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Autore: merty_chan11    16/07/2018    0 recensioni
[Sheith Month 2018] [Raccolta] [Spoiler S6!]
Raccolta di one-shot su Shiro e Keith. I prompt utilizzati sono presi dalla lista pubblicata su Tumblr.
Dal Day 4:
[...]
Eppure, tra le risa erano sopraggiunte le lacrime.
Erano state come un temporale estivo. Inaspettato, capace di rendere tristi e delusi perché abituati alla presenza del sole come una costante. Era un universo ricco di variabili, il suo. Ma Shiro aveva cercato di ignorarle, di farle passare in secondo piano allo stesso modo dei suoi traumi, relegandole in un angolo della sua mente e convincendosi che tutto sarebbe stato sotto il suo controllo. Non aveva ancora imparato.
[...]
Buona lettura!
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Day 16: Error

 

Truth



Keith aveva trascorso i primi giorni in uno stato di apatia. Era come se si fosse chiuso dentro una campana di vetro nella quale i suoni giungevano attuti, come se tutto fosse troppo distante per poter essere toccato. I colori erano diventati più spenti, le facce delle persone che incrociava nei corridoi più anonime, e perfino le stelle pareva splendessero con minore intensità. Tutto aveva perso il suo fascino, la sua bellezza. Anche le piccole cose che tempo prima gli provocavano gioia, adesso trovavano in lui soltanto indifferenza. 

Non si era mai sentito in quel modo, così estraneo al mondo dal sembrargli di camminare in una zona preclusa soltanto a lui stesso, lontano da qualunque fonte di calore e di luce e di tutto ciò che prima era in grado di dargli la vita.

Era cominciato tutto una settimana fa. O forse, era cominciato tutto perfino prima.

Aveva udito voci, nei corridoi, sussurri spaventati e privi di alcun senso ai quali tutti avevano abboccato perché l’incertezza era sempre meglio dell’attesa stessa. Accettare ogni singola notizia anche se priva di fondo era forse un modo per ingannarla? Era forse un modo per controllare il tempo, per farlo scorrere più veloce mentre la verità viene pian piano a galla? Forse. Keith non l’aveva mai capito. Non aveva senso sperare, o dar fede a chiacchiere da bar se non c’erano prove alcune.

Qualche commento era giunto alle sue orecchie, ma lui non ci aveva creduto.

“La missione Kerberos è stata un fallimento.”

Impossibile. Era semplicemente irrealizzabile. 

Non con quell’equipaggio.  Non con Samuel e Matthew Holt a bordo. Sopratutto, non con Shiro come pilota.

Le chiacchiere erano continuate. Balzavano da una bocca all’altra senza alcuno ostacolo, e, in breve, tutta la Garrison era a conoscenza di quelle dicerie.

Keith aveva detestato, all’inizio, quei commenti. E aveva detestato il modo in cui tutti sembrassero concordare per quella soluzione, l’atteggiamento che perfino gli ufficiali avevano assunto. Nessuno aveva smentito nulla. Avevano lasciato correre quelle chiacchiere senza sapere.

La rivelazione giunse pochi giorni dopo. La mensa era sempre stata fastidiosamente chiassosa, più che mai all’ora di pranzo, colma di studenti e ufficiali che pareva non vedessero l’ora di mettere a prova le loro corde vocali parlando del più e del meno. C’era chi criticava gli insegnanti, chi una simulazione andata male, e chi invece parlava di strambe conquiste amorose avvenute nelle strade della piccola città studentesca.

E c’era chi stava da solo.

A Keith non importava. Da quando Shiro era partito, non aveva più mangiato con nessuno. Sembrava che tutti lo evitassero perfino più di prima, forse per invidia o chissà per quale altro motivo, ma lui non aveva battuto ciglio. Non gli importava più di niente. Era ormai insofferente a tutto e tutti.

Quel giorno, però, era stato diverso.

A Keith non erano sfuggite le occhiate tristi e colme di pietà che i passanti gli avevano indirizzato. In un primo momento aveva cercato di ignorarle. Non aveva compreso nemmeno il perché di quell’atteggiamento, il senso dietro a sguardi di compassione dove poco prima c’erano state soltanto punte di gelosia e rabbia.

Poi, il chiacchiericcio allegro e concitato della mensa si era spento. Tutti avevano alzato la testa verso il grande computer della sala, e Keith non aveva potuto fare altrimenti.

C’era una scritta, in rosso, che andava ad occupare tutto lo schermo e che Keith credeva non avrebbe mai letto.

“Errore del pilota.”

Tre parole, fredde come il ghiaccio e brucianti come le fiamme di cui portavano il colore.

Keith non aveva capito.

La mensa esplose in un coro di lacrime e delusione.

Alcuni avevano iniziato a piangere. Altri, disperati in egual modo, erano usciti fuori di corsa mentre certi, invece, si erano seduti in silenzio, fissando con occhi vuoti quel piatto da cui attimi prima mangiavano con gioia.

Keith aveva continuato a non capire.

A quella scritta se ne susseguirono altre, informazioni prive di senso riguardanti i dati della navicella, dell’equipaggio, dei progressi della missione. Alla fine, era giunti i dati delle circostanze della loro presunta morte.

