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Autore: Adeia Di Elferas    21/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina aveva ascoltato con attenzione le motivazione di Michele Marullo e aveva trovato da subito i suoi modi molto accattivanti. Non le risultava difficile capire come mai Giovanni vi andasse così d'accordo, quando viveva a Firenze.

“Quindi per voi va bene, se rimango al vostro servizio?” chiese alla fine l'uomo, guardandola un po' di traverso, come se davvero non avesse ancora compreso la posizione della Sforza nei suoi confronti.

La Tigre osservò i suoi occhi cerchiati da occhiaie che denunciavano un viaggio difficile da Firenze a Forlì e i capelli castani, portati lunghi fino alle spalle, che tradivano allo stesso modo i disagi di quella traversata.

Siccome suo marito le aveva parlato molto bene di quel bizantino, apolide finché non era stato raccolto dalla patria dei Medici, la Contessa non trovò nessuna ulteriore obiezione da fare, se non una domanda che le pareva logica: “So che siete più che altro un uomo di lettere, siete sicuro di riuscire a vivere come soldato alle mie dipendenze? Avrete capito che far parte del mio esercito è un'occupazione a tempo pieno...”

Michele deglutì un istante, passandosi le mani sulle ginocchia. Lo studiolo del castellano era caldo e l'odore di carta e fumo di camino che vi si respirava era per lui molto più affascinante che non quello freddo e ruvido della nebbia che, come soldato, avrebbe di certo respirato più spesso.

Tuttavia aveva fatto quella scelta per un preciso motivo morale e quindi non voleva tirarsi indietro per nessun motivo.

“Sono un uomo di lettere, è vero – confermò – ma ho sempre dovuto cavarmela e so come sopravvivere ai momenti difficili. E so come usare bene una spada.”

A quel punto, Caterina non trovò altro da dire. La pelle olivastra del suo nuovo soldato era ancora coperta da un leggero strato di polvere e perfino le sue sopracciglia folte parevano provate dal clima intemperante che l'aveva accompagnato fino a lì.

“Andate a riposare, adesso. E se avete bisogno di qualcosa, chiedete pure alla servitù, non vi verrà negato nulla.” assicurò la donna, lasciando la scrivania del castellano, alla quale si era appoggiata.

Marulli ringraziò, con la sua strana pronuncia, a metà strada tra il forestiero e il fiorentino, e poi, quando stava per raggiungere la porta, venne colto da un improvviso pensiero.

“Ho portato questo, per voi, anche se non ero certo di volervene fare mostra...” sussurrò, estraendo dalla tasca interna del giubbone un piccolo plico di fogli.

“Di che si tratta?” chiese subito la Tigre, la mente che correva a qualche intrigo da sventare o a qualche lettera segreta, magari sottratta a suo cognato Lorenzo.

“Si tratta di una nenia funebre che ho scritto per il funerale del nostro povero Giovanni.” spiegò Michele, mentre, nel sentire ciò, la Leonessa pareva spegnersi di colpo: “So che non siete stata chiamata per partecipare al funerale e non l'ho trovato giusto. Questa è poca cosa, ma almeno spero che vi aiuti a...”

Marulli non finì la frase, sia perché un piccolo nodo gli aveva stretto la gola, sia perché gli risultava difficile continuare. Se da un lato avrebbe voluto dire che leggendo quella nenia Caterina avrebbe potuto immaginarsi meglio il funerale, stando metaforicamente vicina al marito una volta di più, dall'altra avrebbe voluto esortarla a non pensarci più e a concentrarsi solo sulla campagna militare, perché probabilmente è così che Giovanni avrebbe voluto.

La Contessa strinse nella mano i fogli e congedò con un cenno il bizantino, in modo da poter essere sola, quando avesse letto.

Ci mise qualche minuto, prima di convincersi a dedicarsi a quei fogli. Prima si sedette alla scrivania, poi, trovando che la luce delle candele, lì, fosse troppo fastidiosa, si andò a mettere in poltrona.

Tuttavia, l'agitazione che le aveva messo addosso il sapere che quelle parole erano state lette da altri, nel giorno del funerale di Giovanni, le impedì di stare seduta a lungo. Finì per sostare in piedi, nel mezzo dello studiolo, immobile, come una lettrice intenta alla declamazione di un inno sacro.

