Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Akame28    26/07/2018    1 recensioni
"Wasuremono". Una cosa persa, dimenticata. Qualcosa che non si riesce a ricordare, che lascia un vuoto dentro che non può essere colmato.
Eren prova questa sensazione tutte le mattine, al suo risveglio. E ogni volta non riesce a ricordare nulla dei sogni che ha fatto, o delle persone che ha visto all'interno di essi. S'interroga giorno dopo giorno, attendendo una risposta che non sembra ancora voler arrivare.
O, ameno, fino a quella mattina.
"Ecco, è questo che provo in questo istante. Che lui prova.
Non è un sogno, non è un'illusione.
E' come se ... ci fossimo dimenticati."
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sento il corpo pesante, quasi fosse piombo. Il rumore della sveglia risuona nella stanza, producendo un piccolo ma distinto eco. La luce filtra dalla finestra, avvolgendomi e dandomi il solito tempore mattutino. Tengo gli occhi chiusi, cercando di raggiungere di nuovo il sogno, sentendolo già lontano da me.
Inutile.
Come ogni mattina, anche l'ultimo frammento rimasto mi scivola tra le mani.

Lentamente mi alzo, provando un senso di smarrimento non appena poggio i piedi a terra. La stanza intorno a me sembra essere più vuota ogni giorno che passa. Non riesco a capire il perché, in fondo è sempre stata così. Lo stesso arredamento di sempre, i vestiti ammassati sempre sulla stessa sedia, la stessa libreria completamente stracolma degli stessi libri dello stesso odore (di carta) di sempre, lo stesso disordine di ogni giorno.
Eppure ... c'è qualcosa ... che manca.
Mi dirigo in salotto, iniziando poi a prepararmi la solita colazione giornaliera. So che è tardi, so che i miei colleghi mi aspettano a lavoro, ma ho bisogno di riflettere ... di capire.
Sono già un paio di giorni che mi accade la stessa cosa, e non riesco a trovare il perché. Di solito sono molto disordinato, istintivo e non riesco a fare a meno di agire secondo la mia volontà piuttosto che dare ascolto agli "ordini" impartiti da chi si trova al di sopra del mio mediocre "rango".
Adesso, invece, è come se qualche insetto potenzialmente radioattivo mi avesse morso, stravolgendo quasi completamente il mio stile di vita: faccio sempre più spesso tardi a lavoro, cerco di tenermi sempre aggiornato su ciò che accade intorno a me, sogno ogni sera lo stesso sogno, senza, però, ricordarmelo mai la mattina dopo, non faccio altro che provare uno strano senso di ... colpa? che mi porta a rimuginare, praticamente ogni giorno, su quale sia la causa scatenante, sul perché e sul come potrei mettere fine a questa esasperante tortura.
Finisco pigramente il primo pasto della giornata, dirigendomi in bagno e incominciandomi a preparare. Devo fare in fretta, o questa volta sarò davvero nei guai ... Jean incomincerà a urlarmi contro non appena mi presenterò, e, di certo, il modo migliore per non sentirlo non è fare ancora più ritardo. Non devo distrarmi ancora.
Indosso il completo da ufficio (non si direbbe che sia un impiegato, eh?), afferro di corsa la valigetta contenente il computer portatile (non si sa mai) e esco velocemente di casa.

Il sole splende. Nel cielo non vi è nessuna nuvola. Mi fermo, ma solo per qualche minuto.
Davanti a me, si presenta la città di Tokyo.
Una moltitudine di palazzi si fa strada di fronte ai miei occhi, così come le molteplici automobili che sfrecciano sulla strada, emettendo il loro consono rumore di motore acceso. Non è da molto che mi trovo a vivere nella capitale, giusto qualche anno. Una volta finiti gli studi nella mia città natale, avevo deciso di trasferirmi qui in cerca di un lavoro stabile che mi avrebbe permesso di mantenermi e rendermi completamente indipendente dalla mia famiglia. Fortunatamente sono stato assunto poco tempo dopo nell'azienda in cui lavoro attualmente.
Inizio a scendere le scale, praticamente correndo. Ogni minuto che passa sono dieci in più da dover spendere ad ascoltare quel rincretinito.
Jean non è il mio capo, né tantomeno un mio superiore. Semplicemente, è un collega del mio reparto a cui piace vedermi perdere le staffe e assistere ai miei rimproveri da parte del supervisore di turno. Adora, inoltre, rimproverarmi a sua volta sia prima che dopo le mie convocazioni, per poi ridersela di gusto sotto i baffi. Lo odio, davvero.
A parte lui, gli altri colleghi sono pressoché gentili. Armin e Mikasa sono i miei migliori amici fin dall'infanzia ed è quasi incredibile che abbiamo avuto la possibilità di lavorare insieme. Con loro mi trovo bene in ogni luogo di questo mondo, anche quello più ostile. Con loro, non mi sono mai dovuto preoccupare di fingere di essere ciò che, in realtà, non sono.
Svolto l'angolo, fiondandomi sulla mia bicicletta. A causa di alcuni problemi avuti in passato, non sono riuscito a prendere la patente (da buon idiota che sono), di conseguenza non posseggo una macchina con cui andare a lavoro, e quindi sono costretto ad arrangiarmi con la mia vecchia e fedele mountain bike. Salto in sella e parto veloce come un fulmine.
Lo devo ammettere, anche Ymir e Christa sono delle ottime colleghe (escludendo le volte in cui la prima si arrabbia come una belva, sia chiaro), persone su cui puoi fare affidamento. Riguardo Reiner e Berthold, beh, è un peccato che facciano parte di un dipartimento diverso. Sarebbe piacevole scambiare due chiacchiere anche quando si è impegnati. Quanto ad Annie, è una vera fortuna che lavori con loro due. Odierei essere malmenato tutti i giorni.

