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Autore: hikaru83    20/07/2018    11 recensioni
Storia partecipante all’Evento Happy Birthday Ben indetto dal gruppo Facebook Johnlock is the way.
John e Sherlock sono tornati a vivere insieme al 221b di Baker Street. Dopo tutto quello che hanno passato, dopo Eurus, la morte di Mary dopo aver dovuto imparare a perdonare e perdonarsi, la loro vita sembra essere tornata quella di prima. Sono amici, dei grandi amici, forse però l’arrivo di un amico dal passato permette di capire quello che fino a quel momento non avevano capito, ma loro saranno pronti per andare davvero avanti?
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Innazi tutto Buon Compleanno Ben, era ieri ma va beh noi non ci formalizziamo. Seconda cosa grazie a Chiara e a Susanna che hanno avuto l'idea di questo evento! Terza cosa grazie a Slanif che come sempre traduce le mie storie in italiano, perché chiunque mi conosce sa perfettamente che scrivo in un linguaggio simile ma che non si può definire corretto, soprattutto per la punteggiatura. Le mie recensioni ne sono prova XD.
Quarta cosa, spero davvero che questa storia vi piaccia come è piaciuto a me scriverla.
Quinta (giuro che è l'ultima) oltre a Ben (del resto è il suo compleanno) la dedico a tutti i membri del gruppo Facebook Johnlock is the way. Aver trovato tanti spiriti affini (e pazzi da internare) come me mi fa decisamente sentire meno sola! 





Cwtch



Ricominciare la mia vita con te è stato quanto di più semplice mi sia mai accaduto nella vita. Lo è stato la prima volta, quando non conoscevo neanche il tuo nome; lo è stata quest’ultima, anche se nessuno avrebbe potuto credere che sarebbe successo. Sicuramente non io.

Dopo tutto ciò che abbiamo passato, dopo i pugni, dopo il rancore, dopo le fughe e il dolore, siamo rimasti così, io e te, insieme a una bambina che a volte sembra più matura di noi due messi insieme.

All’inizio, dopo essere stato salvato da quel pozzo, dopo che il tuo passato si era ripresentato, non credevo davvero che ci sarebbe stato qualcosa capace ancora di legarci.

Mi avevi salvato la vita, come io l’avevo fatto con te. Ce la siamo salvata reciprocamente tante di quelle volte e in tanti modi diversi che sinceramente ho perso il conto.

Però sentivo che qualcosa era cambiato, e avevo paura che quello che ci aveva legato dal primo istante si fosse spezzato per sempre.

Poi un messaggio di Greg, un nuovo caso, il mondo era tornato a girare, e aveva ancora dannatamente bisogno di te. Quando sei uscito dalla stanza ero certo che mi avresti lasciato indietro; del resto me lo meritavo. Non ero stato forse io a chiuderti la porta in faccia e buttarti addosso l’odio che non meritavi? Ovviamente era stata tutta colpa mia, e tu, in tutta risposta, non avevi fatto altro che rischiare la tua vita per salvarmi – di nuovo. Cosa potevo volere ancora da te?

Eppure, mentre ero seduto su quella che era stata la mia poltrona per anni, con gli occhi chiusi e il dolore del cuore che mi piegava in due, i tuoi passi si sono avvicinati, la tua mano ha sfiorato la mia spalla.

«John, che fai? Non vuoi venire?» Avevo alzato lo sguardo di colpo e mi ero ritrovato legato ai tuoi occhi così limpidi, chiari al punto che mi mancava il fiato. «Lo sai che io ho bisogno del mio blogger,» mi hai detto con un sorriso timido e impacciato. Poi hai aggiunto con un tono di voce molto più basso, quasi un sussurro: «Sempre che tu voglia ancora esserlo.»

Lo volevo? Ho sentito le mie labbra distendersi in un sorriso, il peso e il dolore dal mio cuore sembrava sparito. Sapevo che questa era la risposta. Dopo aver chiesto alla signora Hudson di tenere Rosie, in meno di poche decine di secondi ero per strada con te.

Da quel giorno tutto è davvero tornato come prima.

 
***
 

E ora siamo qui, seduti sulle nostre poltrone. O meglio io seduto e tu che giri disperato per casa perché abbiamo chiuso un caso ieri e Greg non ha trovato nulla di soddisfacente per tenere impegnato il tuo cervello selettivo.