“Ad nos senectae praesidium gravis, proh sortem iniquam, et Pieridum chori, condigna sperabamus in te praemia tot studiis reposta.” cominciò a leggere la Sforza, con la voce ridotta a un filo.

Di per sè, quella nenia non l'avrebbe smossa più di tanto, ma sapere che il bizantino l'aveva ideata apposta per commemorare Giovanni, la rendeva straziante.

Proseguì per un altro paio di versi, finché la voce non le si spense mentre leggeva: “Horator exemplumque laudum, ante diem mihi, Iane, raptus.”

Proseguì senza più riuscire a parlare, qualche lacrima che scendeva lenta e rovente lungo la guancia.

La parte più razionale di lei si trovava a pensare che Giovanni avrebbe di certo apprezzato quel componimento in latino. Lo stile era elegante e anche le citazioni indirette fatte all'opera di Catullo lo avrebbero trovato entusiasta.

La parte della sua mente meno incline al ragionamento freddo, però, la resero irrequieta. In quei giorni aveva cercato di pensare e ricordare il meno possibile. I suoi incubi la torturavano sempre, e ormai vedeva molto spesso anche il corpo straziato di Giacomo e quello esangue di Giovanni, ma quando tornava il mattino, riusciva a tenere in un angolo il suo dolore.

Arrivata all'ultimo verso, la Tigre si rese conto di essere preda di un pianto silenzioso, ma violento.

La commozione iniziale aveva lasciato il passo a una disperazione che non sfogava dal giorno stesso in cui Giovanni era morto. Davanti ai suoi occhi non vedeva più lo studiolo del castellano immerso nella luce incerta delle candele, nè le parole vergate dalla mano sicura di Marulli.

Rivedeva l'uomo che aveva amato e che l'aveva amata tanto da arrivare a rinnegare la propria famiglia, e lo sentiva di nuovo parlare e ridere, con la leggerezza che solo lui sapeva tirare fuori anche nei momenti peggiori.

Ricordò delle ultime ore passate insieme, di come gli avesse letto le poesie che amava, fino a vederlo piombare in uno stato comatoso da cui non si era più ripreso. Da lì ripensò a prima, a quando era tornato a Forlì dal fronte, al tracollo che il suo corpo aveva subito nel fare la vita del soldato per pochi giorni, e al suo volersi allontanare da lei solo per non essere un peso.

Come se stesse rivivendo la sua vita a ritroso, ricordò degli ultimi stralci di felicità che avevano condiviso, prima che lui partisse per Firenze e poi per Pisa, la passione che non aveva lasciato loro tempo per pensare, e, ancora prima, le notti passate assieme nella tranquillità della loro stanza o nel segreto della Casina, in mezzo al bosco.

Si ricordò di quanto all'inizio lei fosse stata ritrosa, ancora troppo scottata dalla morte di Giacomo per riuscire davvero ad accettare un sentimento come quello che Giovanni le aveva scatenato. E poi la resa, il matrimonio, la nascita del loro unico figlio...

Senza rendersene conto, la Tigre stava stringendo nel pugno di fogli che Michele le aveva donato e rischiava di rovinarli.

Rilassò le dita, per quanto le riuscì, e si accorse che il dolore si era trasformato – come spesso le capitava – in rabbia. L'ira cieca dettata dalla sensazione di essere stata privata ingiustamente dell'equilibrio e della sicurezza che Giovanni le stava dando, e dalla consapevolezza che mai più sarebbe riuscita a sentirsi bene come quando lui era al suo fianco.

La collera era tanta e così incontenibile, che Caterina tentò istintivamente di sfogarla gettando in terra la prima cosa che le capitò a tiro – una pietra usata da Cesare Feo come fermacarte – ma capì subito che non sarebbe bastato per placarla.

Siccome la sua testa le stava già malignamente suggerendo di andare nelle segrete, in cerca di qualche prigioniero che ancora non avesse scontato del tutto la sua pena, la donna chiuse con forza gli occhi, imponendosi di resistere.

