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Autore: Tony Stark    28/07/2018    3 recensioni
Lei forse era stata l’unica ad essere riuscita a rendere reale il suo amico immaginario
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jason the Toy Maker
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Questa storia è un alternative Origin Story di Jason the Toy Maker, con questo non intendo in nessun modo pretendere che la mia sia migliore rispetto a quella dell’autore/ice originale della creepypasta. Questa storia è interamente basata su quella che io credevo potesse essere l’Origin Story di Jason, basandomi su ciò che è capace di fare nella sua creepypasta.

Carousel of the one hundred toys


La melodia del carillon la calmava.
Quelle note per quanto leggermente tristi, la facevano sentire meno sola.
Il suo sguardo castano seguiva la statuetta di legno che volteggiava, grazie al disco d’ottone su cui era posata, ruotando su sé stessa. Quella statuetta che non era quella di una ballerina, come negli altri carillon che aveva, ma che rappresentava un giovane, che sembrava ballare un solitario valzer senza compagna.
La chiave dorata girò un ultima volta e poi la melodia si fermò, così come il roteare della statuetta.
La piccola Amelia Pendelton mosse la sua manina chiara, come porcellana, verso la piccola chiave e cominciò a girarla per caricare il carillon.
Le piaceva guardare la statuetta volteggiare e immaginare di danzare con il ragazzo che rappresentava.
Lo aveva immaginato tante di quelle volte che nella sua mente la statuetta era diventata viva. Ed era la sua unica compagnia, dopo le lunghissime lezioni fattele dalla governante.


Amelia lasciò la chiave che prese a ruotare nel senso inverso a come l’aveva caricata e puntò il suo sguardo di nuovo sulla statuetta che ora girava di nuovo. E iniziò ad immaginare.
La sua stanza che si trasformava in una sala bellissima e luminosa, centinaia di piccole luci colorate, come quelle che decoravano il Tamigi durante le feste, che la illuminavano.
Il pavimento lustro come uno specchio che le rifletteva e lì al centro di quella sala vuota, ma piena del suono di quella triste e, allo stesso tempo, gioiosa melodia, vi era lui, il ragazzo scolpito nella statuetta.
Il cilindro bianco, decorato da verticali strisce nere, che nascondeva parte dei suoi capelli color mogano, come il legno di cui la statuetta era fatta, il viso dai tratti aggraziati, i suoi occhi che brillavano dello stesso colore dell’oro che decorava il suo carillon. Indossava uno dei completi più eleganti che avesse mai visto come se stesse partecipando ad un gran gala.
Non appena la vide le sorrise.
E Amelia sorrise a sua volta, lui era l’unico amico che aveva.


Ed esisteva solo perché lo aveva creato lei…
Sapeva che non era reale, ma questo non le impedì di immaginare di danzare con lui.
E sorridere, parlare senza preoccuparsi di etichette sociali e tutto il resto che le era stato sempre insegnato.
«Amelia? Va tutto bene?» le chiese, e la sua voce era dolce, come il suo sorriso.
La bambina incontrò quello sguardo color ambra e sorrise.
«Sì, va tutto bene, Jason» rispose. Assegnandogli per la prima volta un nome.
Le piaceva quel nome e poi si adattava bene a lui che ‘curava’ la sua solitudine con la sua presenza.
Le sorrise, ma non rispose.


Prima che potesse chiedere qualcosa, stavano volteggiando di nuovo.










Amelia non era sicura di quando avesse smesso di immaginare la sala del gala e a mescolare, un po’, la realtà con la sua fantasia.
Ma non le dispiaceva.
Era bello che lei e Jason potessero, ora, fare altro oltre che danzare.
Era così bello che lentamente, la bambina, smise di pensare a Jason come ad un frutto della sua mente annoiata e cominciò a vederlo come un vero amico.
Qualcuno con cui poteva giocare e parlare senza preoccupazioni.


