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Autore: Losiliel    27/07/2018    3 recensioni
Curufin e Finrod si incontrano di nuovo in un’altra vita. Privati delle loro memorie, devono recuperare i ricordi del passato per capire cosa fare del loro futuro. Un conto alla rovescia verso quello che, questa volta, sembra essere un destino comune.
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[ Curufin & Finrod | POV alternati | Aman | Reincarnazione ]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Curufin, Finrod Felagund
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Avvertimenti

1. La storia è strutturata come un serrato alternarsi di due punti di vista, quello di Finrod Felagund (in testo plain), e quello di Curufin (in testo italic).

2. È una “What if” perché, che io sappia, nessuno ha mai detto che Curufin sia uscito da Mandos e, se l’ha fatto, sicuramente non è avvenuto nel modo da me narrato. Preparatevi a una discreta carenza di verosimiglianza.

3. È segnata come “Curufin & Finrod” perché il rapporto tra i due non è inteso in senso romantico, è però un rapporto volutamente ambiguo, quindi chi proprio non gradisce lo slash proceda con cautela.

4. È ambientata in Aman in un periodo indefinito, ma collocato nel tempo molto dopo la fine della Terza Era.

 


 



 

 

PRIGIONIERI DELLA STESSA RETE

 

 

 

 

[ 13 - 0 : Avvia ]
 


Non ricordava nulla della sua vita precedente.
Si era risvegliato, nel suo corpo rinnovato, privo di memorie. Gli avevano detto: ricorderai.
Quando sarà trascorso abbastanza tempo, quando sarai pronto per affrontare il passato, ricorderai.
Ma gli anni si erano consumati lunghi e uguali, e lui non l’aveva fatto.
Aveva passeggiato col padre, aveva riabbracciato la madre, aveva fatto visita a una persona amata, senza ricordare nessuno di loro, senza neppure il desiderio di ricordare.
E loro non gli avevano raccontato nulla, perché tutto – gli avevano spiegato – doveva riemergere esclusivamente per sua volontà.
Soltanto sua sorella, mai reincarnata, tornata per nave fiera e libera, e non del tutto incline a rispettare le regole, gli aveva detto: eri curioso, ricordi? Eri ambizioso, eri intelligente, arguto, coraggioso. Eri un Re.
Ma a lui non interessava ricordare. Non si riconosceva nelle parole della sorella, e volentieri si faceva scorrere addosso quella nuova vita, godendo del presente, della compagnia di persone che gli volevano bene, della bella casa che condivideva con altri Reincarnati, di quella terra prodiga di doni, rigogliosa, e del tutto priva di pericoli e di dolore.
La sua vita trascorreva tranquilla, serena, apatica.
A lui andava bene così.

*

Aveva pensato che le Tenebre sarebbero state una punizione. Non fu così. Liberato dal corpo, fu liberato anche dal peso della sofferenza e, poco a poco, dal peso dei ricordi. Le sue colpe, così come i suoi meriti, si fecero sempre più sbiaditi, e lui li dimenticò entrambi.
All’inizio aveva percepito un’ombra, una presenza che gli stava accanto e gli comunicava sicurezza, insieme a una certa irritazione, ma presto quei sentimenti si erano fatti più deboli, ed erano spariti insieme con l’ombra che li suscitava.
La sensazione di aver fallito o, peggio, di aver deluso, lo tormentò a lungo, ma alla fine, attimo dopo attimo, anno dopo anno, secolo dopo secolo, il tempo gli regalò l’oblio e anche quest’ultima seccatura svanì.
Non c’erano né dolore né desiderio in quel luogo fuori dal mondo, e neppure si ricordava cosa fossero.
A lui andava bene così.
 

 

13
Curiosità


Una notte sognò.
Sognò un Elfo che non aveva mai visto, almeno non in quella nuova, lunga, interminabile vita. Lisci capelli neri, carnagione pallida, occhi grigi come il metallo. Senza dubbio un Noldo.
Sapeva che, ormai, quasi tutti coloro che nei tempi antichi erano partiti per le terre al di là del mare erano rientrati. Alcuni da vivi, con le navi, come sua sorella, molti di più attraverso la reincarnazione, come lui. Sapeva anche che a pochissimi il rientro non sarebbe mai stato concesso, e che alcuni avevano scelto di non tornare.
L’Elfo del suo sogno poteva essere tra questi, o poteva essere soltanto il frutto della sua fantasia. In condizioni normali, il pensiero gli sarebbe scivolato via dalla mente né più né meno di tanti altri che andavano incontro al suo pacato disinteresse.
Ma quella notte, davanti a quel volto sconosciuto, sentì qualcosa che non provava più da secoli.
La prima emozione vera di tutta la sua nuova vita.
Curiosità.

*

Ad alcuni veniva dato un corpo e la possibilità di andarsene. Li vedeva prendere forma e struggersi nel nuovo involucro prima di abbandonare per sempre quei luoghi. A lui non sarebbe mai accaduto, ne era consapevole pur non conoscendone il motivo. Era meglio così: le poche volte che aveva cercato di ricordarsi com’era stato, avere un corpo, gli erano tornate alla mente sensazioni fastidiose. Preferiva di gran lunga non avere nulla. Nulla da toccare o che potesse toccarlo. Nulla che potesse fare da substrato a nuove memorie dolorose, a nuovi fallimenti.
Di solito non era difficile allontanare da sé le vaghe reminiscenze del suo vecchio corpo. Suoni e immagini, sapori e profumi, come foglie secche spazzate dal vento non indugiavano mai abbastanza a lungo da depositarsi nella sua coscienza. Eppure, di recente, c’era una visione che ritornava sempre più spesso, sempre uguale, e che rimaneva ogni volta più a lungo. Una collana di pietre preziose, un ricamo di stelle variopinte che sfavillavano intrappolate in una sottile rete d’oro.
Un gioiello sublime, che risvegliò in lui qualcosa che – se ne rendeva conto solo in quel momento – l’aveva accompagnato per tutta la sua vita passata, e che ora, per la prima volta, tornava a pungolarlo.
Curiosità.
 

 

12
Scoperta


Risalì le gradinate di Tirion e giunse nel palazzo del vecchio Re, ormai disabitato. Attraversò le stanze vuote e polverose con un pizzico di quel nuovo sentimento che gli sfarfallava nel petto, e con la consapevolezza che non sarebbe durato a lungo. La curiosità gli stava già procurando più fastidio che soddisfazione. Si affrettò.
Andò nelle sale affrescate che si ricordava da una sua precedente visita; allora vi aveva prestato poca attenzione, ma adesso qualcosa gli diceva che era il posto giusto per trovare le risposte a ciò che stava cercando.
Nella prima era ritratto suo nonno, che era stato Re dei Noldor, con la sua seconda moglie, i loro figli e i loro nipoti. Si riconobbe tra questi, circondato dai cugini e dai fratelli: il Reincarnato, come lui, la sorella sopravvissuta, e quello che – gli avevano detto – aveva scelto di rimanere tra le ombre.
Nella stanza successiva trovò l’altra famiglia del nonno: la sua prima moglie e il primogenito, il grande Fëanáro di cui tutti parlavano con un misto di timore e di rispetto. I suoi sette figli erano dipinti in ordine di età sulla parete di fronte, insieme ai genitori. Un drappo copriva una parte del muro lasciando vedere solo i più grandi: tre ragazzi dai capelli di diverso colore in piedi uno di fianco all’altro, nessuno dei quali suscitò il suo interesse.
Sentì la sua esigua riserva di curiosità sgusciargli via tra le dita, e decise di tornarsene da dove era venuto.
Invece, afferrò il telo e lo rimosse.
Ed eccolo lì, l’Elfo che popolava i suoi sogni. Il quinto della fila.