«John mi sto annoiandooo!» urli di punto in bianco, facendomi partire una coronaria dallo spavento.

«Ma ti sembra normale urlare così?» ti rimprovero.

«Noia noia noiaaa!» dici, buttandoti a peso morto sulla tua poltrona, la schiena appoggiata su un bracciolo, le tue lunghe gambe a penzoloni sull’altro.

«Ma dai? Io pensavo ti stessi divertendo,» rispondo sarcastico. Con la coda dell’occhio mi accorgo che stai per prendere la parola e ti interrompo. «E no, non te le do le sigarette.»

«Sei senza cuore, John. Sei davvero senza cuore.»

Scoppio a ridere. La tua espressione oltraggiata e afflitta è unica.

«Se fossi senza cuore ti farei fumare una stecca di sigarette al giorno.»

La tua replica viene bloccata dal suono del campanello.

«Tranquilli, non alzatevi, apro io.» La voce di Mrs. Hudson al piano di sotto. «Ma ricordatevi che non sono la vostra governante,» continua, facendoci sorridere all’unisono.

Sentiamo parlottare e poi una sola persona salire i diciassette scalini che portano al nostro appartamento. Ti sollevi pronto a ricevere il nuovo ospite.

«Uomo, sui quarant’anni circa, scommetto che è stato un militare,» sciorini avvicinandoti alla porta, in un gioco che fai ogni volta “per tenerti in allenamento”, come dici tu. Io sono convinto lo che fai per metterti in mostra, come se poi ne avessi bisogno con me.

Apri la porta prima di dare la possibilità al nuovo arrivato di bussare. Uno dei tuoi modi gentili per sorprendere le persone e lasciarli senza difese il tempo necessario per te di analizzarle.

Sorrido mentre mi rimetto a leggere il giornale ignorando il nuovo arrivato. Inutile preoccuparmi di lui, se non lo troverai interessante, lo defenestrerai in quattro e quattr’otto. Se supererà il tuo giudizio, allora ascolterò che cos’ha da dire. Oramai è il mio modo di non confondermi con le mille facce che passano di qui.

Ma stranamente non sei tu che il nuovo arrivato sta cercando.

«John Tre continenti Watson!»

Mi immobilizzo, per due o tre secondi non respiro neanche. Poi sposto il giornale che mi impedisce la visuale del nuovo arrivato. Ed ecco che non sono più seduto sulla mia poltrona a Baker Street, ma bensì sono sulla mia scomoda brandina, nella tenda che dividevo con la mia squadra, anni fa in Afganistan.

«Gabriel?» Sul viso del nostro ospite riconosco il sorriso dolce, gli occhi quasi neri, una spruzzata di lentiggini sulla pelle chiarissima e i capelli color del miele. È davvero lui.

Gli anni sono stati incredibilmente clementi con lui. Qualche ruga in più sul suo viso, qualche capello bianco, ma per il resto è identico a quando combattevamo fianco a fianco. Le spalle larghe, che sembrano fatte apposta per il suo metro e ottantasette; le braccia toniche, le gambe muscolose. Non si è mai messo in mostra volontariamente, ma ovviamente non è mai passato inosservato.

«Sorpresa!» mi dice semplicemente.

Un tossicchiare nervoso al mio fianco mi riporta al presente.

«John, credo che dovresti presentarmi il tuo... Ehm...Amico.» Potrei dire che tu sia infastidito per qualcosa, ma non capisco cosa potrebbe causato tale sentimento a parte la noia.

«Giusto. Sherlock, lui è Gabriel Hobbes, un mio compagno d'armi.»

«Il famosissimo Sherlock Holmes, l’uomo con più vite di un gatto,» lo riconosce subito il mio ex commilitone. Dovrei essere stupito, ma in realtà non lo sono davvero. La fama di Sherlock è senza confini.

Il tuo sguardo si assottiglia, posso vedere la parola “pericolo” che lampeggia sulla scena.

«Gabriel,» intervengo per stemperare l’atmosfera. «Entra, perché non ti accomodi?» dico, indicando il divano, mentre mi alzo e mi avvicino a lui.

«Ti va una tazza di tè?»