Ed in più, pensò con un sorriso, l’aveva aiutata a trovare un nome a tutti i suoi pupazzi e alle sue bambole che nelle sue mani sembravano prendere vita.
Come adesso.
Amelia sorrise, divertita dal piccolo ballo di Mr Bunny, il suo coniglietto peluche, e affascinata da come Jason lo muovesse con tanta attenzione e abilità da farlo sembrare vivo, come lui.
Poi Mr. Bunny si fermò, inclinando la testolina pelosa le sue orecchie che seguivano il movimento, prima che sembrasse cercare qualcosa.
Amelia ridacchiò mentre Jason lo faceva saltellare in giro alla ricerca di qualcosa.
E poi il pupazzo la guardò.
«Signorina Amelia, avete visto il mio orologio da taschino?» chiese il coniglietto, ancora una volta Amelia rimase stupita dall’abilità che aveva il suo amico di fare tutte quelle voci per ognuno dei personaggi dei loro giochi.
«No, credo proprio di no, mi dispiace Signor Coniglietto» rispose, cercando di trattenere una risatina, quando il coniglio di peluche chinò il capo, le sue lunghe orecchie di pelliccia che gli cadevano davanti agli occhi di vetro.
«E’ terribile! Sarò in ritardo, in tremendo ritardo!» strillò il coniglietto riprendendo a saltellare, come il Bianconiglio della storia che Amelia aveva appena letto. Si chiese se Jason avesse volontariamente richiamato quel personaggio, ma non ci pensò a lungo, guardando il coniglietto cercare il suo orologio. Mentre Jason sorrideva, muovendolo a destra e a sinistra e spostando ogni tanto il suo sguardo dorato per guardarla.


Qualcuno bussò alla porta.
Amelia si voltò e l’ incantesimo della sua immaginazione fu spezzato.
E quasi le venne da piangere quando sentì la pelliccia di Mr. Bunny fra le mani.
Sapeva che Jason non era reale, sapeva di star creando tutto, ma… ma…


Quanto voleva che fosse reale..


Amelia lasciò Mr. Bunny e si diresse alla porta della sua camera.
Pronta ad iniziare le sue lezioni di galateo ed etichetta pomeridiane e a lasciarsi alle spalle il bellissimo mondo immaginario che si era creata.
Un mondo molto simile a quello in cui viveva ma, in cui al contrario della realtà aveva un amico.


Mentre passava il tempo la piccola Amelia non notò i cambiamenti che avvenivano gradualmente al suo amico. Piccole cose che lo rendevano ogni giorno più vivo, ogni giorno meno immaginario del precedente.
Un’altra cosa che la piccola Pendelton non si aspettava, tornata nella sua camera, una sera di primavera, i raggi calanti del sole che splendevano dalle finestre illuminando la sua camera, era il pupazzo posato sul suo comò di fianco al carillon.
Era un orso, poco più grande dei suoi altri pupazzi, ma era diverso dagli altri orsi che aveva non era spaventoso anzi era davvero carino, i suoi occhietti di vetro erano blu e la sua pelliccia era candida come la neve aveva una sciarpa legata intorno al collo e indossava una marsina azzurra decorata con pizzi sull’orlo delle maniche e bottoni d’argento che la tenevano chiusa.
Di fianco all’orsacchiotto c’era un piccolo foglio di carta rigida ripiegata in un bigliettino.
La bambina lo prese e lo aprì incuriosita.


Spero che possa piacerti, Amelia.
Te lo avrei consegnato di persona, ma la tua lezione è continuata più del solito. Spero che Miss Grain non sia stata severa come al solito.
Il nome dell’orsacchiotto è Oron.


Il tuo amico
Jason



Amelia rilesse più volte il biglietto, perché… era così tangibile, così reale e se fosse stato veramente scritto da Jason, voleva dire che… che anche lui era reale come lei aveva sempre desiderato.
Ma la sua parte razionale le diceva che non era possibile, anche se non sapeva spiegarsi perché suo padre o qualcun altro avrebbero dovuto scrivere quel biglietto invece di lasciare il peluche come avevano fatto con gli altri.
E poi il modo in cui era scritto, oltre l’elegante calligrafia, vi era quel tono così leggero e informale che era tipico del suo caro amico immaginario.
Amelia abbracciò l’orsacchiotto, felice di sentire quanto reale fosse anche quello e quanto più morbido fosse di tutti gli altri giocattoli che possedeva.
E decise di credere che fosse veramente un regalo di Jason.
Posò Oron sul letto fra i morbidi cuscini d’oca e attese che arrivasse la sua cameriera personale per cambiarsi nei suoi abiti da notte. Perché una bambina educata come lei non stava alzata fino a tardi…


Avrebbe ringraziato Jason l’indomani.




Quando Amelia andò a dormire lo fece stringendo fra le braccia l’orsacchiotto bianco, come se temesse che se non lo avesse fatto sarebbe sparito come faceva Jason ogni volta che lei veniva distratta dai loro giochi.


Ma il mattino seguente Oron era ancora lì e Amelia osò sperare che il suo desiderio si stesse avverando. Che il suo caro amico potesse diventare reale.


