Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |      
Autore: Lost In Donbass    19/07/2018    1 recensioni
Tom è un ragazzo strano. Solitario e malinconico, è alla perenne ricerca di qualcosa che motivi la sua vita e peregrina in giro alla sua ricerca. Suona come se non ci fosse un domani e sogna per tornare a vivere.
Bill è il ragazzo venuto dal mare. Nessuno capisce il legame imperscrutabile che ha con l'oceano e lui vive a metà tra due mondi, bilanciandosi in un equilibrio che di normale non ha proprio niente.
In un' isola del nord, tra flutti ghiacciati, segreti cantati dalle sirene, tristi canzoni e legami labili come le onde, troverà Tom quello che era andato cercando? Riuscirà a portare via Bill, o lo lascerà scivolare per sempre nel mare che lo ha messo al mondo?
*storia pubblicata, cancellata per errore e ripubblicata*
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
WE HAVE TO GO 1000 OCEANS WIDE

CAPITOLO PRIMO: STRANGE
A freak of nature
Stuck in reality
I don’t fit the picture
I’m not what you want me to be, sorry
 
Bill era l’oceano. Lo chiamavano “sirenetta” da quando era venuto al mondo perché nessuno, nessuno conosceva il mare meglio di lui. Non ci si poteva capacitare del legame profondo e antico che legavano quel ragazzo androgino all’acqua: era qualcosa che sfidava ogni legge naturale eppure esisteva, e le persone che lo conoscevano lo proteggevano dal resto del mondo. E’ il ragazzo venuto dal mare, dicevano, quando, nelle fresche notti d’estate lo si vedeva immergersi imperiosamente nel Baltico, come una regina che entra nella propria reggia. È il figlio dell’oceano, sussurravano ogni volta che lo si scorgeva appollaiato su una roccia in mezzo ai flutti, intento a pettinarsi le lunghe chiome corvine cantando una vecchia canzone. È un bambino scambiato, mormoravano ogniqualvolta che lo si adocchiava galleggiare oziosamente nelle mattine invernali. Era una leggenda, Bill, una leggenda che andava protetta e assecondata – poteva sembrare solo una stupida storia, agli occhi estranei, ma tutti sapevano quanto in realtà ci fosse del vero nella storia della sirenetta con gli occhioni truccati e la risata vagamente cavallina. Tutto il paese aveva visto almeno una volta quello di cui il giovane ventenne era capace: mormorava, con quella sua voce dolce, e le onde si placavano improvvisamente, come accarezzate dal tocco del padrone. Strideva, e allora il mare cominciava a ribollire furioso, aizzato dalle lunghe mani pallide. Rideva, e le foche uscivano scherzosamente dalla spuma, ridendo con lui. Per i suoi concittadini, non c’era storia: soprannaturale o meno, Bill comandava il mare. Non c’era altra spiegazione. Ricordavano tutti quando era bambino, paffutello e ridente, e lo si vedeva caracollare sulla spiaggia, andandosi a incastrare ardimentoso nelle scogliere più impervie, e allo stesso modo veniva ricordata la sua graduale crescita e la conseguente presa di coscienza del suo legame incredibile con uno dei quattro elementi. Solamente lui sembrava in grado di rimanere a mollo per ore senza ritrovarsi tutto rattrappito, di nuotare in pieno inverno senza congelare, di poter stare così a lungo sott’acqua e tornare su ridendo gentile. Bill era un ragazzo felice, strano ma felice. Non parlava molto, si limitava a graziosi cenni del capo o a buffe espressioni dettate dai grandi occhi scuri abilmente truccati o dalla bocca piena e femminea. Sguazzava, per la maggior parte del tempo, spingendosi in anfratti nascosti, standosene seduto sulle rocce come una sirena, facendosi collane con le conchiglie che raccoglieva sulla sabbia bianchissima del nord. Nessuno a scuola gli aveva mai fatto storie se si alzava a metà lezione e andava a buttarsi in mare – aspettavano pazientemente che tornasse, bagnato e sorridente e che si risedese al suo posto senza dire una parola. Spesso scendeva in spiaggia la notte, quando tutti dormivano, e si immergeva negli abissi, lasciando che la luna baciasse la sua pelle pallida in mezzo ai flutti scuri; a volte lo si sentiva cantare alle foche, raggomitolato seduto sulla riva  e bagnato dalla risacca. Sì, Bill era l’oceano, non si poteva esprimere in nessun altro modo.