«Ma certo, John, grazie.» Un bel sorriso si dipinge su quel viso che conosco bene.

«Appena arrivo con il tè mi devi dire come mai sei da queste parti,» dico, mentre mi dirigo in cucina.

«Ho saputo che vivevi ancora a Londra, così, visto che mi trovavo in città ho deciso di cercarti. È  passato davvero troppo tempo dall’ultima volta.» Mi segue in cucina, muovendosi nel nostro appartamento come se fosse a casa sua. Posso quasi sentire sulla pelle la tua irritazione, Sherlock.

Ma Gabriel è sempre stato così: allergico a qualsiasi regola. Anche la normale buona etichetta per lui è una cosa inutile e pomposa. Nell’esercito doveva quasi sempre fare le mansioni più noiose per qualche punizione datagli per non aver seguito le regole o peggio gli ordini. Tuttavia era uno degli uomini migliori del plotone. Non l’avrebbero cacciato dall’esercito per niente al mondo.

«Ebbene sì, vivo ancora nella cara e vecchia Londra.» Sorrido mentre sistemo tazze e biscotti su un vassoio e ritorniamo in sala. Tu sei immobile sulla tua poltrona a fissare Gabriel. Non so se rallegrarmi o rattristarmi per il fatto che tu non intervenga, ma in effetti forse mi terrorizza più di quello che potresti dire se intervenissi.

«Ho saputo della morte di tua moglie. Mi spiace molto, anche se non l’ho potuta conoscere.»

«Sì, purtroppo Mary se né andata troppo presto per Rosie.» Mi volto verso il piccolo tavolino dove campeggia una foto di Rosie mentre corre tra le pozzanghere con i suoi stivaletti di gomma rossi. Anche Gabriel si volta ad osservare la foto e sorride dolcemente. «A volte ho paura di non essere in grado di darle tutto quello di cui ha bisogno... Sinceramente i primi tempi ero quasi terrorizzato da quella cosetta rosa tutta morbida che urlava quando meno me l’aspettavo.» Sorrido ripensando ai primi giorni in cui mi ero messo seriamente a prendermi cura di mia figlia facendo andare a casa Molly o Mrs. Hudson e rimanendo solo con lei. «Sai, avevo persino paura di stringerla troppo o farla cadere.»

Mi sorride di rimando.

«Ora direi che va molto meglio.» commenta, guardandomi con i suoi occhi allegri e attenti.

«Tutto grazie a Sherlock. Puoi anche non crederci ma il grande consulente investigativo è un perfetto babysitter. Speravo di essere più bravo di lui almeno in quello, ma nulla. A volte ho la sensazione che Rosie lo preferisca a me,» dico facendoti un bel sorriso. Vedo i tuoi occhi sgranarsi, le tue guance prendere un leggero colore rosato. Sei dannatamente bello, ma questa considerazione la tengo per me mentre ritorno a dare la mia attenzione a Gabriel. «E tu, piuttosto? Cosa fai ora? Hai trovato un’anima pia che ti sopporta o fai ancora strage di cuori?»

«Ma quando mai facevo strage di cuori? Quello eri tu signorino! E non far finta di niente, lo sappiamo bene quanto il tuo bel faccino ci abbia tirato fuori da un sacco di guai.»

«Ce ne ha anche tirato in mezzo a parecchi,» sghignazzo, pensando al passato.

«Tipo quello con la figlia del Generale?»

«Tipo. Ma io che ne sapevo che era la figlia del Generale e si doveva sposare dopo una settimana? Lei mica me lo ha detto!» Sogghigno. L’avevo conosciuta in un pub, ed è vero che non avevamo passato molto tempo a chiacchierare, ma di sicuro in quelle poche cose che mi aveva detto non erano menzionati né Generali, né tantomeno matrimoni imminenti.

«Te l’ha detto il padre il giorno dopo.» Gabriel fa fatica a trattenere le risate.

«E io mi sono trovato in Afghanistan quello successivo. Strano vero?»

«Stranissimo! Non capisco davvero come mai.» Cerca di rimanere serio, ma la cosa deve sembrargli particolarmente difficile, perché poi scoppia a ridere.

«Tu mi hai raggiunto un mese dopo, mi pare,» gli ricordo.

