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Autore: Pwhore    26/07/2018    0 recensioni
Per lui non era mai stata solo un’amicizia. Aveva sempre amato Alex. Ci aveva messo un po’ a capirlo, all’inizio; ma da quando l’aveva realizzato niente in lui aveva più vacillato, e ora che le cose erano cambiate e tutto il peso era rimasto a lui, povero burattino inconsapevole in balia di un fato fin troppo crudele, non sapeva più come reinventarsi. Come tornare a respirare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Altri, Jack Barakat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Jack camminava a rilento, strascicando goffamente le scarpe bagnate e ribagnate attraverso montagnole di neve ormai grigia, impastata dal passo frenetico e amareggiato dalle orde di lavoratori occasionali, turisti e cittadini che avevano macinato ogni strada prima di lui già da ore ormai, infastiditi dal freddo e dall’ennesima, scomodissima gelata, prevista sì da tutti, ma mai abbastanza da non rompere le uova nel paniere a ogni singola anima risiedesse lì intorno.
New York era invivibile in quel periodo dell’anno.
Ghiacciata, scorbutica, delirante, esagitata e soprattutto alienante. Cazzo, quanto era alienante. Ogni volta che scendeva in strada per togliersi il solletichio dalle vene si ritrovava sei metri sotto terra, invisibile agli occhi di Dio così come di tutti i suoi veri e finti seguaci, venature magre e incrinate di una foglia ormai diventata cenere. Sgattaiolava fuori dall’hotel in cui si trovavano a registrare per fuggire dai suoi problemi e qualcuno gli dava in mano una trappola mortale con su scritto il suo nome, una qualche scimitarra che avrebbe spaventato perfino i suoi eroi più sfrenati e a cui lui non riusciva a resistere.
Sfortunatamente, quest’arma era sempre Alex.
Diede un calcio fin troppo irresoluto a una pila di neve e spazzatura e arricciò il naso amareggiato quando la vide crollare su sé stessa e non ricoprire il marciapiede ormai quasi libero. Neanche quello sapeva fare. Sbuffò tra sé e sé, la condensa del fiato a ricordargli ancora una volta che era ancora vivo – e non solo quello, anche solo. Scosse il capo, stizzito. Non gli sarebbe mai pesato ritrovarsi per l’ennesima volta in compagnia della sua stupida ombra se solo tutto in quella dannata, dannatissima città non fosse stato romantico fino a fargli rivoltare le budella. Sputò a terra.
In realtà lui amava il Natale. Amava l’inverno, amava le feste, amava il tempo in famiglia e le lucine che decoravano i negozi e avvisavano tutti che ehi, le cose non erano andate benissimo forse ma comunque speranza c’era sempre; amava le carole, i sorrisi ingiustificati della gente, le caramelle incartate nella plastica trasparente che il macellaio metteva a disposizione dei bambini e gli regalava in gran quantità strizzandogli l’occhio. Amava l’aria elettrica, i buoni propositi che tessevano il cielo attorno a lui, i maglioni brutti e imbarazzanti che si scambiavano tutti e l’odore di pan di zenzero che inondava le vie e le trasformava in presepi viventi e frammenti della sua infanzia. Ma soprattutto, amava il tempo che passava avvinghiato a Alex.
Distolse lo sguardo dal nulla con un gesto secco, deglutendo a fatica. Alex che però ora l’aveva abbandonato. O meglio, Alex che aveva trovato Lisa e l’aveva costretto ad affrontare una volta per tutte che per lui quello che avevano non era l’amore inaspettato che aveva sempre vissuto Jack ma solo un’amicizia fuori dall’ordinario - una che può farti venire la pelle d’oca e girare la testa, arrossire nel mezzo di una biblioteca con un solo scambio di sguardi e ridere a crepapelle per una semplice alzata di sopracciglia, sì, ma pur sempre un’amicizia.
Assaporò la parola a fatica, rigirandosi fra i denti il suo gusto amaro e pungente finché non gli sembrò che l’intera strada fosse diventata acre e malata. Per lui non era mai stata solo un’amicizia. Aveva sempre amato Alex. Ci aveva messo un po’ a capirlo, all’inizio; ma da quando l’aveva realizzato niente in lui aveva più vacillato, e ora che le cose erano cambiate e tutto il peso era rimasto a lui, povero burattino inconsapevole in balia di un fato fin troppo crudele, non sapeva più come reinventarsi. Come tornare a respirare.
Tirò su col naso e si inumidì le labbra, rabbrividendo quando il vento ghiacciato le accarezzò. Sarebbe anche riuscito a conviverci, forse, se non fosse che ora nel loro mondo era subentrata Lisa. Era accaduto con delicatezza, gradualmente. Prima aveva cominciato ad avvicinarsi sempre di più ad Alex, poi a farlo ridere. Aveva iniziato a raggiungerli sempre di più, a unirsi alle loro serate di film spaccaossa; aveva aspettato che la sua risata stramaledettamente cristallina fosse diventata la colonna sonora della maggior parte delle loro uscite e poi aveva cominciato ad attrarre Alex sempre più a sé, invitandolo qua e là soppesando e vendendo bene le sue carte. Presto aveva finito di tessere la sua tela e Jack ne era rimasto fuori, incapace di porvi rimedio, spettatore impotente dell’apocalisse che gli aveva appena cominciato a rivoluzionare la vita.
