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Autore: Luinloth    31/07/2018    7 recensioni
What If tra la terza e la quarta stagione.
Dopo aver salvato l’Uomo Giusto dall’Inferno, Castiel viene a conoscenza dei piani di Michael per scatenare l’Apocalisse e decide di ribellarsi. A causa della sua disobbedienza, privato per sempre delle sue ali e della sua grazia, viene scaraventato sulla terra dove, per sopravvivere, inizia a vendersi lungo la statale. I Winchester, ignari delle sorti decise per loro dal Paradiso e di come Dean sia stato riportato in vita, hanno abbandonato la vita da cacciatori e vivono in una palazzina anonima alla periferia di Lawrence. Una notte di pioggia Dean incrocia Castiel sulla sua strada e l’Inferno riemerge prepotentemente dai suoi ricordi sotto forma di due occhi blu.
Dal testo:
“Volevi parlare” – il moro lo interruppe, serafico – “Parla”
Ero all’Inferno e ho visto i tuoi occhi.
Non era decisamente un buon modo di intraprendere una conversazione.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Quarta stagione
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Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene




Acqua. Tanta acqua. Decisamente troppa acqua.
Su Lawrence sembrava si stesse abbattendo il nuovo diluvio universale. I tergicristalli dell’Impala riuscivano a malapena a gestire le secchiate che avevano iniziato a riversarsi dal cielo praticamente all’improvviso, prima qualche debole gocciolina, poi un’acquazzone fitto, impenetrabile, infine il fragore di un tuono simile allo scoppio d’una bomba e l’apertura definitiva delle cateratte celesti. Il tutto in poco meno di mezz’ora, il tempo di preparazione delle due pizze XL – una con verdure grigliate, l’altra con una serie improbabile di ingredienti ipercalorici – che adesso languivano sul sedile del passeggero saturando l’abitacolo con il loro profumo mentre Dean Winchester inveiva contro una non ben definita entità divina, in un eroico – quanto risibile – tentativo di far cessare il temporale con la sola forza dell’invettiva.
Le strade erano invase dall’acqua e dal fango, aveva già dovuto deviare dalla strada principale un paio di volte per via di alcuni tombini saltati via e, alla fine, aveva imboccato la 201 con un sospiro rassegnato.
Non gli piaceva quella strada. Di giorno neanche un fiato pareva venir fuori da quelle vecchie case malandate, di notte l’intera via – circa cinquecento metri di asfalto che avrebbe dovuto essere rimesso a nuovo – si riempiva del più vasto campionario di umane disgrazie su cui lui si era mai trovato a posare lo sguardo: tossici alla ricerca di una dose, strozzini, allibratori, qualche barbone in attesa di un cadavere da derubare, spacciatori, prostitute di ogni età, marchettari e ladruncoli da quattro soldi. Il novanta per cento delle morti violenti che avvenivano a Lawrence poteva essere collegata alla 201 e a qualcuno dei suoi sfortunati frequentatori.
Non che un Winchester avesse lo stomaco così delicato – soprattutto non Dean, soprattutto non dopo quei quattro mesi – ma se poteva risparmiarsi la vista di un ragazzo che avrebbe potuto avere l’età di Sam mentre si iniettava chissà quale schifo nelle vene, lo faceva volentieri. Lasciò scivolare appena il piede sull’acceleratore; con il manto stradale in quelle condizioni e la visibilità così ridotta non era prudente superare neanche le dieci miglia orarie, ma la strada era sgombra, l’acqua defluiva rapidamente nei condotti fognari e Dio solo sapeva la voglia che aveva di affondare i denti nel ripieno morbido e deliziosamente grasso della sua pizza, prima che questa diventasse irrimediabilmente fredda.
Una Ford blu sbucò da una strada secondaria, una decina di metri davanti a lui.
“Oh! Andiamo!” – sbottò. L’automobile procedeva così lentamente che pareva quasi stesse per fermarsi da un momento all’altro.
Sagome sfocate dietro i vetri sporchi delle case.
Dopo qualche secondo, effettivamente, il lampeggiare intermittente della freccia segnalò a Dean che l’auto stava per accostare. La pioggia era leggermente diminuita d’intensità, quel tanto che bastava per vedere un po’ più lontano del palmo del proprio naso.
L’Impala rallentò, le ruote sollevavano piccoli tsunami d’acqua ad ogni centimetro e qualche goccia era già riuscita a infilarsi all’interno attraverso i finestrini; stava per iniziare la manovra di sorpasso, quando lo vide.
Lo sportello della Ford si era aperto quel tanto che bastava per farne uscire un giovane uomo avvolto in uno spiegazzato trench beige di almeno due taglie di troppo. Moro, forse un po’ magrolino per la sua altezza, aveva richiuso la portiera senza neanche guardare e sarebbe già corso via se i fari dell’Impala non avessero attirato la sua attenzione.
Si voltò verso il conducente, il viso illuminato dalla tremolante luce del lampione sopra la sua testa. Barba di qualche giorno, mascella pronunciata, labbra pallide. Occhi azzurri – no – blu, di un blu che non aveva nulla di umano e che Dean aveva già visto.
La Ford era già scomparsa, rapidamente come era arrivata.
Non aveva la minima idea del come, del quando, e soprattutto del perché, ma ogni parte di lui in quel momento era sicura – certa – di conoscere quell’individuo: accostò.

