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Autore: _laragazzadicarta_    31/07/2018    1 recensioni
Nessuno dimenticherà più quella notte e il significato che ha avuto per questo paese. Io non dimenticherò mai l'uomo e il significato che ha avuto per me.
Liberamente ispirato a V per Vendetta.
« E tu farai in modo che questo accada facendo esplodere un palazzo? » chiesi diffidente quando un’enorme “V” variopinta squarciò il cielo. In lontananza si sentivano le risate spensierate dei bambini affacciati alle finestre di casa incuranti delle urla delle madri che intimavano loro di ritornare in casa.
« Il palazzo è un simbolo, come lo è l'atto di distruggerlo. Sono gli uomini che conferiscono potere ai simboli. Da solo un simbolo è privo di significato, ma con un bel numero di persone alle spalle far saltare un palazzo può cambiare il mondo » rispose malinconicamente, per un momento credo che anche la sua speranza abbia vacillato mentre osservava i profili dei grigi palazzi in pietra. La musica cessò così come le luci sfavillanti dei fuochi d’artificio nel cielo, le finestre si richiusero e i bambini smisero si sorridere. Tutto era tornato cupo e cartaceo.
« Vorrei tanto che fosse possibile, ma ogni volta che ho visto cambiare questo mondo è sempre stato in peggio »
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Bulma, Un po' tutti, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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V for Vegeta

Primo capitolo: il 5 Novembre.


“Ricorda per sempre il 5 novembre, il giorno della congiura delle polveri contro il Parlamento. Non vedo perché di questo complotto, nel tempo il ricordo andrebbe interrotto. Ma l'uomo? So che il suo nome era Guy Fawkes e so che nel 1605 tentò di far esplodere il Parlamento inglese. Ma chi era realmente? Che tipo d'uomo era? Ci insegnano a ricordare le idee e non l'uomo, perché l'uomo può fallire. L'uomo può essere catturato, può essere ucciso e dimenticato. Ma quattrocento anni dopo ancora una volta un'idea può cambiare il mondo. Io sono testimone diretta della forza delle idee, ho visto gente uccidere per conto e per nome delle idee, li ho visti morire per difenderle... Ma non si può baciare un'idea, non puoi toccarla né abbracciarla; le idee non sanguinano, non provano dolore... le idee non amano. Non è di un'idea che sento la mancanza ma di un uomo, un uomo che mi ha riportato alla mente il 5 novembre: un uomo che non dimenticherò mai.”


14:33, 5 novembre 2006, Londra.

« Signorina Brief, chi era veramente quell’uomo? »
Sono in piedi, mi reggo a fatica perché le ginocchia non smettono di tremare, sembra che un vortice irrisorio voglia risucchiarmi al centro della Terra da un momento all’altro, guardo il mondo cambiare davanti ai miei malinconici occhi da un’ampia vetrata appannata che mi offre un’ampia visione su Piccadilly Circus. Posso vedere il mondo piangere e rendersi partecipe al mio dolore, il dolore che non mi abbandonerà mai per la perdita dell’unica persona che io abbia mai amato nella mia miserabile vita. Sento i clacson strillare in lontananza, sento le sirene della polizia o forse è un’ambulanza: Londra è tornata ad essere una città così chiassosa, come se nessuno, tranne me, ricordasse quello che è successo un anno fa o negli anni precedenti. Sento il rumore della pioggia che cade sulle strade, sulle case, sento ogni maledetta goccia risuonare nella mia testa e sento il vuoto immenso, lo ascolto in silenzio, sento l’eco del tuo eco, lo inseguo, l’ho perso, sento la solitudine, sento che provo a dargli un senso, sento che è inutile. Sento il nostro ultimo bacio sulle mie labbra, arde ancora. Odio questo giorno, il 5 novembre, il giorno della congiura delle polveri contro il Parlamento. Non l'avevo mai notato, ma era sempre lì in attesa, nascosto. C’era quando mi hai salvato la vita in un vicolo buio, c’era quando ho dovuto dirti addio per sempre e c’è anche oggi, ma oggi sei tu a non esserci.