Quella mattina la piccola Pendelton non fu attenta alle lezioni come suo solito, lo fu quel tanto che bastava per non essere ripresa spesso, ma la sua mente di bambina continuava a tornare a quel pupazzo e alla nota che lo accompagnava.
E non poteva fare a meno che essere impaziente per il momento in cui avrebbe potuto tornare nella sua stanza e… parlare con Jason, chiedergli se l’orso fosse davvero un suo regalo.


La sorpresa che la aspettava nella sua camera avrebbe superato tutte le sue più grandi fantasie.




Quando entrò nella sua stanza Jason era già lì.
Non era mai successo prima, e lei dovette trattenere un, davvero poco dignitoso, urletto sorpreso ma non era spaventata anzi si sentiva felice. Se era già lì questo voleva dire che non era più immaginario?


Inoltre il suo caro amico sembrava un po’ diverso da come lo ricordava, La sua marsina ora decorata di rosso sui risvolti aveva una folta pelliccia bianco avorio drappeggiata sulle spalle, e invece delle scarpe nere da ballo portava degli stivali alti quasi al ginocchio decorati da una striscia gialla su un lato e con le suole rosse.
Le piaceva il nuovo aspetto del suo amico, che le sorrideva felice. E allora notò i tre piccoli triangoli capovolti sotto il suo occhio sinistro così come quelli sul suo collo che a prima vista le erano sembrate ombre particolarmente scure.


«Cosa ne pensi, mia cara Amelia?» le chiese.


«Ti si addice» rispose, immediatamente. Ed era vero, quello stile così stravagante si adattava alla figura stravagante ed estroversa del suo amico.
Jason le sorrise brillantemente, sembrando felice della sua approvazione. Prima che le chiedesse qualcos’altro.
«Ti è piaciuto il mio regalo?»

«Oron?» chiese la bambina, la risposta a quella domanda l’avrebbe resa, oh, così felice se fosse stata affermativa.
Lo fu.
Amelia allora sorrise felice dicendo al suo amico, ora non più così, immaginario che l’aveva adorato anche se aveva potuto passare poco tempo con lui.


«A questo rimedieremo presto, Amelia, sono sicuro che Mr. Bunny e gli altri non vedono l’ora di conoscerlo» le disse con un luccichio giocoso nei suoi occhi ambrati.
La bambina sorrise, sì lo avrebbero conosciuto ma prima…


La piccola bambina si alzò dal suo posto, in una piccola onda di taffetà bianco, e si diresse verso il suo amico, non più così, immaginario. Jason la guardava un po’ perplesso, ma non le chiese nulla.
E poi lo abbracciò, e il suo piccolo cuore di bambina si riempì di gioia nel sentire la presenza, così reale, così tangibile del suo amico.


Era vero!
Era reale!
Non era più il semplice frutto della sua immaginazione!


Jason rimase immobile forse confuso, forse…


Oh.
La bambina si allontanò, il capo chino e un leggero rossore a imporporarle le gote.
«Mi dispiace, era sconveniente, non avrei dovuto...»
Cominciò a scusarsi, ma il suo caro amico la interruppe gentilmente.
«Amelia, va tutto bene. Sta tranquilla» la rassicurò e poi la strinse in un altro abbraccio come per sottolineare il suo punto… per lui andava bene.
Lui non era come tutti gli adulti che Amelia conosceva.
No, non lo era.


La bambina promise a sé stessa che lei e Jason sarebbero stati amici per sempre. Non lo avrebbe mai lasciato.






E mentre cresceva la piccola Amelia mantenne la sua promessa.
Passando sempre un po’ del suo tempo col suo migliore amico.
Che non era più immaginario, visibile solo ai suoi occhi di bambina, ma che aveva comunque il potere di sparire o di creare giocattoli apparentemente dal nulla.


Col tempo Amelia aveva inventato una piccola storia semplice per spiegare ai suoi genitori le visite di Jason. Fortunatamente per lei i suoi genitori credettero nella sua buona fede e in quella del giovane dai capelli mogano, perché se non l’avessero fatto Amelia non era certa di cosa lei avrebbe fatto.


Ma ora non era importante.


Una cosa che aveva scoperto sul suo caro amico era che Jason amava i giardini della tenuta, amava i colori che decoravano le aiuole e i cespugli di fiori. Diceva che lo ispiravano a creare nuovi giocattoli.
Spesso infatti capitava che dopo una visita ai giardini il suo caro amico sparisse per un po’ in quel suo mondo che Amelia aveva visitato solo pochissime volte e spesso solo nei suoi sogni, quindi non era certa che fosse reale o meno, e quando tornava aveva un nuovo giocattolo per lei fosse un pupazzo dalle sembianze di un qualche animale o una bambola, spesso di cera, ma altre volte di fine porcellana.