Ora che erano passati mesi, poi, era semplicemente tutto a pezzi.
Si passò sgraziatamente una mano sull’occhio destro, cercando di ritrovare un po' di quel torpore di cui New York sembrava nutrirsi avidamente ogni dannato, dannatissimo inverno, e si trovò a pensare che la sua vita sarebbe stata mille volte meglio se solo Lisa non si fosse mai affacciata nella piccola casa che avevano costruito lui e Alex. Non che pensasse a molto altro, ormai.
Alzò lo sguardo verso l’alto e cercò di scorgere il nome della strada su cui si trovava, anche se in fin dei conti non gli importava così tanto. Non sapeva dove stesse andando, né tanto meno gli interessava accendere il suo iPhone vecchio e ammaccato per scoprire come tornare a casa e imbattersi in quella che sapeva essere una scena troppo dolorosa per lui. Preferiva andare avanti e basta, lasciando che fossero i suoi piedi a decidere e il vento secco e impietoso a fare le sue veci. Si nascose meglio nel suo cappotto troppo leggero e tirò avanti, imperterrito.
Stupida cazzo di New York. Con i suoi cazzo di orari di merda, le sue metro farcite di gente incazzata succube di ritardi incomprensibili che gli urlavano addosso quasi fosse colpa sua e i suoi dannatissimi chioschi di cibo neanche lontanamente decente spolverati ogni quindici metri. Una rappresentazione fatiscente e maledettamente insopportabile di tutto quello che c’era di sbagliato e più, e un qualcosa che lui non poteva assolutamente soffrire con un umore del genere. Forse in una bella giornata, con un ghiacciolo in mano e la musica nelle orecchie magari, ma in quel momento cazzo se non l’avrebbe mandata tutta all’inferno, miglio dopo miglio di grida, crepitii e clacson, brutto buco del cazzo. Maledettissima merda.
Si accorse distrattamente di aver raggiunto 2nd Place e si scrocchiò distrattamente il collo, soppesando le opzioni a sua disposizione; poi si disse che di tirare dritto verso la metro non se ne parlava neanche e imboccò Court Street, per ripicca se non altro. Dio, quanto avrebbe voluto essere al calduccio della sua suite di pseudo-lusso, un boccale stracolmo di super alcolici in mano – e chi se ne frega che non andassero bevuti così, tanto lui voleva solo ubriacarsi e spassarsela un po' – e le gambe accavallate sopra le ginocchia di Alex, accoccolato a lui pur avendo un divano intero a disposizione, esattamente come ai vecchi tempi. Grugnì e scosse la testa, tentando di trasformare la delusione e quel senso bruciante di disperazione in rabbia dura e pura, qualunque cosa fosse più facile da affrontare del non essere semplicemente mai stato abbastanza.
Alzò lo sguardo alla sua destra, le mani ormai rigide nelle tasche semivuote della giacca. Il freddo si stava facendo sempre più pungente e le strade erano ormai deserte, segno che il tempo non potesse più migliorare. Increspò le labbra fine e arricciò il naso, poi sospirò e si arrese a entrare in un negozio, per scaldarsi le ossa se non altro. Si fermò davanti alla prima vetrina che incontrò e mise a fuoco l’insegna senza troppa eccitazione, gli occhi vispi ormai velati da un’ombra di rammarico e rassegnazione.
«Yesterday’s News» lesse fra sé e sé, più un parlottio sommesso che altro. Come lui d’altronde, constatò amareggiato. Poteva andare. Si avvicinò all’uscio, pulendosi sommariamente le Vans ormai zuppe sul tappetino ispido e logoro e aprì la porta, forse un po' più prevenuto di quanto avesse voluto ammettere. Scivolò oltre l’uscio e un odore salace di polvere gli stuzzicò le narici arrossate dal vento, facendolo starnutire. Il negozio straripava di libri, giocattoli, ritratti e fotografie sbiadite, museo di ciò che fu e teatro vivente di anni e anni di vite scolorite, forse, ma mai scomparse.
Un’atmosfera leggera e spensierata aleggiava tutt’intorno e ogni singolo oggetto sembrava ricordargli un piccolo momento importante della sua vita, ogni sfumatura che aveva scolpito chi era dal primo momento in cui aveva schiuso gli occhi, venticinque anni prima. Qualunque sentore di malinconia avesse potuto aspettarsi da un posto del genere aveva ceduto il posto a un tepore morbido e un retrogusto di viaggi e avventure, elettrico nell’ossigeno tutt’intorno. Si riempì gli occhi per qualche frazione di secondo, senza dir nulla, e poi si scoprì suo malgrado a labbra socchiuse, sorpreso.