«Già, non hai idea di quello che ho dovuto combinare per capire dove eri stato mandato e per farmici mandare a mia volta.»

«In effetti, visto che sei un sommozzatore dannatamente bravo, mi sono sempre chiesto come cazzo hai fatto a finire in mezzo al deserto, amico.» L’avevo sempre pensato, un sommozzatore come lui poteva essere mandato in zone più consone. Sicuro il deserto non era il posto più indicato.

«Ho dovuto irretire parecchie brave ragazze,» mi risponde. Sicuramente mi sta nascondendo qualcosa, e sono certo che lui sappia che l’ho capito e che non mi metterò ad investigare ora. Non so come ha fatto, ma l’ha fatto per stare con me, per dividere quell’inferno con me e non lasciami solo, e questo per me basta.

«Una grande fatica per te, immagino,» gli dico sarcastico.

«Fatica immane. Ma ha funzionato,» mi risponde con un bel sorriso.

«Lo sai che la gente normalmente eviterebbe missioni come quella se può?» Quelli sani di mente almeno.

«Ohhh ci eri andato tu! Ti immaginavo già di ritorno mentre ti vantavi con le ragazze di essere stato in Afghanistan. Già prendevi le migliori senza questo dettaglio; non ce ne avresti lasciato più una,» ride, una risata calda e coinvolgente, esattamente quella che ricordavo. Vorrei rispondere che non mi vantavo mai con le ragazze per portarle a letto, ma evito.

«Non mi hai risposto: che fai di bello?» Cerco di riportare l’attenzione su di lui e sulla sua vita. Del resto di me sa già a sufficienza e vorrei sapere qualcosa di più di lui.

«Quando sono tornato ho lavorato per sei anni ancora nell’esercito, come istruttore. Volevo che i nostri ragazzi fossero pronti davvero a quello che gli avrebbe attesi una volta andati in missione; mi sembrava la cosa giusta da fare. Poi ho deciso che avevo dato abbastanza vita al nostro Paese, e che era venuto il momento di fare qualcosa per me. Ora insegno nuoto in un liceo di Cardiff.»

«Se diventato un professore? Tu? Seriamente?»

«Allenatore, » mi corregge, guardandomi quasi offeso, «Io con voi gente istruita non ci voglio avere a che fare.»

Scoppio a ridere e lui con me.

«Sei rimasto uno scemo, lo sai?» gli dico, spintonandolo un po’ con la spalla. Siamo seduti sul vecchio divano, tu dalla tua poltrona non hai detto una sola parola, ma vedo come quasi sussulti quando lo sfioro.

«Colpa delle bombe che esplodevano troppo vicino, credo.»

Fingo di pensarci e poi rispondo: «No, eri scemo anche prima.»

«Grazie, amico, seriamente.» Mi guarda in cagnesco prima di sorridere.

«Figurati, dovere,» dico serio, facendolo ridere ancora. «E cosa ti ha portato a Londra?»

«Gita scolastica. Puoi non crederci ma non si trovano mai abbastanza professori disposti ad accompagnare i ragazzi. Oggi pomeriggio li ho lasciati nelle mani sapienti dei professori di Letteratura Inglese e Matematica. Sta notte ho promesso loro che tenevo l’ordine io in albergo se mi lasciavano libero nel pomeriggio. Ne sono stati entusiasti.»

«Ci credo! Se i ragazzi sono come eravamo noi, in effetti capisco anche la ritrosia di alcuni professori.»

«Ma se eravamo degli angeli?» scherza.

«Le bombe ti sono davvero esplose troppo vicine, decisamente troppo vicine.» Io ricordo bene come eravamo da giovani, e sicuramente non eravamo più semplici dei suoi allievi.

«Figurati! Non ho avuto nessun problema quando li ho portati da solo in gita agli Studi della BBC. Lo sai che proprio a Cardiff girano le nuove stagioni di Doctor Who?» domanda serio.

«Scusa, ma come hai convinto la scuola che andare agli Studi della BBC mentre girano una serie TV fosse una gita istruttiva?» Sono davvero curioso.

«La comunicazione, la televisione e tutto il mondo dei media è considerato importante al giorno d’oggi John. Mi sorprendere che una persona acculturata come te non lo sappia,» mi prende in giro.

