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Autore: meiousetsuna    19/07/2018    8 recensioni
Storia scritta per il magnifico evento: Happy Birthday Ben, indetto dal gruppo Facebook: “Johnlock is the way…”
Sherlock festeggia oggi il suo compleanno e John gli ha promesso un regalo indubbiamente di suo gradimento. C’è solo un piccolo problema…
Dal testo: Sherlock si era svegliato solo e abbandonato nel famigerato giorno del suo compleanno, con la misera compagnia di un biglietto che recitava: ‘Vado a ritirare la torta, fa’ colazione e auguri’. Incredibile quanto si potesse cadere in basso! Era certo che in qualche angolino di memoria ci fossero frasi di poemi di celebri autori inglesi imparati con molta noia alle elementari; forse uno che diceva qualcosa come ‘posso dunque paragonarti ad un giorno d’estate?’… sciocchezze così, niente di impegnativo. Forse sarebbe dovuto uscire per fargliela pagare, anche se sospettava che John avrebbe trovato un cavillo per definirlo infantile e capriccioso, figuriamoci.
[Johnlock, pre-slash, commedia] ambientazione: più o meno terza serie, senza che Mary sia mai esistita
Have fun!
vostra, Setsuna
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per l'evento: Happy Birthday Ben, indetto dal gruppo Facebook "Johnlock is the way"
grazie a ChiaFreebatch e tutte le meravigliose ragazze che hanno permesso questa partecipazione!

A Koa__: torna presto, Dolcezza, non è lo stesso senza di te

Johnlock
commedia, sentimentale, pre-slash
rating: giallo
ambientazione: più o meno terza serie, senza che Mary sia mai esistita
Per esigenza dell’evento, il compleanno di Sherlock è stato spostato dal 6 gennaio al 19 luglio, (auguri, Ben! *.*) il che cambia “gravemente” il segno da Capricorno a Cancro, ma hey! È lo spirito del gioco! ^^

Present Perfect

Sarà un regalo che ti piacerà di sicuro”.
La frase pronunciata da John si rotolava nelle orecchie di Sherlock con molesta insistenza da ventidue giorni, dieci ore e circa quindici minuti. Quell’approssimazione non era colpa sua, erano i diversi orologi presenti in casa che segnavano addirittura un minuto di differenza uno dall’altro! C’erano molti oggetti che gli sarebbero piaciuti, nessuno che desiderava particolarmente e niente che l’avrebbe scontentato. Il punto era un altro: da quando era bambino non gli era importato più di festeggiare la ricorrenza della sua nascita, un’usanza stupida adatta appunto ai più piccoli, alle persone sentimentali e agli anziani che erano soddisfatti di essere sopravvissuti un altro anno. Lui non era nessuna di queste cose, essendo incredibilmente intelligente, adulto ma giovane; ‘trentasette anni sono una bella età’, pensò.
Forse perché a pochi giorni di distanza lui e John avrebbero compiuto un anno dall’inizio ufficiale della loro relazione, e quella era una cosa memorabile, che aspettava con trepidazione. Non avrebbe sbagliato di un solo secondo nel calcolo dell’attimo esatto, che bastasse il promemoria a caratteri cubitali esposto nel Palazzo Mentale, o che fosse dovuto andare a Greenwich a controllare che la misura del tempo del mondo fosse esatta.


Erano rimasti bloccati nell’ascensore di Scotland Yard, una situazione incresciosa quanto buffa, considerando che l’allarme non voleva saperne di funzionare ed era la pausa pranzo. Mentre il dottore imprecava allegramente, Sherlock si era tolto la giacca nera, visto che la temperatura all’interno della cabina, rimasta senza aria condizionata, era subito salita in modo fastidioso. Dopo un paio di minuti i riccioli più vaporosi ai lati del viso si erano leggermente inumiditi, attaccandosi alle tempie, e John, sorridendo, li aveva affettuosamente scompigliati.
“Mi piacciono di più, quando sono spettinati”.
Il gesto si poteva definire senza dubbio innocente, ma era proprio quello il punto, la mancanza di studiata malizia, o di un tentativo penoso di seduzione.
