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Autore: fedegelmi    19/07/2018    5 recensioni
Fece un profondo respiro e alzò lo sguardo verso l'orizzonte nascosto dalla foschia, che si era trasformata in una fitta nebbia. Nel mezzo del banco misterioso si alzavano ombre inquietanti. Le sembrava quasi che producessero dei rumori sinistri, ma a questo era abituata. Ogni singola notte da quando era rimasta sola, i rumori e le ombre sembravano essersi amplificati. Ma lei non si spaventava più perché loro avevano promesso di non disturbarla in alcun modo, avevano un patto.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è una storia che avevo scritto molto tempo fa, forse anni fa.
L'ho riletta per caso e l'ho rivisitata.
Non avrà senso, forse, ma volevo condividerla comunque.
 

Erano giorni ormai che la ragazza era costretta ad ascoltare tutte quelle persone che la circondavano. Ogni uomo, donna o bambino che fosse, andava da lei porgendogli la mano che sempre rifiutava. Non aveva intenzione di accettare quello che era successo e mai l’avrebbe fatto. L’immagine di quel giorno le si presentava nella mente a ripetizione e l’unica cosa che voleva non era gente che la compatisse, ma che la lasciasse in pace. Non parlava e non mangiava da giorni. Non ricordava come fosse il mondo esterno. Voleva dimenticare tutto e lasciare che ogni ricordo scivolasse dalla sua mente come acqua su uno specchio. Era ferma in un angolo della sua stanza a fissare il vuoto cercando di allontanare tutti da lei, nonostante nessuno lo facesse. Mano a mano che i giorni passavano, però, incontrava sempre meno persone. Gli amici furono i primi a scomparire. Era passata ormai una settimana e a breve ci sarebbero stati i funerali.
«Si deve riprendere» sentiva dire dal dottore. «Ha bisogno di uno psicologo, è sotto shock».
Ma a chi serve uno strizzacervelli!?, pensava, Io non ne ho bisogno.
Nessuno la capiva. Voleva solo stare sola. Giorno e notte pensava a come sarebbe stato se fosse capitato anche a lei. Ora non sarebbe qui a soffrire.
L’ottavo giorno si alzò.
I nonni, alla sua vista, la fissarono come se fosse un fantasma e forse d’aspetto ci somigliava.
«Oh, cara. Mangia qualcosa, ti prego. Fallo per loro» disse l’anziana donna porgendole una fetta di pane.
Non nominarli, voleva dire. Ma non riusciva. Non ricordava come si facesse a parlare. Prese quel pezzo di pane e sparì nuovamente dalla vista di chiunque fosse nelle altre stanze dell’appartamento. Si sedette nello stesso posto che, se non fosse stato di cemento, avrebbe preso la sua forma. Addentò una piccola parte dell’angolo e iniziò a masticare. Non riusciva a dare una consistenza a ciò che stava mangiando. La mancanza di liquidi nel suo corpo non l’aiutava quasi a mandar giù la propria scarsa saliva. Voleva darsi forza e ritornare quella di prima, ma semplicemente non ce la faceva.
 
Ricordi dei primi momenti dopo il terribile accaduto le si insidiarono nella mente.
Prese la prima felpa che vide nell’armadio e indossò le scarpe. Cercò sulla mensola la copia delle sue chiavi e uscì senza far rumore da quella casa che non era più la stessa.
Appena fu fuori un vento fresco le accarezzò il viso. Chiuse gli occhi godendosi quel momento.
Quando si sentì pronta si incamminò senza meta per le strade del piccolo paesino in cui aveva sempre abitato.
Assaporò ogni odore notturno che entrava nelle sue narici. E cercò di immaginarselo mentre viveva libera e felice.
Imboccò una strada isolata che portava alla stazione dei pullman e dei treni. Tutto ciò che la circondava erano alberi e campi e pensò che fosse un bellissimo paesaggio. Nonostante il buio la circondasse, lei non si sentiva intimorita, ma sola. Ed era una sensazione già vissuta nell’ultimo anno e che accolse con calore. Nessuno la poteva disturbare mentre, al centro della strada, camminava come se le strisce bianche fossero un filo appeso sopra un burrone senza fine. Fingeva di sfidare tutte le leggi della fisica. Fingeva che il mondo fosse solo un gioco.
Durante la sua passeggiata azzardata, nessuna macchina tracciò il suo stesso percorso risparmiandole ogni fatica nel caso avesse dovuto spostarsi.
Quando finalmente arrivò alla stazione erano le due di notte. Una leggera foschia si era abbassata quasi fino a toccare il terreno e l’umidità era percepibile al tatto.
Avvicinandosi al muretto del marciapiede, ci si sedette sopra sospirando.
 
Il rumore di uno sparo squarciò il silenzio nella banca. Immediatamente tutti i presenti si buttarono a terra coprendosi la testa con le mani. Quattro uomini impugnavano una pistola puntandola verso ciascuno dei dipendenti, fino ad arrivare alle persone sdraiate tremanti sul freddo pavimento. Quando il revolver fu dritto sul viso della ragazza un brivido percorse la sua schiena facendole sudare freddo. Guardò le due persone che la accompagnavano terrorizzata. Per la prima volta nella sua vita ebbe paura. Quella paura che ti si imprime nell’anima, che non dimentichi col passare degli anni.
 