*

Vagava per le Sale dell’Attesa come un’ombra tra tante altre, come aveva fatto per secoli. Ma ora si portava appresso, non voluto, il ricordo di quel gioiello e, insieme ad esso, il ricordo del volto di chi l’aveva indossato. Uno sconosciuto dai lunghi capelli biondi, con un’espressione benevola e conciliante, ma con penetranti occhi celesti che tradivano un’intelligenza fuori dal comune, e la consapevolezza di averla. Era stato un Re, ne era sicuro – chi poteva possedere una collana di tale pregio se non un sovrano? – ma non ricordava il suo nome, o quello del suo regno, o a quale destino fosse andato incontro.
Perché farsi domande, in ogni caso? A lui non servivano risposte, non voleva nomi o visi da ricordare, non interessavano più nemmeno i gioielli. Voleva soltanto l’oblio. Quell’immagine era solo una seccatura di cui liberarsi al più presto. Decise di rimuoverla dalla memoria per non farcela più rientrare.
Fu allora che un’ombra gli si avvicinò.
“Tu continui a pensare a mio fratello. Perché?”
 

 

11
Attesa


– Raccontami la storia del Principe Maledetto – chiese a suo padre, durante una delle loro passeggiate.
– La conosci già. L’hai vissuta in prima persona.
– Non la ricordo.
– Se non la ricordi, significa che ancora non vuoi farlo – gli spiegò il padre, con gentilezza.
– Ricordo, però, uno dei suoi figli – riprese lui. – Vorrei incontrarlo.
Arafinwë si irrigidì per un istante, ma quando parlò lo fece con la sua consueta calma: – Lo sai che non è possibile, sono condannati a restare nelle Tenebre.
– Vorrei incontrarlo lo stesso – insistette lui, e in quel momento si sorprese nel riconoscere un altro sentimento dimenticato, ma familiare quanto la curiosità: l’ostinazione.
Dichiarò: – Aspetterò che esca.
– Non uscirà – disse il padre, e sembrava più sperarlo che crederci davvero.
– Aspetterò ugualmente – decise lui, – non ho molto altro da fare.
Andò alle porte di Mandos, da dove era uscito anche lui centinaia di anni prima, da dove ogni tanto usciva ancora qualcuno. Qualche spaesato privo di ricordi, privo di emozioni, privo di vita, come era lui.
Attese.

*

Non riusciva più a tornare alla pace indolente che l’oblio gli aveva regalato. Da quando gli avevano detto il nome dello sconosciuto, il ricordo del suo viso non lo abbandonava mai. E la cosa lo infastidiva terribilmente. Sapeva di aver avuto dei fratelli, e non ne aveva memoria. Sapeva di aver avuto un padre e una madre, e tuttavia non li ricordava. Una moglie e un figlio, persino. Eppure nei suoi pensieri c’era solo l’immagine di quell’Elfo mai visto prima, del suo volto e della sua collana, a cui si univano, di quando in quando, altre visioni vaghe: sale scavate nella roccia, uno strano sogno, un’arpa.
L’ombra che era stata il fratello dello sconosciuto lo avvicinò un’altra volta.
“Io non tornerò tra i vivi. Ti cedo il mio posto.”
“Perché?”
“Deve esserci un motivo se ricordi mio fratello. Vai a scoprirlo.”
Cercò di dimenticare. Di liberarsi di quel ricordo come aveva fatto con tutti gli altri.
Non ci riuscì.
Accettò lo scambio.
 

 

10
Delusione


Quando l’Elfo che aveva tanto aspettato uscì dalle porte di Mandos, lui quasi non lo riconobbe. Quello del suo sogno era robusto, dai muscoli sviluppati, col volto segnato da cicatrici. In lui tutto aveva espresso rigore di carattere: la postura del corpo, la meticolosità dell’abbigliamento, la treccia austera che gli legava i capelli.
Questo, invece, apriva e chiudeva i pugni con un movimento nervoso, stava in piedi alternando il peso da una gamba all’altra, i capelli sciolti gli ricadevano spettinati su un viso pallido, dalla pelle immacolata.
Certe cose potevano essere giustificate dal fatto di trovarsi in un corpo per la prima volta dopo moltissimo tempo, ma non tutte. Non il suo sguardo, che nel sogno era stato determinato, acuto, fiero, e che adesso era spaesato, anzi di più, era completamente perso.
Gli prese una mano, perché si ricordò di quanto lui avesse agognato un contatto fisico, appena tornato in vita.
L’altro lo lasciò fare, e anche quello gli sembrò una stonatura.
– Non capisco – disse il Reincarnato, guardando le loro mani unite.
Già, nemmeno lui capiva.
Ma dopo un attimo quello aggiunse: – Ma intendo farlo.
E fu allora che cominciò a riconoscerlo.

*

Quando uscì, l’Elfo del suo ricordo lo stava aspettando.
Ma non indossava alcun gioiello, e nello sguardo non aveva nemmeno un leggero barlume di quella sagacia che aveva destato la sua curiosità. Occhi spenti come il cielo velato dalle nubi gli conferivano un’aria ottusa, e una veste ordinaria, dai colori smorti, lo faceva sembrare un inserviente di una casa di guarigione.
Persino il suo nome era sbagliato. Gli avevano detto che si chiamava Findaráto ma, adesso che ce l’aveva davanti, lo ricordava in un altro modo.
Non riusciva a capire. Perché tornare in vita per incontrare quell’insignificante sconosciuto?
E che senso aveva quella mano che stringeva la sua?
Era confuso e glielo disse.
Poi si pentì di averlo fatto.
– Eravamo amici? – chiese, non preoccupandosi di mascherare la propria incredulità.
– Eravamo cugini – rispose l’altro.
E questa fu la prima cosa a sembrargli giusta.
 

 

9
Una nuova casa


Aveva portato il cugino a casa con sé, e l’aveva sistemato in una delle numerose stanze dell’ampia dimora in cui abitava con altri Reincarnati.
Non sapeva neanche lui spiegarsene il motivo, né cosa si fosse aspettato dall’averlo vicino. “Conversazioni brillanti”, gli suggerì un angolo della sua mente, andando a recuperare l’informazione chissà da dove.
Ma se lui e il Reincarnato avevano mai avuto conversazioni brillanti, di sicuro non erano destinate a ripetersi nell’immediato futuro. Il cugino non parlava quasi mai, mangiava molto poco e usciva ancor meno spesso dalla sua stanza. Sembrava che preferisse ricercare le risposte dentro di sé, piuttosto che chiedere aiuto. Oppure, semplicemente, non gli importava di nulla.
Le regole imponevano di non raccontare niente ai Reincarnati, di lasciare che ricordassero ciò che volevano quando volevano, ma la sua pazienza terminò presto. Un giorno raggiunse il cugino nella sua stanza e gli disse: – Io ti ricordo come Curufin, anche se so che hai avuto altri nomi.
Non ottenendo alcuna reazione, si spinse oltre: – Puoi chiedermi quello che vuoi. Non so molto, ma quello che so te lo dirò.
Quella pallida imitazione dell’Elfo che era stato il quinto figlio di Fëanáro sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo, e si allontanò con estrema cura una ciocca di capelli che gli ricadeva sul viso. Per un istante, uno scintillio accese i suoi occhi di pietra.
– Lo sai costruire un palazzo, Felagund?