“Ancora”.
“Cosa? Devo toccarti i capelli?”
Il detective non aveva risposto nulla, a voce. Ma gli occhi luminosi e un timido accenno di sorriso, unito a un cenno affermativo del capo, erano stati più che eloquenti. Di solito Watson non amava andare per deduzione, anche quando aiutava il suo amico nelle indagini, ma quel giorno un felice istinto gli suggerì tutto il sottinteso che si nascondeva all’ombra di quell’unica parola. Si era avvicinato con cautela, costringendo subito il bruno con le spalle alla parete e trattenendo il fiato aveva lasciato scorrere la mano sinistra tra i capelli setosi, come gli era stato chiesto, per poi indugiare sulla linea del viso, sfiorando le labbra rosate di Sherlock col pollice. Un attimo dopo l’aveva sostituito con un bacio lieve e bruciante, che aveva visto Sherlock capitolare senza riserve. Con mani tremanti aveva stretto John perché tra i loro corpi non restasse più un filo d’aria, ricambiando il bacio in modo leggermente impacciato ma con un calore che era semplicemente insospettabile in uno come lui, che si definiva sociopatico (ma era chiaro da molto che non fosse vero) disinteressato al genere umano (salvo rischiare la vita per salvare sconosciuti in pericolo) troppo furbo per trovarsi in svantaggio (infatti con lui non lo sarebbe stato) e vergine… oddio, quello sì. Era vero, lo sentiva dal respiro così affannoso e dal battito del cuore che pareva rischiare di andare in frantumi, lo vedeva dal rossore delle guance e dalle ciglia scure che velavano gli occhi di cristallo come a proteggerli per la vergogna. Era una cosa dolcissima, che avrebbe trattato con la cura che meritava.
Cercando di mantenere un minimo di autocontrollo si fermò, strofinandosi sull’incavo delle spalle del più alto con la fronte. La loro differenza era un po’ seccante, in quel momento, ma una volta in un letto… baciandogli il collo scese piano con i polpastrelli sul petto, fino alla vita, poi, facendolo sobbalzare si fermò a giocherellare con la cintura.
“John, sì…”
Solo dopo aver ascoltato quell’invito il dottore si permise di proseguire, sfiorandolo con la punta delle dita sulle cosce, per poi esercitare una lieve pressione su quella che ormai era un’evidente erezione. Sherlock si trovò in debito di ossigeno e contemporaneamente attraversato da una scossa che non avrebbe immaginato potesse provare, lasciandosi sfuggire un lamento definibile solo come osceno.
“Dio, Sherlock, così non possiamo andare avanti, non sarebbe giusto per te… voglio strapparti i vestiti, baciarti tutto e girarti contro questo specchio… ma non va bene, non così. Quando ci tireranno fuori da questa trappola faremo una corsa in taxi, e a casa sarà perfetto, potrò dedicarmi a te per farlo essere bellissimo. Sono sicuro che usciremo presto di qui”.
“Anche io”. Senza farsi problemi, Sherlock premette quattro volte il pulsante “-piano 0”, facendo ripartire l’ascensore.
L’avevi bloccato tu?” Un rantolo minaccioso uscì dalla gola contratta del medico.
“Non ti decidevi, e io non sapevo come ci si avvicina a qualcuno, non ti dispiace vero? Ero certo che ti saresti fermato al terzo tentativo, si arrendono tutti; così ho impostato un sistema…”
“Sai, penso di aver cambiato idea, sono stufo delle tue trovate!”
Cinque minuti dopo erano in taxi, Sherlock con un’aria contrita e John ostinatamente girato verso il finestrino, ma arrivati sotto casa la scena era piuttosto diversa. Le mani di John erano infilate senza pudore negli slip del suo ragazzo ― si fa presto ad abituarsi alle cose positive ― mentre lui gli bisbigliava all’orecchio frasi estremamente piacevoli, toccandogli i muscoli delle braccia e della schiena, dando spazio per quanto poteva alle sue esplorazioni. Il pomeriggio era stato meraviglioso, dall’inizio alla fine, lasciandoli spossati e felici, con Sherlock che alla fine era scoppiato in un breve pianto liberatorio stringendosi al biondo per farsi coccolare finché era sprofondato in un sonno tranquillo pieno di sogni.