«Hai bisogno di aiuto?» chiese una voce femminile, un’eco distante rispetto a lui. Accennò un no con il capo, senza distogliere lo sguardo dagli scaffali colmi di segreti in primo momento, poi si girò e ringraziò.
«Guardo solo, se non le dispiace». La commessa gli sorrise calorosamente, lucidando col grembiule un utensile in ottone dall’aria centenaria, e annuì, accoccolandosi nuovamente dietro la cassa, piccolo palcoscenico per ogni pezzo senza una metà. Jack si disse che forse avrebbe dovuto chiederle se potesse essere esposto anche lui e sospirò a fondo, gli occhi pesanti dietro quelle sue palpebre arrossate. Riusciva a tenere a bada la tristezza fino a un certo punto, ma poi lo colpiva sempre come un fiume in piena, che i suoi argini semplicemente non potevano affrontare.
Passò le dita lungo il dorso di qualche libro di inizio del secolo scorso, cercando di farsi distrarre dalle copertine ruvide e cesellate, la mente che correva ormai da un crimine all’altro, tradimenti sempre e solo contro di lui, fantasma sopravvissuto per sbaglio. Malaugurio che non sarebbe dovuto esistere eppure esisteva. Purtroppo esisteva.
Tirò su col naso, scuotendo il capo. Viticci, Il Grande Gatsby, Una Stanza Tutta Per Sé… Alcuni titoli li conosceva, per altri sapeva che era meglio non ammettere il contrario di fronte a nessuno. D’altra parte non era mai stato un lettore vorace, aveva sempre dedicato ogni suo istante alla chitarra e a quella voce vellutata per cui scriveva da ormai più di dieci anni; non aveva avuto tempo per perdersi in altri mondi e tuffarsi nelle parole di tutte le persone cui avrebbe dovuto aprire il cuore, non c’era altro da dire. Aveva il suo universo e la sua vita, e la letteratura per lui era solo un satellite; niente a che vedere con il suo grande Sole.
Aguzzò lo sguardo e s’intrufolò più a fondo nel negozietto, scivolando dietro una catasta di riviste d’epoca e uno specchio offuscato da anni di mancato utilizzo. Ripulì un velo di polvere con la manica e prese fra le mani una manciata di cartoline screpolate provenienti da decine di posti diversi, ancorati in ogni angolo del mondo. Le osservò senza proferir parola, le dita bollenti per lo sbalzo di temperatura e i capelli scompigliati persi davanti agli occhi grandi, troppo impegnati a scandire ogni segno lettera per lettera per rendersene conto. Deglutì piano e s’inumidì le labbra.
«Sono vere, queste?» si trovò a domandare, un filo di voce che gli moriva in una gola troppo stretta.
«Dalla prima all’ultima» rispose la donna dall’alto dei suoi sessant’anni, boccoli biondi a accompagnare un viso morbido e segnato dagli anni che nel fiore dei suoi giorni doveva esser stato bello da mozzare il fiato.
Jack annuì e guardò ancora le cartoline, gli occhi acquosi persi in sfumature vintage e corsivi spigliati. «Le vorrei tutte» mormorò portandole istintivamente in alto, come se avesse qualcosa da dimostrare. Si congedò silenziosamente dal rifugio che aveva trovato e raccolse un piccolo taccuino in pelle da uno scaffale, guardandolo distrattamente e con attenzione allo stesso tempo. Lo fece scivolare sotto le cartoline e porse il tutto alla commessa, sempre troppo perso nei suoi pensieri per accennare qualche parola.
Lei sorrise ancora, avvolgendo le cartoline con un filo di raso e annodandole poi con un piccolo fiocchetto; tirò fuori una busta di carta da sotto il bancone e infilò delicatamente tutto dentro, osservandolo con la stessa cura con cui sua nonna lucidava la cornice della foto del nonno, quando era piccolo e la coglieva di nascosto nei suoi momenti di vulnerabilità. Jack si sentì quasi di star intrudendo ma mantenne fisso lo sguardo, silenzioso.
«Sono dieci e trenta» disse lei, serena. Jack frugò nella tasca posteriore dei jeans e tirò fuori una banconota sgualcita e accartocciata su sé stessa, seguita da un paio di monetine di cui aveva scordato il valore anni e anni prima. Sperò bastassero e la donna sorrise. «Grazie mille, torna a trovarci. Buon Natale».
Jack salutò e si tirò su il cappuccio, rigettandosi nel gelo della notte. In un modo o nell’altro, stavolta sorrideva anche lui.

 

Una cosa che suo malgrado Jack non riusciva a odiare di New York erano i parchi. Non erano speciali, non erano enormi, non erano così belli da cambiarti la vita, però c’erano. E in quel momento aveva maledettamente bisogno di restare solo in uno spazio che non fosse una gabbia di cemento ricoperta di tag e manifesti impregnati di umidità, così si era ritrovato a girovagare distrattamente per Carroll Park e i suoi cespugli bassi ricoperti di neve.