*

Andarono a sud, in un territorio poco abitato a ridosso dei monti. Una piccola valle rivolta a occidente, chiusa a un’estremità da una frana di massi. Un luogo intimo, suggestivo, e vagamente familiare. Sulle pendici orientali, una sorgente dava origine a una cascata che alimentava il torrente sul fondo della valle e, poco più avanti, un prato terminava ai piedi di una parete di roccia.
Lì costruirono la loro nuova abitazione. Scavarono gallerie e caverne, eressero colonne e volte, decorarono soffitti e pareti, crearono sale dove prima c’era solo pietra. Lo fecero loro due da soli, e ci misero molto, moltissimo tempo.
All’inizio agirono con incertezza, senza capire bene cosa stessero facendo, lasciando che le loro mani lavorassero da sole sotto l’influsso di automatismi che non ricordavano di aver mai imparato, alternando successi e insuccessi. Ma presto riemersero la straordinaria capacità di imparare che li caratterizzava, la loro inventiva e la loro ingegnosità, e da quel momento il lavoro divenne un’inesauribile fonte di soddisfazione.
Suo cugino, che lui ricordava come Felagund, anche se lì era conosciuto con un altro nome, era cambiato molto dal giorno in cui l’aveva visto per la prima volta fuori dalle porte di Mandos. Ora i suoi occhi non erano più velati, le sue mani non restavano mai inoperose, e la sua mente era tutt’altro che intorpidita. Ora assomigliava davvero all’Elfo che indossava quella collana, nel suo ricordo.
Un giorno, mentre si riposavano seduti sull’erba, la schiena contro la parete di roccia che stava assumendo i contorni di una facciata, Felagund disse: – Ho già costruito qualcosa del genere, una volta. Un regno, presso un fiume.
– E io ho cercato di portartelo via – commentò lui.
Nel dirlo seppe che era vero, e non provò rimorso.
 

 

8
Orgoglio e vanità


La sua vita diventò interessante.
Finalmente aveva avuto inizio la rinascita dello spirito, di gran lunga più affascinante e più attesa di quella del corpo. Le sue mani, ora, producevano opere d’arte, e lui ammirava la bellezza di ciò che creava, e ammirava ancor di più il fatto che a crearla era stato lui. Si sentiva spinto a fare sempre meglio solo per il gusto di mettersi alla prova, di sfidare Curufin a superarlo, o di raggiungere i suoi livelli quando era l’altro ad essere più abile.
Anche il cugino era cambiato: forse per praticità, aveva preso l’abitudine di legarsi i capelli in una treccia, il suo fisico si era irrobustito a causa del duro lavoro, la sua pelle aveva assunto una tonalità più scura per l’esposizione al sole. Il suo sguardo – quando non risultava del tutto indecifrabile – rifletteva la ferrea determinazione che ora animava il suo spirito. Era diventato tale e quale all’Elfo che era apparso nei suoi sogni.
Si erano trasferiti nel palazzo che stavano costruendo quando ancora molte parti dovevano essere completate; l’avevano ritenuto più pratico per proseguire con i lavori. La nuova dimora era composta da alloggi privati e da sale comuni, la più grande delle quali era anche la prima a cui avevano cominciato a dedicarsi quando le loro capacità non si erano ancora affinate, e mostrava tutte le tracce della rinascita delle loro abilità. Era stata concepita per essere una sala da pranzo ma, forse per la passione per la lettura e la conoscenza che avevano scoperto di condividere, aveva finito col diventare più simile a un’enorme biblioteca.
Ogni tanto, sotto la volta affrescata di quella stanza singolare, gli tornavano alla memoria brevi immagini del suo antico regno – saloni sfarzosi, vestiti eleganti, persone dallo sguardo riconoscente – e una sera ad esse si aggiunse il ricordo del gioiello che era stato il simbolo della sua regalità.
Rivide lo scintillio delle gemme che faceva risplendere il suo viso e donava al suo sguardo un fascino misterioso, e soprattutto rivide lo stupore e l’ammirazione sui volti di coloro che non potevano fare a meno di posare gli occhi su di lui.
Allora fu preso da un sentimento poco onorevole, ma che non seppe né volle reprimere, perché era buono come gli altri per fargli provare il brivido della rinascita.
La vanità.
Guardò il cugino, che lo stava osservando come se avesse intuito la piega che avevano preso i suoi pensieri, e disse: – La sai forgiare una collana, Curufin?
L’altro sollevò un angolo della bocca, come se avesse atteso quella domanda da sempre.

*

Nella più remota sala del loro palazzo avevano costruito una fucina. Avevano scavato nella roccia l’altissima canna fumaria e avevano forato il fianco della montagna con canali in cui specchi, debitamente inclinati, facevano confluire la luce del sole fin nelle viscere della terra.
Lì, forgiò la collana che era impressa nella sua memoria fin dai tempi in cui vagava tra le ombre. La costruì con pietre e metalli pregiati quanto quelli dell’originale, di cui non c’era carenza in quel mondo benedetto da ogni ricchezza, e senza mai mostrare a Felagund cosa stesse facendo, né chiedendogli aiuto, dato che la ricordava con estrema chiarezza.
Creò un gioiello che riproduceva l’antico in tutto e per tutto, ma lo arricchì di minuscoli particolari che lo resero ancor più prezioso ed elaborato, come volesse infondergli l’essenza di chi, cercando di riemergere dalle nebbie dell’oblio, non solo si riappropria di ciò che era suo, ma va oltre quelli che, in passato, erano stati i suoi limiti.
E mentre lavorava, mentre le sue mani imprimevano il taglio perfetto alle pietre, mentre l’oro si modellava sotto le sue dita e le gemme venivano imprigionate nei castoni, nel suo spirito divampava incontrastato il sentimento che l’aveva accompagnato per tutta la vita precedente, e che aveva definito tutto il suo essere, come persona, come Noldo, e come artista.
L’orgoglio.
Non l’orgoglio derivato dall’appartenere a una famiglia importante, né quello che si prova quando si riesce a corrispondere alle aspettative di qualcun altro.
Provò il puro e semplice orgoglio di sé stesso e delle proprie capacità.
E si sentì, finalmente, vivo.
 

 

7
Regali


Non era così ingenuo da non capire cosa stesse accadendo. A cosa mirasse la loro convivenza. Era come se ognuno di loro avesse dell’altro un ricordo più nitido di quello che l’altro aveva di sé stesso, e cercasse di plasmarlo per corrispondere a quel ricordo.
Era il modo giusto di procedere? Non era troppo pericoloso mettersi a tal punto nelle mani di qualcuno? Questi dubbi, che ogni tanto gli attraversavano la mente, erano messi a tacere dalla continua scoperta di nuove sensazioni e di nuove emozioni, che risvegliavano il suo spirito e lo facevano vibrare come la corda di uno strumento che, rimasto inutilizzato per molto tempo, si ritrova, contro ogni previsione, ancora perfettamente accordato.
Era contro le regole? A lui non importava. Era vivo.
Quando Curufin, una sera, andò a cercarlo con uno scrigno in mano, lui capì subito che cosa conteneva.
Davanti a uno specchio, con il cugino alle spalle, si raccolse i capelli e li tenne sollevati, il collo scoperto su cui una vena tradiva il battito accelerato del suo cuore.
Curufin disse: – Chiudi gli occhi – ed era così vicino che sentiva il suo respiro sulla pelle. Lui fu percorso da un brivido, paura e aspettativa mescolate insieme, e non esitò a obbedire.
Sentì qualcosa di freddo che gli veniva appoggiato sul petto e chiuso dietro il collo. La parte di lui che attendeva le dita del cugino ad accarezzargli la gola, o a stringergliela fino a farlo soffocare, rimase delusa. Curufin riuscì a fare tutto senza neppure sfiorarlo.
Quando lo sentì arretrare, lasciò ricadere i capelli e aprì gli occhi.
Abbagliato dalla bellezza del gioiello, e dalla propria, che da esso veniva esaltata, rimase per un attimo senza parole.
– È un capolavoro – disse, alla fine, in un mormorio roco.
Nel riflesso, i suoi occhi brillavano di compiacimento, quelli di Curufin di superbia.