Quel ricordo non si era mai allontanato, essendo custodito nel Palazzo Mentale come una preziosa reliquia, ma in quel momento era tornato alla ribalta in tutto il suo splendore. Peccato che del dottore non ci fosse neppure l’ombra, in casa. Inaccettabile. Sherlock si era svegliato solo e abbandonato nel famigerato giorno del suo compleanno, con la misera compagnia di un biglietto che recitava: ‘Vado a ritirare la torta, fa’ colazione e auguri’. Incredibile quanto si potesse cadere in basso! Era certo che in qualche angolino di memoria ci fossero frasi di poemi di celebri autori inglesi imparati con molta noia alle elementari; forse uno che diceva qualcosa come ‘posso dunque paragonarti ad un giorno d’estate?’… sciocchezze così, niente di impegnativo. Forse sarebbe dovuto uscire per fargliela pagare, anche se sospettava che John avrebbe trovato un cavillo per definirlo infantile e capriccioso, figuriamoci. Così, sospirando drammaticamente verso il nulla, il detective si vestì con un completo grigio perla, che conferiva alle sue iridi riflessi dello stesso colore. Aveva appena allacciato l’ultimo bottone, quando sentì il campanello suonare; una sola volta. Qualcuno che non aveva dubbi sul fatto che gli venisse aperto subito.
“Signora Hudson!” Il tono era tale da far tremare le pareti, ma la gentile padrona di casa stava passando l’aspirapolvere con la colonna sonora di “Fear of the dark” degli Iron Maiden, e non c’era da sperare in lei. Così scese i diciassette gradini con calma, aprendo per trovarsi di fronte da un lato Anthea, sexy come suo solito con un tubino nero praticamente dipinto addosso e un mazzo di gardenie in mano, un sorrisino infido che doveva aver imparato dal capo, e alla sua destra…
John Watson, Capitano del Quinto Fucilieri del Northumberland, tre anni in Afghanistan, veterano del Kandahar dell'Helmard in tutto il suo splendore, no, di più!* Era quello il regalo del suo compleanno; John era riuscito a farsi consegnare una divisa di gala, che non gli sarebbe spettata dopo il congedo, e l’aveva indossata per lui. Affogare nella propria acquolina in bocca era proprio la definizione più dignitosa che l’investigatore potesse trovare per se stesso, mentre l’immaginazione andava a cosa avrebbe potuto fare lì per lì, all’ingresso, anche con la porta aperta se necessario. ‘Atti osceni in luogo pubblico’ non era poi il peggiore dei reati, purché finissero nella stessa cella. Anthea doveva aver assorbito per osmosi qualche talento Holmes, perché lo guardò con moderato disgusto, consegnandogli i fiori.
“Sono gli unici adatti agli uomini, spero ti piacciano. Per favore, non pensare così tanto, è imbarazzante”.
John si gustò la sua entrata trionfale, spalle alte e pancia in dentro, lanciando uno sguardo al fidanzato che significava ‘poi vedrai’, inchinandosi leggermente per cedere il passo alla sua accompagnatrice. Sherlock roteò gli occhi al cielo innervosito da quell’obbligo di rimandare, e considerando che le berline non crescessero in strada come funghi, questo significava solo che il maggiore degli Holmes sarebbe seguito a breve distanza, e Anthea era la sua messaggera del malaugurio.
“John… stai benissimo” il bruno era languido e morbido mentre si approcciava all’ex capitano, passando le mani sulle mostrine e sulla croce argentea, poi sul viso perfettamente sbarbato e l’attaccatura dei capelli rifiniti di fresco “resta un attimo qui, lascia che ti dimostri una cosa”.
John non aveva nulla da ridire mentre si appoggiava al portoncino d’ingresso per ricevere un ‘grazie, che bel dono!’, ma in quel preciso istante il campanello suonò di nuovo rimbombando nei suoi timpani. Imprecando a bassa voce si girò, aprendo con poca grazia.