« Era Edmond Dantès. Ed era mio padre. E mia madre, mio fratello, il mio amante, un mio amico. Era lei, ero io, era tutti noi».
Una temeraria lacrima traccia un solco profondo sulle mie gote arrossate. La mia psicologa osserva in silenzio le spalle che le rivolgo, sento il rumore della sua penna stridere su un taccuino nero, sento il ticchettio incostante della pioggia e quello abitudinario del grande pendolo svizzero in un angolo buio dell’attico.
« Signorina Brief, sta bene? » chiede dolcemente la signora ChiChi Son alzando per un attimo i grandi occhi color ardesia dal suo taccuino e spostandosi una ribelle ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio, il suo tono è così calmo da rilassare il mio animo confuso per un breve istante. Mi asciugo le lacrime che continuando ad imbrattare i miei occhi cristallini con un rapido gesto infantile del dorso della mano prima di scoppiare in una risata isterica ed annuire distrattamente.
« Le va di raccontarmi di nuovo il vostro primo incontro? »

20:01, 4 novembre 2004, Londra.

Era una cupa serata autunnale di inizio novembre, una gelida serata avvolta nella nebbiolina londinese come tante altre nella mia ignara testa, nulla lasciava intendere che quella sarebbe stata una serata importante per me e per il mondo intero, l’ultima noiosissima serata normale. Ero completamente all’oscuro dei fatti ormai noti che si sarebbero compiuti nelle successive ventiquattro ore sconvolgendo la mia vita, la piatta vita di un’aspirante tele-giornalista di appena diciotto anni sola al mondo che cercava di sbancare il lunario. Sedevo davanti al vecchio specchio appannato sopra il cassettone tarlato del mio monolocale compiendo l’azione più usuale per un’abitudinaria ragazza consapevole della sua bellezza che si prepara per un appuntamento galante con il suo nuovo capo cercando di fare colpo per ricevere una promozione da “ragazza addetta al caffè” a “segretaria personale del signor Whis”: sistemavo la codina malriuscita del mio eyeliner nerissimo, non sapevo che quella sera avrei inciampata rovinosamente nel mio destino. La televisione era accesa, sintonizzata sull’unico canale che ci era permesso di seguire: Universe Seven Channel. Sulle pareti ruvide del mio squallido monolocale rivestite da una grigia carta da parati di seconda mano rimbalzava la voce del presentatore del talk show più seguito del paese: The Late Zarbon Show.
“…E dunque leggo che gli ex Stati Uniti hanno un così disperato bisogno di forniture mediche che hanno presumibilmente inviato vari container pieni di grano e tabacco, un gesto di buona volontà dicono, ma volete sapere come la penso? State ascoltando il mio programma quindi deduco che lo vogliate sapere, io credo che bisogna far sapere alle colonie cosa pensiamo di loro, io credo sia giunta l'ora di vendicarci di quella protesta del tè da loro inscenata un qualche centinaio d'anni fa, io dico che stasera andiamo tutti sul molo e scarichiamo quella merda la dove dimora tutto ciò che proviene dall'Ulcerato Sfintere d'Amerdica! Chi sta con me? Chi la pensa come me? Vi è piaciuta? USA: Ulcerato Sfintere d'Amerdica. Andiamo, che altro si può dire? Un paese che aveva tutto, assolutamente tutto e ora, vent'anni dopo, che cos'è? La più grande colonia di lebbrosi del mondo. Perché? Perché è senza Dio! Lasciate che lo ripeta ancora: è senza Dio! Non è stata la guerra che hanno iniziato, non è stata la peste che hanno creato, è stato il giudizio di Dio. Nessuno sfugge al proprio passato! Nessuno sfugge al giudizio!”