*

La consapevolezza di che tipo di persona era stato nella sua vita precedente sopraggiunse molto prima dei ricordi veri e propri. Senza particolare sorpresa, scoprì di essere stato un individuo capace di volgere le cose a proprio favore, di sfruttare le debolezze degli altri per il proprio tornaconto. Anche adesso, la sua stessa natura lo portava a ingraziarsi il cugino, a conquistarne la fiducia, a renderlo una pedina del suo gioco, sebbene neppure lui sapesse ancora quale fosse, il suo gioco. Sapeva, però, che doveva portare Felagund dalla sua parte, tenerselo buono, vincolarlo a sé finché non si fosse rivelata la sua utilità.
Fu di certo per questo, per manipolarlo, e non per gentilezza, che un giorno gli fece trovare un’arpa nello stravagante salone in cui amavano trascorrere il loro tempo libero.
L’altro, dovette riconoscerglielo, celò molto bene la sua sorpresa. – Se le mie esigue memorie non mi ingannano – disse, – ritenevi la musica un’attività inutile.
– Forse è per questo che ho pensato potesse essere adatta a te – replicò lui.
– O forse è perché ti ricordi quanto ero bravo a suonare – suggerì il cugino.
– La tua presunzione ha raggiunto livelli critici, se pensi che possa ricordarmi di una cosa del genere – mentì lui. E aggiunse, per chiudere la conversazione: – Suona, Felagund, se ne sei ancora capace.
– “Ancora”? – ribatté l’altro con un sorriso soddisfatto, – devi affinare l’arte della menzogna, Curufin.
Lui cercò parole argute per rimediare al proprio errore, ma fu distratto dalle note che uscirono dallo strumento.
Decisamente, Felagund era ancora capace.
 

 

6
Intimità


La presenza di Curufin al suo fianco stimolava la crescita della sua curiosità, della sua intelligenza, della sua ambizione, e di altri aspetti che lui era arrivato ad associare al suo essere Noldorin. Ma cominciava a sentire che c’era qualcos’altro, nella sua natura, che ancora non aveva avuto l’opportunità di manifestarsi: la capacità di amare o, per lo meno, di prendersi cura di un’altra persona e, legata a questa, la possibilità di esprimere tale dedizione anche tramite il contatto fisico.
Nessuna delle due esigenze, tuttavia, né quella affettiva, né quella fisica, erano qualcosa che Curufin gli avrebbe permesso di esplorare con lui. Dopo quella prima volta sulle porte di Mandos, quando ancora inconsapevoli di chi fossero si erano tenuti per mano, nessun contatto era avvenuto tra loro. Il cugino stava molto attento a non toccarlo, nemmeno per sbaglio, quando lavoravano fianco a fianco e, per quanto riguardava il prendersi cura di lui, rifiutava persino un piccolo gesto di gentilezza come quello di farsi servire quando cenavano insieme.
– Voglio sperimentare l’intimità fisica – si decise a dirgli, un tardo pomeriggio estivo, mentre leggevano in giardino.
– Non con me – fu la risposta, secca, senza nemmeno un accenno di esitazione.
Era proprio la reazione che si era aspettato, eppure quell’indifferenza lo ferì. Per non darlo a vedere, adottò lo stesso tono: – Questo lo so. Volevo sapere se ti da fastidio che lo faccia con qualcun altro.
– Perché mai dovrebbe darmi fastidio? – disse Curufin. – Vai dove ti pare, e lasciami finire il mio libro in pace.

*

Era la prima volta che trascorreva la notte da solo. Dal giorno del suo rilascio, nella stanza accanto, o comunque nello stesso edificio, c’era sempre stato Felagund. Si sorprese nel non riuscire a provare l’indifferenza che aveva esibito davanti al cugino quel pomeriggio. Al contrario, si sentì a disagio e gli ci volle parecchio coraggio per ammettere cosa fosse a causarlo.
Gelosia.
Non la gelosia di chi avrebbe voluto essere al posto di quell’infelice con cui Felagund avrebbe passato la notte, che avrebbe perso il cuore per quegli occhi color del cielo non sapendo di essere solo un esperimento. Ma la gelosia cattiva di chi vuole un oggetto prezioso come proprietà esclusiva, da non condividere con nessuno.
Ebbe disgusto di sé, e per non pensarci si procurò del vino e qualcosa da mangiare, giusto perché era ora di cena, anche se non aveva fame. Si trovò a sbucciare un frutto con la mente altrove; rabbia e confusione si agitavano nel suo animo e lui non capiva il motivo di quella reazione esagerata, e il non capire peggiorava il suo umore.
Si fece incauto, distratto. Il coltello gli scivolò e la lama gli incise il pollice.
Sangue stillò dalla ferita, scuro e denso. Lo osservò scendere lungo la falange e accumularsi sul palmo, incapace di distogliere lo sguardo o di arrestarne il flusso col tovagliolo. Incapace di fare qualsiasi cosa. Paralizzato.
Lo stomaco si contrasse contro i pochi bocconi ingeriti, e lui cercò invano di prendere fiato con polmoni che non volevano più saperne di espandersi.
I ricordi lo colsero a tradimento.
Improvvisi, lo sommersero. Affogò.
Sangue.
Sangue sulle navi.
 

 

5
Malato


Quando rientrò, ben prima dell’alba, trovò Curufin riverso sulla panca del cortile davanti all’ingresso, semi incosciente, le mani sporche di sangue, alcune bottiglie vuote ai suoi piedi. Non era presente a sé stesso, e lo dimostrò il fatto che si lasciò sollevare e condurre in camera sua senza opporre resistenza.
Lo fece distendere sul letto e attese finché non fu certo che fosse addormentato. Solo allora gli tolse le scarpe, gli tamponò le ferite e gli avvolse le mani in bende pulite. Sapeva che il cugino non avrebbe apprezzato le sue cure, e non voleva metterlo a disagio più del necessario, soprattutto in un momento in cui, chiaramente, qualcosa lo aveva profondamente turbato.
Ma prima di lasciare la camera, in uno slancio di temerarietà, gli sfiorò la guancia con la punta delle dita. Fu un contatto lieve, quasi impercettibile, eppure a lui sembrò più intenso di ogni carezza data o ricevuta in quella notte lontano da casa.
– Sono qui fuori, se hai bisogno – mormorò, e non aggiunse altro, anche se avrebbe voluto.
Uscì piano, lasciando la porta socchiusa, si sedette su una poltrona presso il caminetto del salottino che faceva da anticamera, e lì rimase fino al sorgere del sole.