Le stradine asfaltate erano già state attraversate da decine e decine di famiglie nel corso della giornata e ormai somigliavano a limo piuttosto scadente, con tutto quel fango ghiacciato e ammassato scompostamente ai margini della strada; e Jack si ritrovò a respirare a fondo, una malinconia feroce a divorargli lo stomaco. Capitò senza pensarci nell’area giochi e si avvicinò a un’altalena, lasciandovisi cadere sopra con un sospiro, gli occhi neri sempre più umidi.
Mandò giù un groppo alla gola, senza avere il coraggio di azzardare altro movimento, poi ripescò le cartoline dalla tasca della giacca e si trovò ad osservarle, senza davvero capire perché le avesse comprate. Si sentiva a metà tra due secoli, pesantemente e inesorabilmente schiacciato dal peso di un mondo che voleva tenerlo lì da solo per il resto della sua vita e incredibilmente leggero, come se il suo corpo appartenesse a qualcun altro e lui fosse solo lì per caso, un soffio di ghiaccio e amarezza capace di annebbiare solo tutto; nient’altro. Una folata di vento gli scompigliò i capelli e rabbrividì sommessamente.
Si rigirò una cartolina fra le mani e passò le dita sull’immagine sbiadita, un ricordo in bianco e nero di una realtà che non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere. Veniva dal Vecchio Continente, un qualche piccolo paesino sperduto nelle campagne dell’Est. Il francobollo diceva ‘Cecoslovacchia’, ma perfino lui sapeva che lo Stato non si chiamava più così da anni.
La passò sul retro del mucchietto e si perse nella successiva, persone felici in un diner degli Anni Cinquanta, con tutto il suo mobilio retrò e le sue divise storiche. Lui non se la ricordava neanche, l’ultima volta che aveva mangiato.
Rimase in silenzio un po’ di tempo, permettendosi di tuffarsi e smarrirsi in una realtà non sua, a scandire ogni piccola confessione affidata al silenzio della carta e allo stesso tempo urlata nelle orecchie di tutti, dimenticandosi pian piano del mondo in cui si trovava per davvero, e si permise di pensare che forse qualcuno là fuori pensava allo stesso modo di lui, che gli stava scrivendo una lettera in quel momento e che forse - solo forse - non era poi così solo come temeva. Ma poi come sempre si ritrovò con la faccia a terra, ai piedi di un muro insormontabile e con entrambe le ginocchia sbucciate.
Come in un brutto scherzo, l’ultima cartolina veniva dall’Essex. Inghilterra del Nord, la terra di Alex. Deglutì a fatica, sforzandosi di non distogliere lo sguardo. Anche quando non c’era, c’era sempre. Storse le labbra. Come se quel notes l’avesse comprato per qualcun altro, poi, brutto idiota che non era altro. Un coglione, ecco cos’era. Un povero scemo che ormai si faceva pietà da solo perché non riusciva ad accettare la propria situazione anche quando si vedeva rifiutare centinaia di volte al giorno senza neanche aver bisogno di dire niente, senza neanche poter essere sincero con nessuno e mettere quel suo maledetto cuore da quattro soldi su un piatto d’argento, in bella vista e dove nessuno l’avrebbe potuto ignorare.
E invece era solo lui che non poteva non vederlo. Era solo lui che lo sentiva marcire, era solo lui che sapeva che non sarebbe bastato niente a farlo smettere di bruciare. Si sarebbe preso a schiaffi, si sarebbe preso a pugni, si sarebbe fatto male in ogni modo pur di non sentire più tutto quello; ma giorno dopo giorno la verità era sempre la stessa.
Amava da morire Alex e niente avrebbe potuto cambiare le cose. Neanche Lisa, neanche un rifiuto. Neanche quelle notti senza stelle in tour, in cui Alex gli si raggomitolava addosso sotto le lenzuola e si nascondeva nell’incavo del suo collo per non dover più pensare a niente; neanche le battutine dei suoi amici durante le loro serate alcoliche, su come l’unico motivo per cui Alex si era innamorato di qualcuno come Lisa era perché non voleva ammettere di essere qualcun altro; neanche i pomeriggi slavati e senza vento dove Alex gli si sdraiava accanto e posava il capo sul suo grembo facendo le parole crociate o scarabocchiando qualche verso sul primo foglietto di carta che era riuscito a racimolare sul tour bus.
Neanche quel dolore pulsante che lo attanagliava da mesi e non faceva che intensificarsi, che gli cingeva violentemente lo stomaco e dilaniava le viscere con la stessa cieca disperazione di un cane rabbioso che spera di guarire, se solo assesta il morso giusto; neanche la nausea che gli rubava il colore dal volto e gli decorava il viso con borse tumefatte sotto gli occhi, mai abbastanza violacee da spaventar qualcuno ma sempre abbastanza da fargli desiderare di non dover più vedere la sua faccia. Niente avrebbe potuto cambiare come si sentiva, ed accettarlo si faceva più difficile giorno dopo giorno.