Flashback. Fu solo un istante. Morte, sangue, zolfo. Dolore, dolore, dolore.

Non si era accorto di aver trattenuto il fiato finché non si trovò costretto a inspirare con violenza dalla bocca. L’uomo lo guardava ancora, un sorriso strano gli scavava minuscole rughe agli angoli delle labbra. Dean si ritrovò a sporgersi sul sedile accanto – sulle pizze già tiepide – per abbassare il finestrino del passeggero: lui si avvicinò.
Il suo trench era diventato ormai marrone scuro, quasi nero, sotto la pioggia battente, i capelli gli si erano appiccicati sulla fronte. Si affacciò al finestrino come se fosse la cosa più naturale del mondo, infilare la testa nell’abitacolo dell’auto di uno sconosciuto e restarsene lì, in silenzio, grondando acqua sopra i cartoni di due pizze.
“Scusami, ehm” – Dean si schiarì la voce, cercando le parole migliori per non farsi passare per matto, non che avesse molte possibilità visto la domanda che stava per rivolgergli. “Non volevo spaventarti ma ho come l’impressione di averti già visto da qualche parte, io… io sono Dean Winchester, noi ci conosciamo per caso?”
Il moro piegò la testa da un lato, socchiuse gli occhi. Un’ombra parve posarsi sul suo viso, ma forse si era solo trattato dell’automobile che li aveva sorpassati a gran velocità, alzando un’onda fangosa che era andata a infrangersi contro la portiera dell’Impala.
“No” – la sua voce era piena, profonda. Non sembrava umana nemmeno quella.
“No? Davvero?” – il cacciatore non riuscì a nascondere la delusione – “Come ti chiami?”
L’uomo sospirò.
“Senti, qui fuori diluvia, o mi paghi e mi fai entrare o vedi di girare al largo”

Merda

Tra le poche – pochissime – regole che Dean Winchester aveva riguardo al sesso, il “non pagare per il sesso” si avvicinava per importanza solo all’ “usare sempre il preservativo”.
E lui si era appena fermato sulla 201, nel bel mezzo del diluvio universale, nel momento esatto in cui un cliente stava scaricando la sua marchetta dagli occhi blu, solo perché qualcosa nella sua testa gli aveva fatto credere di conoscerla.
Se John Winchester avesse avuto una tomba, indubbiamente ci si starebbe rivoltando dentro.
“Oddio, scusa, scusa io non voglio assolutamente, cioè, non pensavo che… ”
La faccia di Dean era rossa come un papavero. L’uomo in trench abbozzò una risata che poteva essere interpretata anche come uno sbuffo spazientito e fece per staccarsi dal finestrino.

Flashback. Urla: non erano le sue urla. Alastair. Due occhi blu. Blu. Non umani.

“Ehi! Ehi stai bene?”

Teneva ancora le mani strette sul volante, le nocche sbiancate. Un rivolo di sudore gelido gli scendeva lungo il collo. Il moro si era sporto un po’ di più dal finestrino, adesso era abbastanza vicino da poterlo toccare se avesse voluto. Il blu dilagava nel suo campo visivo ed era bellissimo. Adesso ne era sicuro: non era stato semplicemente qualcosa nella sua testa a suggerirgli di fermarsi: era stato l’Inferno.