«Amelia?»


Fu la voce di Jason a tirarla fuori dal flusso dei suoi pensieri, il suo caro amico era più vicino a lei di quanto era consono, così tanto che poteva quasi vedere ogni sfaccettatura di quegli occhi color dorati che in verità sembravano più del caldo colore del miele che quello freddo ed impersonale dell’oro.


«Jason… cosa?» disse confusa la ragazza, ormai quasi donna, arrossendo solo leggermente alla vicinanza. Incrociò le braccia, coperte di seta e merletti, davanti al petto e aggiunse con un tono un po’ più fermo, un pizzico di rimprovero ma abbastanza divertito per fargli capire che era seria ma non arrabbiata «Potresti allontanarti? Non è consono che tu mi stia così vicino»


«Non lo è neanche che tu mi dia del tu, mia cara Amelia» rispose divertito, ma comunque allontanandosi. «Comunque, mia carissima amica, ho una sorpresa per te. Vuoi vederla?» chiese e Amelia annuì.
Cosa aveva creato stavolta Jason per lei?


Fra le mani chiare del suo amico apparve uno… specchio? Era un piccolo specchietto ovale, incastonato in una cornice d’avorio che si prolungava in un manico dello stesso materiale, decorato con piccole, ariose volute dorate.
«E’… uno specchio?» chiese confusa.


Jason rise un po’, a bassa voce. «Non è questa la sorpresa» disse «Guarda il tuo riflesso»
E così Amelia fece, prendendo lo specchietto fra le mani e guardando il suo riflesso.
E fu così che notò la rosa, dai petali rosa chiaro, fra i suoi capelli fermata con un piccolo fiocchetto dello stesso colore. Ora che lo notava i suoi capelli non erano più nello stesso modo in cui erano stati sistemati quella mattina ora erano sciolti con solo due ciuffi uno dei quali era quello in cui la rosa era stata fermata, abbelliti con dei fiocchetti di seta rosa.
Si sentiva quasi una bambola con quell’acconciatura.


«Ti piace?» le chiese Jason
«Sì, lo adoro.» rispose immediatamente, sorridendo leggermente, sia al suo amico che al suo riflesso «Sembro quasi una delle tue bellissime bambole» aggiunse.


E poi lo specchio fu fatto sparire, lei si voltò solo un pizzico infastidita verso il suo amico che invece aveva un sorriso che gli piegava le labbra, luccicando nei suoi occhi color miele.
«Dovresti saperlo, Amelia, è irrispettoso parlare senza guardare il proprio interlocutore» la riprese scherzosamente.
Lui non credeva tanto in tutte quelle etichette della società e in gran parte le aveva imparate solo ora, ora che essendo reale non era più invisibile agli altri.
Amelia gli rivolse un piccolo sorrisetto seccato, ma poi qualcos’altro le venne in mente.
«Jason hai pensato all’offerta di mio padre?» chiese.
E vide il sorriso sul viso di Jason sparire.
Per qualche ragione odiava quando succedeva, c’era qualcosa di inquietante nel modo in cui la sua intera figura sembrava incupirsi non appena il suo sorriso spariva.
«Quella di diventare un giocattolaio e lavorare per lui?» le chiese a sua volta, seppure sapesse si stesse riferendo a quello. «Sì e non accetterò.» completò e il suo tono sembrava quasi gelato in confronto a prima.
«Ma… perché? Ti piace creare giocattoli e… potresti incontrare nuovi amici»
«Sì e poi?» chiese lui, guardandola serio «Fare parlare le malelingue londinesi, di come il nuovo giocattolaio è troppo amichevole con i fanciulli che vengono accompagnati dai loro genitori per scegliere i loro nuovi giochi?» Amelia stava per dire qualcosa ma Jason la interruppe «Sai che è quello che direbbero, anche se a nessuno di loro interessa davvero dei bambini, ricordi ‘essere visti ma non sentiti’ valgono più o meno quanto una bambola di porcellana per i loro genitori ma non esiterebbero a spargere questa voce maligna se gli capitasse l’occasione»
«Ma… lo sai, potresti cercare...»
«Di far cosa? Di non essere me stesso, Amelia?» chiese e sembrava star perdendo lentamente la pazienza «Mi hai creato tu per essere il perfetto amico per un bambino, non posso smettere di esserlo, solo perché so quello che direbbero» si fermò, un piccolo sorriso piegò le sue labbra mitigando l’oscurità che sembrava averlo incupito «E poi sono il tuo amico. Tuo. Di nessun altro, non sarebbe giusto che provassi ad essere amico di altri» aggiunse.


