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Autore: istherelifeonmars    22/07/2018    3 recensioni
Forse la vita è solo questo, forse sono stato morto per biliardi di anni prima di nascere e ora è il mio momento di tornare al buio primordiale. Forse morire è come tornare a casa e la vita è solo un lieve attimo in una storia infinita, un fiammifero nella notte.
 
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note d'autrice: ho trovato questa storia senza pretese nei meandri del mio computer e, sebbene l'avessi scritta solo questo inverno, me ne ero anche dimenticata. Rileggendola, mi rendo conto che non mi dispiaccia affatto e che, in un modo o nell'altro, è stata un modo per esprimere tanti miei pensieri che spesso non posso esternare - quindi questo scritto è più per me che per voi, ma se riuscisse a comunicarvi qualcosa, qualsiasi cosa, davvero, ne sarei contentissima.
Consiglio l'ascolto di questo capolavoro di Thomas Newman, Any Other Name, che per altro fa parte del soundrack di quell'altro capolavoro di American Beauty - se non l'avete visto correte a vederlo, e se l'avete già visto... be', riguardarlo non fa mai male.
A presto.


 



I Testimoni
o di come finì il mondo




 


 

Rammento la Nascita di Venere, rammento di essermi avvicinato così tanto alla tela da poterne osservare ogni minima imperfezione, vedevo il tratto che la mano di Botticelli aveva compiuto. Osservare il quadro di persona non mosse nulla in me, a farmi cedere fu il fatto che si fosse conservato così bene nel corso dei secoli, così come il pittore lo aveva immaginato. Quel quadro era una costante immobile che avrebbe accompagnato l’umanità per sempre, a simboleggiare il genio e la bravura, il Buono che si può sprigionare dalle mani di un essere grigio come quello umano. Tra migliaia e migliaia di anni i nostri successori avrebbero continuato a studiarlo perché non avrebbe mai smesso di comunicare che noi siamo stati qua. Che siamo esistiti.
Che noi c’eravamo, io, Mel, Daniele, tutti gli altri, i nostri pomeriggi passati a fumare pigramente sul muretto di via Einaudi o le stupide battute per cui ridevamo come pazzi. Gli sguardi. I respiri. Tutto quello che ci siamo detti e che avremmo voluto dirci.
Quel quadro, come tutti gli altri, era testimonianza della nostra esistenza; e a un certo punto anche quello verrà distrutto.

 