“Castiel!”

Un uomo si era affacciato alla finestra del pianterreno della casa di fronte.
“E’ tutto ok?”
Castiel riemerse dall’abitacolo dell’Impala per fargli un cenno con la mano.
“Tutto a posto Matt!” – gridò, poi torno ad affacciarsi al finestrino.
“Penso che tu debba andare adesso” – mormorò con fare quasi affettuoso. Come se non fosse stato lui quello fermo da quasi dieci minuti sotto l’acquazzone ad ascoltare i deliri di uno sconosciuto.
“Aspetta!” – Dean si lanciò letteralmente verso di lui, prendendogli una mano e Castiel si ritrasse come se si fosse scottato.
“Toccami di nuovo e non sarà più tutto a posto” – sibilò. Il trench gli si era incollato addosso rendendolo simile a una statua di cera in liquefazione.
“Entra” – Dean spostò le pizze ormai fredde sui sedili posteriori – “Perfavore”
Castiel allungò le dita verso di lui.
“Sai, di solito si paga, prima
“Quanto vuoi?”
“Questo dipende da quanto vuoi tu
A Dean non importava: gli avrebbe dato tutto ciò che aveva se necessario.
“Un’ora. Voglio solo parlare”
Lui ridacchiò.
“Dicono tutti così”


Aveva guidato fino ad un parcheggio abbandonato a più o meno trecento metri dalla 201. Castiel non aveva detto una parola, si era limitato a stringersi nel trench ormai zuppo e a osservare l’oscurità fuori dal finestrino.
Era bello. Non nel senso di bellezza che avrebbe potuto ispirargli un paio di tette, o un bel viso incorniciato da lunghi capelli biondi.
Era la sensazione che gli dava stargli vicino. Rassicurante.
Era pace. Era casa. Era come guardare le stelle di notte sdraiato sul cofano dell’Impala, come guidare fino al mare e sentire la sabbia sotto la pianta dei piedi, lo scrosciare delle onde nelle orecchie. Salvezza, in qualche strano modo.
Nonostante gli avesse appena mollato un centone e si stessero dirigendo nel luogo probabilmente più promiscuo di tutta la città.
Sam l’avrebbe ammazzato. Senza macchina, senza cena, il massimo che avrebbe potuto fare sarebbe stato rovistare nel frigorifero alla ricerca di qualche avanzo dall’aspetto appetibile. E meditare sui possibili modi per fargliela pagare. Nonostante le apparenze il suo Sammy aveva un’indole vendicativa niente male, oltre che un’incredibile furbizia. Sì, gliel’avrebbe decisamente fatta pagare cara.
Avevano affittato un appartamento appena fuori Lawrence – perché Lawrence, beh, Lawrence era ancora l’unica cosa che potessero associare a una casa – in una palazzina di tre piani piuttosto anonima, finestre dalle le tapparelle verdi e un giardinetto condominiale affidato alle amorevoli cure della loro dirimpettaia, una signora di mezza età dal sorriso fin troppo cordiale che nonostante le reiterate spiegazioni era ancora convinta che lui e Sammy fossero una coppia gay.
Avevano mollato. Avevano ripulito il doppiofondo del portabagagli dell’Impala e avevano passato due mani di vernice sulla trappola del diavolo all’interno del cofano.
Era stato troppo: Sam era morto, lui aveva passato quattro mesi all’Inferno, e se c’era una cosa che entrambi avevano imparato dalla loro vita di cacciatori era che non si sputa in faccia alla fortuna.
Dean lavorava in un’officina poco lontana – Bobby aveva messo una buona parola, forse anche più d’una – Sam aveva ripreso gli studi e il fine settimana copriva i turni serali del pub sotto casa. Con Bobby non avevano avuto bisogno di spendere troppe parole: il cacciatore aveva annuito con la sua solita aria grave e gli aveva passato due birre. Ogni tanto gli telefonavano per accertarsi che fosse ancora vivo e a quanto pareva continuava a dar filo da torcere a qualsiasi mostro – o umano rompicoglioni – gli capitasse a tiro.