“Benvenuto, Mycroft”.
L’elegante uomo politico entrò senza indugi, infastidito come se la porta dovesse allargarsi per farlo passare più comodamente. C’era un sole che spaccava le pietre, ma l’immancabile ombrello era al suo braccio, e sfoggiava l’espressione da vecchia volpe delle grandi occasioni.
“Dottor Watson, lei fa onore all’Inghilterra.  Credo che il mio fratellino ne sarà entusiasta. Oh, eccolo, era qui. Buon compleanno, Sherlock, mi sono preso la libertà di ordinare un rinfresco, lo porteranno tra breve, tu sei così approssimativo. E questo è per te”.
Sherlock ricevette con aria sdegnata il pacchettino avvolto in una splendida carta di riso, chiuso da un nastro viola prugna, una combinazione di gusto giapponese che piaceva molto a Myc. Non c’era bisogno di aprirlo per capire cosa fosse, era chiaro al tatto, e Sherlock si impegnò molto per non lasciare che gli occhi si velassero di lacrime.
“Da quanto tempo ce l’hai?”
“Da pochi mesi, l’ho trovato seguendo le riparazioni di casa… ho pensato che ora che sei diventato così romantico ti avrebbe fatto piacere. John, vedo che sei curioso ― Holmes era tornato al familiare ‘tu’ che aveva col dottore già da un po’ ― è soltanto l’aereoplanino preferito di Sherly, credeva di averlo perso in giardino, invece qualcuno l’aveva riposto in un baule di vecchie cose. L’ho fatto riparare e verniciare con colori d’epoca, naturalmente”.
“È un bellissimo pensiero, Mycroft. Posso?”
Sherlock passò il pacco senza battere ciglio nelle mani del suo ragazzo, ma questi si fermò in tempo.
“No, vuoi aprirlo dopo da solo, vero?”
“Se non ti dispiace”.
“Certo che no, è una cosa tra fratelli, è giusto. Mi piace non vedervi litigare, per una volta”.
Due paia di occhi azzurri eseguirono in perfetta sincronia un movimento rotatorio che andava tradotto: ‘figurarsi, io d’accordo con quello stupido’, come se i loro proprietari fossero stati un’unica persona.
“Raggiungo Anthea al piano di sopra, fate pure con comodo”. Quella che pareva una frase gentile era sincera come quella di un serpente che invita un topo a farsi un giretto nella sua bocca.
John decise di non prenderla male, voleva che il compleanno del suo innamorato fosse una festa riuscita, dal pranzo che avrebbero fatto a casa all’uscita serale con tutti i suoi amici che erano ansiosi di conoscerlo, e sapendo quanto questo gli sarebbe costato, aveva invitato le persone più rassicuranti per lui perché fossero presenti tutto il giorno. Ovviamente Sherlock avrebbe avuto bisogno di rilassarsi per affrontare tanti umani interessati ai fatti suoi, doveva essere dell’umore giusto e a quello avrebbe provveduto lui, con immenso piacere; l’avrebbe trasformato in un gattino che faceva le fusa e che si sarebbe fatto condurre per mano dove voleva, parola del capitano Watson! Anzi, era il momento di cominciare…
“Vieni in cucina, i nostri ospiti potranno fare a meno di noi per un quarto d’ora”.
“Ma John! Solo un quarto d’ora?”
“È l’antipasto, cosa credi? Muoviti invece di replicare sempre!”
E cucina fu. Chiusa la porta, Sherlock si trovò sbattuto contro il muro con le mani di John proprio dappertutto, ― ma quante ne aveva? ― finché un colpo di tosse secco li fece saltare fino al soffitto. La signora Hudson era rimasta nascosta dall’anta aperta dell’armadio dove stava riponendo l’aspirapolvere, e non sapeva se cercare di sgattaiolare via o palesare la sua presenza.
“Siete così carini, ma per favore, aspettate che sia uscita, sono sicura che sia un’idea migliore”.