Io rido. «Ma smettila!»

Passiamo un bel pomeriggio a parlare del passato con te che ci ascolti dalla poltrona, terribilmente silenzioso ma lievemente meno ostile.

Oramai si è fatto scuro ed è arrivato il momento di salutarci. Tu rimani impassibile sulla tua poltrona, concedendogli  giusto un cenno di saluto. Lo accompagno alla porta ringraziandolo di essere passato e promettendogli di non sparire ancora. Lo vedo incerto mentre ti osserva che fingi di non stare dando nessuna importanza a ciò che ci stiamo dicendo. Ovviamente stai ascoltando tutto, come se non ti conoscessi.

«E dimmi, John, com’è lavorare con lui?» Gabriel ti indica con un cenno.

«Se sei disposto a dire addio alla sanità mentale è quasi divertente,» ridacchio.

«Ti fa impazzire?» Mi guarda divertito.

«Sì, spesso. Quasi sempre, in realtà. Ma non ho mai riso tanto come quando sto con lui.»

«Una cosa buona, direi.»

«Sì, una cosa molto buona.»

«Sembra che alla fine tu l’abbia trovato, il tuo cwtch, e finalmente abbiamo scoperto anche perché non era mai quello giusto prima,» mi dice sicuro.

Io rimango imbambolato.

Gabriel parla spesso gallese. Nella sua famiglia in pratica parlano quasi sempre in gallese a casa, e l’ho scoperto a mie spese quando mi sono trovato a una festa di compleanno dove tutti parlavano una lingua assurda per me. All’inizio, appena Gabriel mi ha presentato alla sua famiglia numerosa, parlavano ovviamente inglese, solo che mentre chiacchieravano del più o del meno capitava che spesso scivolassero nel gallese senza accorgersene finché non mi notavano, e chiedendomi scusa cercavano di farmi un riassunto di ciò che avevano detto. Passando del tempo con loro ho iniziato a comprenderlo a grandi linee anche se non sono in grado di parlarlo. E questa parola “cwtch” ha un significato così particolare e delicato che mi ha sempre affascinato.

«Lui, il mio cwtch?» Penso a te, a noi, e a tutto quello che abbiamo vissuto. Penso alle tue braccia intorno a me quando mi ha stretto per confortarmi e tutto mi è dannatamente chiaro. Sorrido sereno. «Sì, hai ragione, l’ho trovato.» È possibile essere elettrizzato, euforico e terrorizzato tutto nel medesimo istante? Finora non credevo lo fosse, ora capisco il mio errore.

«Non te n’eri ancora accorto?» Mi guarda tra il sorpreso e il sarcastico. «Perché giuro, bastano tre secondi nella stessa stanza con voi due per capirlo.»

«Certe volte le cose sono talmente evidenti che se ne accorgono prima gli altri che i diretti interessati. Questo credo sia uno di quei casi.» rispondo. Mentre cerco disperatamente di tranquillizzare il mio cuore che sta battendo all’impazzata. Non credevo che la consapevolezza di qualcosa potesse ridurre il corpo in queste condizioni. È senz’altro l’ennesima prova di quanto la mente sia più forte di quanto crediamo.

«Beh ora che lo sai, fammi il piacere di non perdere altro tempo. Quelli come noi lo sanno benissimo quanto sia limitato a questo mondo.»

Gli sorrido, e lo accompagno fino alla porta d’ingresso. Ci abbracciamo prima che lui esca in strada.

«Spero sappia quanto è fortunato,» dice, senza voltarsi, mentre scende i gradini. «Davvero molto, molto fortunato. Stammi bene John e cerca di farti sentire ogni tanto.»

«Lo farò, Gabriel, promesso.»

Salgo le scale e mi ritrovo nel nostro appartamento. È strano come la consapevolezza renda tutto più reale; persino i colori mi sembrano più vividi. I miei sentimenti sono gli stessi di poche ore fa, ma ora... Ora riesco a percepirli differentemente.

«Allora... Tu e questo Gabriel,» attacchi, appena chiudo la porta dietro di me.

«Io e Gabriel cosa?» Non capisco cos’hai contro di lui. Vi siete a malapena parlati.

«Siete molto amici.» continui.

«Certo, abbiamo fatto la guerra insieme. È normale essere amici.»