Avrebbe voluto scaricare la tensione con un uomo, uno qualsiasi, ma non voleva mostrarsi in quello stato a qualcuno che avrebbe poi potuto mettere in giro voci su di lei, perché di pettegolezzi già ce n'erano a sufficienza.

Così prese un foglietto dalla scrivania e scrisse, con grafia malferma – quasi irriconoscibile – un messaggio molto breve, ma che sapeva sarebbe stato capito.

Lo affidò poco dopo a un servo, dicendogli di consegnarlo immediatamente e poi andò nella camera accanto a quella che aveva condiviso con Giovanni ad aspettare.

Il ragazzo biondo del bordello arrivò prima del previsto, o forse la Contessa aveva perso il senso del tempo, crogiolandosi nella propria rabbia, camminando svelta e monotona per la stanza, come un'anima dannata in attesa di conoscere la propria sorte.

Il giovane tentò di dire qualcosa, ma la Sforza non gli lasciò nemmeno il tempo di aprire bocca, avventandosi su di lui con un'urgenza che presto sfociò in desiderio violento.

Abituato a tacere e a fare quello che i suoi clienti volevano, l'uomo non si ritrasse, ma fece del suo meglio per assecondarla, benché quell'assalto repentino lo stesse quasi spaventando.

Mentre la donna gli passava una mano tra i capelli, afferrandoli poi per fargli reclinare il capo, il ragazzo si disse che la donna che aveva conosciuto la prima volta, quando era morto il Barone Feo, era infine tornata, facendo della Tigre più mansueta e quasi dolce solo un ricordo.

 

Alfonso d'Aragona accarezzava lentamente la spalla di Lucrecia, mentre i loro occhi seguivano le ombre che il camino gettava sulle pareti della stanza.

Anche se faceva abbastanza freddo, avevano lasciato le tende del baldacchino spalancate e si stavano godendo lo spettacolo delle fiamme come se non l'avessero mai visto fino a quella notte.

Il diciassette napoletano sembrava più taciturno del solito, e la moglie immaginava quale fosse il motivo.

Aveva sentito anche suo padre discutere del fatto che sarebbe stato meglio per entrambi se fosse nato presto un erede ed era certa che anche Alfonso avesse avuto una sorta di ramanzina da parte dei suoi segretari, perché anche Napoli aspettava di rinsaldare meglio l'alleanza tramite la nascita di un figlio.

Già Joffré e Sancha non erano ancora stati in grado di concepire – e sarebbe stato un miracolo, a quel punto, se l'avessero fatto, dato che lui viveva a Roma in quel periodo e lei a Napoli – dunque mancava solo che anche quel matrimonio si dimostrasse sterile e il sodalizio tra il papa e gli Aragona sarebbe miseramente fallito una volta per tutte.

“Pensi che avremo mai figli?” chiese Alfonso, riuscendo finalmente a guardare la moglie negli occhi.

Lucrecia si strinse un po' di più a lui, assaporandone il calore della pelle sotto alle lenzuola. Aveva all'incirca un anno in meno di lei, eppure quando la teneva stretta a sè a quel modo, le pareva un uomo molto più adulto, capace di proteggerla da qualsiasi pericolo, perfino dalla sua stessa famiglia.

“Ci stiamo provando di continuo.” cercò di rassicurarlo lei, una mano che andava a cercare la sua guancia un po' ispida di barba chiara e ancora un po' stentata: “Ci vuole pazienza.”

“Tu un figlio l'hai già avuto – disse lui, con un'ansia difficile da celare – dunque mi pare chiaro che il problema sia io...”

Nel sentir citare il piccolo Giovanni, che la Borja aveva affidato ancora in fasce alla suore, la giovane si sentì stringere il cuore. Mentre chiacchierava con le sue dame di compagnia o passeggiava per i giardini del Vaticano o si intratteneva parlando di politica, pensava di rado a quel bambino. Quando era tra le braccia di Alfonso, o nel mezzo dei balli sfrenati di una festa con lui, o quando si metteva a discorrere d'amore, poi, se ne dimenticava del tutto.

Sentirlo tirare in mezzo così all'improvviso, le fece venire un senso di nausea tutt'altro che piacevole.

“Non devi dire così. Nemmeno Giovanni l'ho concepito subito.” ammise Lucrecia, arrossendo di vergogna.