A vederlo, poteva sembrare un ragazzo normale. Certo, estremamente effeminato nei modi, sempre impeccabilmente truccato e vestito rigorosamente di nero, ricoperto di bigiotteria di ogni genere e minuziosamente attento alla sua complessa acconciatura sparata da tutte le parti: un ragazzo come tanti, ma portatore di un mistero così enorme. Bill non ne parlava mai, del suo “dono”. Si limitava a stringersi nelle spalle ossute – in fondo, lui non sapeva il motivo del suo attaccamento al mare. Era qualcosa di troppo forte e conturbante per poter essere spiegato con parole, scritti, o disegni. Era un sentimento distruttivo quanto la depressione, potente quanto l’amore materno, meraviglioso quanto un sogno; lo sentiva sottopelle, un bisogno incontenibile di stare a contatto con l’oceano e non riusciva ad opporvicisi nemmeno volendo. Aveva smesso di lottare contro sé stesso da anni, oramai, e assecondava in tutto e per tutto la voglia smodata, lasciando che fossero i flutti a decidere per lui. Non aveva mai avuto un carattere forte, d’altronde, e come poteva anche solo pensare di tenere testa al Mare? Quando chiamava, Bill rispondeva, perché era solo in acqua che si sentiva al sicuro da un mondo che non capiva e che non lo comprendeva. Ogni volta che le onde lo lambivano, si sentiva a casa, si sentiva amato, protetto e si era reso conto che poteva anche essere l’unico al mondo, ma non avrebbe lasciato il mare per nulla al mondo. Il richiamo dell’oceano era un canto trascinante e imponente, si dipanava dentro di lui con una violenza che faceva male, costringendolo a ributtarsi nelle braccia dell’elemento che lo aveva cresciuto. Non si era mai davvero chiesto perché riuscisse a stare così tanto tempo sott’acqua senza bombole, e neppure come potesse sopportare le temperature invernali del Mare del Nord, ma in fondo non gli importava nemmeno così tanto. Bill era un ragazzo semplice, in fondo e aveva poche pretese: se il mare aveva deciso così, non sarebbe stato lui a sovvertire le sue regole. A volte rideva, di nascosto, quando i pescatori del suo villaggio andavano a chiedergli come sarebbe stato il moto ondoso, le maree, o da dove avrebbero tirato i venti – uomini vecchi, scafati marinari, che si rivolgevano a un ragazzino giulivo e spensierato. Rispondeva sempre, con una precisione inquietante. Parlava dei venti, delle maree, delle onde come parlasse di trucchi, marche di vestiti o popstar. Le risposte gli fluivano direttamente nel sangue, sangue che alcuni pensavano fosse costituito da acqua marina e viveva bene così, in qualità di benedetto figlio del mare – il fatto che poi l’oceano gli parlasse poteva essere opinabile, ma per Bill quelle voci che sentiva in testa non era altro che il richiamo delle foche, delle sirene, delle maree. Potevano pensare che fosse pazzo, ma a lui non importava, non quando aveva l’Acqua dalla sua. Nessuno poteva permettersi di fargli del male, dicevano in paese e il ragazzo si era sempre adagiato su quello. Non puoi ferire l’oceano: di conseguenza, non puoi ferire Bill. Tutto molto, estremamente, semplice.