Ipotesi, blande ipotesi.

Ancora, non aveva compreso.

Quando il suo sguardo aveva letto quel nome, il suo nome, Keith era andato via dalla mensa.

Lentamente, camminando con gli occhi di tutti puntati, come se non fosse accaduto nulla. Come se la missione Kerberos non fosse stata, in realtà, dichiarata fallita e ci fosse ancora qualcosa che agli occhi di tutti fosse sfuggito.

Forse ora capiva, cosa volesse dire aggrapparsi ad una sottile speranza.

Giorni erano trascorsi, fatti di silenzio e di una mente ormai assente, capace di accendersi soltanto lì, oltre i confini inesplorati del sistema solare. 

Keith non riusciva più a seguire le lezioni. Parlava a malapena. I suoi voti calavano e continuava a non dormire, e mangiare poco. Non aveva più tanta fame, o tanto sonno, e tutto il suo futuro sembrava essersi ridotto in cenere.

Stava andando tutto a rotoli, e non sapeva nemmeno perché. Non sapeva nemmeno come fare per poterlo controllare

Continuava a stare nella sua campana, ignorando quei commenti tristi che in breve tempo si erano trasformati in insulti, insulti contro una persona che non avrebbe mai più rivisto.

“È stata tutta colpa sua,” dicevano le voci.

“Shirogane ha compromesso la missione. Se non fosse stato per lui, tutti ora sarebbero sani e salvi.”

Aveva lasciato scorrere, come acqua sulla pelle, quelle stupide chiacchiere. Le aveva ignorate perché sapeva non fossero vere, perché era soltanto un guscio pieno di indifferenza.

Non poteva essere colpa di Shiro. Non avrebbe mai sbagliato. Non lui.

Passarono altri due giorni, e la campana si ruppe. Fu doloroso. Come in un’esplosione, tutti i cocci erano volati via, saltati in aria come tutta la sua vita. Non erano andati verso l’esterno, però: la campana era collassata al centro, rovesciando quei frammenti taglienti contro di lui. Mille e mille e più ferite, tutte unicamente sulla sua anima, tagli che non sarebbero mai più guariti. Keith aveva iniziato a sanguinare, a morire, ma nessuno se n’era accorto. Il suo cuore era andato in pezzi, ma nessuno l’aveva notato. Erano ferite invisibili, le sue, che facevano male più di una pallottola conficcata nel petto.

Era scappato quella stessa sera.

La Garrison non lo voleva più. L’aveva realizzato.

Non avevano bisogno di una zavorra, di uno che non riusciva ad andare avanti di fronte ad una semplice dipartita. Ma che, per Keith, era tutto fuorché semplice.

Aveva preso la sua vecchia moto, quella che Shiro gli aveva affidato prima di partire, non prima di aver portato via tutto ciò che possedeva. C’era il suo pugnale, nello zaino, l’ennesimo ricordo di chi era partito e non aveva più fatto ritorno, lasciandolo indietro. C’era la sua vecchia giacca insieme a qualche altro indumento, e qualche libro. E c’erano alcuni oggetti di Shiro. C’era il suo vecchio MP3, alcune fotografie, e le targhette con il suo nome che gli aveva regalato.

“Spero che non ti dimenticherai di me mentre sono via.”

Keith aveva messo in moto senza guardarsi indietro.

Aveva viaggiato, nel cuore della notte, in quello stesso deserto di cui tanto ammirava il silenzio. Ora lo detestava. Lo detestava perché poteva sentire tutti i suoi pensieri correre da un capo all’altro della sua mente. Perché non importava se ci fosse il vento, che fischiava tra le sue orecchie, o il rombo dei tuoni in lontananza.

Quelle tre parole, quelle uniche tre parole, avrebbero continuato a ripetersi all’infinito.

“Errore del pilota.”

E lui avrebbe continuato a udirle.
Giunto nella vecchia casa, quella che lui e Shiro avevano trovato soltanto pochi mesi prima, Keith non ce l’aveva più fatta.

Cadde in terra non appena scese dalla moto, e cominciò a piangere. E a gridare. Le lacrime scorrevano tra le sue guance come fiumi in piena, mentre con tutto il fiato che possedeva continuava a urlare il nome di Shiro. Urlava e urlava, ma non riceveva alcuna risposta.

Non si mosse nemmeno quando la pioggia prese a cadere, confondendosi con le sue lacrime. Non si mosse quando giunse il vento, o i tuoni, perché non aveva la forza per farlo. Aveva soltanto le energie per piangere le lacrime che aveva inconsciamente trattenuto, lacrime bloccate da un’anima che si rifiutava di accettare la verità.

Ora però, con il futuro svanito dalle sue mani come sabbia tra le dita, con il peso della solitudine sopra le sue giovani spalle, Keith l’aveva finalmente capito. Aveva realizzato ciò che gli altri avevano sempre saputo da tanto tempo.

Shiro era morto.

Keith rimase lì, in terra, con il cuore infranto, a chiedersi per quale motivo l’universo gli avesse, di nuovo, strappato via ogni cosa.

  
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