Se c’era qualcosa che voleva da morire, a parte Alex, poi, era essere felice. Era il non desiderare più di morire ogni giorno, il non sentirsi inghiottire dalle sabbie mobili a ogni passo falso, il non vedersi cadere a pezzi senza possibilità di tornare mai intero. Voleva guardarsi allo specchio e scoprirsi in pace, incontrare il suo riflesso in una vetrina di una qualunque strada affollata e realizzare che era ancora vivo, non un fantasma fatiscente che non faceva che sbiadire sempre di più. Voleva essere di nuovo quello di prima, il Jack felice e spensierato che passava le sue giornate a fare battute che piacevano solo a Rian, qualche volta, e che tutti amavano e volevano attorno; non il Jack che avrebbe passato da solo anche questo Natale, se solo non ci fosse stato il disco di mezzo.
Si morse il labbro, gli occhi neri ormai spenti. Voleva essere felice. Voleva tanto essere felice.
Una lacrima gli bagnò la guancia, facendosi strada tra le ciglia lunghe fino alle labbra contratte, senza pietà, e lui deglutì prima di asciugarla. Una risata roca, poco più di un sussurro amaro, gli riecheggiò in petto e scosse la testa. «Coglione» mormorò tirando su col naso, la voce rotta ridotta a un fruscio. Meglio pensare ad altro. Sempre meglio pensare ad altro.
Guardò con la coda dell’occhio alle sue spalle ma era sempre solo nel suo dolore, circondato da un letto disfatto di neve, cartacce e fanghiglia abbracciato premurosamente dalla luce gelida del tramonto. L’ennesimo passato a odiarsi e sperare di scomparire. Serrò gli occhi con tutta la forza che gli rimaneva, assordato dal silenzio che lo seguiva ovunque e lo punzecchiava dietro le palpebre, lì dove non poteva raggiungerlo, finché le ginocchia non gli diventavano deboli e si ritrovava a tremare in ginocchia, la testa fra le mani e paranoia al posto del sangue.
I suoi globuli bianchi non erano mai stati così sciupati, i suoi globuli rossi mai così pallidi e malconci, stracci esausti di ciò che erano. Riusciva a malapena a mangiare, a dormire, a pensare. Soffriva, soffriva come un cane, e sembrava non smettere mai. Ma ad Alex non poteva dirlo, e in fin dei conti a volte nemmeno a sé stesso. C’erano tante cose di sé che non riusciva ad ammettere e ce n’erano ancora di più che non poteva permettersi di accettare che però sapeva essere parte essenziale della sua spina dorsale e del tessuto maltrattato dei suoi polmoni. Avrebbe voluto cambiare, essere diverso, diventare qualunque cosa ma non lui. Lui, povero diavolo fragile e indistruttibile allo stesso tempo, crisalide di cemento da cui non riusciva più a uscire se non come rantolo di sofferenza, supplizio eterno, senza nascita e senza morte.
Riuscì a ritrovare un briciolo di controllo, il cuore che batteva a malapena. Osservò la cartolina con sguardo vagante e sfumato, preso da una nebbia folta che gli gravava sulle palpebre arrossate dal pianto, e lottò per un respiro. Accarezzò l’immagine con polpastrelli raggrinziti dal gelo, esitando sul viso felice della ragazza in primo piano, poi deglutì e sfilò il taccuino dalla tasca. Fece scivolare le cartoline tra le pagine di mezzo e cominciò a scrivere.

 

«Era ora! Buon quasi Natale, Jack!» esclamò Alex aprendogli la porta della suite, un sorriso raggiante a colorargli le guance rosate. Aveva cominciato a bere da poco, notò Jack, tuffandosi nel suono terso della sua voce argentina.
«Avevamo perso le speranze» cinguettò da dentro Lisa, facendogli quello che non poteva essere altro che un brindisi da lattina, lo sfrigolio della birra a riempire i secondi di pausa tra una nota e l’altra. Avevano messo su uno dei pochi album che si erano ricordati di portarsi dietro, ma per quanto Jack amasse i Cobra Starship l’ultima cosa che voleva fare era dividere un divano con Alex e Lisa mentre Gabe Saporta cantava ‘Hot Mess’ o qualunque altra canzone minimamente legata alle sue scopate. Cercò di non grugnire quando la sentì ridere, l’umore ancora più sotto i piedi, e aspettò che Alex si togliesse dalla soglia per scivolare dentro. Si diresse verso il frigo e si aprì una birra, mandandone giù metà prima ancora di poterci pensare.
«Respira ogni tanto, magari» lo prese in giro Lisa, i boccoli biondi raccolti in uno chignon fermato da due bacchette. Jack avrebbe voluto fosse brutta con tutto sé stesso, un qualche tipo di mostro deforme e insopportabile che prima o poi sarebbe riuscito a vedere anche Alex, ma per quanto detestasse ogni singola forma del suo respiro non poteva distogliere la mente dal fatto che in realtà fosse la fidanzata più bella che Alex avesse mai avuto. Il che rendeva tutto mille volte più lacerante, naturalmente. Si riattaccò al collo della bottiglia e mandò giù quanto poté riuscire, scuotendo la testa subito dopo, nauseato. Dio, non ci si abituava mai.