E Amelia si sentì un po’ a disagio nel sentire quell’affermazione e si chiese se col passare degli anni avesse dato a Jason l’esempio sbagliato… se fosse stata troppo… esclusiva. Se in qualche modo avesse accidentalmente distorto la visione che il suo innocente amico, non più, immaginario aveva delle persone e del modo in cui i legami funzionavano.


«Jason...» iniziò lei, non sapendo esattamente cosa gli avrebbe detto, ma doveva provare… forse non era troppo tardi per provare a sistemare le cose.


Dopo quella loro conversazione e per molti anni a seguire Amelia Pendelton credette che quelle parole avessero cambiato il modo in cui lui vedeva il mondo a causa sua.


Non poteva certo sapere che era impossibile.




Una cosa che però era riuscita a fare era stata convincere il suo caro amico, non più, immaginario ad accettare la proposta di suo padre.


E lei era molto felice di come tutto stava andando, non c’era stata nessuna voce, niente di quello che temeva Jason si era avverato, al contrario il suo atelier era fra i più rinomati di Londra, sia per la manifattura dei giocattoli che per il suo carattere.
Molti lo avevano definito tanto buono negli affari quanto un abile conversatore, avrebbe potuto vendere una bambola allo stesso modo ad una madre che ad una celibe e anche ad una donna che non aveva figli.
Amelia spesso si trovava a sorridere quando sentiva questo tipo di voci ed inoltre suo padre era soddisfatto di averlo al suo servizio.


Il sorriso di Amelia però si spense presto mentre proseguiva per la strada lastricata che l’avrebbe condotta all'atelier del suo caro amico. Che ormai doveva essere sul punto di chiudere per il giorno.


Doveva dirglielo.
Dirgli che non potevano più vedersi, suo padre l’aveva promessa in sposa… e sia per etichetta che per convenzione sarebbe stato disdicevole se l’avessero vista incontrare o parlare con un altro uomo. Per quanto lei sapesse che di Jason poteva fidarsi e che fra loro non c’era altro che amicizia, ma la società non l’avrebbe visto comunque di buon grado.


Presto nella schiera di edifici tutti uguali riuscì a scorgere l’insegna del negozio di Jason, era un cavalluccio marino, sostenuto da un asta di ferro che sembrava nuotare nell’aria con soffiare del vento. Dove sarebbe dovuto essere l’occhio del cavalluccio marino vi era il sigillo della società di suo padre, una rosa dorata, e sul ventre dell’animale acquatico vi era scritto ‘Meyer’s Toyshop” in lettere dorate scritte con un elaborata calligrafia. Certo mancava della singolarità e dell’originalità di Jason ma quella era stata l’unica imposizione di suo padre, il nome non era stato scelto dal giocattolaio.
Amelia sospirò e prese un altro passo preparandosi mentalmente a cosa avrebbe dovuto dire al suo amico d’infanzia.
Le vetrine erano già nascoste dietro a delle semplici tende grige, un tono che lei non pensava si addicesse per nulla a qualcosa che aveva a che fare col suo stravagante amico, immaginò che vi fosse una mano di suo padre anche in quello… A dire il vero, ora che ci pensava, quanta libertà aveva davvero Jason lavorando sotto i Pendelton?
Decise di non pensarci molto e si avvicinò alla porta, il legno era tinto di un chiaro, ma vibrante azzurro, la maniglia dorata così come le rifiniture della piccola finestra da cui ora non riusciva ad intravedere nulla se non il piccolo cartello che diceva chiuso.
Lei però sperò comunque che Jason non si fosse già ritirato… bene, ovunque sparisse quando la realtà non sembrava essere più abbastanza per lui. E quindi bussò.
Per fortuna sua solo dopo qualche istante la porta del negozio venne sbloccata.
Jason non sorrideva, non come suo solito e la cosa la mise un po’ a disagio. Anche se le rivolse un piccolo sorriso mentre la salutava e la invitava dentro.
L’interno del negozio era illuminato da almeno quattro lampade a gas posizionate ai quattro angoli della stanza e una più piccola e trasportabile che al momento era posata sul banco di fianco ad una cassa decorata seppure il suo grigio colore ferruginoso non fosse stato coperto da nessun colore.
Sugli scaffali erano posati pupazzi, di animali di ogni genere seppure fossero diversi dal classico stile di Jason che consisteva nel rendere anche il più terrificante degli animali in qualcosa di abbastanza carino e antropomorfo, solo i conigli e alcuni piccoli orsi avevano un aspetto che ricordava lei di quelli che il giocattolaio era solito regalarle quando era più piccola.
Vi erano anche bambole sia in porcellana bisque che in china, e bambole di cera che erano incredibilmente realistiche.
E in cui sia negli abiti che nelle capigliature, ma anche nei visi attentamente decorati riusciva a vedere la mano abile del suo amico, vi erano poi figure di stagno e altri piccoli balocchi a cui non prestò molta attenzione.
«Jason...» iniziò Amelia, dovendo prendere un altro respiro mentre l’attenzione del giocattolaio si concentrava tutta su di lei «Jason devo dirti una cosa...» disse.
Ma le mancava il coraggio di dirgli il resto.


