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Autore: KaterinaVipera    22/07/2018    1 recensioni
Amira si reca in un piccolo villaggio sperduto nella campagna inglese a trovare la cugina, in cerca di un posto dove iniziare la sua nuova vita, lontana da casa e da tutte quelle persone che le hanno voltato le spalle quando ne aveva più bisogno.
Ciò che cerca è la possibilità di ripartire e, soprattutto, la tranquillità che negli ultimi mesi le è stata negata.
Ma, la vita, ha in serbo per lei tutt'altro e fin da subito si ritrova in una realtà che non sapeva esistesse; le persone che, all'inizio le sembrano solo strane si riveleranno per quello che sono veramente: creature straordinarie che credeva fossero solo fantasia e lei dovrà decidere se essere solo lei, una semplice ragazza, o, al contrario, farne parte ed accettare ciò che le dice il suo cuore: lei appartiene a lui, è sua, solo che ancora non lo sa.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il viaggio per arrivare in paese è stato a dir poco massacrante. Ci sono volute tre ore di strada sconnessa e curve a non finire sperdute nella natura inglese, quando il viaggio dall’aeroporto di Pisa a quello di Londra è durato solo due ore.
Scendo dal mezzo, ancora poco stabile sulle gambe dopo tante ore trascorse seduta, e mi stiracchio come fossi un gatto assonnato.
nche l’autista scende insieme a me, per aiutarmi a scaricare i miei bagagli: un trolley di tela che ha visto giorni migliori e un borsone grigio in condizioni anche peggiori.
Ringrazio l’uomo e lo saluto, convinta che non lo rivedrò tanto presto; almeno questo è ciò che mi auguro.
Solo quando il bus è lontano mi prendo un attimo di tempo per guardarmi intorno, respirare a pieni polmoni quest’aria fresca, quasi frizzantina, che odora di pioggia e realizzare: sto veramente cambiando vita.

Dieci giorni fa ero solo un involucro vuoto, attaccata ad una misera esistenza.

Adesso sento che sto veramente vivendo o, perlomeno, ci sto seriamente provando come non ero riuscita a fare finora.

L’aria è pungente, si sentono bene i profumi che emana il bosco, il terreno umido, l’odore della resina, qualche cespuglio dalle bacche profumate e di un rosso acceso, accentuate dalla pioggia caduta fino a poco fa. Il leggero venticello sposta le fronde bagnate degli alberi, facendo arrivare fino a me qualche goccia, provocandomi qualche brivido.
Avvolgo meglio la sciarpa intorno al collo – anche se siamo solo a metà ottobre – e dopo essermi caricata il borsone sulla spalla ed aver preso il trolley, mi avvio lungo la stradina principale che porta al paese.
Durante il tragitto non incontro nessuno e mi sento libera di canticchiare la canzone che sto ascoltando.
Dopo una decina di minuti, sto già percorrendo le vie in mezzo alle prime case e dopo tre canzoni ho attraversato la piazza giungendo davanti all’abitazione che sto cercando.
Controllo il nome sul campanello, per accertarmi che sia la casa giusta, e suono.
Passano soli pochi secondi e una donna dai capelli biondi mi travolge, abbracciandomi come meglio le riesce, dato la sua pancia prominente.

“Oh mio Dio! Sei arrivata finalmente!” mi stringe, baciandomi più volte le guance, per poi scostarsi e guardarmi meglio.

“Ma sei cresciuta! Come ti sei fatta bella!” cinguetta esuberante.

Arrossisco, benché la conosca da sempre e tra me e lei ci sia molta confidenza.

“Entra e posa tutta quella roba che sembra pesantissima.”

Prende il trolley portandolo in casa e lasciandolo nell’ingresso, dicendomi di fare altrettanto con il borsone e con il giacchetto.
Mi porge un paio di ciabatte per camminare in casa e non sporcare la moquette e ci dirigiamo in cucina.

“Alan!” urla, non perdendo il sorriso. “E’ arrivata!”

Dalle scale scende un uomo molto più alto di noi e decisamente muscoloso.

“Tu devi essere Amira, finalmente ti conosco!” mi stringe la mano, sorridendomi gentile.

“Si, lei è la mia cugina preferita.” dice la donna, abbracciandomi ancora e dandomi un bacio sulla tempia.

“Anche perché non ne hai altre.” puntualizzo divertita.

“Giusto! Ma anche se ne avessi, tu resteresti comunque la mia preferita!” ribatte mentre riempie il bollitore e lo collega alla corrente.

Mi invita a sedermi e la guardo muoversi per la cucina intanto che Alan prende tre tazze e adagia sul tavolo un cofanetto di legno pieno di bustine di tè.
Le guardo stupita, perché nemmeno io ne ho così tante e pensare che avevo iniziato pure a fare la collezione.