«Stiamo per vedere un film, vuoi unirti a noi?» gli chiese Alex, appoggiato al bancone accanto a lui, una birra in mano e i capelli castani a coprirgli quegli occhi da angelo che Jack non riusciva mai a smettere di guardare. Sorrideva ancora, come faceva sempre quando lui era attorno, e Jack si ritrovò a pensare che sarebbe stato pronto a sacrificare tutto il mondo per sfiorargli le labbra solo una volta fuori dal palco.
«Che film?» disse invece, distogliendo lo sguardo per frugare nel frigorifero, alla ricerca di un’altra Corona.
«Um» pensò a voce alta Alex, lanciando un’occhiata a Lisa. «’Il Grande Gatsby?’».
Jack rise, amareggiato. La sua intera vita era una dannata coincidenza. Ovviamente dovevano star guardando Gatsby, chi altri? «Sicuro. Voglio dire, ‘Thor’ sarebbe tremila volte più figo ma possiamo anche guardare quello» rispose, con la sua solita finta strafottenza. Alex rise.
«Certo che sarebbe più figo, l’abbiamo visto tremila volte». Jack sorrise. Era una delle poche cose che era ancora solamente e completamente loro e sperava non cambiasse mai.
«Però è nuovo anche Gatsby, quindi già che è lì scaricato tanto vale vedere quello» aggiunse Alex, dando un altro sorso alla sua birra. Jack respirò, bevendo, e annuì senza entusiasmo né delusione. Se non altro almeno non avrebbe dovuto assistere a un duetto sconcio di ‘Good Girls Go Bad.’ Era di per sé una vittoria.
«Patatine?» offrì aprendo le ante dell’armadietto in alto a sinistra e ravanando alla cieca con la punta delle dita. Sapeva che ce ne dovevano essere, da qualche parte; Zack faceva sempre in modo che avessero generi di conforto ovunque capitassero e sicuramente quella non sarebbe stata l’eccezione. Sentì la busta di pseudo metallo crepitare e piegarsi e l’afferrò, portandola verso di sé assieme al pacco subito dietro di lei. Doritos. Grande. «Cool ranch o spicy sweet chili?» domandò, voltandosi a guardare il divano e sventolando le buste all’altezza degli occhi.
Sapeva che lui e Alex si sarebbero fiondati sul chili in qualunque altra circostanza, ma quando Lisa compariva nell’equazione non era solo l’atteggiamento generale di Alex a cambiare, era ogni singola cellula che lo componeva da capo a piedi. Cos’è che amava lei? Cool ranch? Diavolo, ma le piacevano i Doritos?
Roteò gli occhi, scuotendo poi l’espressione infastidita lontano dalle labbra screpolate. “Mantieni la calma Jack; mantieni la calma” si ammonì, senza voler davvero accettare il consiglio ma seguendolo comunque. Guardò Alex e lo vide osservare attentamente Lisa, come se stesse cercando di leggerle nel cervello e capire cosa volesse davvero lei. Sentì una fitta allo stomaco e represse una morsa di nausea.
«Cool ranch?» propose lei inclinando il capo e alzando le spalle, poco interessata.
«Cool ranch» esclamò Alex, annuendo fin troppo vigorosamente. Jack sbuffò silenziosamente e gli passò bruscamente le patatine, sbattendogliele all’altezza dello stomaco, abbastanza decisamente da farlo esalare ma abbastanza piano da non fargli pensar nulla. Strascicò i piedi fino al salotto e si lasciò collassare sul divano, il più possibile lontano da Lisa e la sua dannata, dannatissima perfezione.
Voltò il capo quando Alex si accoccolò al fianco di lei e le sfiorò le labbra con un bacio, circondandole la spalla con un braccio. Lei riposò il volto contro il suo petto e sorrise, lasciando scivolare la mano sul petto di Alex e aspettando che lui facesse partire il film con calma serena e imperturbabile. Jack si chiese come potesse respirare così armonicamente con il corpo di Alex pressato e avvolto attorno al suo, col suo calore a bruciarle contro la pelle del collo e le sue dita ciondolanti abbastanza vicine da accarezzarle i capelli e le labbra, se volessero; e sentì la gelosia inondargli le vene e annodargli le viscere.
Un tempo era lui che Alex abbracciava durante i film, lui su cui Alex si addormentava, il respiro leggero a scandire i suoi pensieri, ogni volta che accendevano il computer passate le undici di sera. Lui che poteva descrivere ogni centimetro del corpo di Alex come la tasca dei suoi pantaloni o il loro scontrino di ogni sabato sera, tra Becks, rum e cola e screwdriver fino alle luci dell’alba. Lui che era abbastanza e solo gioia.
Deglutì a forza, scuotendo il capo per costringersi a scrollarsi di dosso quell’alone di amarezza e delusione. Invece ora doveva rimanere lì e guardare un film su un’anima che si perde e si lascia svanire per un amore che non sarà mai davvero corrisposto, a fianco del ragazzo che non proverà mai davvero i suoi sentimenti. Dio, quanto odiava la sua vita.