Le orecchie di John facevano il paio col viso di Sherlock in quanto a vivacità del rosso che le tingeva e non un fiato venne emesso dalle loro gole se non un “mi scuso moltissimo” biascicato da John che aveva senz’altro un’educazione più formale, mentre la simpaticissima donna scappava via sogghignando contenta, portando un vassoio d’argento col miglior servizio da tè in sala.
“Camera mia, di corsa” John avrebbe voluto avere un timbro deciso ma gli scappava da ridere “qui sarà un andirivieni per prendere da mangiare, tuo fratello ha esagerato, sul tavolino del salotto non ci sta tutta questa roba”.
Il bruno non se lo fece ripetere due volte, seguendo il dottore al piano superiore, dove finalmente sarebbero stati in pace. Si curvò a baciarlo, aggrappandosi al suo collo e tirando piano i capelli corti, mentre indietreggiando lo trascinava fino al letto, dove si sedette a peso morto lanciandogli uno sguardo provocante e cominciando a sbottonargli i pantaloni, provocando una reazione istintiva che poteva solo lusingarlo. Di sicuro quel rumore che sentiva non era un vero bussare alla porta, ma un’allucinazione. Non poteva essere vero.
“Ragazzi, posso entrare, per favore?” La voce dolce di Molly in quel momento sembrò il suono più brutto dell’universo, che pure ne conteneva diverse migliaia.
“Entra, Hooper”. Sherlock aveva risposto subito, ma stava trattenendo John per i fianchi senza alcuna vergogna, tanto per chiarire subito la situazione. La ragazza si fece avanti col consueto tenero sorriso sul viso, trovandosi di fronte a uno spettacolo di natura esplicita.
“Avete deciso di saltare subito al dolce”.
La frase era scherzosa, ma Sherlock si pentì subito della scena che aveva fatto. Molly aveva preso in modo incredibilmente sportivo la rivelazione della sua relazione con John, forse perché l’aveva sospettato da tempo, ma anche perché gli voleva così bene da desiderare solo la sua felicità. Spostò John con delicatezza, cogliendo approvazione nei suoi occhi, per alzarsi ad accoglierla con un bacio sulla guancia destra.
“Benvenuta, Molly”.
“Grazie, John. Scusate, sto tornando dal turno di mattina e dovrei cambiarmi, ho portato un bell’abito” un gelo assoluto accolse quella dichiarazione “pensavo di vestirmi qui perché ho capito, ecco, che questa stanza adesso è per gli ospiti. Buon compleanno, Sherlock”.
Quello che chiaramente era un libro passò alle mani eleganti del detective, che si dichiarò contento del regalo, facendo tirare un sospiro di sollievo a John. Nessuna battutaccia sul rossetto, sulla probabilità che il suddetto abito elegante fosse giallo e sembrasse uscito dall’armadio della regina ― il ché non era un complimento ― né sulla confezione fin troppo accurata. Gli dispiaceva essere l’origine di una parte della sofferenza che la ragazza doveva ancora nutrire, perché vedeva che era sincera nella mancanza di rancore nei suoi confronti. Sarebbe arrivato qualcuno di speciale anche per lei, pensò, lo meritava davvero.
“Credo sia una buona idea lasciare Molly da sola, andiamo”.
I due fidanzati erano in corridoio, adesso, con un’aria sconsolata.
“John, non posso aspettare, trova una soluzione!”
L’ex capitano si sentì dieci centimetri più alto guardando le scintille di eccitazione che gli illuminavano gli occhi cristallini, e decise che un vero uomo non poteva essere una delusione.
“Ci chiudiamo in camera tua, e anche se tenteranno di buttare giù la porta li lasceremo fare, peggio per loro. Però passiamo in silenzio, almeno proviamoci”.
A quanto pare la Fortuna mostrava loro il suo volto benigno, perché a giudicare dalle voci, Mycroft, Anthea e la signora Hudson stavano ingannando piacevolmente l’attesa, di sicuro tutto merito di Martha, non di quei due stoccafissi… Molly avrebbe impiegato un po’ a prepararsi e nessuno li avrebbe cercati subito.