Accelero, pedalando sempre più forte. L'aria fresca della mattina mi accarezza il viso, scompigliandomi lievemente i capelli.
Chiudo gli occhi per qualche secondo, godendomi questa piacevole sensazione. A dirla tutta, non mi dispiace dover pedalare tutti i giorni. Osservare tutto ciò che accade intorno a me con assoluta (o quasi) tranquillità mi mette sempre di buonumore, soprattutto in questi momenti. Ah, che bella l'invenzione del marciapied-
Sento la bicicletta ribaltarsi in avanti, improvvisamente, poi la mia testa sbattere in modo violento. Accade tutto molto in fretta.
Scuoto la testa, cercando di riprendermi e alzandomi lentamente. Sono finito contro una persona. I capelli corvini, rasati in entrambi i lati, e la bassa statura sono le prime cose che riesco a cogliere. La testa è lievemente inclinata verso terra, permettendo al ciuffo di capelli di coprire gli occhi quasi interamente.
"Oh, mi perdoni, non l'avevo vista! Mi dispiace tanto, davvero ..."
"Risparmiami le tue scuse, moccioso, tanto non so cosa farmene" risponde in modo brusco, sollevando lo sguardo e puntando i suoi occhi dritti nei miei, in segno di sfida.
Sono grigi. Dello stesso colore del cielo durante una tempesta.
Ho come l'impressione di averlo già visto da qualche parte. La sua voce, i suoi occhi, il suo modo brusco, la sua bassa statura, in qualche modo mi sembrano famigliari.
E' come se lo avessi rivisto dopo tanto ... troppo tempo.
Rimaniamo in questo modo per un lungo tempo indeterminato che sembra infinito, non badando alle occhiate indiscrete della gente che passa accanto a noi.
In questo momento, non c'è più rabbia nelle sue iridi né fastidio; riesco a intravedere stupore, dubbio, voglia di capire ... forse anche felicità. È impossibile comprendere ciò che prova davvero, il suo volto apparentemente impassibile ne è la prova.
Mi risveglio all'improvviso da quella specie di trance e, prima che me ne possa accorgere, inizio a balbettare, non sapendo cosa poter dire.
"Ehm, e-ecco ... m-mi scusi di nuovo ... per caso, i-io e lei ci ... ci siamo già visti?"
Scrolla le spalle nel tentativo di riprendersi, provando a cercare nei suoi ricordi la risposta alla mia domanda. Poco dopo mi risponde, tradendo con i suoi occhi la delusione di non aver trovato nulla inerente a noi due.
"Mi dispiace, ma credo che questa sia la prima volta." Si alza, infilandosi le mani nelle tasche. Indossa un orologio apparentemente molto costoso, quasi più grande del suo stesso polso.
Poi mi ricordo.

"Oh, no! Il lavoro!" dico quasi urlando, più rivolto a me stesso che allo sconosciuto.
"Mi scusi di nuovo, davvero! Sono mortificato!" Raccolgo la mia bicicletta, salendo di nuovo in sella. Faccio per partire, quando noto lo sconosciuto fissarmi ancora, gli occhi che sembravano brillare di divertimento e il viso impassibile come prima.
Non lo so, ma in qualche modo ... mi sento felice.
"Uhm, ecco, prima che me ne vada ... mi potrebbe dire il suo nome?" L'uomo esita per un istante. Non è di molte parole.
"Ackerman. Levi Ackerman"
Di nuovo familiare.
"Il mio è Jager. Ahem, volevo dire, il mio nome è Eren e Jager è il mio cognome. Ora vado, signor Ackerman. Mi scusi di nuovo per la caduta, le auguro di stare bene"
Detto questo, ricomincio a sfrecciare veloce, consapevole di aver superato il mio tempo limite.
Ho provato ... una strana sensazione quando l'ho sentito pronunciare il suo nome. Non riesco a spiegarmi, non riesco a capire. Anche adesso è presente. È la stessa che provo ogni mattina, la stessa che ho provato anche questa mattina. Quella che ti fa sentire un vuoto dentro, la mancanza di qualcosa che hai perso, che non ti ricordi, che non rivedrai mai.
Ecco, è questo che provo in questo istante. Che lui prova.
Non è un sogno, non è un'illusione.
È come se ... ci fossimo dimenticati.

NdA
Questa è statala mia prima One-shot, risalente a circa un anno fa. Il mio stile è, probabilmente, cambiato nel corso del tempo, ma ho voluto comunque pubblicarla senza modificare nulla.
   
 
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