 

«Bel film, vero Jack?» chiese Alex, sorseggiando l’ultimo fondo della sua birra. Lisa era andata a letto e le luci nella suite erano accese al minimo, un’atmosfera rarefatta e dolce che adornava tutto con un velo di velluto e scintille. “Come in una rom com” pensò Jack, un briciolo di tepore in fondo al cuore. Anche se sapeva che in fondo era solo peggio.
«Carino» concesse senza troppa eccitazione. Lui avrebbe scelto un film spaccaossa o al massimo qualche thriller, lo sapevano entrambi, ma tanto non avrebbero mai davvero avuto la possibilità di vederne. Non con Lisa attorno, almeno. Fu tentato dall’invitarlo a uscire e bersi qualcosa dopo un salto al cinema, uno di quei giorni, ma s’interruppe prima che potesse cominciare a sperarci. Non sarebbe mai successo. Doveva smetterla di farsi male, così avrebbe solo peggiorato le cose. Tirò su col naso e annuì fra sé e sé, senza crederci davvero.
«A che pensi?» gli chiese Alex, le gambe incrociate a pochi centimetri dalle sue ginocchia nodose. Se ne avesse avuta la possibilità si sarebbe lasciato sfuggire un piccolo guaito ma si limitò a scuotere il capo, come se i suoi pensieri aleggiassero nell’aria attorno a lui e Alex avesse potuto vederli se solo avesse battuto le palpebre nel modo giusto.
«Oh, niente di che» rispose. «Giusto che è quasi Natale, tutto qui». Alex sorrise.
«Sei contento?». Jack avrebbe voluto lo conoscesse di meno, così fingere sarebbe stato più facile.
«Ma sì dai, giusto un po' stanco» mentì. «Non vedo l’ora di bermi una quindicina di mimose natalizie, su quello puoi scommetterci».
Alex rise. «Dio! Sì, quella sarà la parte migliore. E sai che altro?».
Jack inclinò il capo per guardarlo meglio. «Cosa?».
«Penso di aver trovato il regalo perfetto per Lisa». Un sorriso enorme gli increspò le labbra. «Dico davvero, sono sicuro l’adorerà; è tanto buono quanto quelli che scegli sempre tu per me».
Jack fu colto da una zaffata di nausea e sperò di non vomitare seduta stante. Cercò di abbozzare un sorriso e gli diede una pacca debole sulla coscia, per supportarlo in qualche modo, la testa che girava e sembrava scoppiargli.
«Che meraviglia» riuscì a mormorare. «Sono sicuro sarà felicissima».
Sentì lo stomaco aggrovigliarvisi e bruciare, come se avesse appena bevuto acido e ora potesse solo attendere e cercare di respirare mentre quello si faceva strada fra le sue ossa malmesse e il suo fegato distrutto, colata lavica indomabile e boa constrictor dalla ferocia insormontabile. Annaspò per una boccata d’aria e guardò Alex con la coda dell’occhio. Parlava ancora ma non riusciva a sentire niente.
«Che ne dici Jack? È una buona idea?» gli domandò. Jack esalò a fatica e deglutì.
«Huh? Boh, sì, perché no» farfugliò, senza ben sapere a cosa stesse dando il via libera. Alex sembrò felice quindi si disse che bene o male sarebbe stato un problema per un’altra giornata. Ne aveva fin troppi in quel momento.
Si strinse lo stomaco, abbassando lo sguardo, e cercò di distogliere il pensiero dal dolore che lo stava squarciando, muovendosi lentamente dall’ombelico fino ai reni e poi di nuovo giù, distruggendo tutto ciò che trovava e gettando sale e carburante su ogni ferita aperta. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, tra tutte le persone che avrebbe potuto tirare in mezzo, ovviamente aveva dovuto evocare Lisa. Anche quando era lontana era sempre nella sua visione periferica, chiodo arrugginito sepolto fra le sue iridi fin troppo esauste, invisibile a tutti tranne che a lui.
È che il Natale era sempre stato il suo momento. Il suo. Si faceva in mille pezzi per cercare il regalo perfetto per Alex e lo lasciava a bocca aperta ogni anno, e allora lui lo abbracciava fino a togliergli il respiro e lo ringraziava come se fosse l’unica cosa che contasse sul pianeta, e per qualche manciata di secondi a Jack sembrava di avere una ragione di vivere e non essere più una molecola di polvere alla deriva nello spazio. Rimanevano abbracciati a lungo e quando poi Alex si scioglieva dalla loro cinta andava a mostrare il suo regalo agli altri, se non lo avevano ancora visto, o alla sua famiglia, appena avesse chiamato su Skype.
Si morse il labbro. Era l’unico momento che gli era rimasto dove poteva ancora sentirsi come il centro dell’universo di Alex. E ora Lisa era intrufolata pure lì. Deglutì a malapena e guardò il cappotto con occhi di chi è già stato sconfitto. Posò lo sguardo sulla pelle diafana di Alex e le sue guance un po' arrossate e inspirò per farsi forza.