*

Entrò nel salone in perfetto ordine, lavato e vestito, nessun segno sul viso che testimoniasse l’abuso di alcol, le ferite alle mani – anche quelle che non si ricordava di essersi procurato – che già cominciavano a guarire. Miracoli di quel corpo nuovo.
Felagund stava dipingendo.
In un’altra occasione, avrebbe provato imbarazzo nel doverlo affrontare dopo lo stato in cui si era fatto sorprendere quella notte, e fastidio per la consapevolezza di doverlo ringraziare per essersi preso cura di lui. Ma provare imbarazzo per una cosa del genere non era più possibile dopo quello che aveva scoperto la sera precedente.
Non sapeva se c’era un modo giusto per dirlo, ma di certo non serviva perdere tempo in inutili preamboli.
– Sono un assassino – dichiarò.
L’altro allontanò il pennello dalla tela. – Lo so.
La risposta lo sorprese, ancor più del tono indifferente con cui era stata formulata. – Ti ricordi di avermi visto uccidere?
– No. Ma percepisco il pericolo che emani.
– E non hai paura?
– Sì – rispose Felagund, tornando al suo lavoro come se non ci fosse altro da aggiungere. Ma poi disse: – E non intendo rinunciarvi. Mi fa sentire vivo.
– Sei malato.
– Di sensazioni forti – confermò il cugino. – Come te.
 

 

4
La Caduta


Da quando Curufin gli aveva detto di ricordare di aver ucciso, gli era tornata in mente una melodia. Sapeva che dovevano esserci delle parole che la accompagnavano, ma non ricordava quali. La suonò all’arpa nei giorni seguenti, mentre il cugino stava chiuso nei suoi alloggi a rimuginare su ciò che aveva scoperto di sé, o a cercare di recuperare altri particolari, adesso che il muro che lo separava dal suo passato era stato infranto.
Quella musica gli metteva addosso una tristezza infinita, era una lama che gli penetrava nel cuore, lo affliggeva a tal punto che per la prima volta si domandò se non fosse il caso di lasciar perdere tutto, e tornare nel beato torpore delle non-emozioni.
Il dolore.
Pensava che dopo tutto quel tempo sarebbe stato pronto ad affrontarlo, ma forse non lo era.
A giudicare dalle lacrime che gli bagnavano il viso mentre le sue dita pizzicavano le corde, non lo era.
Curufin entrò, interrompendo l’esecuzione.
– Conosci le parole? – domandò, non mostrando pena, né compassione.
Lui scosse la testa.
– Le conosco io – disse il cugino. – L’ha scritta mio fratello.

*

Cantò.
Anche se – ne era sicuro – non l’aveva mai fatto nell’altra vita, per nessuno. Cantò per Felagund, per gettargli in faccia le loro colpe. Per cancellare quelle lacrime dal suo viso e indurire il suo cuore mettendolo di fronte alla realtà di ciò che erano. Cantò della presa delle navi, del sangue di fratelli che aveva macchiato la terra benedetta, e della maledizione che li aveva condannati.
– Perché abbiamo fatto questo? – chiese il cugino, alla fine, con voce roca, ma gli occhi ormai asciutti.
Aveva detto “abbiamo”. Eppure era chiaro, dalle parole della canzone, che loro due erano stati su fronti diversi, e che non era stato quello di Felagund a compiere il massacro. Il cugino avrebbe potuto lavarsi la coscienza addossando la colpa ad altri, ne aveva tutto il diritto, invece aveva abbastanza onestà da ammettere che chi segue un assassino è colpevole a sua volta.
Lo ammirò, suo malgrado, perché lui, al contrario, aveva capito ormai da tempo di essere una persona che tendeva a nascondersi le verità scomode. Per una volta, volle tentare la stessa onestà: – So che c’entra mio padre, ma non lo ricordo.
Erano tornate molte memorie, ma là dove c’era stato suo padre c’era ancora un vuoto, una voragine insondabile da cui la paura lo teneva distante. Sapeva solo che c’era stato lui all’origine di tutto, della grandezza del loro popolo, e della sua dannazione.
– Ti somigliava – disse Felagund.
Appunto. Era quello il problema.
 

 

3
Rimorso


Cominciava a ricordare. Era stato quel canto dei Tempi Antichi a innescare il processo, doloroso e irreversibile.
Ora ricordava i Silmarilli e il loro artefice. Ricordava il sopraggiungere delle tenebre, l’omicidio del Re, la lunga marcia sul ghiaccio, il regno che aveva fondato nella Terra di Mezzo. Ma, così come Curufin aveva ancora un vuoto da riempire, ed era il padre, anche lui non riusciva ad accedere al livello più profondo delle sue memorie, dove, ne era certo, era racchiusa l’esperienza più importante della sua vita passata.
Una visione ricorrente – un volto avvizzito, con occhi infossati ma pieni di una serenità infinita – gli faceva credere che anche l’ultimo tassello fosse in procinto di svelarsi, per indicargli quale fosse il suo destino e che parte avrebbe avuto Curufin in esso.
Sempre che il cugino non avesse ceduto prima. Dal giorno in cui aveva scoperto di essere stato un assassino, infatti, qualcosa lo stava consumando. Se fosse il senso di colpa, o l’assenza del ricordo del padre, lui non poteva saperlo, ma vedeva la sua incertezza crescere di giorno in giorno, e assisteva impotente all’inesorabile discesa che l’avrebbe condotto di nuovo tra le Tenebre.
Non si stupì quando lo trovò nella fucina con un pugnale in mano, la veste aperta sul petto, la punta appoggiata sul cuore.
– Non ero destinato a uscire – disse Curufin, nella penombra, con gli occhi fissi sulle braci davanti a sé, e il tono assorto di quando ragionava ad alta voce.
– Come lo sai? – chiese lui, per prendere tempo.
– Non provo rimorso per quello che ho fatto. – La lama incise la pelle, tra una costola e l’altra, con la precisione con cui il cugino eseguiva ogni cosa, con la stessa fermezza di mano. – Dev’essere per questo che non sento il bisogno di ricongiungermi alla mia famiglia. Nessuno potrebbe accettare nella sua vita un Reincarnato con ancora addosso la colpa.
Io posso – disse lui, senza esitare, perché non poteva fare a meno di Curufin proprio ora, alle soglie della rivelazione. O forse perché non voleva fare a meno di lui. Ormai era difficile distinguere i due casi.
Ma l’altro non alzò neppure lo sguardo, e lui capì che non sarebbero bastate quelle due parole per trattenerlo. Non sarebbe bastata la sincerità.
Allora mise a tacere le proprie colpe: i genitori abbandonati nel momento del bisogno per seguire le proprie ambizioni nel nuovo mondo, una donna amata, lasciata dopo averle promesso che avrebbero avuto un futuro insieme, un popolo intero, di cui era responsabile e che si fidava di lui, consegnato nelle mani di esseri privi di scrupoli, per una missione di cui ancora non ricordava i contorni, ma che aveva saputo essere senza speranza.
– Nemmeno io provo rimorso – mentì.
E Curufin allontanò la lama dal petto.