“Fermati pure lì” – Castiel gli indicò uno spiazzo sotto l’unico albero del parcheggio. Attorno a loro, una dozzina di automobili – fari spenti e finestrini oscurati alla bell’e meglio con dei fogli di giornale, talvolta non oscurati affatto – riusciva a metterlo in agitazione come non avrebbe fatto una dozzina di vampiri affamati.
Il moro si tolse – non senza una certa fatica – il trench; spalancò la portiera dell’Impala con un colpo secco – Dean sussultò – e strizzò con forza l’indumento. Lo sbatté un paio di volte, richiuse la portiera, lo ripiegò con cura e lo sistemò sul cruscotto. Aveva quasi smesso di piovere.
Sotto portava una camicia bianca e una giacca scura, difficile capire il taglio o la marca viste le condizioni pietose in cui entrambe versavano. Si sfilò anche quelle e le ripose insieme al trench.
“Castiel, io non…”
“Volevi parlare” – il moro lo interruppe, serafico – “Parla”
Ero all’Inferno e ho visto i tuoi occhi.
Non era decisamente un buon modo di intraprendere una conversazione.
“Da dove vieni?”
“Non mi pare che avessi detto che avremmo parlato di me”
Si era tolto le scarpe e i calzini e si era messo a gambe incrociate sul sedile.
“E’ un problema?”
Non rispose.
“E’ un nome insolito, Castiel”
“I miei genitori erano insoliti
“Da quanto… ”
“Faccio la puttana?”
Dean rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva.
“Da un po’ ”
L’abitacolo tornò a riempirsi di silenzio, rotto soltanto dalle ultime gocce che si infrangevano sul parabrezza.
Lo desiderava. Lo desiderava da quando aveva incrociato il suo sguardo blu catturato dai fari dell’Impala come non aveva mai desiderato nessuna donna in vita sua, figuriamoci un uomo. Certo, c’era stato quel periodo a Saint Louis – due mesi scarsi di scuola, diciassette anni compiuti da poco – in cui avrebbe dato qualunque cosa pur di provare la sensazione delle labbra di Mike Anderson sulle sue. Capitano della squadra di football, sguardo di ghiaccio affilato come un coltello e un perpetuo crocchio di ragazze adoranti intorno al suo armadietto. Provarci non sarebbe stata una buona idea. Non ne aveva mai parlato nemmeno con Sam.

Erano già trascorsi venti minuti.
“So dove ti ho visto” – esalò d’un fiato – “Lo ricordo: dammi pure dello psicopatico, del pazzo, del maniaco o quello che ti pare, ma…”
Non riuscì a concludere la frase: la labbra di Castiel premevano sulle sue, le mani strette intorno alle sue cosce che già risalivano a slacciargli la cintura. L’Impala iniziò a vorticare intorno alla testa di Dean.
Lo desiderava. Come una falena verso una fiamma, come se fosse la sua redenzione, Castiel era redenzione , nonostante le dita che si insinuavano sotto i suoi jeans e le banconote stropicciate arrotolate in un sacchetto di plastica nella tasca interna del trench abbandonato sul cruscotto. Lo desiderava, lo desiderava tanto che avrebbe potuto mettersi a urlare, ma non così. Non in quel modo.
“Aspetta” – dove avesse trovato la forza per appoggiargli una mano al centro del petto e allontanarlo dalla sua bocca non lo sapeva – “Non…non posso”
La sua pelle era gelida, Dean fu sorpreso dal fatto che non stesse tremando di freddo. I pantaloni che aveva addosso grondavano ancora acqua, come pure i suoi capelli, e l’Impala non aveva neanche il riscaldamento.
Castiel sembrava quasi deluso: le sue dita si muovevano ancora intorno alla vita di Dean, disegnando cerchi invisibili. Risalirono lungo lo sterno fino a lambire la piega del collo, la gola, le clavicole sepolte da un’ immancabile strato di flanella a quadri; quasi distrattamente – poco più d’un gesto malcelatamente casuale – arrivarono a sfiorare la cicatrice sulla sua spalla.

Sangue. Ovunque. Sangue sulla sua faccia e sulle sue mani: l’anima sulla ruota aveva smesso di gridare. Ali. Enormi, terrificanti, nere. Dolore. Da dieci anni non provava più dolore, fisico almeno. Bruciava. Alcol su una ferita: un dolore buono.