Come per tutte le altre cose, non saprei stabilire il momento in cui tutto è iniziato. Credo che sia stato graduale: all’inizio erano solo voci – io e Mel ne avevamo letto su internet, per caso, mentre cercavamo di portare avanti una ricerca di astronomia. Poi era comparso qualche curioso programma pseudo-scientifico in televisione, ricordo una volta in cui io e mio padre sedevamo al tavolo in cucina e il parlare indistinto della tv era l’unico a tenerci compagnia in quel silenzio interrotto solo dalle posate che cozzavano sui piatti. Mio padre aveva alzato la testa di scatto – gli avevo visto quel lampo di rabbia animale negli occhi e per istinto mi ero ritratto – per poi dire: certo che non sanno più che inventarsi, cambia canale, che cazzo! E così avevo fatto, ma poi la notizia era approdata anche lì, sui telegiornali in prima serata.
Allora si parlava di supposizioni, dati scientifici non ancora confermati e nonostante avessi sentito da più persone che si trattava solamente di balle, perché era davvero impossibile che succedesse una cosa del genere sotto gli occhi vigili e intelligenti di un’umanità ipersviluppata, nella mia mente un meccanismo recondito aveva fatti un modo che io ammettessi la possibilità che invece fosse tutto vero.
Dal giorno della ricerca di astronomia a quello in cui io accettai l’ipotesi era passato un anno e mezzo. Diciotto mesi passati sui banchi di scuola o a bighellonare nei pressi del canale che dal centro del paese irriga tutti i campi. A fumare sul muretto di via Einaudi, la testa rivolta verso il cielo plumbeo che c’è sempre qua e i piedi che penzolano a mezzo metro da terra. Non ci ho nemmeno più pensato; continuavo a vivere la mia vita monotona e semplice.
Solo ora mi rendo conto di quanto fossi legato alla routine e di quanto, a tempo stesso, la odiassi. Ricordo di una volta in cui ne parlai con Daniele, eravamo ad una festa e io avevo bevuto decisamente più di quanto avrei dovuto, ma ero miracolosamente ancora in piedi e avevo iniziato a ciarlare. Ce ne stavamo coricati nel giardino di casa di Andrea, faceva così freddo che tremavamo dalla testa ai piedi. Il cielo era nero e non c’era una stella, presto avrebbe piovuto, ricordo indistintamente di aver pensato che il tempo fa sempre schifo qua.
Avevo ragione, a dir la verità.
In seguito Daniele mi avrebbe detto che non stava capendo niente di quello che stavo dicendo, ma era troppo stanco per intimarmi di chiudere la bocca e quindi ascoltava, un po’ divertito e un po’ irritato per tutte le idiozie che gli propinavo. Però una cosa se la ricorda, se l’è lasciato sfuggire una volta che andavamo a prendere le bici giù al canale, l’ha colpito quando gli ho detto che avrei voluto qualcosa – qualsiasi cosa – pur di spezzare la monotonia: gli avevo detto che avrei voluto contrarre una malattia incurabile che mi desse una scusa per prendere a vivere davvero, come volevo io. Per lasciare la scuola e girare il mondo, lasciar perdere prospettive di lavoro e innamorarmi veramente, smettere di passare il tempo chuso in casa e uscire a sentire il vento freddo e sulla pelle e tra i capelli.
La cosa divertente è che alla fine sono stato accontentato.
Tutta l’umanità è stata accontentata: un giorno ci siamo svegliati tutti e abbiamo visto stagliarsi sul cielo il profilo di un pianeta rosso. Alcuni ci hanno visto un tumore al cervello, altri un infarto fulminante, altri ancora una malattia rara e incurabile. Il punto è che ci siamo resi conto di avere una data di scadenza: quella data è oggi.
Vorrei dire che è stato terribile – e lo è stato, in un certo senso – ma credo che più di tutto sia stato bello. Ho iniziato a guardare le cose da un’altra prospettiva e d’un tratto ho iniziato a vedere, ho visto che quando Mel è concentrata chiude sempre l’occhio sinistro, che quando Chiara è stanca diventa tutta rossa in viso, e Daniele inizia a ciondolare le braccia quando è in imbarazzo, così come Marco, quand’è nervoso, tamburella le dita secondo una sequenza ben precisa. Ho visto che quando il cielo è grigio è di un’estrema bellezza e che quando fa freddo uno si sente mille spilli sulla pelle.
Ho sentito le cose incredibili di cui parlano i poeti.
E ci ho creduto.
Ho guardato l’umanità togliere la propria maschera e sfracellarsi in una tremenda corsa contro il tempo: feste estreme prima dell’ultima alba, attentati, suicidi, omicidi, un incremento così alto di criminalità non si era mai visto. Mio padre è arrivato a dirmi di non uscire di casa; qualche settimana dopo la sua auto è stata travolta da quella di un pazzo che approfittava degli ultimi mesi della sua vita per fare tutto ciò che non aveva mai fatto. L’ho aspettato tutta la sera, quel giorno, e tutta la notte. Poi mi sono messo in marcia e ho percorso a ritroso tutta la strada che lui compiva per tornare a casa: ho trovato la carcassa fumante della nostra auto con lui dentro. Aveva gli occhi aperti e vitrei, la pelle cianotica e gli arti rigidi. Le cosa strana era che sorrideva, uno di quei sorrisi che vedi solo sui ragazzi, mai sugli adulti. Non so a che cosa abbia pensato in quell’ultimo attimo.
Ma non credo di avergli mai voluto più bene come gliene ho voluto in quel momento.
Ho passato moltissimo tempo coricato nel suo letto, al buio.
Poi sono arrivati i miei amici, siamo stati pomeriggi interi a casa mia, a fumare con le serrande abbassate, solo alcuni raggi del solo a filtrare dalle finestre – ricordo gli acari danzare, bianchi e leggeri, piccole parti del mondo conosciuto che presto scomparirà. Ed eravamo noi sei, a fingere di essere umani, a parlare delle solite cose, a stringerci le mani al buio, ed era così bello che avrei voluto piangere e ridere allo stesso tempo. Come in un sogno particolarmente nostalgico.
Poi il momento è arrivato.
Il pianeta rosso si è ingrandito e ingrandito e ingrandito e ha coperto tutto il nostro cielo. Alzavamo gli occhi e non vedevamo altro se non ombra. Ricordo il sapore dolciastro del tabacco vecchio e quello sporco dell’acqua che andavamo a bere al canale, ben consapevoli di quanto fosse inquinata, ricordo di quando, per la prima volta, Marco uccise un leprotto che zampettava dalle nostre parti e del gusto selvatico che aveva. Ma più di tutto ricordo l’odore dei nostri corpi umani, ammassati in un’unica stanza a cercare di dormire.
Eravamo e siamo noi sei, in un qualche modo rimasti orfani di qualcosa. La società che ci ha accuditi fino a poco tempo fa è stata lacerata così a fondo che quelle che noi chiamavamo crepe sono diventati divari e noi ci siamo caduti dentro. Le famiglie si sono divise, ora ognuno è per conto suo.
Questa mattina ci ha svegliati una tempesta, la luce che arrivava dalle finestre era rossa e incandescente. Siamo usciti, già sapevamo cosa sarebbe accaduto. Non abbiamo detto nulla – è da molto che non ci parliamo, se non per lo stretto necessario – sapevamo che ognuno di noi aveva compreso. E allora abbiamo fatto ciò che ci eravamo prefissati di fare fin dall’inizio; abbiamo preso dal garage la vecchia radio di mio padre e sei sedie di plastica sopravvissute alle tempeste e alle piogge di queste ultime due settimane. Abbiamo messo una canzone che ascoltavamo alle feste, eoni fa: si chiama The Show Must Go On, credo, o forse mi sono dimenticato. Una volta per scherzare Daniele aveva detto che non voleva morire sobrio e io credo che la musica sia la droga più forte di tutte – quindi eccoci qua, ad ascoltare quest’ultima canzone nell’ultimo giorno della Terra. Ad accompagnarla le sirene, i segnali e le comunicazioni di evacuazione, gli uccelli che cantano agitati, le grida umane e animali.
Poi ci siamo seduti ed abbiamo aspettato.
Ci teniamo per mano da ore, immobili, gli occhi socchiusi nell’attesa dell’ultimo grande atto. Sento gli altri respirare piano.
Da quest’angolazione mi sembra che il mondo sia già ovattato e disabitato e che noi siamo gli ultimi testimoni di un universo intero che verrà presto cancellato. Tutte le speranze e disillusioni, la felicità e i dolori più strazianti, la rabbia, le urla, l’eccitazione, la paura. Testimoni di una natura che ci ha creati perfetti ed imperfetti a tempo stesso.
Nel punto in cui il pianeta colliderà con la Terra si formano fulmini alti chilometri. Mi chiedo distrattamente se un giorno, lontano da qua, due atomi potranno unirsi e dare inizio a qualcosa di simile a questo. Ma sì, certo, in questo momento staranno nascendo altri mondi magnifici, alcuni sott’acqua ed altri che fluttuano in nubi grigiastre.
Ed ecco che ora si sentono i tuoni, potenti anche se a distanze enormi. Nessuno ha il coraggio di staccare gli occhi dal punto d’impatto.