*

Fu proprio lì, davanti a braci che si trasformavano in cenere, con un pugnale dimenticato in mano, e la porta della fucina lasciata aperta dal cugino dopo essersene andato, che ritornò il ricordo del padre.
E per quanto cercasse di nasconderlo a sé stesso, fu proprio Felagund a dargli la forza per affrontarlo, con la sua sciocca bugia, alla quale lui non aveva creduto nemmeno per un secondo.
Il cugino aveva mentito per lui, per non lasciarlo tornare tra le Tenebre, per averlo accanto in previsione di quel futuro che si sarebbe presto delineato, e fu questa certezza – la certezza di non essere solo ad affrontare ciò che lo aspettava – che gli diede il coraggio per accedere a quella parte della mente in cui aveva paura di mettere piede.
Vi si addentrò cauto, andando a recuperare ogni singolo ricordo del padre con meticolosa cura. Cominciò da quelli che erano solo suoi, i più cari, i più personali: una giornata di lavoro insieme, una lode a un’opera ben eseguita, un viaggio alla scoperta di nuovi materiali, una mano posata sul suo polso. Poi passò a quelli che condivideva con tutti coloro che l’avevano conosciuto: il suo ingegno ineguagliabile, i suoi discorsi trascinanti, le sue idee rivoluzionarie, l’ira incontenibile di quando gli furono strappate le cose che amava di più. Infine, un corpo spezzato, un ultimo grido di odio e vendetta, e cenere nel vento.
Quando il quadro fu completo, il pugnale era in terra ai suoi piedi e le mani stringevano il bordo del tavolo davanti a sé. Nocche bianche, dita che tremavano, occhi serrati contro qualcosa che minacciava di uscire. Un nodo gli bruciava in gola, e gli spezzava il respiro.
Era sicuro di non aver mai pianto nell’altra vita. Si impose di non farlo nemmeno in questa, e se ne stette lì, al buio, solo, in silenzio, con le spalle alla porta e il volto tra le mani finché non riprese il controllo di sé. Allora si lavò il viso, si richiuse con cura la camicia e uscì. Senza neppure rendersene conto, si ritrovò nella loro sala preferita.
Felagund stava scarabocchiando su un foglio. Se fu sorpreso di trovarlo ancora vivo, o se notò i suoi occhi arrossati, non lo diede a vedere. Invece, tirò fuori un argomento dal nulla, come per dirgli che non era necessario parlare di ciò che era accaduto: – A proposito della nuova fontana, ci sono alcuni calcoli della pressione dell’acqua che non riesco a fare.
Se non fosse stato così vicino al pianto, sarebbe scoppiato a ridere. Felagund che non riusciva a fare due conti di idraulica! Il cugino ci stava prendendo l’abitudine a mentire.
Ma gliene fu silenziosamente grato, gli si sedette accanto, borbottò un “dammi qua” e gli sfilò il foglio da sotto le dita.
Cominciò a scrivere, e i numeri portarono ordine nella sua mente e pace nel suo spirito.
 

 

2
Ricordi


Alla fine, anche gli ultimi ricordi tornarono.
Era notte fonda quando accadde, ma non volle aspettare il mattino seguente per condividerli con Curufin. Lo trovò nei suoi alloggi, con i capelli sciolti e una vestaglia stretta alla vita, ma con lo sguardo vigile, segno che non era stato sorpreso nel sonno, e che era pronto ad ascoltare.
Lui si sedette su una poltrona presso il caminetto, la stessa su cui aveva aspettato l’alba una notte di tanti anni prima. Incominciò a raccontare, e le memorie presero forma mentre parlava.
– Ricordo un Secondogenito… un Uomo, se capisci cosa intendo.
Curufin annuì, e lui riprese: – La sua vita è durata quanto un battito di ciglia, eppure ne ricordo ogni minuto. Avvizzito in un lampo, fedele fino all’ultimo respiro, morto tra le mie braccia.
Non voleva dire altro a riguardo, ma non riuscì a fermarsi.
– Il dolore più grande che abbia mai provato – confessò.
Si passò una mano sul viso e si preparò a incassare il commento caustico del cugino sulla sua incapacità a mantenere il controllo. Ma Curufin non disse nulla, anzi, lo lasciò per un attimo e quando tornò aveva con sé un bicchiere di vino, che gli offrì.
Lui ne bevve un lungo sorso e trovò il coraggio di continuare.
– Ricordo un Giuramento fatto a un suo discendente che mi salvò la vita. È stato allora che ho consegnato il mio destino nelle mani degli Uomini, che ho legato la mia sorte alla loro.
Appoggiò il bicchiere e si protese in avanti, le mani che stringevano con forza i braccioli.
– Ma soprattutto, ricordo una conversazione con una donna sul destino dei nostri due popoli – disse. – A quel tempo, il loro mi pareva triste, incomprensibile, ma ora che ho sperimentato il nostro, non lo credo più.
Si era imposto di mantenere la calma, ma fallì nel suo intento. Sì alzò in piedi, per trovarsi faccia a faccia con Curufin, per leggere nei suoi occhi se la pensavano allo stesso modo, se condividevano lo stesso tormento.
– Che senso hanno le nostre azioni – chiese, a voce più alta di quello che avrebbe voluto, – se le cancelli con un colpo di spugna, e sei pronto a ripeterle uguali, ancora e ancora? Gioire delle stesse gioie, soffrire gli stessi dolori. E l’alternativa? Vivere in questa specie di torpore, di beata indolenza…
Nell’impeto del momento, si accorse di essersi avvicinato troppo, di aver invaso lo spazio personale di Curufin. Non c’era che una spanna a separare i loro volti.
Eppure l’altro non si mosse, non indietreggiò di un passo. Con la sua voce fredda e distaccata, disse: – Non deve necessariamente essere sempre così.
– E come può essere diverso? – gridò lui, esasperato da quell’impassibilità. – Facciamo forse noi le leggi del mondo?
– Potremmo.