 
Quell’estate, Tom era andato in vacanza su Sylt quasi per scomessa. Si era annoiato della solita settimana a Londra passata ad ubriacarsi e ancora di più del solito mare spagnolo in compagnia dei soliti amici. No, quell’anno aveva pensato che andare sulle Isole Frisone, nel nord della Germania, avrebbe potuto avere un suo perché e un suo lato divertente. Appena sbarcato sull’isola, battuta da un vento gelido che non perdonava, aveva sorriso: sì, quel posto gli era sembrato magnifico sin dal primo sguardo. I gabbiani che solcavano i cieli di un pallido azzurro slavato, l’aria di mare che spirava, l’oceano che lambiva le spiagge bianche, era tutto ammantato da una grazia nordica che non poteva lasciare indifferenti.
Tom scosse i lunghi dread biondicci, legati in una coda alta, e si caricò meglio sulle spalle lo zaino e l’insperabile chitarra: anche senza amici, aveva deciso che quell’estate si sarebbe divertito in maniera diversa. Avrebbe visto posti nuovi, avrebbe suonato per ore senza pensare ad altro, e avrebbe conosciuto nuove persone. Era convinto che per suonare seriamente, si avesse bisogno di molti spunti differenti, e siccome la musica era tutto quello che aveva, pretendeva di assorbire il meglio da ogni luogo per regalarlo alla sua vecchia e fida chitarra. Annusò l’aria gelida e salata, ridendo da solo, e prese in mano la mappa dell’isola. Gli era sempre mancato fare una vacanza completamente solo, nei suoi vent’anni di vita, un giro che comprendesse solamente lui e la musica ed era segretamente contento di essersi andato ad arenare su Sylt. Aveva un’atmosfera così diversa da quella della trafficata Madgeburgo che quasi lo lasciava perplesso. Chissà come poteva essere vivere in un posto dove si sentiva solo il canto degli uccelli e del mare che gentilmente accarezzava quelle spiagge di un colore brillante e innaturale. Tom era un ragazzo strano, invero. Spesso solitario, assurdamente sensibile e incline alla malinconia, era però anche capace di essere un amico divertente, fidato e avventuroso. Aveva molte facce, il ragazzo rasta con lo skateboard, e nessuno poteva veramente vantarsi di conoscerle tutte, di aver davvero compreso quella personalità fatta a prisma che rifletteva mille e mille volte comportamenti opposti. A volte era un poeta da strada, a  volte un musicista di periferia, a volte uno squinternato ventenne che doveva ancora crescere.
Era andato fin sulle Frisone sulla scia dei racconti di sua madre, lasciandosi trasportare dall’affetto con cui Simone gli raccontava delle vecchie vacanze di quando era bambina. Dopo anni e anni di storie, aveva deciso di seguire anche lui le ombre della donna, un po’ come se andasse sulla sua personale Isola dei Gabbiani. Solamente che era solo, e che rimaneva in Germania.
Si avviò lungo la stradina battuta che si snodava vicino all’immensa spiaggia candida, guardando le pallide tinte violacee del tramonto che tingevano la sabbia e l’erba piegata dai venti e fradicia di rugiada, lasciando che il vento gelido gli frustasse il dolce viso pallido. Non c’era nessuno, quella sera, nessuno che non fossero una manciata di gabbiani enormi che solcavano dolcemente i cieli profondi e sconfinati che si aprivano sopra l’isola e Tom, con un sorriso incantato sul viso e grosse cuffie sulle orecchie, accompagnato da una canzone dei Mayday Parade. Era tutto così … magico. Sarebbe rimasto a camminare lungo quella strada per l’eternità perché erano anni che non sperimentava una calma e un’intimità simile – gli amici, Magdeburgo, le sbornie, il divertimento, tutto scompariva di fronte all’incredibile bellezza di quel luogo incantato e il rasta se ne rallegrava, interiormente. Era andato a nord proprio alla ricerca di una cosa simile, e l’aveva trovata. Lasciò lo sguardo ambrato vagare sulla spiaggia, e sulla risacca che bagnava la costa. Era bello l’oceano impregnato di raggi solari, rilassante il moto ondoso lento e vagamente ipnotico, esattamente come lo sciabordio sussurrante che cullava ogni creatura vivente. Era bello … Tom si bloccò in mezzo alla strada, levandosi le cuffie e cercando di distinguere meglio la natura di quella figura appolaiata su uno scoglio. C’era una persona, seduta sulla roccia, unico essere umano oltre a lui in quell’immensità – lo vedeva per via di una massa incredibile di capelli neri sparati dappertutto. Si fermò, incuriosito, e si grattò la guancia. Avrebbe potuto andare da lui e chiedergli informazioni sulla strada da prendere per andare al suo bed&breakfast. Con il suo sorriso migliore stampato in faccia, si avviò di buona lena sulla spiaggia, lasciando una buffa serie di impronte nel candore sporcato solo da qualche conchiglia rosata. Più si avvicinava, e più riusciva a distinguere che la figura faceva ciondolare i piedi in acqua, pettinandosi i lunghi capelli. Chissà chi era, si chiese, e chissà perché se ne sta qua da solo. Aumentò il passo e quando fu in prossimità della figura, urlò
-Ehi! Ehi, scusa!