Era stato il suo unico amico.
L’unica persona che le fosse stata accanto durante la sua infanzia e adolescenza, anche quando era stato solo un idea della sua mente di bambina.
Non poteva dirglielo.
Non…
Doveva farlo però.


«Amelia, mia cara, va tutto bene?» le chiese, i suoi occhi color miele preoccupati.
E Amelia sapeva che non glielo avesse detto ora non lo avrebbe mai fatto. E preferiva avvisarlo, prima di sparire dalla sua vita… ora che lui ne aveva una che non la riguardava, era vivo, reale non più legato a lei.


Annuì e poi parlò: «Non… Non possiamo più… vederci, Jason»; E dirla in quei termini le parve sbagliato non c’era mai stato, e non ci sarebbe mai stato perché lei non provava nulla in tal senso verso di lui ed era certo fosse lo stesso per lui, nulla fra loro. Eppure non sapeva come altro metterlo a parole.


«Cosa? Perché?» le chiese sembrando confuso, oltre che scioccato. Qualunque implicazione venne completamente ignorata dalla sua mente completamente innocente, ignara delle trame degli uomini reali.


«Sono stata promessa in sposa ad un giovane Sir...» rispose lei, non aveva nemmeno chiesto chi fosse l’uomo che avrebbe dovuto sposare, nessuno aveva ritenuto fosse importante che lei lo sapesse fino a quando non si fossero incontrati comunque…


«E bene? Siamo amici, Amelia, null’altro perché non dovremmo più incontrarci?»


«Jason sai come sono le cose, non renderlo più difficile per favore»


In quell’esatto istante Amelia vide qualcosa nello sguardo di Jason venire meno, le parve che quel colore così caldo diventasse via via più chiaro divenendo quasi cristallino come l’acqua.


Per un terribile momento si chiese se le sue parole lo potessero, davvero, uccidere. Non era nato come un essere umano, era entrato a far parte della realtà a causa sua e se il suo doversi allontanare da lui lo avesse ucciso?


Amelia non se lo sarebbe mai perdonata.


Ma non fu quello che successe.


«Quindi,»iniziò il giocattolaio e Amelia non aveva mai sentito la sua voce così vuota e allo stesso tempo fredda. Era bassa come sempre ma dallo sguardo nei suoi occhi e dalla freddezza che le stava dimostrando avrebbe preferito che le urlasse contro piuttosto che rivolgerlesi con quella fredda rabbia «Quindi mi stai abbandonando, Amelia?» le chiese «Sono diventato inutile per te?...Dopo tutti questi anni che ti sono stato amico, che sono stato al tuo fianco, anche dopo che ho smesso di essere solo un frutto della tua piccola mente annoiata… tu… tu mi stai abbandonando?»


E c’era una nota di incredulità e di tradimento in quel suo tono così freddo. Amelia sentì il suo cuore stingersi come in una morsa.
Non voleva fargli questo. Non voleva davvero.
Ma doveva, non aveva scelta.


«Jason, per favore. Devi comprendere che… devo, nessuno ci vedrebbe di buon occhio...» disse, la sua voce era fragile, e quasi una supplica, voleva che lui la comprendesse «Non posso… rischiare di mettere in pericolo il nome della mia famiglia, mi dispiace Jason»


Gli occhi color cristallo di Jason sembravano quasi brillare nella luce debole delle lanterne accese solo a metà, un’inquietante luce verde che pareva… quasi, malvagia che lentamente risaliva dalla profondità delle sue pupille allargandosi sulle sue iridi come l’olio sull’acqua.


«Va via, Amelia Pendelton… Non ho più nulla da dirti» esordì in fine gelido come il ghiaccio.


E Amelia fu presa alla sprovvista da ciò che le aveva detto.


«Andate, Miss Pendelton, il vostro promesso e i vostri genitori vi staranno aspettando» disse poi, la sua sola presenza in quel momento fu abbastanza per farla sentire indesiderata, l’impersonalità nel modo in cui le si stava rivolgendo. Non… le aveva mai dato del voi, anche se avrebbe dovuto farlo e sentirlo le fece capire che aveva rovinato tutto.