«A proposito di regali» cominciò, «io ne ho uno, se vuoi vederlo». Distolse lo sguardo prima di finire la frase, con lo stesso senso di colpa di chi sta confidando un segreto sporco e malato sapendo bene che finirà col ferirsi e distruggersi subito dopo; ma Alex non se ne accorse.
«Scherzi? Assolutamente» esclamò, regalandogli un altro dei suoi sorrisi radiosi. Jack sentì il cuore saltare un battito mentre lo guardava, poi si alzò e andò a frugare nelle tasche della sua giacca bagnata, le dita che tremavano, quasi paralizzate.
«Ah, tra l’altro! Guarda, ho anch’io qualcosa per te» aggiunse Alex, tirando fuori un pacchettino dal cassetto del tavolino che usavano più come poggiapiedi che altro. Jack lo guardò in silenzio e abbozzò un sorriso, sentendo il groviglio nel suo stomaco alleggerirsi. Si infilò il notes nella tasca nella felpa e tornò sul divano.
«Ecco, non è il regalo definitivo» disse a mo’ di scusa, «per Natale te ne darò anche un altro».
«Sono sicuro vada benissimo» lo interruppe dolcemente Alex, posandogli una mano sulla coscia per rassicurarlo. Jack si sentì il cuore saltare in gola e lo deglutì a fatica, il nervosismo a colorargli gli occhi.
«Non ho fatto in tempo a incartarlo ma guarda» mormorò, mettendogli il taccuino fra le mani. Alex passò le dita sulla copertina di pelle e accarezzò le venature per una manciata di secondi, senza mai distogliere lo sguardo.
«Cazzarola Jack» mormorò, «sembra essere uscito dal secolo scorso. Dev’esserti costato una fortuna». Jack guardò da un’altra parte, imbarazzato.
«Neanche lontanamente quanto credi» disse impacciatamente. «È, um, per il tour; o la vita normale se vuoi. Così non dovrai più scrivere sui pezzi di scottex e sugli scontrini di Starbucks».
Alex rise. «Ci vado proprio tanto» commentò; poi alzò lo sguardo verso Jack.
«Grazie mille, è davvero bellissimo. Non mi ero neanche reso conto di aver bisogno di una cosa del genere e ora guarda, non solo ne ho una ma è pure qualcosa di stupendo. Grazie Jackie». Riprese a guardare il taccuino e cominciò a sfogliarlo, incappando nella scrittura disordinata di Jack e accarezzandola piano coi polpastrelli prima di voltarsi a osservarlo.
«Ah, sì, quello» balbettò lui, il sangue che gli scrosciava nelle orecchie. «Non è niente di che, sono solo un paio di testi che mi sono venuti in mente. Sai, per le prossime canzoni… Così non devi fare tu tutto il lavoro, ecco». Dio com’era patetico e impacciato.
«Che bell’idea Jack» esclamò Alex, sorridendo. Poi chiuse il taccuino, lo sventolò qualche secondo accanto al capo e se lo infilò nella tasca posteriore degli skinny jeans: «Questo mi parerà il culo per tutto il prossimo album!».
Jack annuì con un sorriso vuoto, sentendosi rubare la terra da sotto i piedi. Non… non li leggeva?
Alex rise fra sé e sé, chiacchierando piano di qualcosa che Jack non riusciva a sentire sopra il suono del suo cuore che si spezzava, e riarredò distrattamente i libri e le cartacce che avevano lasciato sul tavolino. Jack si sentì scomparire. Non li leggeva, no.

Si trovò fra le dita il pacchetto di Alex e alzò lo sguardo per incrociare il suo. Stava finendo di dire qualcosa ma non si era reso conto di niente. «Avanti, aprilo» lo invitò il cantante, continuando a sorridere.
Jack scartò meccanicamente il pacchetto, come se non fosse davvero lui a vivere quel momento. Un paio di guanti senza dita. Li guardò con occhi vitrei, quasi a chiedersi se fosse davvero quello il regalo di Alex o piuttosto un qualche tipo di scherzo.
«Be’, che ne pensi?» gli chiese Alex, entusiasta come sempre.
«Molto carini» commentò, deluso. Alex non si accorse del tono di voce e gli diede una pacca sulla spalla, elettrico.
«Così puoi continuare a scrivere anche con questo freddo» esclamò. Jack fece un sorriso di circostanza e Alex si alzò a prendere un’altra birra, parlottando eccitato fra sé. Jack scorse la sagoma del taccuino nella tasca dei suoi pantaloni e si sentì pesante come mai aveva fatto in vita sua.
«Vuoi un’altra birra Jack?» offrì Alex dalla cucina, dandogli le spalle.
«Credo che andrò a dormire» rispose Jack senza emozione. Si tirò in piedi e si trascinò a fatica nel buio della sua stanza, i guanti senza dita stretti nella mano destra.
Ecco un altro rito solo loro. Lui gli regalava testi d’amore, Alex li ignorava e faceva in modo che continuasse a scriverne. Si lasciò cadere sul letto. Non era giusto niente.

   
 
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