“Amavi suo padre?” chiese Alfonso, che si rendeva conto di sapere molto poco della moglie.

L'amava alla follia, così com'era chiaro che lei amasse lui, e la Borja gli aveva rivelato dei segreti a dir poco inconfessabili, primo tra tutti l'esistenza di quel figlio, eppure aveva la costante e drammatica sensazione di non conoscerla affatto.

“Non ne voglio parlare.” tagliò corto la ragazza, lasciando che la mano che stava accarezzando il viso del marito scendesse lungo il collo e poi sul petto, in un chiaro invito a smettere di parlare e iniziare di nuovo a fare altro.

“Tuo fratello è ancora in Francia?” chiese invece Alfonso, facendo finta di non capire le intenzioni della moglie.

“Sì.” confermò Lucrecia, le cui labbra piene e morbide stavano cercando il collo di lui, trovandolo caldo e coperto da una sottile patina di sudore, memoria della battaglia amorosa finita da poco.

“Credi che dovrei avere paura di lui?” domandò l'Aragona, teso.

Quella richiesta, fatta così a bruciapelo, ebbe l'effetto di frenare i tentativi di seduzione di Lucrecia, che, con un brivido lungo la schiena, si ricordò di Juan, di Perotto, della sua amica Pantasilea...

“Stai sempre attento a Cesare, questo sì.” convenne lei, dopo un po', stando attenta a scegliere bene le parole: “Ma lui sa che ti amo e che soffrirei indicibilmente se ti capitasse qualcosa, quindi...”

Alfonso non sembrava del tutto convinto, ma la moglie aveva ripreso a provocarlo, questa volta in modo molto più esplicito e così, mettendo da parte le sue paure, pensando che in fondo Cesare Borja, che era ancora in Francia, non avrebbe certo potuto ucciderlo con il pensiero, per quanto si ritenesse pressoché onnipotente, si diede da fare per accontentare le richieste della moglie e – con un po' di fortuna – per dare a Napoli e al papa l'erede di sangue misto che tanto desideravano.

 

“Ed è stato merito di Giovan Francesco Sanseverino?” chiese Caterina, fissando Luffo Numai, che le aveva appena riferito importantissime notizie dal fronte.

“Sì, mia signora.” confermò l'uomo, mentre i suoi occhi correvano con discrezione verso Galeazzo.

La Sforza comprese la titubanza del suo Consigliere nel discorrere di quelle cose davanti a un ragazzino, benché Numai sapesse benissimo che nei progetti della Tigre Galeazzo sarebbe stato il prossimo Conte di quelle terre.

“Mio figlio può sentire tutto quello che avete da dire.” mise in chiaro la donna, incitando Luffo a proseguire: “Spiegatemi meglio quello che è successo.”

A quel punto il Consigliere raddrizzò un po' le spalle e si preparò a dar fondo al suo resoconto, benché non trovasse affatto consono nè il luogo, nè la presenza del giovane Galeazzo.

Erano nella sala della armi, alla mercé delle orecchie di chicchessia, e anche quando aveva pregato la Contessa di seguirla per lo meno nello studiolo del castellano, quella aveva sollevato le spalle e aveva detto che non c'era problema e che se ne poteva discutere lì dov'erano.

La Tigre in quel momento era seduta su uno sgabello, una spada a due mani sulle cosce e la pietra cote in pugno, e suo figlio era in piedi accanto a lei, in posa militaresca, lo sguardo serio e gli occhi concentrati sul Consigliere.

Secondo Luffo, da qualche giorno la Contessa aveva qualcosa di strano. Era diventata più schiva del solito e aveva perso quel velo di affabilità che a tratti la ammorbidiva da quando aveva sposato Giovanni Medici. In un certo senso, era come avere a che fare con la Sforza di un paio di anni addietro.

“Ottaviano Manfredi stava convincendo Tiberti a prendere Brisighella per conto suo, ma i veneziani, vedendo proprio la zona di Brisighella molto tranquilla, stavano per passare da lì ed erano già transitati da Faenza, pronti a portare avanti il loro piano, finendo per accerchiare così i nostri uomini – spiegò Luffo, cercando di esprimersi nel modo più chiaro possibile – e solo per caso, mentre era su un altura, il Conte di Caiazzo ha visto questi movimenti e ha potuto distrarre alcune delle truppe che erano accorse a Modigliana, in particolare quelle di suo fratello Fracassa, e smorzare sul nascere i movimenti dei Serenissimi.”