Oltrepassarono il salotto con l’attenzione che ponevano nei loro agguati ai criminali più incalliti, rifugiandosi nella stanza di Sherlock, pronti a spostare l’armadio contro la porta come barricata, ma non ce ne fu bisogno.
“Sorpresa! Buon compleanno, amico mio!”
No, Dio doveva odiarli per qualche motivo. Lestrade era nella stanza del detective, insieme a Sally Donovan ― davvero? ― e il letto matrimoniale era occupato da quello che, innegabilmente, era un plastico di una scena del crimine** comprensivo di piccoli modellini di cadaveri insanguinati contornati con una traccia di gesso e un sottile nastro giallo a delimitare la zona off limits.
“Abbiamo catturato il serial killer di senzatetto stamattina all’alba, con le tue indicazioni. Bè, grazie e auguri”. Sally porse una mano freddamente, non avrebbe potuto fare di più.
Con sorpresa di John e ancora maggiore di Greg, Sherlock la ricambiò con uno slancio genuino. Ci teneva molto ai suoi collaboratori invisibili, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggerli ed era quello il regalo di compleanno che lo stava rendendo felice. Certo, il diorama non era male, stava meritando due minuti della sua attenzione sottratta a John. Era realistico e curato nei minimi dettagli.
“Grazie Gavin, penso proprio che non lo butterò”.
“Troppo gentile! Abbiamo chiamato uno specialista pagando con i soldi dei contribuenti”.
John sarebbe scoppiato a ridere, mentre Lestrade stritolava Sherlock in un abbraccio cameratesco e affettuoso, anche se il problema principale permaneva, anzi, era peggiorato di colpo.
“Posso chiedere perché in camera da letto?”
“Non è completo, mancano dei pezzi, speravamo che vi trattenessero di la, quando siamo arrivati eravate al piano di sopra, e… oh, diamine”.
Greg cercò di soffocare una risata, grattandosi la testa con imbarazzo, i suoi occhi buoni accesi da un’insolita malizia.
“Volevate stare soli. Sally, andiamo a bere un bicchiere di vino bianco, che ne dici?”
La donna si limitò a non rispondere, annuendo e uscendo rapidamente da quella camera come se stesse andando a fuoco, seguita dall’ispettore che cercava di assumere un’aria assente.
“Allora?” John alzò entrambe le sopracciglia con aria di sfida “buttiamo giù quel monumento e ci aggrovigliamo su nostro letto, festeggiato?”
“Veramente… vorrei vederlo completo. Purché a te stia bene”.
John si trovò a combattere con l’istinto di fare a pezzi il dannato plastico, ma distruggere il regalo di Greg era fuori discussione.
“In più ho un’idea migliore, Jawn”. L’arma vietata! Doveva essere una grossa pretesa.
“In bagno, precisamente nella doccia. Mi ricorderebbe…”
“L’ascensore, dove ti avevo promesso di farti alcune cose specifiche, mi pare. Fantastico, brillante, ma muoviti se vuoi che duri più di cinque minuti, sto impazzendo”.
Il bagno pareva diventato il Grand Hotel in quanto ad appetibilità e lo sarebbe stato se uno spettacolo invero deprimente e assolutamente incredibile non si fosse presentato davanti a loro.
Philip Anderson non si era mai ripreso dallo shock di aver partecipato a provocare il “suicidio” di Sherlock, e ora lo trattava come un essere celeste che fosse tornato per redimerlo dalla sua cattiveria. Era seduto sul pavimento, con le lacrime agli occhi, muovendo i modellini mancanti del plastico, che raffiguravano John e Sherlock, mimando la scena della caduta dal tetto del Bart; l’investigatore era sul lavandino e il dottore, a terra, lo pregava di non gettarsi, ma di tornare da lui. Mancava solo che li avvicinasse dicendo “ora baciatevi”.
“Anderson!” ruggì John, “fuori dalla nostra toilette, tu e quei cosi, o potrei ammazzarti”.
“Io mi sbarazzerei del cadavere”, aggiunse il bruno con compiacimento.
