito alla scena senza proferire parola, incrociò le braccia al petto. “A me non piace la guerra. Sparano, è tutto pieno di polvere e di sangue. E quelli che fanno la guerra sono cattivi, sono dei mostri terribili peggio di quelli delle favole. Se fai la guerra sei cattivo, Jihad.”

L'altro si pulì le mani dalla polvere sulla maglietta gialla sgualcita, poi si alzò in piedi e osservò John dall'alto in basso. “Io? Io sono cattivo? Un mese fa hanno ammazzato la mia sorellina di un anno e mezzo! Io non sono cattivo, sono loro i cattivi! Li ucciderò tutti!” gridò in tono isterico.

Malak si portò un dito di fronte alle labbra. “Abbassa la voce, i grandi non ti devono sentire” bisbigliò.

John si guardò attorno: la strada era piena di signore che sedevano di fronte alle proprie abitazioni e prendevano il fresco, uomini che lavoravano, mendicanti disperati e uomini armati.

A me non interessa. Io voglio diventare un musicista come il mio papà” ribatté John con indifferenza.

Non gli interessavano quei giochi crudeli, a lui piaceva suonare la batteria. Ogni volta che andava ai concerti di suo padre, rimaneva incantato a guardare il batterista che giocava con le sue bacchette come un mago. Qualche volta l'aveva provata e gli era piaciuta tantissimo, adorava comporre dei ritmi con un sacco di suoni diversi, a tante velocità diverse.

Malak gli si avvicinò e lo abbracciò. “Sarai un musicista bravissimo e ricchissimo!” esclamò orgogliosa.

Ohannes, vieni dentro! Su, a fare il bagno!”

John riconobbe subito la voce di sua madre, severa e dolce allo stesso tempo. Solo lei e la nonna lo chiamavano con il suo secondo nome, il suo vero nome.

Il bambino si voltò e trovò sua madre affacciata alla finestra, che gli lanciava un'occhiata eloquente. “Sbrigati, è tardi!” ribadì inarcando le sopracciglia.

John le regalò un sorrisetto furbo e riprese a chiacchierare e giocare con i suoi amici.

Andava sempre allo stesso modo: non rientrava in casa finché sua madre non si arrabbiava veramente o non interveniva suo padre. Era più bello stare fuori a godersi il tramonto e ridere con Malak e Jihad, piuttosto che strofinarsi per bene tutto il corpo e mandare via la polvere.



John sgranò gli occhi e li puntò davanti a sé, nell'oscurità. Quella notte aveva paura, tanta paura.

Sentiva dei movimenti, come dei piccoli passi, sotto la sua finestra. Certo, quella non era la prima volta, ormai ci aveva fatto l'abitudine.

Era indeciso su cosa fare: restare a letto e rintanarsi sotto le coperte oppure avventurarsi fuori dalla sua camera e correre dai suoi genitori.

Dall'esterno provenivano delle voci, profonde e concitate.

John tremava nonostante il caldo, si sentiva ancora più agitato del solito.

Odiava la guerra.

Rimase in attesa ancora per qualche secondo, trattenendo perfino il respiro per evitare di farsi sentire dagli uomini là fuori.

Quando udì un tonfo metallico a qualche metro dalla sua finestra, John non resistette più: scivolò giù dal suo letto, si appiattì contro il pavimento e strisciò con cautela fino alla porta della sua camera. Le mattonelle erano fredde, lo facevano rabbrividire. Una volta girato l'angolo, in corridoio, balzò in piedi e corse a perdifiato verso la camera dei suoi genitori. La distanza era poca, appena qualche metro, ma a lui parvero chilometri.

Mamma, papà...” mormorò con le lacrime agli occhi. Ancora non si era abituato perfettamente all'oscurità, ma riusciva a distinguere la sagoma del letto matrimoniale al centro della stanza.

Ohannes, tesoro... cosa c'è?” domandò la voce impastata dal sonno della madre.