«Non mi avevi mai parlato di lui.» È gelosia la nota stridente che sento nella tua voce, o mi sto immaginando tutto?

«Ci sono cose di cui non ti ho mai parlato, è vero, ma non credevo ti interessassero. Del resto tu non ami riempire il tuo palazzo mentale con notizie non utili, e i miei trascorsi non credo ti saranno mai utili per risolvere un caso.»

«Non è vero, sarebbero utilissimi invece per capire te.» E da quando io sarei un caso? «Sei così complicato, a volte.» Frustrazione, è frustrazione questa? E soprattutto tu sei frustrato perché io sarei complicato?

«No, scusa, io? Stai parlando di me? Io sarei complicato? Io?» Qui, se c’è uno complicato, non è di certo il sottoscritto.

«Beh, a volte lo sei.» Sembri imbarazzato. Non credevo ti avrei mai visto imbarazzato.

«Non sapevo che ti interessasse sapere del mio passato, Sherlock. Non me l’hai mai chiesto, altrimenti te ne avrei parlato. Non ho segreti con te.» Cerco di recuperare la calma. Riuscire a leggere tante emozioni in te mi scombussola. È la prima volta che le vedo così chiaramente. Mi chiedo se tu abbia cominciato oggi a dimostrarle così apertamente o se è il fatto di aver compreso i miei sentimenti a permettermi di vederti per davvero.

«Davvero?» mi chiedi.

«Davvero.» Non ho dubbi in questo. Tra noi basta segreti. Non voglio dover nascondere qualcosa né voglio che tu ti si senta in obbligo di farlo.

«Quindi se ti chiedessi una cosa, me la diresti senza timore?» È speranza questa. La riconosco senza incertezze. Forse avevi ragione, non eri tu quello complicato, se hai sempre permesso alle tue emozioni di scaturire tanto mentre mi parlavi in questi anni. Ero io quello cieco.

«Sì, perché? Cosa vuoi sapere?» ti chiedo. Oramai siano vicini. Raggiungo la mia poltrona ma non mi siedo, perché la tua domanda mi blocca sul posto.

«Cosa vuol dire cwtch?» domandi a bruciapelo.

Rimango pietrificato... Oddio e adesso che ti rispondo?

«Origliare non è una bella cosa,» cerco di cambiare discorso per prendere tempo. So che non è molto coraggioso da parte mia, né che la cosa servirà per più di qualche secondo, ma ci provo.

«Tu sapevi che lo stavo facendo. Oramai mi conosci abbastanza da saperlo quindi non è proprio origliare. E non mi hai risposto. Cosa vuol dire cwtch?»

Sorrido, nonostante io sia terrorizzato. Perché esistono due sole possibilità dopo che ti avrò dato la risposta. Eppure sorrido perché adoro la tua testa dura. Faccio un bel respiro e mi volto verso di te. Mi sorprendo, perché invece di trovarti ancora seduto sulla tua poltrona sei in piedi a pochi passi da me e non ti avevo sentito muoverti. «Non è semplice spiegarti il significato di quella parola, Sherlock.»

«Perché?» I tuoi occhi sembrano ancora più brillanti e interessati del solito.

«Perché mette in mezzo i sentimenti, e tu li hai sempre considerato inutili se non dannosi.» Ti avvii verso il divano, ti siedi mentre mi fai cenno di sedere accanto a te e io non posso non seguirti.

«Potrei aver cambiato idea, in questi anni. Se riguardano te, John, mi interessano.»

Sento il cuore balzarmi in gola mentre ti siedo accanto. «Sei davvero sicuro di voler sapere il significato di cwtch?» Non ti rendi conto, Sherlock, non ti rendi davvero conto di quello che mi stai chiedendo. Ma vedo il tuo sguardo sicuro mentre mi osservi analizzandomi come solo tu sai fare.
Lo capisci quanto sono nervoso, Sherlock? Riesci a vederlo nei miei occhi, nei miei atteggiamenti, nel modo in cui il mio corpo reagisce?

«Sì.» Niente tentennamenti, i tuoi occhi non si muovono dai miei. Tutto sta per cambiare nella nostra vita, lo capisci?