La figura si voltò lentamente verso di lui, e Tom fece fatica a non sobbalzare. Era il ragazzo più assurdo che aveva mai visto: magro come un giunco e fasciato da stretti vestiti neri, aveva un viso di un’androginia spaventosa, accuratamente truccato, e una massa di capelli corvini con le ciocche bianche sparati in aria. Ma erano gli occhi ad aver allibito Tom. Erano profondi, almeno quanto si pensa che possa esserlo l’oceano, abissi nei quali era impossibile non sentirsi calamitati, bui come i cieli notturni eppure lucenti come se fossero stati illuminati da miliardi di piccole stelle nascoste nelle pieghe più oscure dell’universo. Dicevano che vedere il mare in un paio di occhi marroni, era la fine, e Tom sarebbe stato subito pronto a sottoscrivere. Perché sì, quel ragazzo aveva gli occhi scuri, ma dentro sembrava viverci il mare. Vi vedevi specchiata la risacca, le onde che si accavallavano le une sulle altre, i cavalloni impazziti come la calma piatta nei giorni di bonaccia, le stelle che si riflettevano sulla superficie, il gelo che saliva dagli abissi, i pesci che sguazzavano liberi, il canto di mille oceanine e nereidi. Erano occhi meravigliosi, eppure terrificanti. Erano occhi che contenevano distruzione e disperazione ma al contempo gioia sfrenata e imperiosa maestà. C’erano mille soli ad alternarsi attorno alla pupilla. O forse, forse erano mille mari.
-Sì?- il ragazzo gli sorrise, un sorriso dolcissimo che gli illuminò i tratti delicati del viso. Posò la spazzola con cui si stava sistematicamente pettinando.
Tom fece del suo meglio per non boccheggiare e limitarsi a sorridere, con quel suo sorriso franco e allegro che metteva tutti di buon umore.
-Volevo chiederti un’informazione, sono un turista. Sto cercando il bed&breakfast “Mermaid’s Retreat”. Puoi mica dirmi come arrivarci?
Il ragazzo annuì, e gli si avvicinò, ciondolando sulle lunghe gambe da gazzella. Aveva i piedi bagnati e gli skinny jeans arrotolati fino al ginocchio, ma non sembrava avere freddo. Beato lui, pensò il rasta, tremando.
-Devi proseguire lungo questa strada finché non vedrai le prime case. Vedrai una casetta verde e, accanto, una stradina sterrata che prosegue dritta. Prendila e, alla prima deviazione, vai a destra. Vedrai una casa rosa molto carina e quella è la pensione.
Aveva una voce adorabile, sommessa, cantilenante. Sembrava che seguisse il movimento della risacca e che si intonasse perfettamente al lento fruire delle onde. Come se fosse il mare che gli stesse dando le indicazioni. O come se fosse lui che dettasse il ritmo all’oceano. Era qualcosa di strano, ma contemporaneamente di così metafisico che fece quasi rabbrividire Tom di un piacere arcano e nascosto.