Che Jason non l’avrebbe mai perdonata.


E quindi fece come il giocattolaio le aveva detto. Ma prima di andarsene aveva sussurrato un ultima scusa. Jason l’aveva guardata gelido, il verde che si era impadronito di quegli occhi una volta color miele.


«Non è vero, Miss. Non vi dispiace. Se lo avesse fatto davvero, avreste trovato un altro modo»


Questo le aveva detto e queste erano state le ultime parole che Amelia aveva sentito da lui.


Non fu che pochi giorni più tardi che lei sentì che Jason sembrava essere sparito nel nulla. Così com’era apparso era scomparso.
Il suo negozio era completamente vuoto e sembrava come se gli mancasse qualcosa… come se il giocattolaio avesse portato via con sé qualcosa che nessuno si era reso conto fosse lì finché non era sparito.


Amelia non sentì più parlare di lui.


Ma mentre gli anni passavano le parve più volte di scorgerlo, sempre nell’angolo della sua visione. Sempre con lei ma mai davvero, come se fosse diventato un fantasma, la sua ombra.
Il senso di colpa non le lasciò mai il cuore.


Una volta le parve di averlo visto nella camera dei suoi figli, un sorriso dolce sulle sue labbra, ma nel suo sguardo, di nuovo del colore del miele, qualcosa mancava.
Il giorno dopo aveva trovato due pupazzi: un coniglio, dalle orecchie che toccavano terra per metà colorato di beige per l’altra metà di rosso con un occhietto nero e l’altro composto da un bottone fermato su una benda decorata di pizzi, indossava un completo nero dalle maniche troppo lunghe, e un orso dalla pelliccia bionda e gli occhietti castani, indossava una marsina bianca con i bottoni dorati e un piccolo cilindro posato sulla testa, al collo aveva un papillon bianco con rifiniture dorate.


Amelia ricordava di aver detto ai suoi figli di trattare quei due pupazzi con cura.
Perché erano un regalo speciale.


Amelia si era a lungo chiesta perché Jason non le avesse parlato quel giorno e perché si fosse fatto vedere così chiaramente, ma la sua mente non era mai capace di giungere ad una conclusione che le sembrava giusta.


Alcuni giorni si svegliava nel cuore della notte, le note del carillon che l’aveva portata a creare Jason che risuonavano nell’aria accompagnate da dolci risate divertite di piccoli bambini. Si guardava intorno e nell’ombra, nell’angolo più vicino alla porta poteva giurare di vedere quegli occhi dorati guardarla. Per poi sparire come in un sogno.


Fu così che i suoi anni passarono.
E ben presto i suoi morbidi capelli neri si fecero grigi e spenti, il suo viso da bambola si fece sempre meno perfetto, rovinato dai segni del tempo implacabile.


Quello stesso tempo che le aveva portato via il marito.


I suoi figli preferirono affidarla alle cure di una struttura specializzata. Un ospizio per nobili vittoriani che erano ormai troppo avanti negli anni perché i loro figli si occupassero di loro.


E Amelia Pendelton chiamava il nome del suo più caro amico di sempre sperando che almeno lui potesse farle compagnia nei suoi ultimi anni come aveva fatto in quelli più giovani.


Ma il giocattolaio non rispose mai.


Le parve di vederlo più volte apparire, per poi sparire senza lasciare traccia, nella sua blanda camera solitaria.
Le parve di sentire il suo carillon suonare nella notte, accompagnato dal suono di piccole voci gioiose.
Le parve a volte di vedere il giocattolaio apparire brevemente senza l’ombra di un sorriso sul viso e con un bambino, diverso ogni volta, che gli teneva la mano.


E così Amelia trascorse il tramonto della sua vita, aspettando che il suo amico, il suo più caro e unico amico portasse via la sua solitudine per un ultima volta.
Ma lui non venne mai.


Tranne una notte.


L’ormai anziana Amelia aprì gli occhi, stancamente, sentendo ancora una volta quel carillon, quel suono che una volta l’aveva calmata che ora la tormentava. Ma non c’era nessuna voce ad accompagnare la sua melodia stavolta.


E fu allora che vide Jason.


In quegli anni non era cambiato per nulla. Era ancora lo stesso che ricordava, i capelli mogano lisci e lucidi, il viso perfetto dai tratti delicati e quegli occhi color miele che la guardavano.
Indossava il completo elegante con cui ricordava di averlo immaginato per primo, i risvolti della marsina tracciati di rosso ma senza la folta pelliccia sulle spalle. Sul capo aveva il suo cilindro bianco.
E le sorrideva dolce, non c’era odio nei suoi occhi.