Aspettiamo.
Mi ricordo di quando uscivo con loro, i miei amici, e di quando, durante il ritorno, ce ne stavamo tutti in silenzio nella macchina dei genitori di Chiara, un po’ malinconici per ciò che non è ancora finito. Io la chiamo nostalgia del presente e cazzo, se avrò nostalgia di tutto questo. Di un pianeta che noi stessi abbiamo distrutto, ma che ci ha dato ancora molto. Il cielo è sempre stato lo stesso: mi domando quante altre persone lo abbiano guardato prima di morire, pensando che comunque ci sarebbe stato qualcun altro, dopo di loro, a passare il testimone. Che ci sarebbe stato sempre qualcun altro - o qualcos'altro.
I vulcani, le foreste, la pangea, quelle creature così antiche e primitive da non sembrare reali, i dinosauri, i mammiferi, i primati, gli umani,
i primi villaggi,
le civiltà,
l’amore di una famiglia,
il potere,
incontrare per sbaglio lo sguardo di un’altra persona,
lo scrosciare di un fiume,
la sua forza,
un uomo che viene processato ingiustamente,
l’arte,
la filosofia,
la scienza,
le rivoluzioni in nome di un qualcosa di migliore,
il ventunesimo secolo,
Mel che si aggiusta la maglia che le è sfuggita da pantaloni la prima volta che l’ho vista, ha soli tre anni e mi sorride divertita,
Daniele che mi stringe la mano,
il giardino di casa di Andrea,
il muretto di via Einaudi,
quella volta che ho nascosto le sigarette tra il materasso e il letto,
io e Chiara che ci baciamo una notte di Capodanno,
la nascita di Venere,
la morte di mio padre,
rideva, come quand’era ragazzino.
Un boato, forte e ancestrale come lo sono le corna che si suonavano durante le battaglie decisive - è il momento - e subito dopo un calore così forte da far male. E poi silenzio. Ma nonostante questo tengo salde le mani di Melissa e Daniele. Le tengo così forte perché Bellezza è anche aver paura di morire da soli senza lasciarsi dietro nulla. Mi dispiace per tutto quello che ho fatto, papà, avrei dovuto dirtelo. E sì, ti perdono, ti voglio bene.
Tre,
Forse la vita è solo questo, forse sono stato morto per biliardi di anni prima di nascere e ora è il mio momento di tornare al buio primordiale. Forse morire è come tornare a casa e la vita è solo un lieve attimo in una storia infinita, un fiammifero nella notte.
Due.
Ho paura, mamma, ho tanta paura.
Un

   
 
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