«Okay.» Le parole però mi muoiono in gola. Non riesco a farle uscire, il mio corpo prende l’iniziativa e ti stringo a me. Ti sento sussultare nel mio abbraccio, ma poi ti rilassi, le tue mani si aggrappano alla mia schiena, il tuo respiro si tranquillizza. «Stai bene così Sherlock?» Annuisci, sento il tuo viso caldo vicino al mio collo.  «Ti senti al sicuro?» Un sì appena sussurrato mi raggiunge. Sorrido. «Questo è il significato di cwtch. È un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti. È un posto speciale, un posto unico, che puoi trovare solo tra le braccia di chi ami.» Ti sento sussultare lievemente tra le mie braccia quando comprendi le ultime parole della frase che ho appena sussurrato. Ma non ti allontani, anzi. Ti abbandoni di più al mio petto. Lo senti quanto batte forte il mio cuore, Sherlock? «Il tuo abbraccio è il mio cwtch, e spero che il mio sia il tuo.» Ho detto davvero questa ultima frase? Da come le tue mani stringono ancora di più la mia camicia, direi di sì.

Allontani dal mio petto il tuo viso per guardarmi negli occhi. Non so cosa riesci a scorgerci dentro, ma qualunque cosa sia, credo ti sia piaciuta.
«Sono il tuo cwtch?» mi chiedi con un filo di voce.

«Sì, Sherlock sei il mio cwtch.» Un sorriso limpido nasce sulle tue labbra perfette. La voglia di baciarti è tantissima. «E io, Sherlock, sono il tuo cwtch?» Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Tremo attendendo la risposta.

«Lo sei sempre stato,» sussurri.

Ti stringo forte quando mi torna in mente che giorno è oggi.

Non ti ho detto nulla questa mattina perché in realtà non riuscivo a comprendere se il fatto che me ne ricordi ti faccia piacere. Del resto l’ho scoperto solo l’anno scorso, non proprio il momento più felice del nostro rapporto. In tutti gli anni in cui abbiamo condiviso questa casa non me ne avevi mai parlato. Però ora sento che non dirti che ricordo perfettamente che giorno è oggi sia sbagliato. Non potrei mai scordare nulla, di te.

«Buon compleanno, Sherlock!»

Ti irrigidisci per qualche secondo, poi mi sussurri: «Te ne sei ricordato.» Sento il sorriso nascere sulle tue labbra che sfiorano il mio collo e una cascata di brividi mi percorre.

«Sei venuto al mondo in questo giorno, Sherlock. Se non fosse successo, io oggi sarei morto; forse non fisicamente ma sicuramente lo sarebbe il mio cuore. Mai potrei scordare quanto questo giorno sia speciale.» Allontano il tuo viso per poterti guardare bene. Sarò pazzo, ma non posso resistere un secondo di più. Avvicino i nostri volti quel tanto che basta per farti capire quello che vorrei con tutto il cuore. Le nostre labbra quasi si sfiorano, ma lascio a te l’ultimo tratto. Devi essere sicuro, devi poterti tirare indietro se non ti senti pronto. Non potrei mai fare qualcosa che possa allontanarti da me.

Un tuo lieve movimento e, le nostre labbra si sfiorano timidamente. Le terminazioni nervose del mio corpo sono in subbuglio. Quel tocco leggero solletica le mie labbra e mi arriva direttamente nella pancia. Cristo Santo... È la prima volta che sento le farfalle nello stomaco. Ho sempre creduto che questa espressione fosse stata creata dalle scrittrici di romanzi rosa per ragazzine, che non esistesse nulla di simile in realtà, e invece...
Invece non c’è un altro modo di spiegare quello che sento.

Prendo il comando del bacio e tu non sembra proprio che te ne lamenti, anzi. Ti aggrappi a me mentre le mie dita si perdono nella seta dei tuoi capelli, il tuo sapore inonda la mia bocca e il mio cuore è finalmente a casa.
 
 
 

Esiste una parola gallese chiamata Cwtch, che è intraducibile in altre lingue.
Il suo significato lo si può descrivere come: l’abbraccio in cui ci sentiamo protetti, il posto sicuro che ci dà la persona che ci ama.
È un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti.
È un posto speciale, un posto unico, che puoi trovare solo in quelle braccia.
 
 
 

Fine
  
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