. La voce irritante di quell’altezzoso presentatore dalla pelle olivastra mi dava i nervi. “La voce del popolo” si era modestamente definito. Spensi la televisione bofonchiando un soave « Va’ a quel paese » e mi apprestai a lasciare il mio appartamento dopo aver recuperato la piccola borsa beige che posai sulla mia gracile spalla. Ero del tutto inconsapevole che, nascosto nei cunicoli nella Londra sotterranea, il mio destino stesse ascoltando lo stesso discorso propagandistico che incitava all’odio bofonchiando insulti simili a quelli che avevo lanciato io al presentatore spegnendo la televisione mentre si preparava ad attuare la sua strabiliante rivoluzione. Uscii diretta a passi svelti verso l’abitazione del mio capo. Il signor Whis era un uomo estremamente affascinante e dai tratti molto delicati, mi ero meravigliata oltremodo quando mi aveva invitato a cenare a casa e ancor di più quando mi aveva garantito che non era un uomo impegnato sentimentalmente. Camminavo sempre più velocemente districandomi tra i silenziosi vicoli della città evitando le vie solitamente affollate di giorno: il coprifuoco era già scattato, dovevo stare attenta se non volevo finire nei guai. Avevo il cuore in gola, correvo con lo sguardo basso e il volto nascosto dietro l'ampio colletto del cappotto, malauguratamente non mi accorsi di una minacciosa presenza maschile che mi venne addosso facendomi quasi cadere rovinosamente al suolo.
« Sta' più attento, idiota ». Maledii immediatamente me stessa e la mia irrascibilità quando mi sentii afferrare il polso sottile con violenza da quell’uomo che immediatamente arrestò la mia disperata corsa e mi mostrò il suo diabolico tesserino insieme ad un ghigno malefico: era un castigatore, dannazione. La paura più cieca si fece largo nel mio animo quando l’ignoto castigatore che non avevo nemmeno il coraggio di guardare negli occhi mi bloccò contro il freddo muro di pietra alla mia destra.
« Sai che c’è il coprifuoco, vero bambolina? » ghignò sadicamente il castigatore facendosi largo con le sue sudice mano sotto la mia gonnellina scozzese.
« Mi dispiace, signore » sussurrai terrorizzata cercando di reprimere la sensazione di vomito che mi assalì « Mio zio è molto malato, mi sta aspettando a casa, la prego mi lasci andare, devo occuparmi di lui »
« Mi dispiace, ma ti occuperai più tardi dello zietto malato » continuò mefistolicamente il mio aggressore arrivando all’elastico dei miei slip « Ora sono io ad aver bisogno delle tue cure, sono sicuro che il tuo zietto capirà »
Il castigatore stava per infilare la sua mano oltre il tessuto dei miei slip quando un ghigno ancora più maledico di quello del mio aggressore ridestò entrambi, approfittando dell’attimo di distrazione dell’uomo di fronte a me che si era voltato, sguizzai via, ma inondata dal terrore scivolai al suolo nel momento esatto in cui il coltello appuntito del mio sconosciuto salvatore si conficcò nello sterno del castigatore che crollò al suolo esanime. Vidi la lama appuntita del coltello uscire dalle carni marce del castigatore e brillare sotto la luce tenue della luna piena.
« Stai bene? » chiese il mio salvatore sbuffando imbarazzato prima di porgermi la sua mano avvolta in un candido guanto bianco. Ancora una volta fui incapace di alzare lo sguardo e mi soffermai a guardare i suoi stivali neri come la pece immersi in una pozzanghera che rifletteva il freddo corpo del mio assalitore.
« Ce la faccio da sola » risposi rialzandomi pochi attimi dopo ed iniziando a lisciare il mio cappotto irreparabilmente macchiato dal fango. Sospirai profondamente prima di trovare il coraggio di alzare lo sguardo verso l’incarnazione della provvidenza e con sorpresa non ne potei esaminare il volto che era, con mio grande disappunto, nascosto da una bianchissima maschera di gesso che raffigurava Guy Fawkes, solo gli occhi neri come il carbone scintillavano di una luce malinconica.