Caterina strinse i denti. Era molto felice di quel risvolto, soprattutto perché a quel modo andava a dimostrare al Doge che la sua difesa reggeva e che raggiungere Firenze attraverso le sue terre, malgrado avessero accesso al faentino, sarebbe stato tutt'altro che semplice. In più, essendo intervenuti in persona i due Sanseverino, si sarebbe rafforzata nei veneziani la convinzione che i comandanti milanesi restavano agli ordini di Imola e Forlì.

Nonostante ciò, però, la Contessa non poteva evitare di sentirsi corrodere dalla rabbia. Aveva fatto del suo meglio per prendere le distanze da Giovan Francesco Sanseverino, che aveva avuto la faccia tosta di chiederla in matrimonio salvo poi rigirare la proposta verso Bianca, poi il Moro aveva ordinato ai due fratelli di smetterla di seguire i suoi ordini e infine lei stessa aveva scritto una missiva particolare a suo zio, andando a confondere ancora di più le acque.

Con quell'intervento, Fracassa e Giovan Francesco avevano fatto tanto bene quanto male e la Leonessa, in quel momento, non sapeva gestire quella dualità.

“Dunque, mia signora?” chiese Numai, dopo aver lasciato qualche minuto alla Sforza per ragionare sulle sue parole.

“Dunque cosa?” domandò di rimando lei.

Galeazzo se ne stava in silenzio al suo posto, lo sguardo di chi cerca di imparare il più possibile. E la consapevolezza di avere il figlio accanto, così desideroso di apprendere da lei come ci si dovesse muovere in certi casi, rese alla Contessa ancor più difficile far fronte a quel momento complicato.

“Come... Come dobbiamo prendere l'azione dei Sanseverino? Insomma, io credo che voi dovreste...” fece Luffo, deglutendo e frenandosi, quando da un guizzo degli occhi della Leonessa si rese conto di aver osato troppo, con quel 'dovreste'.

“Hanno fatto l'unica cosa sensata che si potesse fare.” ribatté la Tigre, riprendendo a fare il filo alla lama della spada che teneva in grembo: “Piuttosto... Quando arriverà Ottaviano Manfredi?”

“Non lo sappiamo ancora.” disse Numai, chinando un po' il capo.

“E quando tornerà Giovanni da Casale?” chiese allora Caterina.

“Nemmeno questo sappiamo ancora con certezza, mia signora...” rispose, un po' in difficoltà, l'uomo.

“E quando si terrà l'incontro che vi ho chiesto di organizzare con il portavoce veneziano?” fu l'ultima domanda della Tigre.

“Purtroppo non sappiamo ancora quando...” iniziò a dire Luffo, ma la donna lo interruppe bruscamente.

“Ecco, allora, prima di dire a me cosa dovrei fare, pensate a quello che dovete fare voi.” lo raggelò, e l'uomo fu certo di vedere l'ombra di un sorriso di soddisfazione passare sulle labbra di Galeazzo che, ritto in piedi accanto alla madre, pareva una statua di marmo: “E ora levatevi di torno, che sto spiegando a mio figlio come prendersi cura delle armi...”

Il Consigliere chinò il capo, ossequioso, e si congedò. Mentre era ormai alla porta, sentì la Tigre cominciare a dare consigli al giovane Riario su come fare il filo alla spada e su come – questo dettaglio gli fece gelare il sangue nelle vene – ripulire con attenzione il ferro, dopo averlo sporcato con il sangue di un uomo.

 

Ludovico Sforza si fece passare la missiva senza dire nulla e andò nei suoi appartamenti. Era stanco e gli facevano male i piedi, voleva cavarsi gli abiti di dosso e mettersi davanti al camino.

La nebbia che si infilava per le vie di Milano era entrata anche nelle sue ossa e aveva trasformato il tragitto dalla cappella in cui riposava Beatrice al palazzo di Porta Giovia una sorta di Golgota privato, per il Duca.