“Hai l’imbarazzo della scelta.” dice Alan, dopo aver messo anche un piccolo bricco di latte. “Com’è andato il viaggio?” si informa, parlandomi in italiano.

“Caspita! Anna, gli hai insegnato l’italiano?” le domando colpita.

“E’ stato lui a volerlo imparare. Diceva che era giusto così, perché ero – e sono – la sua compagna.” mi spiega.

“Cristo, trovarli uomini così!” mi lamento, facendoli ridere.

“Tranquilla, cuginetta. Lo troverai anche tu. Magari qui.” mi fa l’occhiolino

“Anche no, grazie!” dico categorica.

“Che ne sai? Magari nascosto in questi boschi infiniti troverai l’uomo della tua vita.” dice accondiscendente.

“Il viaggio fino a Londra è andato bene!” cambio repentinamente discorso, fulminando mia cugina che ridacchia. “Dalla capitale a qui è stato sfiancante e infinito. Credevo che non sarei mai arrivata.” abbozzo un sorriso stanco.

“Posso immaginare. Mi ricordo che quando son venuta qui ho pensato lo stesso.” mia cugina mi porge la tazza con l’acqua calda e dopo avergliela presa, prendo una bustina di tè nero.

Giusto per avere qualche minuto di autonomia in più.
Non ha aggiunto altro, ma so che il discorso che ha iniziato prima non è finito fino a che non sarà lei a deciderlo.
Lei invece prende una tisana al finocchio e menta, dal momento che la sua gravidanza non le permette di prendere niente di troppo forte, mentre Alan si fa una tazza di caffè amaro.
Siamo tutti e tre seduti al tavolino e si informano su questa mia partenza dell’ultimo minuto.

“Gli zii come l’hanno presa la tua partenza?” beve un sorso di tisana, strizzando gli occhi perché si è bruciata la lingua.

Non imparerà mai.

“Insomma. Lo sai, sono un pelo apprensivi.” mimo con il pollice e l’indice la quantità della loro preoccupazione e i due coniugi si mettono a ridere.

“Però devo dire che mamma non è scoppiata in lacrime al check-in.”

“Sicuramente l’avrà fatto in macchina.” aggiunge mia cugina, conoscendo troppo bene la zia, sorella di sua madre.

Tutti e tre ridacchiamo.

“C’è il babbo a rassicurarla.” tiro in su gli occhi, ricordandomi fin troppo bene le storie che ha fatto quando ha scoperto che io e mio padre eravamo andati a prendere il biglietto solo andata.

Per poco non ci tirava qualcosa dietro e a lui è andata anche peggio, dato che ha dormito per tre notti sul divano.

“E tu come stai, tesoro?”

Guardo il liquido scuro dentro la tazza che sta ancora emanando un chiaro fumo biancastro.

“Se vuoi Alan può andare.” aggiunge.

Nego con la testa. So che comunque glielo andrebbe a ridire.
Non ho mai capito questa cosa tra questo genere di coppie che si devono dire tutto, fino all’ultima parola.

“Sto uno schifo. Non ho più rapporti con quelli che sono stati miei amici, ma non gli darò anche questa soddisfazione.”

Anna mi accarezza la testa e non aggiunge altro al riguardo.

“Sarai stanca morta, vieni. Ti faccio vedere la tua nuova camera.

Si alza con lentezza, posandosi una mano sulla pancia prominente e con altrettanta calma, saliamo una decina di gradini che portano al piano superiore, percorriamo il corridoio attraversando una piccola stanza aperta con un paio di librerie e una finestra al centro, fermandoci poi davanti ad una porta bianca.

“Alan ha già portato le tue cose.” dice aprendo la porta, mostrandomi quella che da ora in poi sarà la mia camera.

La stanza è piccola ma molto accogliente; accanto al letto spazioso c’è un comodino di legno con un paio di cassetti, l’armadio grande quasi quanto tutta la parete più piccola, un cassettone in mogano nascosto dalla porta aperta, un paio di mensole e la finestra che illumina tutta la stanza con due tende bordeaux per coprire la luce diurna dato che qui non ci sono le persiane, una piccola panca posta proprio sotto con un cuscino in tinta con la tappezzeria.
Nella parte di parete libera, in alto a sinistra del letto, c’è un quadro rurale con la cornice dipinta in oro.

“Se hai bisogno di qualcosa, sono di sotto.” mi dice con dolcezza.

Mi lascia sola, a studiare la mia nuova camera e nonostante ormai sia qui, ancora fatico a rendermi conto che è tutto diverso.