« Chi sei? » chiesi con sospetto e diffidenza ancora sconvolta dagli eventi che erano accaduti pochi istanti prima. Non sapevo ancora se potevo fidarmi di quell’uomo tanto misterioso che nascondeva il suo volto dietro una maschera che brillava sotto i raggi ammaliatori della luna.
« Chi... "Chi" è soltanto la forma conseguente alla funzione, ma ciò che sono è un uomo in maschera » rispose enigmatico voltandosi e mostrandomi il suo profilo indecifrabile. Ero certa che mi stesse per abbandonare così saccentemente risposi « Ah, questo lo vedo! »
« Certo, non metto in dubbio le tue capacità di osservazione. Sto semplicemente sottolineando il paradosso costituito dal chiedere a un uomo mascherato chi egli sia » rispose ancora una volta enigamaticamente restando voltato, non vidi l’espressione del suo volto mutare, ma, ad oggi, posso immaginare che fosse molto divertito da quel fuori programma inaspettato che io rappresentavo.
« Dovrai pur avere un nome, strano uomo con la maschera » risposi esasperata portandomi le mani ai fianchi, dovevo a qualunque costo dare un nome al mio stravagante salvatore. Inaspettatamente si voltò di nuovo verso di me avvicinandosi perfino di quanche passo, i suoi piedi si muovevano in maniera talmente sicura da conferirgli un’andatura quasi regale.
« Ma in questa notte estremamente fausta permettimi dunque in luogo del più consueto nomignolo di accennare al carattere di questa dramatis persona. Voilà! Alla Vista un umile Veterano del Vaudeville, chiamato a fare le Veci sia della Vittima che del Violento dalle Vicissitudini del fato. Questo Viso non è Vacuo Vessillo di Vanità, ma semplice Vestigia della Vox populi, ora Vuota, ora Vana. Tuttavia questa Visita alla Vessazione passata acquista Vigore ed è Votata alla Vittoria sui Vampiri Virulenti che aprono al Vizio, garanti della Violazione Vessatrice e Vorace della Volontà. L'unico Verdetto è Vendicarsi... Vendetta... E diventa un Voto non mai Vano poiché il suo Valore e la sua Veridicità Vendicheranno un giorno coloro che sono Vigili e Virtuosi. In Verità questa Vichyssoise Verbale Vira Verso il Verboso, quindi permettimi di aggiungere che è un grande onore per me conoscerti e che puoi chiamarmi V »
Strabuzzai i miei grandi occhi azzurri incredula come un cerbiatto spaventato durante tutto il suo vaneggiamento, mentre scandì le ultime parole si privò per alcuni istanti del cappello – inutile dire che anch’esso era di nero scurissimo – permettendomi di essere testimone della sua assurda capigliatura corvina a forma di fiamma, infine si inchinò teatralmente. Annuii diverse volte andando ed abbassando il capo spasmodicamente prima di chiedergli istericamente « Sei forse pazzo? »
Rise, una risata genuina che stonava incredibilmente con il suo aspetto cupo, tutto in lui emanava tenebre tranne i guanti che ispiravano candore estremo. Si voltò di nuovo e riprese a camminare prima fermarsi di scatto e chiedermi « Tu, invece? Qual è il tuo nome, ragazzina? »
« Bulma, Bulma Brief » risposi immediatamente senza alcun tentennamento. C’era qualcosa in lui, ancora oggi non so definire cosa, che mi imponeva di fidarmi ciecamente.
« E dimmi…Bulma Brief » disse lentamente V, sembrava pregustasse sulle sue labbra ogni sillaba del mio nome come un frutto prelibato e sconosciuto, per la prima volta il mio stupido nome mi piacque pronunciato da quelle labbra che non avevo il potere di vedere, poi continuò « Ti piace la musica, Bulma Brief? ». Compresi in quel momento che avrei voluto sentire il mio nome pronunciato solo ed esclusivamente da quelle labbra che immaginavo involontariamente estremamente secche.