*

Aveva letto qualcosa, diversi anni addietro. Un testo che allora non aveva compreso, ma che aveva cominciato ad assumere un significato pochi giorni prima, quando il ricordo di Fëanáro era rientrato nella sua vita. Ora si presentava come la risposta che Felagund andava cercando con tanto fervore.
– C’è una profezia – cominciò, e per poco non afferrò il braccio del cugino per impedirgli di allontanarsi. Voleva tutta la sua attenzione. Qualcosa gli diceva che erano a un punto di svolta. – Dicono che alla fine del tempo, dopo l’ultima battaglia, mio padre tornerà e Arda sarà risanata. Ci sarà un altro mondo, alla cui creazione parteciperanno anche Elfi e Uomini. Allora avremmo la possibilità di decidere la nostra sorte.
Felagund rimase a lungo in silenzio, con l’aria di chi cerca di far combaciare le nuove informazioni con vecchi dati in suo possesso.
Quando parlò, ciò che disse cambiò il loro futuro. – Ho avuto una visione, tanto tempo fa. Elfi e Uomini che camminavano insieme, uniti in un destino comune. Forse è parte della profezia di cui parli.
La speranza che si celava a stento dietro quelle parole gli aprì gli occhi. Improvvisamente tutto fu chiaro: il motivo per cui era tornato in vita, il motivo per cui aveva abitato tutti quegli anni assieme a un mezzo sconosciuto il cui ricordo lo aveva letteralmente strappato dalle Tenebre. Felagund voleva unire i destini di Elfi e Uomini, desiderava più di ogni altra cosa ricongiungersi a persone che un tempo aveva amato, quelle che, forse, gli avevano insegnato il significato stesso della parola. Mentre lui, se era vera la profezia, voleva accelerare i tempi. Basta indugiare! Tra le ombre o alla luce non faceva differenza, stavano solo perdendo tempo per il ritorno di suo padre e per la promozione dei Figli di Ilúvatar a livello dei Valar.
Se fosse riuscito a condurre il cugino dove voleva lui, si sarebbe assicurato un aiuto prezioso, perché nel posto dove aveva intenzione di andare, in due avrebbero avuto più probabilità di sopravvivere.
Era il momento di verificare se i suoi sforzi per aggiudicarsi la fiducia di Felagund erano valsi a qualcosa. Rimise un po’ di distanza tra loro e disse, fingendo un distacco che non provava: – Abbiamo bisogno di più informazioni se vogliamo cambiare le cose.
Lo sguardo scettico del cugino vagò sui libri che erano appoggiati un po’ ovunque attorno a loro: – E dove le troviamo?
– Di sicuro non qui, dove il nostro sapere è deciso da altri – confermò lui. – Se c’è qualcosa da scoprire è là dove i Secondogeniti fanno le loro scelte liberamente, fuori dalla portata dei Valar. – Fece una pausa per permettere all’altro di arrivarci da solo, poi concluse: – Dobbiamo tornare nella Terra di Mezzo.
Felagund inarcò un sopracciglio: – E poi?
– E poi, ci inventeremo qualcosa. Tra te e me, dubiti che saremo in grado di venirne a capo?
Il cugino non rispose, ma si vedeva che stava già analizzando la proposta, valutandone la realizzabilità, ideando soluzioni. La sua obiezione, quando arrivò, era quella a cui era giunto anche lui: – Ti rendi conto, vero, che se io ho visto il futuro in una visione, e se, come sostieni, esiste una profezia, significa che tutto è già stabilito, e noi non siamo che strumenti di un piano più grande?
– Ovvio – rispose lui. Poi fece la domanda sulla cui risposta avrebbe scommesso la vita: – Ti sembra un buon motivo per non tentare nemmeno?
Felagund non lo deluse. – No – disse, e tese le labbra in un sorriso enigmatico, mentre gli occhi si riducevano a fessure.
E lui si trovò a fissare quegli spicchi di cielo che si tingevano di scura determinazione, e a chiedersi chi dei due avesse condotto l’altro sulla propria strada.
 

 

1
Distacco


Il piano era fin troppo semplice. Avrebbero preso una barca a vela e sarebbero andati alla ricerca del passaggio, se c’era, per tornare in Endórë. Cosa avrebbero trovato, se fossero riusciti a raggiungere la Terra di Mezzo, non potevano saperlo. Lui sperava di ottenere le risposte al destino comune di Elfi e Uomini – “aspettaci là, mio fratello e me”, aveva detto alla donna del suo ricordo, e ci aveva creduto. Curufin era alla ricerca di qualcosa di altrettanto personale. Se si trattasse ancora di quelle gemme delle Ere Antiche, o del modo per arrivare prima alla guerra definitiva e al ritorno di Fëanáro, non poteva saperlo. E nemmeno gli importava, finché le loro strade coincidevano.
Andò dal padre e gli comunicò la sua decisione.
– Non mi sembri sorpreso – disse, quando ebbe terminato, davanti alla quieta rassegnazione del genitore.
– Non lo sono. Non sei rimasto la prima volta, non vedo perché dovresti restare questa.
– Perché si suppone che uno impari dai propri errori? – suggerì lui.
Arafinwë sorrise con amarezza: – Nella mia esperienza, uno tende a ripeterli sempre uguali.
Lui sentì sopraggiungere un’inaspettata malinconia e si affrettò a cambiare discorso.
– Qualche consiglio? – chiese.
– Il passaggio è chiuso per chi viene dall’Est, e sono quasi certo che lo sia anche per chi vuole tornare laggiù. Ma so che questo non ti fermerà.
– No – confermò lui, – non lo farà.
– Il Fëanárion è pericoloso. Ma immagino sia il motivo per cui ti affascina.
– Mi conosci bene.
– Che le stelle brillino sul tuo viaggio, allora, e che tu possa trovare quello che cerchi – disse il padre, e lo abbracciò.
Lui si sottrasse prima che diventasse troppo difficile farlo. – E così, ci diciamo addio un’altra volta – disse.
Arafinwë annuì. – E ogni volta diventa più difficile – mormorò.
Lui lo guardò allontanarsi ragionando sulle sue ultime parole. All’improvviso, un sospetto lo raggelò: – Quante volte? – chiese, in un sussurro. Poi alzò la voce: – Quante volte è già successo?
Ma il padre proseguì senza voltarsi, forse già troppo distante per udire la sua domanda.

*

Il sole era tramontato da un pezzo e Felagund era ancora fuori. Normalmente, non avrebbe esitato a ritirarsi nei suoi alloggi e a cenare da solo, invece si trovò a cucinare per entrambi dando per scontato che il cugino sarebbe rientrato.
Era tutto il giorno che si comportava in modo strano. Quel pomeriggio l’aveva passato in laboratorio a tirar fuori tutti i suoi strumenti, verificarne il corretto funzionamento, e rimetterli via nello stesso identico ordine. Poco prima, nel scegliere il vino per la cena, si era segnato che dovevano rifornire la cantina, anche se avevano deciso che presto avrebbero lasciato il palazzo. E adesso, eccolo ad affettare verdure mentre tendeva l’orecchio ad ogni rumore che potesse indicargli il ritorno di Felagund.
Sembrava che tutto congiurasse per metterlo di fronte a qualcosa che non riusciva a vedere.
Quando apparecchiò la tavola della loro stravagante sala da pranzo, capì di cosa si trattava.
Nostalgia.
Nostalgia di qualcosa che non aveva ancora perso, per di più. Squallida, melensa, assurda nostalgia della vita che stava per lasciarsi alle spalle.
Comprese che gli sarebbe mancato quel luogo, alla cui costruzione lui e il cugino avevano dedicato tempo, fatica e sudore, gli sarebbero mancate le loro conversazioni davanti a una buona bottiglia di vino, e le serate silenziose in biblioteca ognuno chino sul proprio libro, ma consapevole della presenza dell’altro a pochi passi da lui. Gli sarebbe mancato persino il suono di quella dannata arpa.
Con terrore, si rese conto che avrebbe potuto abituarsi a quella vita. Che lo stava già facendo, in verità.
La quotidianità stava spegnendo il suo spirito.
O forse, lo accendeva di nuovi stimoli che non si basavano più sui sentimenti che aveva imparato a conoscere: l’ambizione, l’orgoglio, la vendetta, ma su qualcos’altro, che gli era ancora sconosciuto.
E che doveva a tutti i costi rimanere tale.
Quella sera stessa, quando ebbero finito di cenare, disse: – Domani ce ne andiamo.
Felagund fece scorrere lo sguardo sugli avanzi di cibo, sulla bottiglia quasi vuota, sulla camera che li circondava e che avevano costruito insieme, discutendo su ogni minimo dettaglio strutturale ed estetico. Infine lo posò su di lui.
– Sono pronto – disse.
E lui non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. L’ultima cosa che voleva, era scoprire come avrebbe reagito se l’altro gli avesse detto: “restiamo”.
L’indomani tennero fede al loro proposito.
Uscirono di casa con quel poco che avevano deciso di portare con loro e, di comune accordo, fecero crollare l’intera facciata del palazzo, precludendone l’accesso per sempre a chiunque. Di ciò che erano stati, di come avevano vissuto, di quei segni tangibili della rinascita delle loro passioni, non volevano che rimanesse alcuna traccia. O forse, più semplicemente, non volevano avere un posto in cui tornare. Da quel momento in poi, si poteva andare solo avanti.
Quando si allontanarono, della loro casa restava soltanto una frana di massi che chiudeva una piccola valle incantevole.
 