-Grazie, grazie mille. A proposito, mi chiamo Tom. Piacere.
Gli tese la mano, e il ragazzo gliela strinse a sua volta. Aveva le mani lunghe, pallide e morbide, con lunghe unghie dipinte di nero e blu notte.
-Io sono Bill, piacere mio. Vivo in quella casa laggiù, se dovessi avere ancora bisogno.- indicò un piccolo cottage celeste poco lontano dalla spiaggia, completamente isolato dal resto del villaggio. – Ma più spesso mi troverai qui. Da dove vieni, Tom?
-Magdeburgo. Non so se hai presente, è giù in Pannonia.- Tom sorrise, grattandosi il retro del collo. Quel ragazzo era strano. Ma strano in senso buono, affettuoso, un po’ stralunato e un po’ originale, ma gli piaceva così. Lo ispirava.
-Oh, sì che ho presente!- Bill si sciolse in un sorriso entusiasta – Però non ci sono mai stato. Anzi, a dir la verità non sono mai andato via da Sylt.
-Mai? Non sei nemmeno andato a Berlino?- Tom sfarfallò gli occhi e Bill annuì, mordendosi il labbro inferiore.
-Mai. In realtà, però, non ci tengo molto: non c’è il mare. E senza il mare io non vivo, non riesco a respirare, capisci?.- si strinse nelle spalle magroline e scoppiò in una risata scrosciante come l’acqua quando si incanala nelle grotte sottomarine.
Tom non capiva, ma sorrise, imbarazzato e annuì a sua volta. Sì, quello era sicuramente un ragazzo molto particolare ma gli piaceva. Gli piaceva il suo modo di parlare, i suoi occhioni tristi e la sua bellezza proibita. Sicuramente, durante la sua permanenza su Sylt, avrebbe fatto di tutto per rivederlo e per parlargli di nuovo, anche solo per poter rivedere quegli occhi che sapevano di oceano o stringere quelle mani che sapevano di sale e alghe.
-Magari domani ci rivedremo, allora. Pensavo di venire in spiaggia.- disse Tom, giocherellando con i cordini della felpa sformata.
-Sarebbe molto carino.- Bill sfarfallò le lunghe ciglia incrostate di mascara – Mi troverai qui, a qualsiasi ora del giorno. O della notte.
-Allora a domani, Bill.
Tom gli rivolse un largo sorriso e lo salutò, avviandosi di nuovo sui suoi passi. Fu solamente dopo un po’ che camminava sulla strada principale che venne preso da una voglia irrefrenabile di rivedere ancora quello strano ragazzo glamster. Si voltò verso la spiaggia e non vide più nessuno. Stranito, cercò di aguzzare lo sguardo eppure la bianca distesa sabbiosa sembrava completamente deserta. Si strinse nelle spalle, ma fu un attimo prima di rivoltarsi verso la strada che qualcosa attirò la sua attenzione. In mare, tra le lente e lunghe onde che carezzavano la battigia, nuotava qualcosa. O meglio, qualcuno con degli assurdi capelli che sfidavano la gravità e che si muoveva, lento e sinuoso come una medusa, verso la casetta azzurra dall’altra parte della spiaggia. Tom lo vide alzare la mano e salutarlo, prima di immergersi totalmente sotto il mare cristallino.
 
Comodamente seduto su uno dei divanetti verde acqua del “Mermaid’s Retreat”, il rasta stava amabilmente chiaccherando con Georg, un ragazzo del posto che prestava servizio nella pensione. Quel posto era semplicemente delizioso: decorato con conchiglie e legni spiaggiati, simulava una sorta di grotta marina profumata da incensi e dall’inconfondibile profumo della birra scura che serviva il pub. Foto di antichi vascelli e di marinai tempestavano le pareti e sul caminetto faceva la sua bella mostra un vecchio timone. Sì, Tom era davvero contento di aver seguito il suo istinto ed essere andato in vacanza su Sylt. Altro che Maiorca, lì sì che poteva dedicarsi allo studio e alla sua chitarra. Bevve un sorso di birra, ascoltando interessato i racconti di Georg sulla nascita del “Mermaid’s Retreat”, quando una constatazione gli sorse spontanea dalle labbra.