E Amelia sapeva che se Jason era lì, se aveva finalmente risposto alla sua chiamata era solo perché anche lui sapeva che era ormai giunta la sua fine. L’ultimo giro di chiave del suo cuore.
L’anziana donna sorrise.
«Sono così felice di vederti Jason» sussurrò con le ultime energie che il suo corpo stanco aveva e tese le braccia come aspettandosi un ultimo abbraccio dal suo più caro amico.
Ma ciò che il giocattolaio fece, invece mentre Amelia respirava il suo ultimo respiro confortata dalla presenza del suo più caro amico, fu togliere il cilindro e mimare un inchino come quello di un attore alla fine dello spettacolo.


Jason rimise il cilindro e raddrizzò la postura. E aspettò… aspettò ma non successe nulla.
La confusione s’impadronì della sua espressione.
Perché non cambiava?


Aveva visto Amelia cambiare tante volte nella sua vita, fino a questo punto… quindi perché non cambiava ancora?


«Amelia?» la chiamò, ma non ci fu alcuna reazione dall’anziana donna. «Amelia? Amelia! Rispondimi ti prego! Amelia? Non… non è divertente… Amelia?»


Il giocattolaio si avvicinò, la mancata reazione della donna che era stata la sua prima amica che cominciava a preoccuparlo e poi lo sentì… o meglio non lo sentì…
Quel battito basso che aveva sempre sentito, il suono del cuore di Amelia. Non c’era…
Era sparito.


«Amelia!» la chiamò ancora, disperato, prima di supplicare una sua risposta…
Ma nulla successe.


Allora il giocattolaio la strinse fra le sue braccia, i suoi occhi color miele chiusi mentre lacrime cristalline scivolavano da questi, tingendosi di nero mentre scioglievano il trucco sul suo viso.


Nessuno sentì il pianto disperato del giocattolaio quella notte.
Nessuno vide quell’ultimo attimo della sua umanità.


Nessuno.






Quando il giocattolaio tornò al suo laboratorio, un mondo che aveva creato solo per sé, non c’era traccia di un sorriso sul suo viso, macchiato dalle tracce scure delle sue lacrime.


Non avrebbe mai più permesso ai suoi amici di rifiutarlo e di abbandonarlo.
Non avrebbe permesso loro di invecchiare… e… morire.
Mai più.


Questa fu la promessa che fece a sé stesso.




Ci sono cento e una bambola nell'atelier del giocattolaio. Ognuna diversa dall’altra per aspetto e periodo.
Ci sono cento e una bambola e tanti giocattoli da non poterli neanche contare.
I loro visi perfetti e imperturbabili, eternamente giovani.
Occhi di vetro che guardano tutto.
Ci sono cento e una bambola e tanti giocattoli da non poter nemmeno sapere quanti siano e un solo giocattolaio.
Un giocattolaio dal cuore meccanico che suona la stessa melodia di un secolo fa.
Ci sono cento e una bambola nel mondo del giocattolaio ma lui è sempre solo.





 
Non ci sono sorrisi nel mondo del Giocattolaio.
Solo urla e cera bollente.










































































Note dell’Autore

Spero che questa mia Alternative Origin possa piacervi :)
Ora ci sono alcune piccole precisazioni storiche che ci tengo a fare.
La storia è ambientata intorno al 1850, ma ci sono alcuni elementi un po’ fuori tempo.


L’orsacchiotto ad esempio, gli orsacchiotti carini sono ‘nati’ nel 1903 dopo un fatto che riguardava il presidente Theodore Roosevelt da qui il nome ‘Teddy-Bear’ (cercatela la storia della nascita degli orsacchiotti è interessante :D). Prima di allora gli ‘orsacchiotti’ erano fondamentalmente piccoli orsi spaventosi con tanto di denti e artigli ed erano come copie degli orsi impagliati.


La citazione al Bianconiglio… non sono riuscito ad evitarla ma è un imprecisazione storica visto che il racconto ‘Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie’ è uscito solo nel 1865, quindi Amelia da bambina non avrebbe mai potuto averlo letto visto che sarebbe uscito quindici anni dopo il periodo in cui questa storia è ambientata.


Questa invece è una curiosità più che altro:


Il cognome Pendelton non l’ho preso a caso, è in effetti il nome di una famosa compagnia che produceva bambole di cera e vestiti per bambole nell’epoca vittoriana. (E il suo marchio era effettivamente una rosa(non era dorata però quello l’ho aggiunto io)


Spero che la storia vi sia piaciuta
-Anthony Edward Stark
   
 
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