 

0
Partenza


La barca era carica di viveri e di acqua, e delle poche altre cose che avrebbero potuto servire se fossero riusciti a raggiungere la loro meta: abiti di ricambio, alcune armi e qualche gioiello che avrebbero potuto usare come moneta di scambio. Sul molo nessuno stava prestando loro la minima attenzione, erano molte le imbarcazioni che ogni giorno andavano e venivano da Tol Eressëa, dove abitavano i rientrati per nave.
Si preparò a mettere i remi in acqua per allontanarsi dalla riva quanto bastava per dispiegare le vele.
Ma all’ultimo momento esitò. Sentiva di dover dire qualcosa, anche se non sapeva bene cosa.
Seduto di fronte a lui, Curufin non sembrava avere la stessa esigenza, anzi, aveva lo sguardo assorto di chi ha già la mente proiettata nel futuro.
Lasciò che le parole venissero fuori da sole.
– Promettimi una cosa, Curufin.
Il cugino inarcò un sopracciglio, concedendogli la sua attenzione.
– Promettimi che se falliremo, e saremo di nuovo ombre nelle Tenebre, non dimenticheremo quello che abbiamo fatto in questi anni insieme.
Capì che non era abbastanza, e cercò di essere più chiaro: – Non ci dimenticheremo della nostra amicizia.
Curufin fece una smorfia. – Felagund – disse, – sempre così disgustosamente sentimentale. – Ma si protese in avanti e gli sfiorò le poche gemme della collana che emergevano dalla camicia ben allacciata.
Lui sentì il pollice del cugino che gli scivolava sulla gola, e pensò che, forse, non sempre erano necessarie le parole per sancire una promessa. Cercò una conferma nel suo sguardo, ma l’altro era già tornato a sedersi al suo posto.
– Forza – gli stava dicendo, – governa questa barca, se davvero ne sei capace.
Lui raccolse la provocazione di rito, si mise ai remi, e lasciò le coste di Aman senza alcun indugio, per andare alla ricerca di un percorso che li riportasse dove avevano a lungo vissuto e sofferto, e dove erano morti, combattendo.
Non sapeva se esisteva quel percorso, non sapeva se avrebbe condotto alla morte di stenti dispersi in mare, o a nuove battaglie sulle coste di Endórë. Non sapeva se avrebbe portato alla sofferenza o alla libertà, alla sua visione o alla grande guerra finale.
Sapeva solo che non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo che in quella barca, in viaggio verso l’ignoto, con un assassino al suo fianco che lo guardava come se insieme potessero ridisegnare le sorti del mondo.
Era una libera scelta, o erano, ancora una volta, pedine di un gioco più grande? Erano una freccia scagliata nel futuro, o vittime di un ciclo destinato a ripetersi all’infinito?
In quel momento, non gli importava saperlo.
Gli andava bene così.

 

*
*
*

 

 

[ 0 - 13 : Ricarica ]


Aveva pensato che le Tenebre sarebbero state una punizione. Non fu così. All’inizio aveva percepito un’ombra, una presenza che gli stava accanto e gli comunicava sicurezza, insieme a una certa irritazione, ma presto quei sentimenti si erano fatti più deboli, ed erano spariti insieme con l’ombra che li suscitava.
Più a lungo restò il ricordo di una splendida collana, e la vaga parvenza di una promessa silenziosa, ma alla fine, attimo dopo attimo, anno dopo anno, secolo dopo secolo, il tempo gli regalò l’oblio, e anche queste ultime memorie svanirono.
Non c’erano né dolore né desiderio in quel luogo fuori dal mondo, e neppure si ricordava cosa fossero.
A lui andava bene così.

 







 


 

Credits

La principale fonte di ispirazione di questa storia è la bellissima Close to home di Amarie, una delle migliori fanfiction sulla reincarnazione degli Elfi che abbia mai letto.

Come sempre, ci tengo a ricordare che l’elaborazione del carattere di Curufin ha preso spunto dalla versione che ne ha dato LiveOakWithMoss in DWMP, per poi evolvere autonomamente.

 

Note

01.
Il titolo è tratto dal discorso di Finrod Felagund a Beren, quando il primo dice al secondo che accetterà di aiutarlo a recuperare un Silmaril nonostante il piccolo problemino che ora Celegorm e Curufin vivono sotto il suo stesso tetto – e immagina come la prenderanno bene: “Pure, il mio giuramento resta valido; e così, siamo tutti prigionieri della stessa rete.” (Il Silmarillion - capitolo XIX)

02.
La visione di cui parla Finrod è quella contenuta nella Athrabeth Finrod Ah Andreth (History of Middle-earth vol. 10): “And then suddenly I beheld as a vision Arda Remade; and there the Eldar completed but not ended could abide in the present for ever; and there walk, maybe, with the Children of Men (…)”

03.
La profezia di cui parla Curufin è l’unione di due credenze: la Dagor Dagorath, che talvolta viene chiamata Seconda Profezia di Mandos, trattata estesamente in The Shaping of Middle-earth (HoME vol. 4, pag. 73) e in The Lost Road (HoME vol. 5, pag. 333), e citata in svariate altre fonti con altri nomi, e la Seconda Musica degli Ainur, anch’essa presente in varie fonti, tra cui lo stesso Silmarillion (Il Silmarillion - Ainulindalë).
La prima parla del ritorno di Morgoth attraverso la Porta della Notte, della distruzione del Sole e della Luna, e della Battaglia di tutte le Battaglie (la Dagor Dagorath, appunto) in cui sarà Túrin stesso a uccidere Morgoth, e in seguito alla quale la Terra verrà distrutta e ricostruita, e in quel frangente Fëanor consegnerà i Silmarilli a Yavanna e lei li userà per dare nuova vita ai due Alberi.
La seconda parla di una musica addirittura superiore a quella della creazione di Arda che verrà eseguita, “dopo la fine dei giorni”, dagli Ainur e dai Figli di Ilúvatar (Elfi e Uomini) insieme, al cospetto dello stesso Ilúvatar.

04.
L’idea che Aegnor non uscirà da Mandos proviene anch’essa dalla Athrabeth, dove viene esposta in due punti.
Il primo è quando Finrod dice ad Andreth che il fratello l’ha amata per davvero: “Adaneth, I tell thee, Aikanár the Sharp-flame loved thee. For thy sake now he will never take the hand of any bride of his own kindred, but live alone to the end (…) and I say to thee thou shalt live long in the order of your kind, and he will go forth before thee and he will not wish to return”.
Il secondo è quando le dice che Aegnor la ricorderà per sempre: “Now he will ever remember thee in the sun of morning (…) until the North-wind brings the night of his flame. Yea, and after that, sitting in the House of Mandos in the Halls of Awaiting until the end of Arda.”

05.
Credo non ci sia bisogno di specificare che il canto di cui si parla al punto 4 è un brano tratto dal poema Noldolantë (La caduta del Noldor) di Maglor.

 

Che altro dire? Come dice King: l’inferno è ripetizione. E allora, ben venga la Sorte degli Uomini.

Grazie a tutti per aver letto.

  
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