Quanto tempo era passato? Secondi? Minuti?
Castiel affondò il viso nella sua camicia.
“Che cosa sei?” – la voce di Dean non riusciva a condensarsi in più d’un mormorio strozzato – “Che cosa sei Castiel?”


Aveva ceduto.
Aveva lasciato che la bocca, le mani di Castiel vagassero sul suo corpo come meglio credevano e poi aveva guidato fino al lampione tremolante dove i loro sguardi si erano incrociati appena un’ora prima: aveva ceduto come quattro mesi prima, quando la voce di Alastair gli rimbombava nelle orecchie e desiderava soltanto che smettesse.
Dopotutto era sempre stato lui, il debole: non era riuscito a salvare suo padre, non era riuscito a lasciare Sammy – lo aveva riportato nel suo mondo fatto di mostri e fuoco e notti insonni, gli aveva strappato Jessica – nemmeno da morto era rimasto integro.
La pioggia era cessata.
Castiel aprì la portiera stringendosi al petto il trench bagnato e uscì dalla macchina con un movimento fluido. Dean fissava la sua schiena aspettando di vederlo andare via senza voltarsi, così come aveva fatto prima, uscito dalla Ford blu, finché non si ritrovò a fissare i suoi occhi inumani attraverso il vetro del finestrino.

“Che cosa sei? Che cosa sei Castiel?”

Castiel rimase ad osservare le luci dell’Impala allontanarsi lungo la 201; dopo la sua ribellione, tra tutti i posti in cui Michael avrebbe potuto scaraventarlo, era stato uno squallido scherzo del destino farlo finire proprio lì.

“Ehi!” – Matt lo aspettava sui gradini di una vecchia bifamiliare con l’intonaco scrostato – “Torna dentro prima di prenderti una bronchite. Facciamo che per stanotte hai finito”

Dean Winchester.
Non era stato capace di fuggire via.
Aveva sperato che se ne andasse, che facesse ripartire l’auto e sparisse per sempre nella notte, e invece lui l’aveva invitato a entrare e quando il marchio che aveva sulla spalla l’aveva chiamato, Castiel si era arreso.
Non poteva salvarlo, non poteva proteggerlo, avrebbe soltanto voluto spezzare quel maledetto vincolo che li teneva legati e che li aveva condannati da quando erano emersi insieme dagli abissi. Ma adesso, lui che aveva condotto le legioni celesti nelle loro più gloriose battaglie, nelle vittorie più fulgide la cui eco risuonava ancora in Paradiso, tutto quello che poteva fare per Dean Winchester si limitava ad un pompino da principianti in un parcheggio abbandonato.
E gli aveva chiesto di non tornare, quando in realtà avrebbe soltanto voluto dirgli “Torna, lasciami l’impronta della tua mano sulla spalla e se vuoi salvarmi salvami, o se vuoi farmi del male fammi tutto il male che vuoi perché non sono più niente e tu sei l’unica cosa che mi è rimasta”

“Che cosa sei? Che cosa sei Castiel?”
“Non importa Dean: non importa più”

Perché non era più un angelo, non era un uomo, era soltanto una blasfemia.

Aveva freddo e la schiena aveva ricominciato a fargli male. Continuava a stupirsi di quanto fosse fragile il suo nuovo corpo, di quanto poco bastasse a rompere la sua omeostasi e a farlo piegare, gemere, tremare.

Matt gli lanciò un asciugamano dall’aspetto piuttosto lurido e si dileguò. Era quasi mezzanotte. Castiel si tolse i vestiti bagnati e rimase a guardare il proprio riflesso nello specchio scheggiato del bagno; si chiese se Michael avesse bruciato le sue ali, se le avesse conservate da qualche parte o se le avesse appese alle porte del Paradiso come monito verso chiunque fosse intenzionato a disobbedire ai suoi ordini, ma decise che non gli importava.
Poi la sua parte umana prese il sopravvento e lui si addormentò seduto sulla vasca da bagno, la fronte premuta contro le piastrelle bianche e azzurre che si alternavano sulla parete.
Matt lo lasciò dormire fino all’alba.

   
 
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