Guardo le valigie, scartando a priori l’idea di sistemarle; sono stanca ma non ho nemmeno abbastanza sonno per riuscire a dormire. E poi, con tutte queste novità, chi riuscirebbe a prender sonno?
Mandare al diavolo il passato, le persone ad esso collegato, cambiare paese e vita. Proprio io, che credevo di essere una persona noiosa a cui non capitava mai niente di interessante.
Mi affaccio alla finestra che da sul giardino, circondato da una staccionata di legno alta quanto una persona.
Guardo meglio e vedo una porta quasi nascosta dall’angolo della casa, che porta al boschetto qui di fronte.
Una passeggiata è proprio quello che ci vuole. Mi aiuterà a stendere i nervi.

Scendo, trovando mia cugina in salotto, davanti al caminetto acceso, sulla sedia a dondolo, intenta a ricamare un vestito per suo figlio.
E’ occupata a canticchiare una ninnananna e ai ferri, che non mi ha neppure sentito arrivare.

“Vorrei uscire.”

Alza la testa dal suo lavoro, posandoselo sulle ginocchia.

“Certo. Vuoi andare in città o resti nei dintorni?”

“Mi sarebbe piaciuto fare una passeggiata nel bosco qui davanti casa.”

“Vai pure, ma ricorda: si cena alle 19 e 30.”

“Sissignora!” le faccio il saluto militare e tutte e due scoppiamo a ridere.

Infilo gli anfibi ed esco, avviandomi in giardino, per poi addentrarmi nel bosco.
Cammino stando attenta al sentiero, perché vorrei evitare di perdermi il mio primo giorno come una dilettante che proviene da un paesello di campagna.
Mi muovo con prudenza in mezzo alla vegetazione, che mi inghiottisce e pare voglia mangiarmi.
Tra gli alberi fa freddo e forse io non sarei dovuta uscire con solo una maglietta e la camicia benché abbia le maniche lunghe.
Fa niente.
Non morirò di certo per un po' di freddo.
La mia passeggiata finisce quando poco distante dal sentiero intrapreso, vedo un tronco caduto sopra il quale mi siedo.
Intorno a me è tutto silenzioso, non sento nemmeno gli uccellini. E se non fosse che sono venuta qui proprio alla ricerca del silenzio, tutto questo mi metterebbe i brividi.
È tutto troppo pacifico.
Mi rilasso intrecciandomi i capelli e legandoli alla base in modo che mi ricadano di lato. Ho lasciato sciolta solo la ciocca tinta di blu che mi ricade sul viso.
Mi distendo, benché la corteccia non sia il massimo della comodità, in maniera tale da poter osservare le fronde degli alberi che proiettano strani giochi di quella poca luce solare che le nuvole non coprono, e che si muovo al ritmo lento del vento.
Svuoto la mente, prendendo dei respiri profondi, concentrandomi solo sul battito regolare del mio cuore.
Anche senza la musica, riesco a rilassarmi, ipnotizzata dal suono lieve del frusciare degli alberi e da questa atmosfera pacifica e inquietante al tempo stesso.
Lo scorrere delle ore è lento, come se fossi entrata in un’altra dimensione, dove non c’è Anna che mi aspetta per la cena, non ci sono i genitori in Italia che aspettano mie notizie, non esiste più nessuno. Non esiste più passato o presente e nemmeno futuro.
Ci sono solo io e la calma più assoluta.
Quasi mi addormento.
Vengo svegliata dalla rottura di un rametto e da uno stormo di uccelli nascosti in un albero vicino, che scappa in volo.
Volto la testa di lato, guardando la fitta vegetazione e con calma a causa della schiena dolorante per via della posizione scomoda assunta e della durezza del mio giaciglio, osservo la natura non capendo da dove sia provenuto quel rumore.
Alzarsi è addirittura più difficile che girare la testa, ma una volta in piedi, noto che tutto è rimasto immutato, solo il bosco sembra più inquietante e minaccioso di prima. E non parlo solo del fatto che si è fatto tardi e comincia a fare buio, mi riferisco ai brividi che mi nascono all’idea di non essere più da sola.
È una sensazione molto sgradevole, che mi fa venir voglia di correre verso casa e allontanarmi il più possibile da qui.
Ovviamente non mi metterò a correre come una sciocca per il bosco, con il rischio di perdermi o di fari male quando non c’è nessun pericolo reale, a parte la mia mente contorta che si crea cose strane e inesistenti.
Nonostante ciò, mi avvio di gran carriera perché non vorrei fare tardi la prima cena a casa di mia cugina.






*Angolino mio personale*
Ciao! 
Non sono morta, ero solo in letargo xD

Questa è una piccola storiella, senza molte pretese, carica però di significato per me e per la persona a cui è dedicata: il mio migliore amico, il mio beta e (non meno importante) il mio ragazzo... 
Spero vi piaccia, fatemi sapere la vostra, con un commento, un messaggio privato, un corvo messaggero o un segnale di fumo.
A presto :) 

  
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