Vieni qui” lo invitò suo padre.

Ho paura” disse il piccolo con la voce rotta dal pianto. Non se lo fece ripetere due volte: raggiunse il letto e si infilò sotto le coperte, accanto a sua madre. La donna lo strinse a sé e gli accarezzò i capelli e la schiena per tranquillizzarlo.

In realtà, per quanto cercassero di confortarlo, i coniugi Dolmayan erano entrambi irrequieti.

John, sotto il tocco dolce e protettivo di sua madre, si rilassò subito. Inspirò il suo odore di mamma, fatto di storie e tradizioni, e si abbandonò pian piano al sonno.

Si accorse appena, qualche minuto dopo, del colpo secco che esplose nella stanza accanto, spaventoso e tremendamente vicino. Faceva parte di una serie di boati: alcuni si perdevano nell'aria con un fischio, fuori dalla casa, altri incontravano qualche ostacolo e facevano quasi tremare i muri. Era come se qualcuno stesse suonando un macabro ritmo di batteria.

John si accorse appena dell'urlo che lanciò sua madre, delle imprecazioni di suo padre.

Si rese conto a malapena delle lacrime che gli scorrevano lungo le guance, di quanto i suoi occhi fossero sgranati, di quanto il suo cuore martellasse nel petto, veloce come un cavallo al galoppo.

Tanto fu il terrore, quella notte, che i ricordi di John si distorsero e si sfocarono.

Però c'erano due cose che non era riuscito a rimuovere dalla sua mente.

La prima era il buco che un proiettile aveva lasciato nel materasso del suo lettino, dove appena cinque minuti prima si trovava sdraiato.

La seconda era l'immagine della zia di Malak che, disperata e in lacrime, stringeva tra le braccia il cadavere della nipote. Malak se n'era andata con gli occhi sbarrati per il terrore e con un proiettile nella tempia.



Canada.

A John quel posto non piaceva, non era come il suo adorato Libano.

Però almeno lì non c'era la guerra.

Da quando era arrivato a Toronto, era diventato molto più taciturno. E, soprattutto, aveva smesso di ascoltare e amare la musica; ogni volta che si trovava vicino a una radio o a un qualsiasi strumento musicale, iniziava a piangere in silenzio e faceva di tutto per fuggire.

I suoi genitori erano preoccupati per lui. Avevano deciso di fuggire dal Libano perché non era più un luogo sicuro per loro e il loro piccolo, ma in questo modo l'avevano strappato via dal suo habitat naturale. John soffriva, i suoi occhi erano tristi, ma non esternava mai cosa gli passava per la testa.

Piccolo, perché non vuoi più ascoltare la musica? Fino a qualche mese fa volevi diventare un batterista, o sbaglio?” gli domandava suo padre col suo solito tono pacato e gentile.

John abbassava lo sguardo e non rispondeva.

La verità è che non voleva più diventare un batterista, quello strumento non lo voleva neanche vedere. Ogni volta che sentiva una batteria, con quei suoi colpi forti e secchi, gli tornava in mente la pioggia di proiettili che aveva sfigurato la sua casa, rischiato di ucciderlo e portato via la sua migliore amica.

Aveva tanta voglia di suonare, perché quella era l'unica attività che lo faceva stare bene, ma allo stesso tempo ne era terrorizzato.

Passarono i mesi e John dovette entrare alle scuole elementari. Imparò a leggere e scrivere e ben presto si appassionò ai fumetti. Erano così belle quelle storie, raccontavano di eroi forti e coraggiosi che facevano sempre del bene agli altri.

Ogni tanto i suoi pensieri andavano a Jihad. Avrebbe tanto voluto dirgli che non era necessario diventare un politico o un capo dell'esercito per essere potente, bastava anche essere un supereroe per sconfiggere i cattivi. Solo che ora il suo migliore amico si trovava all'altro capo del mondo.