« Si » risposi in un sussurro che mi mozzò il fiato.
« Vieni con me » intimò V suadentemente. La sua voce era così calda e accogliente, il forno accogliente di un panettiere per una fiammiferaia tremante in pieno inverno.
Lo seguii e nella mia mente tutto scomparve improvvisamente: quel vicolo oscuro, il corpo esanime del castigatore, il sangue, il coltello illuminato dalla luna, il mio incontro galante con il signor Whis, la promozione, la mia intera esistenza. C’era solo lui, quello strano uomo di cui non sapevo nulla se non lo strano nomignolo e che mi aveva appena salvato la vita. Lo seguii a passo svelto timorosa di vederlo scomparire per sempre tra i vicoli stretti di Londra, si fermò improvvisamente davanti ad una casa popolare abbandonata da decenni e con un abile salto felino si aggrappò alla scala d’emergenza in ferro ormai del tutto arrugginita dalle frequenti piogge stagionali che si abbattevano tempestose sulla città, abbassò completamente la rampa ferruginosa per agevolarmi, poi si voltò verso di me e mi porse la mano.
« Non mordo mica » sbuffò stizzito invitandomi, a modo suo, ad accettare la sua mano, ubbidii titubante e, nonostante ci fosse quel guanto bianco che impediva alla nostra pelle di sfiorarsi, sentii il calore che emanava quella mano, mi sentii protetta come mai lo ero stata prima di quel momento. Salimmo in silenzio tutte le rampe di quella scala arrugunita che scricchiola in maniera impressionante ad ogni nostro passo, arrivammo in cima e rimasi a bocca aperta, quasi avessi scoperto il paradiso. Tutta Londra nella sua interezza era sotto i nostri piedi e per la prima volta mi sembrò piccola, tutto da lassù era minuscolo e privo di pericoli. Da lassù non potevo vedere la ruggine, la vernice scrostata, ma capii che razza di posto è davvero. Vidi quanto era falso. Non era nemmeno di plastica, persino la plastica era più consistente. E’ una città di carta. Guardi tutti quei viottoli bui, quelle strade che giravano su se stesse, quelle case che sono state costruite per cadere a pezzi. Vidi il silenzio ingombrante. Osservai le case di carta, che si bruciavano il futuro pur di scaldarsi. Non c’erano persone, tutto taceva. Non c’erano luci, tutto rabbuiava. Non c’erano ragazzini di carta che bevevano birra che qualche cretino aveva comprato loro in qualche discount di carta. Cose sottili e fragili come carta. E tutti altrettanto sottili e fragili. Avevo vissuto per diciotto anni senza vivere davvero, sopravvivendo. Non avevo mai incontrato qualcuno che si preoccupasse delle cose che contavano davvero.
« È a madame Giustizia che dedico questo concerto, in onore della vacanza che sembra aver preso da questi luoghi e per riconoscenza all'impostore che siede al suo posto! » esultò teatralmente V riferendosi allo spietato Lord Freezer interrompendo il mio flusso di coscienza « Dimmi, che giorno è oggi Bulma? » chiese poi in un sussurro senza nemmeno guardarmi. Incrociai le braccia al petto sentendomi assalire da un incredibile freddo.
« Ehm... Il 4 novembre? » chiesi estremamente confusa alzando le spalle. Credo che V avesse gli occhi chiusi mentre fingeva di avere una bacchetta da direttore d’orchestra tra le dita callose quando in lontananza sentimmo le campane dell'abbazia di Western risuonare e annunciare il nuovo giorno.