-Sai, oggi ho incontrato un ragazzo del posto … era molto strano.
Georg alzò un sopracciglio, scostandosi i lunghi capelli castani dal viso squadrato.
-Ma dai? E chi era?
-Ha detto di chiamarsi Bill. Effeminato, truccato, era sulla spiaggia grande che devi attraversare per arrivare qui.
Tom non fece nemmeno in tempo di finire di parlare che intercettò la smorfia amara sul viso del nuovo amico.
-Ah, hai già conosciuto Bill. Complimenti.- il ragazzo tossicchiò, bevendo un sorso di birra. – Che impressione ti ha fatto?
-Strana, assolutamente. Ma perché? Chi è?- incuriosito, Tom si sporse verso Georg, spalancando comicamente i grandi occhi scuri.
-E’ un po’ difficile da spiegare a uno che non è di qui.- Georg tentennò, cercando le parole adatte – Non farti strane idee, è un bravissimo ragazzo però … vedi, su di lui circolano molte leggende, qui su Sylt.
Tom lo incitò col capo a continuare, vittima di una curiosità quasi dolorosa. Erano anni che non incontrava qualcuno che lo solleticasse nel profondo così tanto come quella buffa apparizione quasi fantasmatica che lo aveva accolto non appena sbarcato sull’isola.
-Sembra che lui non possa vivere lontano dall’oceano. È una cosa assurda, ma se lo tieni per troppe ore lontano dall’acqua si sente male, te lo garantisco, c’ero anche io quando è successo. A scuola soffriva così tanto che i professori gli davano il permesso di uscire e fare un bagno in mare prima di tornare in classe. Permessi speciali che in un villaggio piccolo come il nostro di possono dare, ma era qualcosa di incredibile. Nessuno sa veramente cosa gli succeda, ma funziona così. Sa tutto quello che riguarda i venti, le maree, le tempeste, sembra che abbia un radar naturale impostato su quelle frequenze.
-Ma è fuori dal mondo!- Tom fece tanto d’occhi, sfarfallando le ciglia – Come può essere possibile una cosa del genere?
-Non lo so, ma è così.- Georg si strinse nelle spalle. – Te ne accorgerai anche tu, se starai un po’ qui con noi. Tutto quello che riguarda Bill è leggenda, ma è una leggenda vera, tutti la possono toccare con mano. Anzi, domani vallo a cercare. Vedrai che non ti ho mentito.
Tom annuì lentamente, mordicchiandosi il labbro inferiore. Era tutto troppo per il suo primo giorno di vacanza, ma non poteva fare a meno di trovarlo incredibilmente eccitante. Sicuramente, il giorno dopo sarebbe andato a cercare Bill e avrebbe indagato su quegli strani racconti popolari.
-Un’ultima cosa.- la voce di Georg lo distolse dai suoi pensieri – Ti basti sapere solo questo sulla storia di Bill: lo chiamano “il ragazzo venuto dal mare”.
-E … perché?- Tom si rese conto di aver abbassato la voce a un sussurro, esattamente come si erano abbassate le luci del salottino.
-Perché la leggenda vuole che Bill non sia nato su questa terra, ma sia uscito, bambino, direttamente dai flutti in una notte di tempesta.
Tom sbatté un poco gli occhi e deglutì silenziosamente. Nato negli abissi dell’oceano. Era qualcosa di così assurdo e meraviglioso che metteva i birivid solo a pensarci, ma oramai aveva deciso: avrebbe sicuramente indagato più a fondo sulla natura del suo primo incontro sull’isola.  Avrebbe cercato il ragazzo venuto dal mare.
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lost In Donbass