A Toronto non aveva nessun amico. Tutti pensavano che fosse un bambino strano.

Ti devi aprire, devi parlare. Metti giù quei giornaletti e vai a giocare con gli altri bambini” gli consigliava sua madre. Lo vedeva sempre in disparte, immerso nella lettura, e quella situazione la spaventava.

Quello non era più suo figlio, quel bambino allegro e sorridente che andava a zonzo per il suo quartiere, a Beirut, e riusciva a farsi amici tutti, piccoli e grandi.

Ormai la situazione sembrava essere destinata a rimanere statica, finché la famiglia Dolmayan non si trasferì a Los Angeles, nell'assolata California.



Little Armenia era un quartiere tranquillo e accogliente. Per le strade si sentiva l'odore del buon cibo e del bucato steso; la gente era allegra, parlava la sua lingua e canticchiava vecchie canzoni della tradizione armena.

A John piaceva, gli sembrava di essere tornato nella sua adorata Beirut. Anche i suoi genitori erano felici, finalmente potevano sentirsi liberi di essere armeni.

Il piccolo usciva spesso e si recava in una piccola piazzetta vicino a casa sua, dove un sacco di altri bambini giocavano. Quasi ogni giorno c'era un nuovo arrivo: in quel posto si radunavano sempre più armeni provenienti da ogni parte del mondo, alla ricerca di un po' di pace.

John aveva stretto amicizia con un certo Taniel, un bambino che aveva ben tre anni in più di lui. Taniel era piccoletto, aveva la pelle olivastra e i lineamenti fortemente orientali; amava la musica, suonava la chitarra e ogni giorno lui e alcuni suoi amici si riunivano in una stanzetta per suonare insieme.

E tu, John,” gli chiese un pomeriggio d'estate, “non suoni nessuno strumento? Non ti piace la musica?”

Mio padre suona il sassofono” rispose prontamente lui, senza incrociare lo sguardo dell'amico.

Ma io ho chiesto cosa piace a te.”

Lui era indeciso se dirgli o meno la verità. In fondo conosceva Taniel da poco tempo, non sapeva se fidarsi o meno. “Non lo so, non mi interessa la musica” mentì infine, sperando non si notasse troppo il leggero rossore sulle sue guance.

Di sicuro Taniel capì che qualcosa non quadrava, perché lo strattonò via dal basso muretto in cemento sul quale erano seduti e gli disse: “Andiamo! Ti porto nella mia saletta, ti presento i miei amici e ti faccio vedere i nostri strumenti. Purtroppo non ne abbiamo di tradizionali armeni, ma pazienza, tanto nessuno di noi li sa suonare!”.

John avrebbe voluto ridere, ma non ci riusciva. Forse quel giorno, dopo quasi due anni che ne stava alla larga, avrebbe rivisto una batteria.

Passeggiarono per un po' per le assolate strade di Little Armenia finché non giunsero di fronte a una struttura quadrata, bassa e dai muri completamente bianchi. Non era la prima volta che John ci passava di fronte: da quel che aveva capito, era una specie di punto di incontro per i giovani che un vecchio prete metteva sempre a disposizione.

Taniel...”

Dimmi” rispose il più grande mentre spingeva la porta d'ingresso.

C'è anche una batteria lì dentro?”

Taniel si bloccò con la mano poggiata sulla maniglia e gli lanciò un'occhiata interrogativa. “Non avevi detto che la musica non ti interessava?”

John si strinse nelle spalle. “C'è o non c'è la batteria?”

Certo, e c'è anche un ottimo batterista” rispose l'altro, sempre più confuso.

Il cuore del piccolo John perse un battito. Non era certo di sentirsi pronto a compiere quel passo: voleva con tutto il suo cuore accarezzare con le sue dita i tamburi di quello strumento bellissimo, ma allo stesso tempo era terrorizzato all'idea di sentire nuovamente il rumore dei proiettili, della guerra, della morte.