« Non più ormai... Ricorda per sempre il 5 novembre, il giorno della congiura delle polveri contro il Parlamento. Non vedo perché di questo complotto nel tempo il ricordo andrebbe interrotto » rispose ancora una volta enigmatico muovendo energicamente le braccia non appena le prime note soavi dell'Ouverture 1812 di Čajkovskij iniziarono a risuonare risvegliando la città dal torpore. Tutte le luci della città si riaccesero incuranti del coprifuoco, incuranti di un governo oppressore, incuranti di tutto e tutti. Improvvisamente non erano più persone di carta in una città di carta, ma persone vere in case vere. I fuochi pirotecnici esplosero ridestarlo stupore in tutti, sorrisero dimenticando i problemi, io incrociai malinconicamente le braccia aperte con un sorriso amaro dipinto sulle labbra.
« Tu pensi che far saltare in aria il Parlamento renderà migliore questo paese? » chiesi in preda all’isteria imponendomi di non piangere. Questo paese ignobile mi aveva tolto tutto e non mi aveva mai dato niente, trovavo immensamente stupido quel proposito. V si fermò e cercò i miei occhi, ma non li trovò. Guardavo le mie ballerine bianche macchiate di ruggine, il cappotto sporco di fango, la gonna stropicciata.
« Non vi sono certezze, solo opportunità » rispose avvicinandosi a me e prendendo il mio mento tra l’indice e il pollice, avrei voluto che – come in uno di quei film sui supereroi della Marvel – si sfilasse la maschera e mi baciasse riscaldandomi da quel gelo irreale, ma non lo fece. Mi costrinse a guardare il cielo inondato da magnifici colori, credo che stesse sorridendo davanti alle sue prodezze, ma io rimasi enormemente triste e malinconica.
« Be', puoi essere certo che Dodoria incappuccerà chiunque si presenti, dal primo all'ultimo » risposi con un tono estremamente cupo, le sue dita abbandonarono il mio mento.
« I popoli non dovrebbero avere paura dei propri governi, sono i governi che dovrebbero aver paura dei popoli » rispose con tono deciso assumendo una gravità solenne e appoggiando i palmi delle mani alla ringhiera trabballante davanti a noi.
« E tu farai in modo che questo accada facendo esplodere un palazzo? » chiesi diffidente quando un’enorme “V” variopinta squarciò il cielo. In lontananza si sentivano le risate spensierate dei bambini affacciati alle finestre di casa incuranti delle urla delle madri che intimavano loro di ritornare in casa.
« Il palazzo è un simbolo, come lo è l'atto di distruggerlo. Sono gli uomini che conferiscono potere ai simboli. Da solo un simbolo è privo di significato, ma con un bel numero di persone alle spalle far saltare un palazzo può cambiare il mondo » rispose malinconicamente, per un momento credo che anche la sua speranza abbia vacillato mentre osservava i profili dei grigi palazzi in pietra. La musica cessò così come le luci sfavillanti dei fuochi d’artificio nel cielo, le finestre si richiusero e i bambini smisero si sorridere. Tutto era tornato cupo e cartaceo.
« Vorrei tanto che fosse possibile, ma ogni volta che ho visto cambiare questo mondo è sempre stato in peggio » conclusi tristemente con gli occhi lucidi.


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Come sempre incolpate la mia insonnia e non me! È l’una di notte e c’era quest’idea malsana che mi frullava in testa da un po’. V per vendetta è uno dei miei film preferiti, lo trovo assolutamente geniale. Mi sono sempre chiesta cosa sia successo a Evey dopo il 5 novembre e questa storia è un po’ la soluzione calata, ovviamente, nel contesto di Dragonball. L’idea mi è venuta guardando una fan art e non ho potuto resistere. Non è necessario che abbiate visto il film per leggere questa storia, anche perché gli eventi saranno largamente rivisitati. Alcuni dialoghi sono identici a quelli del film, ma ovviamente ci saranno eventi inediti! Vegeta non è V, almeno non del tutto! Spero di avervi incuriosito, probabilmente aggiornerò solo a settembre, quindi vi chiedo di mostrarmi il vostro appoggio se questa storia vi sarà gradita!
Vit
   
 
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