Singhiozzò ricordando quel giorno e, portandosi le mani sul volto, bloccò le lacrime copiose che minacciavano di bagnarle le guance rosse per il freddo.
Sentì un rumore sordo in lontananza, ma non alzò lo sguardo, non ne aveva la forza. Immaginò che fosse un gatto ad averlo provocato.
Strinse le ginocchia al petto cercando di accumulare più calore possibile in quella fresca notte. Quando sentì una presenza accanto a lei alzò lo sguardo volgendolo alla sua destra. A pochi centimetri dal suo braccio, un ragazzo era seduto nella sua stessa posizione e la osservava.
La ragazza sussultò portando la sua mente a vagare. Si chiese chi potesse essere questo tizio.
Voleva urlare, ma rimase semplicemente a fissarlo. Sembrava che il vuoto risiedesse negli occhi scuri del ragazzo.
Quando la sua voce spezzò il silenzio, lei non capì ciò che disse: era troppo concentrata a studiare ogni piccolo movimento del moro. Quando lui intuì che la ragazza non aveva sentito, parlò nuovamente.
«Qual è il tuo nome?» la sua voce era roca, come se non parlasse da giorni.
Lei lo fissò qualche secondo prima di rispondere.
Ripeté il suo nome subito dopo di lei, mormorandolo.
Dopo quelle poche parole, nessuno dei due osò di nuovo parlare, ma dopo parecchi minuti, la ragazza si alzò dalla posizione che le aveva intorpidito le gambe e se ne andò silenziosa come un’ombra.
L’incontro di quella notte l’aveva colpita. Quel ragazzo sembrava condividere la sua sofferenza e quasi la inquietava. Eppure dopo tanto tempo, per la prima volta, si era sentita sollevata perché qualcun altro dava l’impressione di tormentarsi almeno quanto lei.
Era un pensiero così egoista, ma allo stesso tempo così puro.
Mentre percorreva la stessa strada al contrario, verso casa, altri ricordi sempre più nitidi le sfioravano la mente, ma più ricordava, più le saliva una rabbia irrefrenabile.
Sentì le mani pizzicare e scaldarsi in modo esponenziale, così si fermò sul ciglio della strada e si sedette, di nuovo. Non poteva permettersi di perdere il controllo, non ora. Fece un profondo respiro e alzò lo sguardo verso l’orizzonte nascosto dalla foschia, che si era trasformata in una fitta nebbia. Nel mezzo del banco misterioso si alzavano ombre inquietanti. Le sembrava quasi che producessero dei rumori sinistri, ma a questo era abituata. Ogni singola notte da quando era rimasta sola, i rumori e le ombre sembravano essersi amplificati. Ma lei non si spaventava più perché loro avevano promesso di non disturbarla in alcun modo, avevano un patto.
Eppure questa volta sentiva che era diverso. Un’ombra più nitida delle altre sembrava avanzare verso di lei con un passo lento e snervante. Si alzò cauta da terra indietreggiando fino a toccare la corteccia di un albero, aprì i palmi delle mani e li fece aderire perfettamente al ruvido materiale. Chiuse gli occhi concentrata recitando a bassa voce quella che pareva una cantilena.
Improvvisamente il pianto di un neonato squarciò l’assordante silenzio deconcentrando la ragazza. Spalancò gli occhi trovandosene davanti due rossi come sangue e denti affilati come lame. Percepì uno strano calore in tutto il corpo e poi buio.
Si risvegliò quando il sole cominciava ad albeggiare. Era svenuta semi seduta contro l’albero addosso cui, poche ore prima, si era appoggiata e protetta.
Si guardò intorno alla ricerca della cosa che l’aveva attaccata, ma non c’era nessuno. Sentì nei meandri della sua testa il pianto del neonato che l’aveva terrorizzata.
Non poteva essere successo.
L’avevano promesso!
Si alzò percependo un dolore acuto alle spalle, dove doveva aver sbattuto nella caduta.
Fece per incamminarsi imbronciata per la promessa infranta, quando una macchina bianca accostò di fianco a lei. Un uomo robusto e con un camice bianco slavato si affacciò dal finestrino con un sorriso rassicurante.
«Ciao tesoro, cosa ci fai così lontana da casa a quest’ora?»
Lo guardò accigliata senza degnarlo di una risposta.
«Dai, sali, è ora di tornare a casa».
Salì sul veicolo e scoppiò a piangere non appena si sedette.
Prese a dondolare tenendosi le ginocchia strette al petto.
«L’avevano promesso» prese a ripetere la solita litania dondolando sempre più velocemente.
«Cosa ti avevano promesso?» le chiede l’uomo pacato girandosi verso di lei.
«Dovevano lasciarmi stare!» gridò.
«Chi doveva lasciarti stare? Chi te l’ha promesso?»
«Le ombre. Mi perseguitano, mi vogliono uccidere».
«Ssh, ssh, tranquilla» sussurrò mettendole una mano sul ginocchio, fermando il dondolio. «Non verranno più a prenderti, ora sei al sicuro».
«Non sarò mai al sicuro» replicò con voce ferma.
Si rimise in una posizione comoda, allungò le gambe e si sedette normalmente.
Ripensò al ragazzo che aveva incontrato quella notte: era anche lui un’ombra?
Nel momento in cui se lo chiese si sentì un boato e l’auto sbandò finendo dritta contro un albero. La ragazza seguì il tutto come se non fosse all’interno dell’auto, non venne nemmeno sbalzata in avanti quando avvenne l’impatto.
L’uomo col camice e quello alla guida del veicolo erano inermi sui loro sedili, lei non si mosse terrorizzata.
Sono venute a prendermi, pensò.
La portiera al suo fianco si aprì.
Degli occhi neri, ma apparentemente umani la guardavano, una mano tesa verso di lei.
Guardò lo stesso ragazzo che aveva incontrato in stazione e si ritrovò a studiarlo nuovamente.
«Chi sei?» gli chiese infine.
«La tua ombra».
 

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