Tuttavia, come ogni volta, tenne la bocca chiusa e seguì Taniel dentro la stanza. Ormai, negli ultimi anni, aveva imparato a stare zitto.

Una volta superato un piccolo e spoglio ingresso, i due bambini si ritrovarono in una piccola stanza insonorizzata, illuminata dalla luce che filtrava da una sola finestra. John si guardò attorno: da una parte erano ammassati alcuni amplificatori che di certo non erano di prima classe, mentre accanto alla finestra troneggiava una grande batteria color legno chiaro. Era bellissima: i piatti erano lucidi e risplendevano nella luce del tardo pomeriggio, le pelli bianchissime parevano quasi fatte di carta.

John si incantò a guardare quel gioiellino ed era talmente preso che quasi non si accorse della bambina che gli si era avvicinata.

Ehi, ragazzino, sto parlando con te!” lo richiamò lei per l'ennesima volta, dandogli un colpetto sulla spalla.

John cadde dalle nuvole e spostò lo sguardo su di lei, in imbarazzo. “Ah... scusa.”

Comunque mi presento: io sono Hurik, ho nove anni e suono il basso. Tu come ti chiami?” domandò la bambina curiosa.

John.”

Se vuoi avvicinati alla batteria” lo invitò Taniel, spingendolo leggermente verso lo strumento.

Lui non ribatté, non aprì bocca. Quello era un momento tutto suo.

In fondo quell'insieme di tamburi e piatti non gli faceva paura, anzi, era tutto così bello. Ciò che lo spaventava davvero era il rumore.

Ma ora tutto era fermo, nessuno suonava.

John prese posto sul seggiolino e cominciò a percorrere con un dito il bordo del rullante. Era freddo, ma non faceva male.

Hurik e Taniel lo osservarono incuriositi, parlottavano tra loro, ma lui non li sentiva nemmeno. Non gli importava.

La batteria lo aveva chiamato a sé, lo aveva attratto come una calamita, e lui non aveva saputo resistere.

John accarezzò anche il piatto superiore del charleston, poi si allungò per afferrare un paio di bacchette vecchie e scheggiate che stazionavano sul davanzale della finestra.

Le mani tremavano leggermente, ma lui non allentò la stretta. Gli avevano spiegato diverse volte come le doveva impugnare e lui non se l'era mai dimenticato, nonostante fossero trascorsi anni.

Voleva trovare il coraggio di suonarla.

Posizionò i piedi sui pedali.

Diede un colpo di crash. Il suono pieno, metallico e acuto si diffuse tutt'intorno, come se si fosse tramutato in una pioggia sottile.

Non faceva paura.

Diede un colpo di grancassa: secco, preciso, basso.

Neanche questo faceva paura.

Quello che ancora lo spaventava era il rullante. Quella notte, quando il proiettile era entrato dalla finestra, si era sentito un suono tanto simile a quello del rullante.

John prese un respiro profondo.

Diede un colpo di rullante e lasciò cadere le bacchette, pronto a coprirsi le orecchie o scappare via se avesse avuto troppa paura.

Ma no, nemmeno quello faceva paura.

Perché nessuno stava sparando, nessuno aveva il controllo.

Nessuno a parte lui.

Tutti quei suoni li poteva controllare e dominare. Poteva decidere quanti colpi dare e in che pezzo della batteria, poteva decidere a che velocità darli, poteva decidere l'intensità.

Lì non era come nella guerra, in cui poteva solo stare a guardare.

Riprese in mano le bacchette e diede un colpo ai restanti pezzi, senza più avere paura.

Così come negli anni precedenti non aveva saputo esprimere a parole quello che provava quando sentiva la batteria suonare, ora non sapeva raccontare le sue emozioni nel suonarla. Non era mai stato bravo con le parole.

Così si lasciò trasportare dalla musica, iniziò a suonare senza saperlo fare, ed espresse tutto ciò che sentiva dentro. Finalmente era nel suo elemento.