Il Moro si diede dello stupido per essere andato a piedi e non a cavallo, ma quando era partito, gli era parsa una cosa fattibile e non l'errore più madornale della sua vita.

E poi l'aveva messo di pessimo umore sentire alcune chiacchiere, per strada... La presenza di Isabella d'Aragona, a quanto pareva, stava continuando a fare i suoi piccoli danni, come i denti di un topolino che poco a poco rosicchia il formaggio dal suo interno, finendo per lasciarne solo la crosta esterna.

Però il Duca aveva ben altro a cui pensare... Ben altre cose, che diamine... La guerra, i francesi che avanzavano pretese assurde, i soldi che cominciavano a mancare, e la Gallerani che da due notti non lo voleva più nelle sue stanze...

Con un sospiro spezzato, l'uomo spezzò il sigillo, senza nemmeno accorgersi dello stemma che portava impresso, e cominciò a leggere.

Riconobbe all'istante la grafia di sua nipote Caterina e questo lo rese il lettore più attento del mondo.

'Tre cose ho sentito per antiquo proverbio essere quelle che guastano il mondo: il respecto, suspecto, et despecto.'

Nel leggere quella frase, Ludovico si sistemò meglio sul suo sgabellino imbottito e piegò un po' la pagina verso il camino, per vedere meglio.

'Io hora cognosco che una de queste inette le cose mie in travaglio et periculo, ho facto per persuasione et satìsfactione de la S.V. in beneficio dele cose de' Signori Fiorentini, quello che epsa ha potuto intendere. Il fructo et bono effecto ne sia successo, sum contenta che altri lo dicano, più presto che me hora per havere impedito li desegni deli inimici, quali publicamente dicono che io li ho tolto la Victoria dele mano, me retrovo il campo ale spalle cum grandissima mina del paese, et manifesto interesse deli citadini et homini nostri, né anco sencia periculo del Stato. Lo havere havuto respecto ad non volere perturbare le cose de Faventia et andare cum tanto reguardo, è potissima causa de questo. Che se li nostri se havessino facti sentire, in molte cose haveriano potuto, et non fossino andati cum tanti respecti comò hanno facto: scio che li inimici haveriano pensato ad altro che ad venirme ad offendere et campegiare. Li ho scripto vengano ad suocoreme et vindicare queste nostre iniurie cum altro che cum parole et dare a Faventia. quale ha voluto ponere il foco in queste parte, de quello è dato hora a nui; cum chiarirli che silo faranno ce serra la salute commune.'

Ludovico sospirò e rilesse alcune parti. Non era abituato a leggere parole simili scritte da sua nipote. Gli stava chiedendo aiuto, e lo stava facendo senza la sua solita fredda alterigia.

'Quando mancassino, non poteressimo se non trovarce de mala voglia, parendome che le demonstratione non fossino correspondente ale mie optime et proficue opere in beneficio commune. Non scio quello faranno. Li inimici mostrano non essere per partire se non ne sonno chazati per forza. Hanno facto venire in campo Antonio Ordelapho era a Ravenna et dicono a uno modo o a un altro volerse assecurarse de questo Stato nauti si levino: Che non pare vogliano fare altro se non girare il cervello o ali subditi o a me, per redurli ala voglia sua, comò anco cercano cum molte offerte. Si li nostri faranno il debito et bisogno, scio non se ne levaranno. Quando mancassino, che non me lo posso per alcuno modo persuadere, la S. V. sia certa che io non mi potria ritrovare se non malcontenta , vedendo che per havere facto bene, ne fosse talmente recognosciuta. Quella sìa contenta scriverli, vogliano providere ala indemnità et restauro nostro, in modo che ogni homo intenda quanto le cose mie siano a core a quella.'

La Tigre chiudeva firmandosi con il nome completo di 'Caterina Sforza Medici' e con la data: Forlì, 16 ottobre 1498.

Con il cuore che batteva come un tamburo di guerra, il Moro richiuse la lettera con gesti brevi e lenti, e poi, andandosi a stendere sul letto come un morto, guardò in alto e sussurrò: “Beatrice, se fossi ancora qui, tu sapresti dirmi che accidenti devo fare...”

 

 
   
 
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