L’uomo li fissò inebetito, ma non quanto avrebbe dovuto, come se ormai quello fosse il suo pane quotidiano. Li contemplò con tristezza mista ad ammirazione e qualche altro sentimento non ben definito, ma non riusciva a smuoversi. Prima di passare all’azione John contò fino a dieci, poi decise che era meglio arrendersi.
“Ricomponiti e raggiungici in salotto, è l’ora di un brindisi”.
Nulla da fare. Quando finalmente furono tutti sul divano, le poltrone e anche due sedie, cavallerescamente occupate da Greg e John, stapparono il vino e dopo un brindisi di auguri iniziarono a pranzare col buffet portato da Mycroft, che era davvero delizioso, come prevedibile. Tutti sembravano a loro agio, aver diviso tante avventure e rischi li aveva uniti profondamente, pensò il dottore, ma non si sentiva certo soddisfatto. Non tanto per sé, ma per il regalo non consegnato del tutto, era chiaro che l’uniforme fosse solo la prima metà. Sherlock voleva che lo facesse suo quella mattina, era il suo dannato compleanno e doveva avere quello che aspettava.
Improvvisamente si alzò, incenerendo gli abiti del suo fidanzato con uno sguardo.
“Sherlock”. Era il tono duro del Capitano Watson, senza dubbio. “Siediti sul tavolo, ora”.
“Sì, John”. Sally aveva storto la faccia pensando di assistere a qualche bacio sdolcinato o giù di lì, ma dovette ricredersi quando John sollevò di peso il suo alto fidanzato provvedendo lui stesso, per poi togliergli la giacca e iniziare a sbottonargli la camicia. Sherlock era euforico, e si era avvinghiato a John come a un salvagente del Titanic, aiutandolo a eliminare il prezioso capo d’abbigliamento di seta. Inizialmente Molly e Martha scoppiarono a ridere, ma durò poco.
“Ragazzi... noi saremmo ancora qui”, fece notare Greg.
Mycroft e Anthea si scambiarono uno sguardo di valutazione, mentre le mani di John slacciavano la cinta del suo amante e quelle di Sherlock facevano lo stesso, facendolo rabbrividire per l’aspettativa.
“Alza i fianchi”. Sherlock ubbidì subito, facilitando John che gli stava abbassando i pantaloni alle caviglie prima di spostarlo più sull’orlo del mobile.
“Fanno sul serio?” chiese Anthea senza troppa emozione.
“Sì, credo che potremmo andar via. Signore, signori, è stato un distinto piacere”.
I due si volatizzarono come camminando su una nuvola che attutisse i rumori, seguiti dalle tre donne, una che pareva volesse vomitare da un istante all’altro, la seconda che si fregava le mani per la contentezza e l’ultima che rischiava di cadere per coprirsi gli occhi con le mani.
Lestrade sarebbe già stato all’ingresso, anche perché ormai John si era impadronito dell’elastico degli slip di Sherlock, ma restava da recuperare qualcuno.
“Anderson! Fuori di qui!”
“Voglio restare a guardare”.
“Ho detto fuori, altrimenti il traffico lo dirigerai in Italia, giuro che lo faccio!”
La minaccia fu sufficiente, ma lo yarder dovette comunque tirarlo fuori per un braccio come un bambino dal Luna Park.
“Dici che torneranno?” John rideva sulle labbra di Sherlock, prima di cominciare a fare l’amore tra i resti dell’aperitivo.
“Penso di no, ma non mi importa, Capitano. Ora mantieni la tua promessa”.


present-perfect * Dopo aver rotto l’anima a tutte, eccola qui, non potevo non usare la divisa del principe *-*
** Giuro, non è quello di “Porta a porta”!
Per il titolo: il present perfect è il tempo verbale che esprime il concetto di un’azione svolta nel passato che ha ancora rapporto col presente, quindi poteva esprimere la narrazione quasi circolare, e nello stesso tempo si gioca su un “perfetto regalo”, anche se ovviamente l’ordine delle parole è sbagliato.

 

 

  
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