Anche Hurik e Taniel si aggiunsero al suo concerto improvvisato, ma lui quasi non se ne accorse, tanto era immerso nella musica.

In quel momento stava parlando, dopo mesi e mesi di silenzio.



Mamma, papà!”

Cosa c'è, piccolo?”

Voglio una batteria.”

Come sarebbe a dire? Fino a ieri ne eri spaventato, o sbaglio?”

Non fa paura. È bellissima. Mi aiuta a parlare.”



John, ormai superata da un pezzo la soglia dei quarant'anni, ogni tanto si ferma a contemplare la foto che tiene in mostra sul caminetto, in una piccola cornice color legno.

All'epoca dello scatto aveva circa sette anni: aveva il viso rotondo e paffuto, incorniciato dai capelli scuri e lunghi quasi fino alle spalle. Nonostante fosse ancora un bambino, aveva già le spalle larghe ed era robusto.

Indossava una maglietta a righe blu e azzurre.

Stava seduto dietro la sua prima batteria e stringeva tra le mani le sue prime bacchette; lui e suo padre l'avevano montata quello stesso giorno.

Era una delle rare foto in cui sul suo viso spiccava un enorme sorriso da orecchio a orecchio.

Tutto, in quello scatti di tanti anni prima, sorrideva e trasmetteva gioia.

John sorrise a sua volta, ricordando quel momento. Lui in fondo lo sapeva, l'aveva sempre saputo: nessuna guerra, nessuna bomba e nessun proiettile sarebbe stato in grado di allontanarlo per sempre dalla sua più grande passione, la sua musica. Colei che gli permetteva di esprimere ciò che le parole non potevano spiegare.




♥ ♥ ♥



AUGURI JOHN, TANTISSIMI AUGURI DI BUON COMPLEANNOOOOOO!!!!!!!!!!!! :3 :3 :3

Oddio, non ci posso credere: il mio adorato John è arrivato a quarantacinque anni! *-*

Ebbene sì, ragazzi miei: anche quest'anno ho deciso di fare un piccolo pensierino a John per il suo compleanno!

Devo fare un paio di precisazioni:

- La guerra civile libanese, ovviamente, è realmente avvenuta, è iniziata nel 1975 ed è nata dal contrasto tra cristiani e musulmani. Certo, io non sono una grande esperta di storia e non ne so quasi niente, ho cercato di contestualizzare come meglio potevo e come lo immaginavo io ^^

- Anche il fatto che John, una notte, è sfuggito quasi per miracolo a un proiettile è vera. Penso che ormai tutti la sappiate, è un dato abbastanza diffuso. Povero il mio John T.T ah, è vero anche che ha vissuto a Beirut, poi a Toronto per un breve periodo e infine a Los Angeles!

- Tutto il resto l'ho inventato di sana pianta: gli amici, la paura di John della batteria, la saletta con gli strumenti...

Non reputo questa una delle mie migliori storie, però è venuta così e ho deciso di proporvela lo stesso ^^
Quest'idea in realtà mi frullava in mente da un sacco di tempo, ma non avevo mai pensato di metterla veramente in atto... finché Kim non mi ha proposto un prompt (o meglio, io gliel'ho chiesto), e questo mi ha dato l'input!

Il prompt in questione sarebbe il titolo della storia: “When words fail, music speaks”, cioè “Quando le parole falliscono, la musica parla”. Penso che questa frase si adatti molto a John e spero di aver reso il significato generale anche in questa storia, nonostante non sia proprio il fulcro centrale!

Grazie a chiunque abbia deciso di leggere e ancora tanti auguri di compleanno al mio dolce John, mia grande fonte di ispirazione, che stimo come musicista e come persona. Non lo ringrazierò mai abbastanza... e sono sempre più orgogliosa di lui :3

HAPPY BIRTHDAY, DRUMMER!!! ♥



   
 
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